Scarica L'italiano contemporaneo, D'Achille, riassunto e più Sintesi del corso in PDF di Lingua Italiana solo su Docsity! L’ITALIANO CONTEMPORANEO – Paolo D’Achille 1-L'ITALIANO E LA SUA DIFFUSIONE L’italiano è considerato come una delle più grandi lingue di cultura e ha contribuito alla formazione della cultura occidentale nella letteratura, arte, musica ecc. Proprio grazie a questi ambiti l’italiano è entrato anche nel lessico internazionale (come sonetto che indica una forma poetica composta da due quartine e due terzine endecasillabi; pianoforte; maccheroni). La diffusione dell’italiano nel mondo è in crescita (non è comunque paragonabile all’inglese, francese o spagnolo, lingue che grazie al colonialismo si sono diffuse maggiormente). A causa dell’emigrazione ci sono nuclei di italofoni, persone che parlano italiano, sparsi nel mondo (in America latina e Australia soprattutto) e zone in cui l’italiano è una “lingua franca” usata da lavoratori appartenenti a gruppi etnici diversi; la televisione, inoltre, ha diffuso la lingua italiana nel bacino del Mediterraneo, come a Malta e in Albania. Negli ultimi decenni l’italiano è stato anche acquisito come seconda lingua (L2) da molti lavoratori stranieri immigrati. In ogni caso, nella maggior parte dei casi, l’italiano è parlato da coloro che vivono in Italia e, tralasciando Città del Vaticano e la Repubblica di San Marino, ci sono state solo poche espansioni al di fuori dello stato nazionale: in Svizzera, Corsica, qualche località di Istria e Dalmazia. L’italiano convive con i dialetti locali, usati da persone di tutte le età sia nel parlato (con amici e familiari) sia nello scritto (poesie e testi teatrali) e la ricchezza e varietà dei dialetti è una caratteristica esclusiva della realtà linguistica italiana, dovuta alla frammentazione romanza. I dialetti italiani non rappresentano varietà locali della lingua nazionale ma, come l’italiano (basato anche questo su un dialetto), derivano dal latino volgare e hanno la stessa dignità della lingua. Oggi molti italiani alternano lingua e dialetto in un rapporto di bilinguismo, o meglio diglossia, cioè scelgono l’uno o l’altro a seconda della situazione comunicativa. 1.1 I DIALETTI ITALIANI Per quanto riguarda la suddivisione dialettale del nostro paese, una delle più fortunate è la Carta dei dialetti italiani di Giovan Battista Pellegrini (1977), basata su dati raccolti tra il 1919 e il 1928 nell’Atlante Italo-Svizzero. Pellegrini elaborò anche il concetto di italo- romanzo: si riferisce al complesso delle parlate dialettali del nostro paese e delle isola a esso adiacenti che riconoscono l’italiano come lingua di cultura (o lingua tetto). Dal punto di vista dialettologico, abbiamo delle distinzioni tra: • DIALETTI SETTENTRIONALI, parlati nelle zone a nord di quella che viene definita come la linea La Spezia-Rimini, che corre lungo l’Appennino tosco-emiliano: - dialetti gallo italici (parlati nelle zone anticamente abitate da popolazioni celtiche --> Piemonte, Liguria, Lombardia, Emilia Romagna); - dialetti veneti (parlati nelle zone anticamente abitate dai Veneti --> Veneto, Trentino, Venezia Giulia) • DIALETTI CENTRO MERIDIONALI, parlati a sud della linea La Spezia-Rimini: - dialetti toscani (Toscana) - dialetti corsi (Corsica, politicamente francese) - dialetti mediani (Italia Centrale, a sud della linea Roma-Ancona --> Marche centrali, Umbria, Lazio a est del Tevere e Abruzzo aquilano) - dialetti (alto)meridionali (meridione di Marche e Lazio, gran parte di Abruzzo, Molise, Campania, Basilicata, Puglia [tranne la parte salentina], Calabria settentrionale) - dialetti meridionali estremi (Salento, Calabria centromeridionale, Sicilia) --> i dialetti SETTENTRIONALI hanno caratteristiche che li accomunano alle lingue romanze occidentali (portoghese, spagnolo, catalano, francese, provenzale), quelli MEDIANI e MERIDIONALI fanno parte del mondo romanzo orientale, insieme al rumeno. > i DIALETTI SETTENTRIONALI SONO CARATTERIZZATI: • Sul piano fonetico da sonorizzazione, consonanti sorde intervocaliche latine, assenza di doppie, tendenza caduta vocali atone (non accentate) a fine parola; • I dialetti gallo-italici piemontesi e lombardi hanno le vocali procheile anteriori (comuni al francese); i dialetti veneti non hanno questi suoni e hanno minore tendenza alla caduta delle vocali atone; >I DIALETTI TOSCANI, in particolare il fiorentino, sono quelli che hanno costituito la base dell’italiano, ci sono quindi molti tratti fonetici dell’italiano: • Il sistema vocalico costituito da 7 vocali accentate; Ci sono però altri fenomeni che l’italiano non ha accolto: • La gorgia, la pronuncia “aspirata” delle consonanti occlusive intervocaliche p, t, c > I DIALETTI MEDIANI SONO CARATTERIZZATI DA: • Distinzione latina tra –o e –u finali; • Tutte le vocali finali non accentate, soprattutto a fine parola (con eccezione di a) si indeboliscono fino a una vocale centrale detta schwa (corrispondente al indistinct vowel dell’inglese in “the” e alla e muta del francese) > I DIALETTI MERIDIONALI ESTREMI: • Vocalismo che in posizione finale ammette solo a, i, u --> molte sono le caratteristiche fonetiche comuni a tutti i dialetti centromeridionali (Toscana esclusa): • Metafonesi, fenomeno per cui si hanno variazioni nel timbro della vocale tonica dovute alla presenza di –o/u/i finali; • La tendenza alla sonorizzazione delle consonanti sorde dopo nasale. Riguardo la MORFOLOGIA E LA SINTASSI: • Nei dialetti settentrionali e nei dialetti toscani troviamo l’obbligatorietà del pronome personale soggetto davanti al verbo; L’origine colta della nostra lingua spiega perché l’italiano non abbia avuto inizio all’inizio dell’epoca moderna un’evoluzione strutturale tale da staccarsi totalmente dalla fase medievale, come è avvenuto per il francese, totalmente diverso dalla lingua d’oil. Fino all’unificazione nazionale del 1861, l’italiano fu comunque una lingua usata soprattutto nello scritto: fino all’unificazione l’italiano, al di fuori della Toscana, era una lingua nota a un numero di persone ridotto se parliamo della <competenza attiva>, cioè la capacità di servirsene, mentre era diverso per la <competenza passiva>, cioè la capacità di capire discorsi in italiano, molto più estesa. La stragrande maggioranza della popolazione parlava uno dei dialetti e a partire dall’Unità in seguito a vari fattori, come la progressiva alfabetizzazione legata all’obbligo scolastico, l’emigrazione esterna e interna, l’urbanizzazione, le mutate condizioni sociali, economiche e culturali della popolazione, i maggiori contatti dei cittadini con gli apparati amministrativi statali (esercito, burocrazia), lo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa (cinema, giornali, televisione), l’italiano ha ampliato i propri ambiti di uso, togliendo spazio ai dialetti. Ormai per milioni di persone l’italiano è lingua materna, imparata a casa e non appresa a scuola, ed è utilizzata nello scritto ma anche nel parlato nella maggior parte delle situazioni comunicative (con gli estranei, a lavoro, con amici e famiglia). La progressiva espansione dell’italiano ha avuto notevoli conseguenze: dopo una fase di sistematizzazione grammaticale (fino alla fine anni 50), notiamo il crescente uso orale dell’italiano, anche da parte di grandi masse popolari, che ha determinato una pressione del parlato sulle strutture dello scritto. Questa pressione ha provocato varie ristrutturazioni del sistema linguistico. Con il tempo è mutato anche il rapporto fra italiano e toscano: Firenze e la Toscana solo nel periodo iniziale dello stato unitario hanno mantenuto una posizione di centralità ma poi hanno finito con il perderla a vantaggio di Roma e dei centri industriali del Nord. 1.4 L’ITALIANO STANDARD A causa del suo uso prevalentemente scritto, l’italiano è stata una lingua stabile e poco soggetta al mutamento, ma anche poco compatta al suo interno. La lingua letteraria prevedeva una netta distinzione fra poesia e prosa, differenti fra di loro (es. In poesia si preferiva core a cuore...ecc). L’uso scritto consentiva la POLIMORFIA, cioè la coesistenza di più forme tra loro sostanzialmente equivalenti, tra le quali lo scrittore era libero di scegliere la preferita (es. Nella morfologia “concepito” o “conceputo”; nelle varianti fonetiche “malinconia” o “melanconia”). La riduzione della polimorfia è stata drastica ma non totale, infatti una certa sovrabbondanza di forme la si ha tutt’ora (es “tra” e “fra”). A questo processo di semplificazione ha corrisposto un processo di normativizzazione, permettendo la formulazione di regole, soprattutto in ortografia (uso degli accenti sui monosillabi nei casi in cui ci sia una funzione disambiguante: su avverbi lì e là). C'è poi il processo di standardizzazione: la nozione di lingua standard è complessa e possiamo indicare nello standard l’uso linguistico che l’intera comunità dei parlanti riconosce come corretto (la lingua proposta nelle grammatiche, usata da persone istruite) sia nello scritto ma anche nel parlato. Le parole alternative a standard (letterario, normale, normativo) non si sono imposte: l’etichetta “italiano letterario” non convince perché l’italiano standard contemporaneo non è totalmente riconducibile alla tradizione letteraria e presenta varietà sul piano linguistico. Un problema dell’italiano è la mancanza di uno standard parlato, soprattutto sul piano fonetico e questo si deve anche alla grafia che non rende alcune opposizioni fonologiche (come la differenza fra e aperta ed e chiusa). Un modello standard ci sarebbe, il fiorentino <emendato>, basato sulla pronuncia colta di Firenze da cui vengono eliminati tratti locali MA è usato solo da alcune categorie di professionisti (attori, speaker...). 