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L'occhio del regista-Laurent Tirad, Sintesi del corso di Storia Del Cinema

Sunto di tutti gli autori presenti nel libro

Tipologia: Sintesi del corso

2021/2022

In vendita dal 08/12/2022

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Scarica L'occhio del regista-Laurent Tirad e più Sintesi del corso in PDF di Storia Del Cinema solo su Docsity! L’occhio del regista 1 L’occhio del regista MARTIN SCORSESE New York, 1942 Perciò io credo che la prima cosa da fare, se si desidera girare un film, sia domandarsi: «Ho qualcosa da dire?» E non è necessario che la risposta sia articolata e possa essere espressa a parole. A volte capita di voler comunicare soltanto una sensazione o un'emozione. E sufficiente. E, credetemi, è già abbastanza difficile. ma a partire dalla mia esperienza di spettatore, tendo a credere che più il film esprime una visione individuale - e quindi è personale-più si avvicina all'arte. E questo significa che supererà meglio la prova del tempo, che lo si potrà rivedere centinaia di volte senza annoiarsi, mentre un film commerciale diventa noioso dopo un paio di volte. Bisogna distinguere tra i registi, da un lato, e i cineasti