1.5 LE VARIETA’ DELL’ITALIANO CONTEMPORANEO Ogni lingua, quanto più è diffusa nello spazio e nel tempo, tanto più presenta, nelle sue manifestazioni concrete, una serie di differenze, dovute a variabili, dette assi di variazione, legate al canale di trasmissione del messaggio, al suo contenuto, ai rapporti tra gli interlocutori, alla situazione comunicativa. La variabile diamèsica è legata al mezzo materiale in cui avviene la comunicazione, che distingue la lingua dei testi parlati (dialogici e destinati a persone conosciute e presenti) connessa al contesto situazionale, da quella dei testi scritti (monologici, rivolti anche a sconosciuti e destinati a durare nel tempo) > nel parlato adoperiamo il pronome “io” molto più spesso rispetto allo scritto; nel parlato lasciamo frasi incomplete mentre nello scritto cerchiamo di essere molto espliciti. Alle tradizionali categorie dello scritto e del parlato di aggiunge anche quella del trasmesso, con riferimento prima al parlato a distanza (telefono, radio...) poi allo scritto (internet, posta elettronica...) che sarebbe lo “scritto trasmesso”. La variabile diacronica è legata al tempo: il passare del tempo determina un mutamento dell’uso linguistico. Il mutamento può avvenire per fattori interni al sistema della lingua, che abbandona certe forme in favore di altre, oppure per processi di grammaticalizzazione primaria e secondaria, per i quali alcune parole acquistano funzioni grammaticali o per processi di lessicalizzazione, in cui elementi grammaticali danno origine a nuove parole > tra le forme in declino abbiamo “egli, ella, esso,essa,essi” che cedono il campo a “lui, lei, loro; per la grammaticalizzazione abbiamo i nomi “causa, via” che entrano nelle locuzioni preposizionali “a causa di, per via di”; per la lessicalizzazione abbiamo forme come “ci vuole, c’entra” che hanno un significato diverso rispetto a “ci vuole, ci entra”. Anche il contatto con altre lingue può provocare cambiamenti: ad esempio l’influsso dell’inglese con anglicismi non adattati (computer, mouse) oppure nell’ambito fraseologico l’interrogativa multipla (del tipo “chi ha visto chi?”) o la posizione dell’avverbio nell’espressione “politicamente corretto”. La variabile diatopica è legata allo spazio: una lingua assume caratteristiche diverse a seconda delle singole zone in cui è usata e da noi è particolarmente importante per la ricchezza dei dialetti che hanno determinato la nascita degli “italiani regionali”. La variabile diastratica è legata alla posizione sociale del parlante e dipende da vari fattori: genere (esistono lingue in cui la varietà usata dalle donne ha caratteristiche diverse rispetto a quella degli uomini); età; classe sociale; condizioni economiche; istruzione. La variabile diafasica è quella legata alla situazione comunicativa, all’argomento trattato, al grado di confidenza che si ha con l’interlocutore. In base a questi fattori deriva il registro linguistico formale o informale; appartengono a questa varietà anche i sottocodici, cioè i tratti, prevalentemente lessicali, propri dei linguaggi settoriali o lingue speciali (dell’architettura, della chimica, della letteratura...). > esempi di variabile diafasica: alternative lessicali come “timore” o “spavento”; “paura” “fifa” e “strizza”. 1.6 UN NUOVO ITALIANO? Nel corso degli anni Ottanta si è segnalato lo sviluppo, nel parlato e nello scritto, di una nuova varietà di italiano, definita <italiano dell’uso medio> da Francesco Sabatini nel 1985 e <neostandard> da Gaetano Berruto nel 1987. Sono caratterizzati da atti morfosintattici e lessicali che spesso sono fenomeni già documentati in testi del passato ma censurati o ignorati; questi fenomeni si sono poi diffusi, tanto da apparire normali: ad esempio i pronomi personali “lui, lei, loro” sempre più usati come soggetti; le <frasi scisse> come “è lui che me l’ha detto”. Si assiste alla crescita di accorciamenti bisillabici che troncano la parte finale del nome, spesso con conseguente perdita della marca di genere (Simo da Simone/a); l’accorciamento lo troviamo anche negli influssi della lingua inglese (Max da Massimo). Riguardo i soprannomi vediamo che la tradizione di designare individui con nomignoli alternativi è antica e si spiega in parte per i casi di omonimia. I soprannomi individuano in genere comportamenti, difetti o caratteristiche e particolarità dei soprannominati, oppure ricordano eventi della loro vita. La pseudonimia è diffusa in campo artistico e letterario (Jovanotti è pseudonimo di Lorenzo Cherubini). 2.5 I COGNOMI I cognomi sono nati con la funzione individuante propria dell’onomastica e derivano dall’appellativo di un capofamiglia. L’origine maggiormente maschile dei cognomi si rileva nelle frequenti terminazioni in –o e – i. Sono stati distinti 5 principali tipi di cognomi: 1- quello più numeroso costituito da un nome proprio, per lo più maschile (Gentile), spesso preceduti dalla preposizione di o de (De Luca); spesso troviamo anche vezzeggiativi o diminutivi (Marinelli); 2- i soprannomi, relativi a caratteristiche fisiche o comportamenti del capofamiglia (Rossi; Ricci); 3- cognomi derivati da toponimi, che ricordano l’origine della famiglia o il luogo di lavoro (Messina, Di Napoli) 4- riferimenti al mestiere del capofamiglia (Fabbri, Barbiere) 5-i cognomi dati ai trovatelli, a cui fanno capo forme diversamente distribuite nel territorio nazionale (Esposito) >la varietà dei cognomi italiani riflette la ricchezza dialettale del nostro paese. Nei cognomi le tracce dialettali sono molto marcate e molti di questi si spiegano in rapporto al lessico dialettale (Caruso dal dialetto “caruso”=ragazzo in siciliano). L’origine dialettale si nota nella fonetica o dalla grafia (es la lettera x appare nei cognomi di origine ligure e siciliana (Craxi) o la terminazione in – u sarda. I cognomi si presentano spesso composti da un articolo determinativo (La Rocca); molti sono i cognomi latineggianti (De Sanctis) o di origine straniera (Blanc/Gruber/Lopez) 2.6 MARCHIONIMI E NOMI DI ESERCIZI Rientrano nell’onomastica anche altre categorie di nomi propri, dai nomi di divinità (teonimi), di animali (cinomini= cani/aliuronimi= gatti), le cose (crematonimi -> teatronimi: nomi di teatri e cinema; crononimi: nomi di epoche). I marchionimi sono particolarmente interessanti, cioè i nomi di prodotti commerciali, e anche gli ergonimi, nomi di aziende, scuole, esercizi pubblici (ristoranti, bar). Nel caso dei marchionimi il passaggio da nome proprio a comune è diffusissimo (aspirina, borotalco) e c’è una tradizione di nomi italiani dal significato più o meno trasparente ma la globalizzazione ha diffuso nomi di marca d’uso internazionale, che possono essere adattati foneticamente (dentifricio Colgate adattato ma deodorante Dove no); spesso abbiamo nomi ibridi (Nutella: nut “nocciola” più suffisso –ella). Nel caso delle automobili, si rileva la presenza di nomi femminili (Giulietta) o numerali (Cinquecento), ma anche nomi comuni (Punto) o aggettivi (Brava). Nel caso degli esercizi commerciali è diffuso il ricorso a nomi comuni o propri (albergo La Sirenetta, ristorante Da Nino) o nuove tendenze come il riciclaggio di titoli di film e canzoni (Pane amore e fantasia, nome di un film anni 50) e il ricorso al dialetto o di parole straniere. 2.7 LA DEONOMASTICA Si tratta dello studio delle parole e delle espressioni ricavate dai nomi propri. Oltre al passaggio da un nome proprio a un nome comune, si rileva anche la presenza di antroponimi e toponimi in parole composte, sintagmi, modi di dire ed espressioni idiomatiche (fuoco di Sant’Antonio). 3- LESSICO Generalmente il lessico è l’insieme delle parole di una lingua. L’unità fondamentale del lessico però non è la parola, intesa come ogni elemento linguistico dotato di autonomia nella forma e nel significato, bensì il LESSEMA, che non sempre corrisponde a una parola. Molte parole formalmente diverse in realtà costituiscono un unico lessema; un lessema può essere formato da più parole tra loro combinate, nelle cosiddette polirematiche o unità lessicali superiori (effetto serra, sala da pranzo), e nelle frasi idiomatiche (piantare in asso). Il lessico è il livello della lingua più esposto al contatto con la realtà extralinguistica. La linguistica moderna ha elaborato il concetto di arbitrarietà del segno per definire il rapporto tra le parole e le cose che esse indicano (i referenti): il nome delle cose è generalmente immotivato; l’individuazione delle cose varia da lingua a lingua, infatti a un’unica parola che indica più referenti (detta polisemica), in un’altra lingua possono corrispondere più parole (una per ogni designatum), come accade in inglese con la parola “glass” che corrisponde in italiano sia a vetro che bicchiere, al plurale occhiali, oppure a “language” corrisponde sia lingua che linguaggio. Il lessico di ciascuna lingua rispecchia una particolare visione della realtà. Nel patrimonio lessicale è possibile individuare rapporti tra i lessemi, che non sono casuali ma costituiscono una struttura precisa sul piano sintagmatico (legame che un lessema ha con gli altri che compaiono nello stesso enunciato) e sul piano paradigmatico (legame del lessema con altri che potrebbero comparire al suo posto all’interno dell’enunciato). La lessicologia (lo studio del lessico) si lega alla semantica (che studia i significati). > per quanto riguarda la lessicologia semantica, i lessemi non hanno un solo significato ma di più (POLISEMIA). Tra i vari significati, detti accezioni, è possibile individuare un significato comune a tutti (es. Nel verbo volare, che può significare anche “correre”, “viaggiare in aereo”, in tutti i casi troviamo l’idea di movimento). L’omonimia è diversa dalla polisemia e si ha tra lessemi del tutto indipendenti sul piano del significato e coincidono solo sul piano del significante: la convergenza può esserci nella grafia, omografia (pésca/pèsca) o nella fonetica, omofonia (a/ha). I sinonimi sono lessemi completamente diversi sul piano del significato ma che coincidono nel significato fondamentale; i sinonimi assoluti (lessemi intercambiabili in tutti i contesti) sono rarissimi, mentre è diffusa la sinonimia parziale (faccia/viso/volto); i geosinonimi, sinonimi distribuiti in aree geografiche diverse. Gli antonimi sono lessemi che hanno un significato opposto: sono bipolari (maschio/femmina) o graduabili con gradazioni intermedie (caldo7freddo); antonimi grammaticali, sono trasparenti perché derivano uno dall’altro (felice/infelice) e lessicali, che non rivelano dal punto di vista formale la contrapposizione (bello/brutto). > iperonimia e iponimia sono le relazioni semantiche più significative dal punto di vista lessicale perché riguardano i rapporti gerarchici tra le varie parole: ci sono lessemi che hanno un significato generale comprendente quello più ristretto di altri lessemi, i primi sono gli iperonimi, i secondi gli iponimi (animale, comprende al suo interno lessemi come mammifero o quadrupede, iponimi di animale). fonomorfologica italiana, ciò non è avvenuto per i latinismi di uso colto o specialistico (par condicio, curriculum vitae) e per quelli entrati tramite un’altra lingua straniera (interim, pro tempore). Riguardo il greco, i grecismi (tranne quelli entrati anticamente attraverso il latino come crisi, enigma) sono stati introdotti in epoca moderna per via dotta e spesso sono propri del linguaggio scientifico internazionale, ma alcuni hanno campi di diffusione più vasta (agonia, catastrofe). Sia il latino sia il greco hanno fornito all’italiano altri elementi per formare parole nuove: prefissi, -super, -extra, -iper; suffissi –ista, -essa. I prestiti sono parole tratte da altre lingue. La tradizione puristica italiana ha chiamato i forestierismi anche “barbarismi” o “esotismi”. Molti forestierismi non entrano stabilmente nella lingua d’arrivo ma decadono dopo un certo tempo, altri non rivelano la loro origine straniera: fino all’Ottocento le parole straniere erano adattate all’italiano dal punto di vista fonetico, grafico, morfologico (da train= treno). Il prestito può consistere anche in un nuovo significato aggiunto a voci già esistenti, prestiti semantici, distinti dai prestiti omonimici basati sulla somiglianza del significante. Altro procedimento è il calco, una specie di traduzione, distinti fra omonimici, basati sulla somiglianza del significante (processore da processor) e sinonimici, basati sulla somiglianza del significato (weekend: fine settimana), nel secondo caso vediamo anche un diverso ordinamento delle parole, secondo la sequenza italiana determinato+determinante, mentre l’ordine opposto rivela palesemente l’origine straniera (ferrovia), oppure nelle polirematiche, che presentano la sequenza aggettivo+sostantivo (pubbliche relazioni, falsa partenza). Normalmente parole che sono polisemiche nella lingua di partenza in quella di arrivo mantengono uno solo dei significati; frequente è il caso dell’acquisizione di un significato diverso da quello originario (“flipper” che in inglese indica solo le alette della pinball machine); altre parole sono apparentemente straniere ma sono invenzioni italiane (smoking, footing). Tra le varie categorie di forestierismi, in ordine cronologico, troviamo: i germanismi, voci tratte dalle popolazioni germaniche che invasero la nostra penisola dopo il crollo dell’Impero romano (parti del corpo “guancia” “anca”; ambito domestico “sapone”; concetti “guerra” “astio”); gli arabismi sono legati al commercio (facchino, tariffa), a prodotti (albicocca), matematica (zero); dal turco abbiamo “yogurt”; gli ebraismi si legano all’ambito religioso (amen, osanna); i gallicismi li troviamo in voci comunissime come mangiare e viaggiare, o “garage” “salopette”; gli ispanismi (quintale, etichetta, amaca, cacao, golpe, goleador, movida); i nipponismi, esotismi mediati dall’inglese e dal francese (judo, karate, tsunami); gli anglicismi sono i più diffusi, causa dell’inglese come lingua di comunicazione internazionale, per la sua iconicità, i composti e la possibilità di accorciarli (basket da basket- ball) e li troviamo in linguaggi settoriali (informatica: e-mail, modem; economia: bond, spin- off; medicina: by-pass; sport: goal, corner; musica: hit, pop, band; televisione: audience, share; vestiti: t-shirt, top, jeans; abbreviazioni: sms, laser) e altri ancora. L'italiano ha sfruttato anche il prestito interno, cioè prendendo voci anche dai vari dialetti: i dialettismi come “scoglio” (ligure) o pizza (voce meridionale); sono adattati al sistema fonomorfologico e grafico dell’italiano e non sono immediatamente riconoscibili dal punto di vista formale (tranne alcuni casi come “’ndrangheta” organizzazione criminale calabrese); riguardano vari campi (cucina: tiramisù, panettone, grissini) e altri. Riguardo i neologismi, si tratta di parole nuove che servono per indicare concetti nuovi. Per coniare parole nuove si utilizzano i meccanismi di formazione delle parole (neologismi combinatori) che mettono insieme elementi già esistenti nella lingua, come prefissi, suffissi, composti. Esistono anche i neologismi semantici, quando nuovi significati si aggiungono a voci già esistenti. Negli ultimi anni i vocabolari hanno sempre più largamente accolto i neologismi ma alcuni rimangono solo “occasionalismi” dalla vita effimera. 4) FONETICA E FONOLOGIA 4.1 FONI E FONEMI La fonetica è il ramo della linguistica che studia i foni. I suoni che fanno parte del linguaggio articolato vengono prodotti dall’apparato fonatorio e solo durante l’espirazione: l’aria che proviene dai polmoni risale, attraverso la trachea, nella cavità orale e fuoriesce dalle labbra. L’aria incontra una serie di organi che rappresentano ostacoli alla sua uscita, si producono così foni diversi: si realizzano foni sordi se le corde vocali, fibre elastiche poste ai bordi della laringe, restano inerti; se invece le corde vocali vibrano si producono foni sonori. Sono foni nasali se il velo palatino (la parte posteriore del palato) è staccato dal fondo della faringe e l’aria esce anche dalle narici; se il velo palatino è sollevato contro la volta superiore della faringe l’accesso al naso è impedito e i foni sono solo orali. In italiano i foni nasali sono pochi; all’interno dei foni orali si ha la distinzione fra vocali e consonanti: le vocali sono foni sonori che si producono quando le corde vocali vibrano regolarmente e l’aria nella cavità orale non incontra veri e propri ostacoli; le consonanti sono invece foni sonori o sordi che si realizzano quando l’aria nella cavità orale incontra resistenze dovute alla chiusura del canale. Esistono anche foni intermedi, le semiconsonanti o semivocali, prodotti in modo simile ad alcune vocali ma hanno una durata più breve. Le vocali sono gli unici foni su cui può cadere l’accento. La fonologia studia i foni in astratto, nel loro configurarsi come sistema per individuare i fonemi, cioè le più piccole unità distintive di una lingua, non portatrici di significato ma funzionali per determinare le differenze di significato. La distinzione tra fono e fonema è fondamentale: i parlanti producono foni, abbiamo foni diversi che corrispondono a fonemi distinti; abbiamo anche foni diversi che costituiscono realizzazioni diverse di uno stesso fonema, soggette a variazioni individuali, regionali o sociali, chiamate ALLOFONI. I fonemi di una lingua sono individuabili attraverso la prova di commutazione in parole o forme che differiscono per un singolo fono, dette “coppie minime” (mele,male/ mela,tela). 4.2 GRAFIA E PRONUNCIA I grafemi sono le lettere dell’alfabeto. La GRAFEMATICA è lo studio delle lettere dell’alfabeto e delle altre notazioni usate nello scritto (i segni paragrafematici: apostrofo, accento grafico, segni di punteggiatura...). Nel caso dell’italiano, il rapporto tra fonetica e grafematica non pone particolari problemi, anche se nemmeno in italiano esiste una corrispondenza biunivoca tra le lettere dell’alfabeto e i fonemi che esse intendono rappresentare (ad esempio la distinzione di timbro tra alcune vocali o di durata tra vocali e semiconsonanti non è resa nella grafia). 4.3 FONEMI E GRAFEMI Il sistema fonologico dell’italiano è costituito da 7 vocali, 2 semivocali o semiconsonanti e 21 consonanti. Il numero complessivo dei fonemi è dunque superiore a quello delle 21 lettere dell’alfabeto. Nell'italiano tradizionale la sillaba finale di parola è sempre APERTA: tutte le parole (o almeno la stragrande maggioranza) finiscono in vocale e, più categoricamente, finisce in vocale la parola che si trova alla fine della frase, prima di pausa. Questa condizione non si verifica negli articoli “un” e “il” e nelle preposizioni “in”, “per” e “con” e nell’avverbio “non” che però non possono mai comparire in fine di frase; possiamo avere parole che finiscono per consonante solo non alla fine della frase ma nel mezzo. 4.6 L’ACCENTO L'accento è un elemento soprasegmentale, al di sopra della sequenza dei suoni: consiste nel far emergere dalla catena fonica una sillaba (o meglio, il nucleo) per durata (lunghezza del nucleo sillabico), intensità (forza con cui si articola la sillaba) o altezza melodica (tono più acuto della voce). L'accento italiano è prevalentemente di natura intensiva e si realizza con l’aumento della forza espiratoria durante la pronuncia del nucleo vocalico di una sillaba; inoltre, l’accento è mobile, cioè la posizione nelle parole composte da più di una sillaba può variare e in genere non è predicibile. L’accento ha anche un valore fonologico: la sua diversa posizione serve a distinguere le parole altrimenti identiche (àncora/ancòra). Può cadere sull’ultima sillaba (parole ossitone o tronche, dove l’accento è sempre segnato graficamente “perché”), sulla penultima (parole parossitone o piane, che sono la maggioranza “matìta” “paése”), sulla terzultima (parole proparossitone o sdrucciole, “tàvolo”). Le parole formate da più di tre sillabe (come le parole composte) oltre all’accento tonico primario, portano un accento secondario sulla prima o seconda sillaba. Alcune parole sono prive di accento: i monosillabi deboli (preposizioni, congiunzioni, articoli, forme pronominali -> le forme pronominali “mi, lo, ci, si” ecc sono dette clitici e sono strettamente legate alle forme verbali, lo precedono “lo vedo”, PROCLISI, o lo seguono “vedersela”, enclisi”) 4.7 IL RITMO E L’INTONAZIONE Altro elemento soprasegmentale è il RITMO, inteso come ricorrenza nella lingua parlata di segmenti forti (accentati) e deboli (non accentati). L'italiano, a causa della libertà nella posizione dell’accento, ha la possibilità di avere sequenze con tutte le unità prosodiche (chiamate piedi), facendo corrispondere l’accento alla durata: il trocheo (una sillaba lungua e una breve: càpo), il dattilo (una lunga e due brevi: tàvolo), il giambo (una breve e una lunga: papà), l’anapesto (due brevi e una lunga: donerà); la sequenza preferita è il trocheo. Le vocali atone sono tutte brevi; le vocali accentate sono lunghe le vocali in sillaba aperta (come la a di “amo”) e brevi quelle in sillaba chiusa (come la a di “carne”). Le vocali accentate finali di parola sono brevi. L'INTONAZIONE è un tratto soprasegmentale che riguarda la frase e che riveste una notevole importanza nell’italiano parlato dal punto di vista sintattico. 4.8 LINEE DI TENDENZA Fino ad ora abbiamo descritto il modello standard basato sul fiorentino/toscano ma, guardando ad alcune pronunce locali, si possono individuare alcune tendenze generali. Nel vocalismo tonico, l’opposizione fra /e/chiusa ed /e/aperta o fra /o/chiusa e /o/aperta è vitale nella varietà di italiano parlato in Toscana, a Roma e in altre zone dell’area centromeridionale; in molte altre pronunce però il grado di apertura delle vocali medie è diverso da quello previsto nell’italiano standard e l’opposizione può non esserci. Nel vocalismo atono, dove fonologicamente abbiamo solo /e/ ed /o/, non mancano variazioni regionali. Nel consonantismo, la grafia italiana non rende alcune consonanti, come la differenza fra /s/ e /z/, la cui opposizione fonologica in posizione intervocalica è viva solo in Toscana e non nelle altre varietà regionali. Riguardo il raddoppiamento fonosintattico diciamo che quando non è segnalato graficamente non è adottato nella pronuncia dei settentrionali, che tendono invece a pronunciare come brevi tutte le consonanti intense; negli altri italiani regionali vediamo numerose particolarità, come quella di Roma, con l’assenza di raddoppiamento dopo “da, dove, come” interrogativi. La minore sensibilità al raddoppiamento lo vediamo anche in grafie come tivù (invece di tivvù). Riguardo la struttura sillabica, la progressiva introduzione di forestierismi non adattati ha provocato la crescita di parole con finale consonantica. Compaiono in posizione finale di parola quasi tutte le consonanti (album, staff, alcool, bar); notevole è anche la presenza di code “ramificate”, costituite da due consonanti: est, nord, film, sport. Queste particolarità le troviamo anche in sigle e acronimi italiani, come “colf” (collaboratrice familiare) e “gip” giudice per indagini preliminari”. Questo avviene anche grazie a voci di origine latina e greca, per cui abbiamo gruppi consonantici che l’italiano tradizionale non ammetteva (at- mosfera; ap-nea). L'accoglimento di sequenze consonantiche estranee al sistema linguistico ha portato anche all’abbandono, nello scritto, della i prostetica, premessa alla s preconsonantica iniziale di parole, come in Ispagna, per iscritto. Riguardo la posizione dell’accento si nota la tendenza, in parole trisillabe, a ritirarlo sulla terzultima; questa ritrazione va spiegata come un fatto di “ipercorrettismo”, sviluppatosi per reagire alla tendenza a porre l’accento sulla penultima anche in parole dotte proparossitone (come nelle pronunce erronee “isotòpi” o “termìti”). La tendenza alla ritrazione si ha anche in parole ossitone straniere che escono in consonante, in quest caso favorita dall’assenza dell’accento grafico: si sente pronunciare più spesso ìslam o Pàkistan piuttosto che la forma più corretta islàm e Pakistàn. 5) MORFOLOGIA FLESSIVA 5.1 LA MORFOLOGIA La morfologia flessiva è il livello di analisi linguistica che studia come si esprimono, nei nomi, negli articoli e negli aggettivi, i concetti di genere (in italiano: maschile/femminile) e di numero (singolare/plurale); nei pronomi anche quelli di persona (1°, 2°, 3°) e di caso (soggetto/oggetto); nei verbi anche quelli di tempo (presente, passato o futuro), di modo (indicativo, congiuntivo, ecc), di aspetto (perfetto, imperfetto, ecc) e di diàtesi (forma attiva/passiva). Lo studio delle varie forme individuate, dette forme flesse, classificate e raccolte in paradigmi, costituisce appunto la morfologia flessiva o flessionale. L'elemento minimo dell’analisi morfologica è il morfema, definito come la più piccola unità linguistica dotata di significato. Le lingue del mondo sono divise in 2 categorie: • Le lingue analitiche o isolanti, in cui ogni significato è rappresentato da un elemento unico, che costituisce da solo una parola autonoma, non cambia forma e non si lega ad altri elementi (si parla di morfemi liberi); • Le lingue sintetiche, che uniscono in una sola parola più morfemi non autonomi ma legati tra loro (si parla di morfemi legati), portatori di significati diversi; distinguiamo tra il morfema lessicale (o radice), che dà significato alla parola, e i morfemi grammaticali, che danno l’informazione morfologica. Alle lingue sintetiche appartengono le lingue flessive, in cui una parola è costituita, oltre che dalla radice lessicale, da un elemento chiamato desinenza, che porta una o varie indicazioni di carattere morfologico e che ha la funzione di segnalare, attraverso l’accordo, i rapporti tra le altre parole all’interno della frase. In italiano una parola come “case” ha due morfemi la radice cas-, che da significato, e la desinenza –e. Che indica che si tratta di un nome femminile al plurale; all’interno della frase, le indicazioni di femminile e di plurale si trovano in altri elementi legati a questa parola (es. Le case che affacciano sul lato della strada sono molto belle). Una funzione importante della flessione è quella “economica”: consente un notevole risparmio di segni linguistici. Ogni lingua presenta elementi analitici ed elementi sintetici; in tutte le lingue si individuano le cosiddette parti invariabili del discorso (in italiano avverbi, congiunzioni, preposizioni) che non possono flettersi. Il latino è la lingua flessiva per eccellenza, basta pensare al sistema dei casi (nominativo, genitivo, dativo,ecc), ridotto nelle lingue romanze, che usano la tecnica delle preposizioni (ROSARUM > delle rose); nei verbi al passivo si usavano le desinenze e non la forma essere (AMATUR > essere amato). L'italiano presenta molti aspetti flessivi, ereditati dal latino, ma anche caratteristiche isolanti. > particolarmente frequente in italiano è l’allomorfia, cioè l’alternanza di più forme che hanno lo stesso valore morfologico, sia nelle radici che nella desinenza: è il caso della desinenza –i dei maschili plurali, per a quale le consonanti velati /k/ e /g/ possono trasformarmi, determinando opposizioni come “amico/amici”, “filologo/filologi”; accade anche nei verbi “vinco/vincere”. In funzione di complemento oggetto e di complemento di termine, oltre alle forme toniche, esistono anche pronomi atoni detti clitici: per le prime due persone singolari e plurali abbiamo “mi,ti,ci,vi”; per la terza singolare “lo,la”, “gli,le, li, le, loro”; “ci” per il locativo e come complemento indiretto riferito a cose (es. Ci credo”). PERSONA SOGGETTO Forme toniche Forme atone Altre forme atone 1° sing io Me mi 2° sing tu te ti 3° sing M egli/lui/esso lui/esso lo/gli Ne, ci, vi 3° sing F ella/lei/essa lei/essa la/le 1° plu Noi noi ci 2° plu Voi voi vi 3° plu M/F Essi/e, loro Loro/ essi/esse Loro/ li/le I clitici si pongono prima dei verbi (es. Mi lavo), tranne che con l’imperativo e i modi non finiti (es. Compralo, ascoltiamola); è obbligatoria l’anteposizione in costrutti come “lo fai cadere” e non *fai caderlo. Il sistema dei pronomi clitici è complesso sia per sovrabbondanza sia per coincidenze di forme e sta subendo una serie di ristrutturazioni: • La forma GLI si estende anche al femminile (ma nello scritto e nel parlato sorvegliato “le” resiste ancora); • Si registra un’estensione di CI, pronome che a volte sostituisce il “vi” locativo e ha anche una funzione <attualizzante> con verbi come essere e avere quando hanno significato pieno e non la funzione di ausiliari (es. C'è tanto disordine, qui c’è Mario; ci sono! Ci sei? Per "ho capito!/ capisci?”). Il “ci attualizzante” è diffuso anche con verbi come vedere e sentire (es. Non ci senti?) e con altri verbi a cui conferisce significati particolari: volerci “essere necessario” (es. Ci vorrebbe un caffè), entrarci “essere pertinente” (es. Cosa c’entra?), tenerci “avere a cuore” (es. Ci tenevo proprio tanto); • Si registra diffusione anche del NE (prima era dffuso solo il NE per modo da luogo ma è rimasto solo “andarsene” ormai saldato al verbo ai quali conferisce significati particolari: convenirne “essere d’accordo”, fregarsene, ecc. = in questi casi il NE e il CI tendono alla lessicalizzazione, cioè perdono il loro statuto di pronomi saldandosi direttamente al verbo, nonostante mantengano la loro normale posizione sul piano sintattico. Nell'ambito dei numerali, c’è la tendenza a usare i cardinali al posto degli ordinali (es. Canale 5; università Roma Tre). Riguardo i dimostrativi, la triade “questo” (vicino a chi parla), “codesto” (vicino a chi ascolta) e “quello” (lontano da chi parla) si riduce al toscano parlato e in alcuni tipi di testi scritti; a volte, tendono a perdere il loro valore, riducendosi a svolgere funzione di articoli; è arcaico l’uso dei pronomi questi/quegli/quei per riferirsi a persone; “ciò” come pronome neutro è usato al posto di “quello”; i pronomi costui/costei/costoro e colui/colei/coloro sono in disuso, anche se il secondo gruppo resiste nello scritto e al plurale. Per quanto riguarda il sistema dei relativi, sia “che” che “cui” possono essere sostituiti da “il/la quale, i/le quali”. 5.6 IL SISTEMA VERBALE Il verbo è la parte del discorso che fornisce il maggior numero di informazioni dal punto di vista morfologico: persona, numero, tempo, modo, aspetto, diàtesi. Queste informazioni vengono date con suffissi legati al tema verbale; nei tempi composti con i verbi ausiliari. Nelle forme flesse dei paradigmi verbali i morfemi si aggiungono a volte alla radice, a volte al tema costituito da una vocale, detta vocale tematica, che varia a seconda della coniugazione a cui il verbo appartiene. Il morfema che indica contemporaneamente tempo, modo, aspetto precede quello di persona e numero: es. ASCOLTAVATE -> radice: ascolt- ; vocale tematica: a; morfema dell’imperfetto: -va; morfema 2° persona plurale – te. Ci sono casi in cui un unico morfema ha tutte queste indicazioni. Come la -ò di CHIAMO’. Riguardo le tre coniugazioni: la I comprende i verbi che terminano all’infinito in –are, è la più regolare ed è la più produttiva; la II comprende i verbi che terminano all’infinito in –ere, non è più produttiva; la III comprende i verbi che terminano all’infinito in –ire. Una sottoclasse di verbi che comprende la radice terminante in –isc- (es. Finire: finisco,finisci!, che finiscano), la sua produttività non si è del tutto esaurita perché in essa si inseriscono i verbi parasintetici formati da aggettivi o nomi con l’aggiunta di –ire (inacidirsi; imbestialirsi). La categoria del tempo può fare riferimento al momento dell’enunciato, visto come contemporaneo, anteriore, posteriore all’azione descritta dal verbo e può distinguere il presente, passato, futuro (tempi deittici). Il presente indica che l’evento è contemporaneo al momento dell’enunciazione (es. Guardo il cielo), può riferirsi a un’azione abituale (es. La trasmissione va in onda il venerdì) o atemporale (fumare fa male); un'azione progressiva può essere indicata con la perifrasi “stare+ gerundio”. Il futuro si riferisce a un’azione posteriore al momento dell’enunciazione (es. Lo farò domani). Nel passato, riferito a eventi anteriori al momento dell’enunciazione, distinguiamo tre forme: l’imperfetto, indica eventi passati durativi (es. Negli anni sessanta si ballava il twist) o abituali (es. Solitamente trascorrevamo le vacanze al mare); il passato remoto indica un evento trascorso e definitivamente concluso (Dante nacque nel 1265); il passato prossimo, composto con un ausiliare, sottolinea il risultato dell’azione, che può avere ancora effetti sul presente (es. Ho sempre abitato a Roma). Gli altri tempi, compost con gli ausiliari, sono chiamati tempi anaforici (futuro anteriore e trapassato prossimo e remoto) perché esprimono anteriorità e posteriorità non rispetto al momento dell’enunciazione ma a un altro tempo espresso nel testo (es. Quando avrai finito i compiti, potrai uscire). La categoria di modo esprime certezza o incertezza sulla realizzazione dell’evento: l’indicativo è il modo della realtà e delle frasi principali; il congiuntivo esprime dubbio o incertezza, tipico delle frasi dipendenti completive, interrogative indirette, relative limitate, ecc; il condizionale esprime una modalità controfattuale nel periodo ipotetico dell’irrealtà (es. Se potessi, verrei) o nelle richieste e nelle forme di cortesia (es. Vorrei chiederle una cosa); l’imperativo esprime ordini, esortazioni, preghiere e ha forme proprie solo per la 2° persona singolare e plurale, altrimenti ricorre al congiuntivo presente. Tra i modi non finiti, che non presentano marche di modo e persona, l’infinito e il gerundio si usano sia al presente sia al passato nelle dipendenti implicite (es. Spero di venire; andiamo a prenderlo); il gerundio presente si lega spesso a un verbo finito per esprimere assoluta contemporaneità (es. Arriva correndo); l’infinito presente lo troviamo anche in interrogative o esclamative (es. Che dire?) e, in molti contesti, viene preceduto dall’articolo (es. Nel porgervi i miei saluti). Il participio presente ha valore aggettivale o nominale, il participio passato è l’unica forma verbale che marca il genere (es. È appena arrivato) e si usa nei tempi composti della forma attive e passiva. Rispetto al modello standard, il sistema verbale sta subendo cambiamenti, specialmente nel parlato. Il presente indicativo compare anche al posto del futuro, se accompagnato da un elemento temporale (es. L'anno prossimo mi trasferisco) e anche il passato prossimo ha questo valore (es. Dopo che ho finito gli esami, mi dedico alla tesi). Il futuro acquista valori modali, abbiamo il “futuro epistemico” che esprime ipotesi e previsioni o dubbi e incertezze (es. a quest’ora Piero sarà arrivato; sarà vero?). L’imperfetto è in notevole espansione sempre con valori modali: tende a sostituire il congiuntivo e il condizionale nel periodo ipotetico di irrealtà nel passato (es. “Se venivi, ti divertivi” invece di “se fossi venuto, ti saresti divertito”), nell’imperfetto di cortesia (“volevo un caffè” invece di “vorrei un caffè”), nel discorso indiretto con valore di “citazione” (es. Maria ha detto che andava a casa). È cambiato anche il rapporto tra passato remoto e passato prossimo: il primo è uno dei verbi più complessi ed è in regressione, tranne che in alcune varietà centromeridionali; è largamente preferito il secondo, anche con riferimento ad azioni concluse e lontane nel tempo (es. Dieci anni fa sono stato a Parigi), questo perché il parlante tende a rapportare le azioni al momento dell’enunciazione. Il congiuntivo non si può dire che stia scomparendo, ma mostra segni di debolezza: l’identità di forme nelle tre persone singolare al presente e delle prime due dell’imperfetto; la coincidenza con il presente indicativo alla 1° persona plurale del presente; le desinenze irregolari, ecc. Il condizionale spesso viene sostituito dall’imperfetto indicativo ma mantiene una certa vitalità e ha sviluppato un valore di “citazione” e presa di distanza, tipica del discorso riportato (es. L’imputato sarebbe stato visto lì). Tra i modi non finiti si segnala l’espansione dell’uso dell’infinito come imperativo generico in avvisi e istruzioni (es. Per aprire la porta, premere questo pulsante), anche come desiderio di evitare la scelta fra “tu” e “lei” e un possibile calco dall’inglese; il gerundio anche si usa in questo modo, in titoli di film, canzoni (es. Ballando, ballando; Sognando la California). Riguardo la forma passiva, si segnala la possibilità di sostituire nei tempi principali l’ausiliare essere con venire. Potere/ sapere -> poteri/saperi) e ha reggenza nominale (es. I piaceri della tavola). Nella conversione dei verbi si possono far rientrare: • le nominalizzazioni dei participi presenti (es. I fari abbaglianti; i cantanti) e dei participi passati (es. L’abitato; la veduta); • le nominalizzazioni dei gerundi (es. Il crescendo rossiniano); • la lessicalizzazione di forme finite o locuzioni che le comprendono (es. Credo, nullaosta). • Il caso più frequente di conversione in italiano è il passaggio da nomi ad aggettivi e dagli aggetti a nomi (vuoto -> il vuoto). • Tra altri esempi di conversione: l’uso avverbiale di aggettivi (forte in “andare forte”) e di nomi (via in “andare via”). La SUFFISSAZIONE è il meccanismo di derivazione più usato in italiano. Attraverso la suffissazione è possibile trarre derivati appartenenti anche a categorie grammaticali diverse da quelle delle basi: • Denominali, voci derivate da nomi; • Deverbali, voci derivare da verbi; • Deaggettivali, voci derivate da aggettivi; • Deavverbiali, derivate da avverbi (molto poche). Normalmente, ogni suffisso si aggiunge solo a basi di una determinata categoria e forma parole appartenenti a una sola categoria, ma ci sono eccezioni. I suffissi italiani sono moltissimi ed esprimono varie categorie di parole: nomi d’agente (che indicano quindi chi svolge una determinata attività); nomi d’azione; nomi di luogo, di strumento, di qualità; nomi e aggettivi etnici; avverbi. > nomi d’agente -> suffissi con base verbale più frequenti sono: -tore/trice (imprenditore/trice); -ante/ente (insegnante; concorrente); -one/a (mangione/a); -ino/a (imbianchino/a). Suffissi con base nominale sono: -ista (giornalista); -aio/a e –aiolo/a (benzinaio/a; pizzaiolo/a); -aro/a (gattaro/a); -iere/a (paroliere/a); -ario/a (segretario/a). >nomi d’azione -> partono da basi verbali e esprimono il significato del verbo in forma nominale: -zione (solidificazione); -mento (favoreggiamento); -aggio (lavaggio); -tura (spazzatura); -ata (chiacchierata). In genere l’uso di uno di questi sostantivi esclude l’altro MA ci sono eccezioni (come in coordinamento/coordinazione) >nomi di qualità -> tratti da aggettivi: -ezza (bianchezza); -i(e)tà (italianità; ovvietà); >nomi di luogo -> -eria (birreria); >aggettivi -> -bile per basi verbali e significa “che può essere+participio passato del verbo” (lavabile); a basi nominali troviamo –ale, -are, -ile, -ico/a che esprimono una relazione col nome (aziendale, polare, maschile, pessimistico/a); > tra i suffissati rientrano anche gli alterati: sono suffissati formati con particolari suffissi che si aggiungono a nomi e ad aggettivi per esprimere concetti di grandezza, piccolezza ecc. Tendono alla lessicalizzazione: assumono significati specifici e distinti da quelli delle basi (es. “fioretto” deriva da “fiore”). La PREFISSAZIONE, a differenza della suffissazione, non può determinare un mutamento di categoria della base (unica eccezione: anti-); inoltre, mentre i suffissi non sono autonomi, alcuni prefissi sono aggettivi o nomi (es. Super; ex); i prefissi si possono anteporre a parole di categorie diverse (eccezioni: la s- si aggiunge solo ad aggettivi e verbi inizianti per consonante; in- non si usa con verbi ma solo con aggettivi e nomi). Molti prefissi derivano da preposizioni o prefissi latini (ante- ; super- ; ex- ; post- ; trans- ; sovra-; pre- ; sub- ; ultra- ) o dal greco (a- ; iper-; ipo-; micro-; mega-). I prefissi esprimono concetti diversi: valore spaziale o temporale (anticucina), opposizione (antirughe) o unione (coproduzione), ripetizione (reinserire), quantità (monouso). Ci sono prefissi che esprimono significati accrescitivi o apprezzativi/spregiativi e diminutivi (come in mini-/maxi). In italiano abbiamo i verbi parasintetici, i quali, rispetto alla base nominale e aggettivale, sembrano ottenuti con l’aggiunta contemporanea di un prefisso e del suffisso zero: verbi in –ire, formati da aggettivi e nomi con i prefissi –in e –ad (imbruttire); verbi in –are con prefisso in-, s-, ad-, de- (sbandierare, decaffeinare). 6.3 LA COMPOSZIONE La composizione si realizza accostando 2 lessemi che vengono univerbati, ossia trattati come una sola parola. Esistono vari tipi di composizione: • Nome + nome (cassapanca); • Aggettivo + nome (nobildonna) o nome + aggettivo (cassaforte); • Aggettivo + aggettivo (pianoforte); • Verbo + nome (portamonete); • Verbo + verbo (saliscendi); • Verbo + avverbio (buttafuori); • Avverbio + verbo (malmenare); • Avverbio + aggettivo (sempreverde); • Avverbio + nome (non violenza); • Preposizione + nome (dopoguerra). Nei composti si segue la sequenza determinato + determinante: il secondo elemento determina il significato del primo, che costituisce la testa del composto (primo elemento). In alcuni casi l’ordinamento è diverso nei “composti ibridi”, frequenti nell’uso giornalistico, formati da un elemento italiano e uno inglese (come: zanzara killer, baby pensioni). >nome+nome -> i due elementi nominali possono essere coordinati (cassapanca/cassepanche), oppure il secondo può determinare il significato del primo (cane poliziotto; scena chiave). Solo in composti recenti, soprattutto calchi su lingue straniere, la testa è costituita dal secondo elemento (ferrovia: via di ferro). >aggettivo+nome -> indica un nome che ha la caratteristica espressa dall’aggettivo. Poco produttivo (recente formazione: malasanità); al contrario, nome + aggettivo è produttivo, serve per creare composti esocentrici, che indicano cioè animali e persone con le caratteristiche indicate dal composto (pettirosso, pellerossa, colletti bianchi). >aggettivo+ aggettivo-> molto produttivo, pone gli aggettivi in rapporto di coordinazione (bianconero, giallorosso, greco-romano); spesso il primo elemento viene accorciato (democrisitiano: democratico cristiano/ orro-novecentesco: ottocentesco e novecentesco). >verbo+nome-> molto frequente; il nome costituisce il complemento oggetto del verbo; si usa per indicare macchinari, attrezzi (scolapasta), nomi di piante e animali (pungitopo), o qualcosa di spregiativo (leccapiedi). >verbo+verbo-> si formano con la ripetizione del medesimo verbo (fuggifuggi) o con l’accostamento di verbi con significato contrario (saliscendi); a volte è presente la congiunzione (gratta e vinci). >preposizione+nome -> esocentrici, indicano persone o cose che si trovano nella consizione descritta dal composto (senzatetto, dopocena, sottobicchiere). 6.4 LA COMPOSIZIONE NEOCLASSICA =Composizione delle parole che utilizza elementi del latino e del greco, detti confissi, combinati fra loro (glottologia “studio della lingua”; cardiopatia “sofferenza di cuore”); tali composti possono costituire la base per nuovi derivati (cardiologo deriva da cardiologia) e si parla in questo caso di composizione neoclassica, perché basata su elementi delle lingue classiche. I confissi sono stati definiti anche semiparole oppure prefissoidi e suffissoidi, a seconda della loro posizione (filo- / -filo “avere simpatia per qualcuno o qualcosa > filoamericano). La composizione neoclassica ricorda, più che la composizione, l’affissazione: i confissi, come suffissi e quasi tutti i prefissi, non sono di norma liberi, ma compaiono solo all’interno di parole complesse MA, diversamente da quelli, hanno un significato pieno in quanto, nelle lingue classiche, costituivano delle vere e proprie parole. Inoltre, rispetto alla composizione tradizionale, la testa è a destra, in quanto segue la sequenza determinante+determinato. Vari confissi hanno anche sviluppato un significato aggiuntivo: alcuni sono usati come accorciamenti di parole frequenti, assumendone il valore (accanto ad auto- “da solo” abbiamo: autoritratto, autocritica, automobile). La composizione neoclassica è soprattutto il linguaggio delle scienze, con lo scopo di creare nuovi termini per indicare nuovi referenti e sono composti prevalentemente novecenteschi. 6.5 LE POLIREMATICHE Si definiscono polirematiche (o unità lessicali superiori/composti sintagmatici/lessemi complessi) combinazioni formate da più parole, tra loro separate nella grafia ma che semanticamente costituiscono un unico lessema. dle discorso; successivamente, troviamo il rema o comment, costituito da elementi che “predicano” qualcosa sul tema portando ulteriori informazioni (si parla quindi di elemento nuovo, contrapposto a dato). Nel parlato, il valore tematico o rematico del soggetto, indipendentemente dalla sua posizione sintattica, può essere dato da un innalzamento o abbassamento di tono rispetto al resto della frase. Riguardo il verbo, l’italiano richiede OBBLIGATORIAMENTE l’accordo di soggetto e verbo nel numero (e spesso anche genere). Nell'uso parlato segnaliamo almeno due casi in cui non c’è accordo tra soggetto e verbo: 1) nella “concordanza a senso”: il verbo è al plurale quando il soggetto è espresso da un nome collettivo (la maggior parte della gente hanno deciso per il no); 2) quando si hanno più soggetti “nuovi”, non presentati nel contesto precedente (alla cerimonia era presente il capo dello Stato, il ministro, il presidente). >la posizione dell’aggettivo: l’aggettivo precede il sostantivo (agg. dimostrativi “questo argomento”; numerali “il primo giorno”; indefiniti “qualche volta”; possessivi “la mia macchina”); in altri casi, aggettivo posposto al nome (agg etnici “una signora milanese”; relazionali “ordinanza ministeriale”); gli aggettivi qualificativi possono trovarsi sia prima che dopo (una bella città/ una città bella) -> nell’anteposizione l’aggettivo ha valore descrittivo; nella posposizione l’aggettivo viene messo in risalto; in altri casi ancora, a seconda della posizione varia completamente il valore dell’aggettivo (un vecchio amico “amico da molto tempo / un amico vecchio “anziano”). Le dislocazioni Il latino classico poteva disporre le parole all’interno della frase con grande libertà: le desinenze dei casi permettevano di ricostruire i rapporti sintattici; nel latino volgare, con la perdita dei casi, la posizione delle parole acquistò un ruolo essenziale per stabilire i legami sintattici: la sequenza SVO è la più frequente ma l’italiano conserva una certa libertà. Le frasi che presentano una sequenza diversa da quella SVO sono le frasi marcate: per mettere in rilievo un complemento (che ha valore rematico), questo può precedere il verbo, che va a chiudere la frase (io, una cosa sola so); spesso la frase è aperta da un complemento indiretto (a me nessuno ha detto niente) ma nel parlato si tende a staccare il complemento iniziale dal resto della frase con una pausa (resa con una virgola) e a riprenderlo con un pronome clitico con funzione anaforica-> dislocazione a sinistra (a me, nessuno ha detto niente); la dislocazione a destra, invece, si ha quando l’emarginazione del complemento e la sua anticipazione mediante un clitico con funzione cataforica avviene senza spostamenti rispetto all’ordine normale (ne abbiamo già discusso, di questo; non ci vado da mesi, al cinema), ma sono diverse rispetto alle frasi con ordine normale perché i complementi assumono un valore tematico a dispetto della loro posizione post-verbale. Le dislocazioni sono dette anche “frasi segmentate”, perché appaiono come divise in due segmenti: tema e rema (nelle dislocazioni a sinistra) o rema e tema (a destra). Le dislocazioni a sinistra sono diffuse in tutte le varietà di italiano; quelle a destra caratterizzano invece il parlato (rappresentazione teatrale/cinematografica) e nelle frasi interrogative (lo prendi un caffè? Ce l hai l’ombrello? Invece di hai l’ombrello? Prendi un caffè?). Dislocazione dell’oggetto diretto: l’anteposizione, la presenza o l’assenza del pronome e l’intonazione sono in grado di conferire alla frase costituita dagli stessi elementi significati e valori diversi; ad esempio, rispetto a una sequenza normale, come “ho comprato il pane” possiamo avere varie alternative: • Il pane l’ho comprato > dislocazione a sinistra: il complemento oggetto, che assume valore tematico, è anteposto al verbo e richiede la ripresa del pronome; • L'ho comprato il pane > dislocazione a destra: il complemento oggetto resta posposto al verbo, ma la sua anticipazione con pronome gli fa assumere valore tematico; • Il pane ho comprato > necessaria una particolare intonazione data al complemento oggetto, che assume valore rematico (IL PANE ho comprato, non la pasta). Questa struttura viene spesso definita focalizzazione o topicalizzazione (= collocazione del rema nella posizione che normalmente spetta al tema). Le dislocazioni sono attestate lungo l’intera storia dell’italiano: le grammatiche dal 500in poi hanno censurato il costrutto, definendolo “ridondanza pronominale” ma ora si stanno espandendo e in alcuni casi sono obbligatorie: è il caso dell’oggetto diretto dove l’assenza di ripresa fa assumere all’elemento anteposto un valore rematico; è il caso anche del partitivo che, se anticipato, va ripreso dal “ne” (di libri ne ho tanti). Nella stessa frase è possibile anche dislocare più di un elemento o usare in contemporanea sia dislocazione a destra che a sinistra (la maglietta ad Andrea non gliel’ho più comprata). > nell’italiano parlato esiste anche un’altra struttura, in cui l’elemento anticipato non viene legato sintatticamente al verbo -> abbiamo “a Giorgio non gli ho detto niente” ma anche “Giorgio, non gli ho detto niente”. Si parla di anacoluto con riferimento all’assenza di legame tra l’elemento e il resto della frase; oggi viene definito tema sospeso. I temi sospeso presentano alcune particolarità rispetto alle dislocazioni a sinistra: l’assenza di reggenza preposizionale; l’obbligatorietà della ripresa che molti studiosi non ritengono indispensabile per le dislocazioni; la possibilità di riprendere il tema sospeso non con un clitico ma con un pronome tonico (il capo, a lui non ho detto niente). Tra i temi sospesi rientrano anche costrutti come “dormire dormo, eppure o sempre sonno”; “studiare, Luca ha studiato ma è ancora insoddisfatto”, in cui la frase è aperta da un infinito poi ripreso da una forma verbae finita dello stesso verbo. Frasi scisse; pseudoscisse e presentative Altro tipo di frase marcata è la frase scissa, che serve a isolare, mettendolo in rilievo come rema, un costituente frasale (spesso il soggetto). La frase normale viene spezzata in due parti sintatticamente distinte: la prima costituita dal verbo essere, seguito dall’elemento che fa da rema; la seconda dal resto della frase, che costituisce il tema; il collegamento tra le due parti è dato da un “che” detto <preudorelativo>. Alla frase normale “Luigi studia il russo” corrisponde la frase scissa “è Luigi che studia il russo”, che focalizza l’attenzione sul soggetto (ha valore di rema), il “che” si può considerare valore relativo. L'elemento messo in rilievo può essere qualsiasi altro complemento, come “è il russo che studia Luigi” o “è al professor Rossi che ho consegnato il compito”, ecc. La frase pseudoscissa è costituita da un sintagma nominale o pronominale che regge una frase relativa, dal verbo essere copulativo e da un altro sintagma nominale o pronominale, come in “chi mi manca è lui” o “questo è quello che credi tu”. Nella frase presentativa il verbo essere è preceduto dal “ci attualizzante”, come in “c’è un signore che chiede dell’avvocato”, in cui il soggetto è rematico ma anche la frase dopo il ”che” è nuova; è una struttura utilizzata nel parlato per suddividere in due blocchi sintattici un cumulo di informazioni non facilmente decodificabili in un’unica frase. 7.2 LA FRASE INTERROGATIVA La frase interrogativa presenta una serie di proprietà. Bisogna distinguere: le interrogative totali o polari, che richiedono la risposta si/no; le interrogative disgiuntive, che offrono un’alternativa (ti piace il mare o la montagna?); le interrogative parziali (in inglese: WH questions). Le tre si distinguono anche sul piano intonativo. Le parziali sono introdotte da <operatori> (in inglese who, what, where ecc), eventualmente preceduti da preposizione: che, quale, quanto, chi, che, quando, dove, come, perché ecc. In molte lingue il valore interrogativo viene segnalato da apposite marche, come per esempio il diverso ordinamento dei costituenti rispetto alla frase normale, con il soggetto posposto al verbo; in italiano in passato si aveva questa regola (ancora presente in formule cristallizzate come “Vuoi tu prendere in sposo...”) ma nell’italiano contemporaneo le interrogative polari si distinguono in genere grazie all’intonazione (resa graficamente con il punto interrogativo). Nelle interrogative parziali introdotte da operatore, vediamo che nulla si frappone fra operatore e verbo. Esistono anche le “domande-eco”: frasi interrogativi con operatori posposti al verbo (es. “ieri ho incontrato Maria” > “hai incontrato chi?”); per influenza dell’inglese si sta sviluppando anche l’interrogativa “multipla”, con doppio focus, che presenta due operatori contemporaneamente (chi parla a chi?). Tra gli elementi principali: • L'uso del “cosa” semplice invece di “che cosa”; • La crescita nelle interrogative di frasi scisse (dov’è che vai?) e di dislocazioni a destra (l’hai visto l’ultimo film?); • Lo sviluppo di “come mai?”, oltre a “com’è che”, in alternativa a “perché” • Diffusione del costrutto CHE+ verbo + a fare? Nel senso di “perché” (che ci sei andato a fare?); 7.3 COORDINAZIONE E SUBORDINAZIONE Parliamo di frase multipla (composta o complessa) se all’interno della stessa frase troviamo almeno due nuclei; parliamo di frase composta se il rapporto tra queste due frasi è di coordinazione (è venuta zia e mamma è uscita -> frasi sullo stesso piano e autonome), mentre è frase complessa se il rapporto è di subordinazione, cioè se una sola è autonoma (la principale o reggente) mentre l’altra o le altre sono dipendenti dalla principale e sono secondarie/dipendenti/subordinate (sono andato all’università per vedere gli appelli). Si possono avere anche frasi che dipendono da una sovraordinata che non è la principale, ma a sua volta secondaria, detta subordinata di secondo/terzo ecc grado (dal momento che la 8) LE VARIETA’ PARLATE L’Italiano contemporaneo si presenta come una gamma di varietà. Ci soffermiamo su due varietà usate nel parlato: italiano regionale e il linguaggio dei giovani. Nel parlato, alla comunicazione verbale, si aggiunge sempre una comunicazione non verbale, per esempio il linguaggio dei gesti; l’impiego della voce, inoltre, permette di veicolare un significato specifico grazie al volume, al tono, al ritmo. Ricordiamo l’aferesi, cioè la caduta a inizio di parola di una vocale, specie prima di un nesso nasale+ consonante (‘nsomma, da “insomma”) o di una sillaba (‘sto, da “questo”); l’apocope vocalica, cioè la caduta di vocale posta a fine parola, che cambia il ritmo de parlato (frequente in area Toscana e settentrionale: andiam via, son partito); le apocopi sillabiche sono diffuse al Sud e a Roma (vié qua); ci sono poi riduzioni di parole (giorno, da “Buongiorno”), variazioni o allungamenti nel timbro (na! Indica un no enfatico; see indica un falso sì); infine ci sono le metatesi, per evitare nessi vocalici o consonantici difficili da pronunciare (aeroplano al posto di “aeroplano”). Morfologia Gli aspetti di maggior rilievo sono il settore pronominale e verbale: l’italiano parlato non utilizza forme diverse ma riduce quelle esistenti. Riguardo i pronomi; • Maggiore frequenza dei pronomi personali: il pronome di prima persona “io” compare più spesso che nello scritto; frequente è l’uso anche della seconda persona e si usa spesso la forma “te” (pensaci te!); lui/lei sostituiscono egli/ella, si estendono anche agli inanimati al posto di esso/essa; essi/esse sono sostituiti da “loro”; noi/voi sono affiancati da “noialtri/e” “voialtri/e”, forme di antica data. • I dimostrativi nel parlato hanno valore vicino a quello degli articoli e spesso vengono rafforzati da avverbi (questo libro qui); “codesto” è vivo solo in Toscana; Riguardo i verbi: • Regolarizzazioni di paradigmi irregolari (intervenì per “intervenne”); • Riduzione nell’uso di modi e tempi: il presente indicativo sostituisce il passato (attraverso il presente storico), il futuro (vengo domani), l’imperativo; • È in espansione la forma perifrastica stare+gerundio con valore progressivo (sta cominciando a fare freddo); il passato prossimo si usa al posto del passato remoto (quest’ultimo resiste nelle varietà centromeridionali). L'imperfetto è il tempo in maggiore espansione: sostituisce il congiuntivo e il condizionale nel periodo ipotetico di irrealtà (se venivi, ti divertivi). Il congiuntivo sta cedendo il passo all’indicativo: nelle interrogative indirette (non sapevo chi era, da “non sapevo chi fosse”). Sintassi Nella sintassi della frase la struttura informativa dell’italiano pone ad apertura di enunciato gli elementi già dati dal contesto (tema) e alla fine gli elementi portatori di informazioni nuove (rema). Per questo nel parlato ci sono molte dislocazioni a sinistra e temi sospesi. Le dislocazioni a sinistra sono usate sia per intervenire attivamente in un discorso (“conquista del banco”) oppure per cambiare tema (“cambiamento di topic”); la dislocazione a sinistra si lega poi ad altri meccanismi tipici del parlato: l’egocentrismo del parlante, che pone all’inizio ll suo centro di interesse e non il tema; la percettività del ricevente, in vista della quale le informazioni sono disposte in modo da facilitarne la ricezione; difficoltà di pianificare il discorso nel momento in cui si parla; la dislocazione inoltre sostituisce spesso la forma passiva (es. I biglietti ormai è difficile trovarli). Per quanto riguarda la dislocazione a destra distinguiamo quelle che prevedono una pausa prima dell’elemento dislocato e quelle che prevedono una curva intonativa unitaria: nelle prime l’elemento dislocato costituisce quasi una glossa esplicativa del pronome, che deriva dalla preoccupazione del parlante di non essere stato chiaro; nelle seconde il costrutto stabilisce un rapporto di confidenza con l’interlocutore. Le frasi scisse sono utilizzate spesso per mettere in rilievo il soggetto (è lui che lo dice) oppure sono utilizzate nelle interrogative introdotte da operatore (dov’è che vai?) o dalla negazione (non è che avresti un biglietto?); le strutture con il “c’è presentativo”+che introducono un elemento nuovo (c’è qualcuno che parla male di te). Fenomeno esclusivamente parlato è la struttura a cornice o frase foderata, che consiste nella ripetizione del verbo alla fine dell’enunciato (e l’hanno fatto pure santo, l’hanno fatto). >l’oggetto preposizionale: in una frase con ordine SVO, se l’oggetto diretto è umano allora viene fatto precedere dalla preposizione “a” (ricordati di chiamare a mamma). Ha maggiore diffusione con particolari verbi (non guardare in faccia A nessuno). È più diffusa a dislocazione a sinistra (all’amministratore il ragionamento non l’ha convinto; a te chi ti ha invitato?). Riguardo la sintassi del periodo, il parlato di caratterizza per interruzioni, frasi sospese, autocorrezioni. Tra le varie frasi abbiamo congiunzioni coordinanti come e/ma/però/poi/così; diffuso è anche l’asindeto, cioè la giustapposizione delle frasi senza legamenti sintattici espliciti (passo a casa, mangio qualcosa, ritorno). La subordinazione è molto meno frequente che nello scritto: le subordinate esplicite prevalgono sulle implicite; le implicite più diffuse sono forme verbali perifrastiche (stare+ gerundio; stare a+infinito; stare per+infinito). Il “che” nel parlato è frequente come subordinante generico; la subordinata più diffusa è la relativa (specialmente quella che vede il “che” polivalente”. Nell'ambito delle relative segnaliamo anche la diffusione di stilemi come per esempio “quelli che sono i problemi” invece di “i problemi che”, che servono al parlante anche a rallentare il ritmo e avere più tempo di pianificare il discorso; infine, sono diffusi gli avverbi frasali, che si riferiscono all’intero enunciato e non a singoli elementi della frase (brevemente per “per dirla in breve”; evidentemente per “con ogni probabilità”). Testualità del parlato Mentre il testo scritto ha una progressione lineare, il testo parlato procede in modo epicicloidale, riavvolgendosi continuamente su sé stesso. Il parlato è caratterizzato da frammentarietà formale o tematica. La coesione testuale è permessa da elementi come i segnali discorsivi con la funzione di demarcativi, che servono a definire l’inizio e la fine di un discorso o la sua scansione interna (allora, ecco, beh, dunque...); i segnali possono avere valore fàtico e assicurano il contatto con l’interlocutore, sollecitandone l’assenso o la partecipazione (guarda, senti, vedi, vero?...); possono avere valore di connettivi, indicando il tipo di relazione tra le varie parti del testo. Una funzione importante di questi segnali discorsivi è quella di riempire le pause, rallentare il ritmo e permettere la pianificazione di una parte del discorso, effetti che si ottengono anche con ripetizioni, riformulazioni, anafore. La funzione di molti segnali discorsivi e dei segnali di sfumatura (detti particelle modali o mitigatori) è quello di attenuare le affermazioni (praticamente, in pratica, diciamo, per dire), consentendo al parlante di prendere le distanze dal proprio discorso; esistono anche particelle modali che servono per enfatizzare il discorso (veramente, davvero, proprio, ti dico). > interiezioni (o esclamazioni) e ideofoni (o onomatopee): si usano spesso nel parlato; sono costituiti spesso da una sola sillaba il cui nucleo non è necessariamente una vocale (pss/brr) e ammettono anche foni non presenti in italiano (euh: indica incredulità) o foni in posizioni non possibili (la /w/ finale in bau). Il significato può variare in base alla lunghezza o all’intonazione (ah?, oooh!). Distinguiamo fra interiezioni plurivoche, cioè voci che appartengono al lessico e che sono usate con valore esclamativo (aiuto!), e quelle univoche, con valore unicamente olofrastico (cioè valore di intere frasi) come “oh!”, “uffa!”. Il valore delle interiezioni è pragmatico: hanno valore espositivo perché esprimono uno stato d’animo o un’emozione; valore richiestivo, sollecitano l’azione o la risposta (ehi!); valore comportativo, cioè formule di saluto e auguri (ciao!, salve!); possono essere anche intesi come segnali discorsivi. Gli ideofoni sono differenti dalle interiezioni perché hanno valore esclusivamente descrittiva: servono per rendere, attraverso un meccanismo onomatopeico definito fonosimbolismo, suoni e rumori (drin; din don dan; tic tac), versi di animali (mia, bee), spesso sono di matrice inglese (splash; bang). Lessico Nel parlato abbiamo un lessico abbastanza ridotto: chi parla tende a ripetere più volte le stesse parole, senza sentire la necessità di ricorrere a sinonimi. Le parole con più alta frequenza sono: cosa/o, roba, affare, fatto, tipo; tra i verbi abbiamo “cosare” (derivato da cosa”, fare (assume diversi valori: fare fagotto “andarsene”). Nel parlato ci sono molti verbi accompagnati da uno o più clitici che assumono valori particolari, spesso lontani dal significato proprio del verbo (farcela cioè “riuscire”; avercela con qualcuno cioè ”essere maldisposti”; arrivarci cioè “capire”). 8.2 L’ITALIANO REGIONALE Dal punto di vista diatopico l’italiano presenta molte varietà regionali. Si definisce italiano regionale quella varietà di italiano parlata in una determinata area geografica, che denota sistematicamente, ai diversi livelli di analisi linguistica, caratteristiche in grado di differenziarla sia dalle varietà usate in altre zone, sia dall’italiano standard. L'italiano regionale come specifica varietà dell’italiano è stato individuato nel 1960 da Pellegrini, che indicava 4 elementi che costituiscono il repertorio linguistico degli italiani: • Italiano letterario • Italiano regionale • Dialetto regionale (o koinè dialettale) • Dialetto locale 9) LE VARIETA’ SCRITTE L'italiano scritto dovrebbe corrispondere allo standard tradizionale proposto dalle grammatiche ma nella realtà presenta una serie di particolarità: appare meno legato ai modelli offerti dalla lingua letteraria tradizionale e mostra differenze a seconda della tipologia testuale. Lo scritto è stato per secoli il mezzo principale di diffusine dell’italiano, specialmente la letteratura. Nel corso del Novecento la letteratura perde il suo ruolo guida a causa dell’esigenza di un tono medio, su cui ha influito anche il parlato, e ha portato a uno snellimento delle strutture ipotattiche dello scritto. ASPETTI GRAFICI: • Tendenza a scrivere univerbate (cioè come se si trattasse di una sola parola) le voci composte (soprattutto, peraltro, invece); oscillante è l’uso del trattino (italo- americano/italoamericano); nei nuovi composti prevale la grafia separata (post comunismo). • L'accento grafico lo troviamo sui monosillabi (10: ché, dà, dì, è, là, lì, né, sé, sì, tè). Lo standard prevede l’accento sulle parole tronche ma capita di non trovarlo in parole composte con monosillabi che, isolati, non lo richiedono (autobus, doposci, ventitre), nei giorni della settimana e nell’affermazione sì. Si è istituzionalizzata la differenza fra è per indicare vocale aperta ed è per quella chiusa. L'accento circonflesso compare ogni tanto nei plurali dei nomi maschili uscenti in –io (principi [accento circonflesso], plurale di principio / opposto a principi [no accento circonflesso], plurale di principe). • Riduzione di elisioni e apocopi (ci interessa prevale su “c’interessa); questo/quello vengono elisi davanti a vocale (l’ultimo film/ quell’individuo) MA al femminile solo davanti a vocale –a (l’antenna; della iscrizione). • Riguardo i grafemi, si segnala il recupero della [k] in molte scritture commerciali, politiche e giovanili (okkupazione; KR, sigla di Crotone); segni matematici come X in scritture non formali (questo è x te). • Le iniziali maiuscole sembrano in regresso (Stato, Paese). • Riguardo i paragrafematici, si segnala l’uso delle virgolette non solo per citazioni, ma ance per conferire significati particolari a una parola o espressione; in declino punto e virgola. ASPETTI DI MORFOLOGIA: La morfologia è conforme alle regole fissate dalla grammatica • Tra i pronomi personali, quelli di 3 persona sono ancora usati (egli/ella/ esso/essa/essi/esse); il pronome Ella è vivo anche come allocutivo di cortesia; lui/lei/loro usati come soggetti compaiono spesso nelle forme marcate. Tra i clitici, è rigorosa la distinzione fra il maschile GLI , il femminile LE, il plurale LORO. Il vi vocativo resiste sul ci attualizzante. • Si registra una costruzione propria dell’italiano antico, cioè la posizione enclitica dei pronomi atoni con verbi all’indicativo o al congiuntivo (affittasi, vendesi, cercasi). L'italiano scritto usa tutte le forme verbali disponibili, in base al tempo, al modo, all’aspetto. Il futuro ha spesso un carattere normativo (si recheranno “devono recarsi”); l’imperfetto indica eventi puntuali (in quell’anno Dante nasceva a Firenze); la distinzione fra passato prossimo e passato remoto è mantenuta; il congiuntivo è usato in molte frasi dipendenti, resiste nelle completive (penso che i fatti si siano svolti in quel modo), nelle interrogative indirette (non sapevo chi fosse arrivato), nelle relative limitative (cerco un collaboratore che conosca l’inglese); il condizionale è usato per il discorso riportato, come nel discorso giornalistico (l’indiziato sarebbe stato visto spesso in casa); la forma passiva è vitale. ASPETTI SINTATTICI: • La struttura sintattica SVO compare nello scritto con maggiore frequenza rispetto al parlato. La libertà nell’ordine delle parole permette anche nello scritto di collocare all’inizio della frase gli elementi tematici. Le dislocazioni a sinistra dell’oggetto sono presenti ma restano escluse da testi legislativi e scientifici; spesso la frase scissa serve non tanto a focalizzare un elemento frasale ma per marcare un cambiamento di tema (fu con il ritorno dei papi che si verificò un cambiamento di rotta). • Sono frequenti locuzioni preposizionali (alla luce di, in base a, sulla base di). • Particolare rapporto tra nomi e verbi: in alcuni testi i verbi assicurano la coesione, mentre sui nomi si concentra il carico semantico e informativo; in altri, come nel testo giornalistico, si costruiscono enunciati di tipo nominale, in cui il verbo scompare > il verbo resta a volte sottointeso perché recuperabile nel contesto, come nel caso delle risposte (quanto costa? Venti euro) o in strutture presentative (ecco il caffè). Lo stile nominale lo troviamo in titoli, insegne, definizioni. • Si preferisce la subordinazione alla coordinazione e si tendono a costruire periodi complessi, con subordinate esplicite e implicite. Per introdurre le subordinate si usano poiché, dal momento che, visto che, benché, sebbene, nonostante ecc. La frase relativa è la più frequente. TESTUALITA’ E LESSICO: • Il testo scritto è lineare, con una struttura più coerente, con la tendenza alla densità lessicale. Si può dividere in capitoli e paragrafi, capoversi, per segnalare il passaggio da un tema a un altro. • La testualità si caratterizza per i legamenti a distanza, che collegano porzioni di testo con maggiore esplicitezza (non solo...ma anche; da una parte...dall’altra); congiunzioni e locuzioni spesso non hanno funzione sintattica ma testuale: dunque, ma, quindi possono introdurre frasi principali; anche il gerundio può assumere valore testuale. • Da un punto di vista lessicale, lo scritto utilizza un lessico più ampio rispetto al parlato e si tende a evitare la ripetizione della stessa parola. • Riguardo i segni di punteggiatura, consistono in un tentativo di rendere le pause del parlato sulla pagina scritta; molto spesso la punteggiatura serve a definire i vari enunciati e blocchi di steso e a chiarire i rapporti tra le varie frasi all’interno dello stesso periodo. Non esistono regole universalmente accettate. La virgola è un segno polifunzionale: alcuni testi la usano poco, solo per separare subordinate e principali; altri ne fanno un uso esteso, utilizzandola per circoscrivere le congiunzioni testuali. Il punto serve a isolare un enunciato dall’altro, serve per cambiare argomenti. I due punti sono posti tra un enunciato e un altro per metterli in rapporto e, se seguiti da virgolette, indicano un discorso diretto, oppure indicano un rapporto causa effetto tra in due enunciati (non uscì: pioveva). Il punto e virgola si usa per legare sul piano semantico l’enunciato che segue a quello precedente oppure sostituisce la virgola nella funzione di coordinazione. 9.2 TIPOLGIE DI TESTI SCRITTI • L’ITALIANO DELLA LETTERATURA Nel corso del Novecento la letteratura perde la sua funzione “modellizzante”, ma si è anche aperta al parlato, alla ricerca di uno stile semplice. Spiccano gli usi particolarissimi dei segni di interpunzione, che non sempre rispettano la costruzione sintattica della frase. La narrativa moderna tende a superare anche i confini tra discorso diretto e indiretto, ricorrendo spesso al discorso indiretto libero e diretto libero. Frequenti sono le omissioni degli articoli e le anteposizioni dell’aggettivo al sostantivo e anche le frasi interrogative ed esclamative. Nel lessico, la letteratura attinge ai registri e ai sottocodici più disparati, l’italiano colloquiale e i dialetti; arcaismi, latinismi, parole nuove; frequenti le ripetizioni, metafore, metonimie. • PROSA SCIENTIFICA E SAGGISTICA I trattati scientifici sono testi molto vincolanti (che impongono al lettore una sola possibile interpretazione), mentre i saggi sono mediamente vincolanti: i primi sono molto espliciti e rigidi, i secondi più impliciti e elastici. Rileviamo come l’italiano sia insidiato dall’inglese, che è divenuto la lingua della comunicazione scientifica internazionale. L'italiano della prosa tecnico-scientifica adotta una struttura testuale di tipo argomentativo, con formulazione di ipotesi al congiuntivo (sia dato...segua) e strutture di tipo deduttivo; sono frequenti i tecnicismi e parole formate con confissi latini e greci e ricorso a polirematiche e denominazioni eponime (morbo di Alzheimer); La sinonimia è ridotta; rigorosa è la suddivisione in paragrafi e capoversi. L'italiano nella saggistica tende a una maggiore dialogicità, come dimostrano la presenza di frasi interrogative e l’uso di congiunzioni testuali; la subordinazione è diffusa, come anche l’abbondante aggettivazione, la scelta di termini ricercati e tecnici. • LEGGI E BUROCRAZIA I testi normativi, comprendenti leggi, decreti, regolamenti ecc appartengono ai testi “molto vincolati”, che richiedono quindi molta esplicitezza e sono caratterizzati da rigidità; rigorosa è la suddivisione del testo in capoversi, l’ampio ricordo al passivo, il rifiuto della sinonimia, la presenza di tecnicismi, aulicismi, latinismi. La burocrazia molto spesso ha elementi che rendono il testo oscuro e ambiguo. La sintassi è molto elaborata, molte sono le inversioni senza ripresa pronominale (tale domanda dovranno presentare coloro che...) e gli accumuli delle specificazioni (il calcolo 10) LE VARIETA’ TRASMESSE Ai canali tradizionali di trasmissione del linguaggio verbale (parlato e scritto) si è aggiunto un terzo mezzo, il trasmesso. Inizialmente si parlava di “parlato a distanza” (telefono, radio, cinema, televisione) poi si è aggiunto lo “scritto a distanza” (siti internet, chat, posta elettronica, messaggi). 10.1 IL PARLATO TRASMESSO I mezzi di trasmissione a distanza hanno favorito l’unificazione nazionale dell’uso linguistico, ruolo svolto soprattutto da radio, cinema, televisione. La radio è stata per decenni il principale mezzo di intrattenimento e informazione, un importante canale di diffusione dell’italiano, a cui si aggiunge il cinema sonoro a partire dagli anni Trenta e infine la televisione, iniziata nel 1954. Telefono -> la comunicazione telefonica è limitata a due interlocutori e, sebbene considerata il tipo di trasmesso più vicino alla conversazione spontanea, si presenta in parte programmata, perché chi telefona ha di solito qualcosa da comunicare; dato che i due interlocutori non si vedono, manca il supporto dei codici gestuali, di conseguenza sono frequenti i segnali fatici (pronto? Ci sei? Mi senti?), particolarmente importanti sono quelli di apertura e di chiusura. Radio ->i testi radiofonici per molto tempo hanno fatto parte della categoria “parlato scritto”, erano testi scritti e poi letti ad alta voce. Il parlato autentico è entrato nella radio piuttosto tardivamente e la tendenza a non affidarsi a un solo conduttore ma a più persone accresce il dialogo. Dal punto di vista fonetico, l’italiano radiofonico presenta un buon grado di standardizzazione, con radiofonici addestrati con corsi di dizione. Dal punto di vista sintattico, i testi scritti rispettano le regole di Carlo Emilio Gadda nel 1953: uso di brevi frasi, preferenza per la paratassi, evitamento di incisi, parentesi e inversioni sintattiche. Oggi si seguono queste norme ma la radio accoglie anche tratti del parlato autentico. Cinema -> il parlato cinematografico rientra, come quello teatrale, nel parlato recitato, basato su sceneggiature scritte. Storicamente, si è passati dalla lingua stilizzata e neutra degli anni Trenta, a un neorealismo e poi a un italiano vario che accetta anche regionalismi. Particolare fortuna hanno avuto il romanesco e la varietà romana di italiano, sia per la vicinanza allo standard, sia per la concentrazione della produzione cinematografica nazionale nella capitale. Nel doppiaggio, si usa la pronuncia standard e dialetti e italiani regionali compaiono con funzione marcatamente espressiva. Televisione -> l’italiano della televisione inizialmente si basava su testi scritti. Negli anni Settanta si è aperta al parlato autentico con tutte le sue varietà e oggi non tutti i presentatori hanno avuto corsi di dizione. Tra le varietà regionali presenti in televisione risulta prevalente quella romana (sede centrale RAI è a Roma) e milanese (grazie a reti Mediaset). Le trasmissioni televisive hanno caratteristiche specifiche, nonostante il telespettatore tenda a percepire il linguaggio come un insieme indifferenziato: nei telegiornali, che hanno componente di “parlato scritto”, si rilevano le caratteristiche linguistiche dei giornali; nelle trasmissioni culturali si usa un tono più formale, che tratta però i temi con un linguaggio semplice e poco tecnico; anche le fiction si avvicinano al parlato senza escludere, come accadeva nel passato, le varietà regionali. > tra i mezzi di comunicazione va inserita anche la pubblicità: la si vede nello scritto o su internet, ma soprattutto in televisione e gli spot si servono, oltre che delle parole, anche di immagini rumori e suoni. La funzione della pubblicità è conativa, spinge quindi a comprare il prodotto e lo fa catturando l’attenzione dello spettatore; linguisticamente, adotta varie strategie: può forzare la lingua comune e formare derivati (es. Simmenthalmente) o ricorrere a superlativi (levissima), slogan, musica; spesso si ha uno stile nominale, messaggi brevi. 10.2 LO SCRITTO TRASMESSO Nonostante l’avvento della tecnologia, lo scritto non è scomparso. I testi scritti trasmessi tendono alla brevità e alla semplificazione, di conseguenza si abbandonano le strutture subordinate e si usano sigle, abbreviazioni, accorciamenti. Internet -> nei siti internet, lo scritto acquista la possibilità di strutturarsi su più piani, con la presenza di ipertesti che l’utente può aprire in diverse pagine online. Possiamo trovare qualsiasi tipo di testo, anche quelli letterari del passato. In rete i testi, per essere efficaci, devono essere brevi, chiari e curati nell’aspetto grafico. I segni di punteggiatura sono ridotti al punto e alla virgola. Frequente è l’uso di anglicismi (home page, mode, e-mail). La posta elettronica presenta vantaggi rispetto alla posta tradizionale e al telefono: si può spedire in tutto il mondo e in pochi secondi; lo stile tende alla colloquialità e, rispetto alla telefonata, il testo può essere salvato nella memoria nel computer o comunque salvato. Il messaggio a volte non è pianificato e si basa su frasi brevi, coordinate fra loro, spesso prive di verbo, con forte dimensione dialogica. Nelle chat-lines c’è una più spiccata dialogicità e tende ad assumere tutti i tratti del parlato (anche perché avviene in tempo reale e prevede la compresenza di emittente e ricevente). Graficamente, frequente è l’uso di grafemi [k] o [x], l’utilizzo di emoticons per sintetizzare stati d’animo. Sintatticamente, la lingua presenta tratti di parlato, come le dislocazioni a destra e sinistra (il fatto è che...). dal punto di vista testuale c’è ampio uso di segnali demarcativi e discorsivi (ciao a tutti, we). Lessicalemente, spicca una componente gergale e termini di matrice inglese (nick “soprannome nella chat”) o derivati italiano (chattare). Spesso c’è plurilinguismo e gli utenti cambiano lingua >code switching / code mixing Infine, lo scritto per via telefonica non assume tratti diversi rispetto allo scritto, come nel caso del fax, perché utilizza sempre un supporto cartaceo; i messaggi telefonici, sms, sono trasmessi attraverso il telefono e non devono superare i 160 caratteri, per questo si usano emoticons, sigle, abbreviazioni. In conclusione, i nuovi mezzi di comunicazione velocizzano la comunicazione da un lato (tv/radio..) richiede una certa passività mentre dall’altro (chat/sms) richiede un’interazione più spiccata. Per alcuni questi hanno permesso uno svecchiamento dell’italiano, altri un pericolo di impoverimento. Non c’è dubbio che la formalità, in ogni caso, tende ad essere marginalizzata da queste forme di comunicazione.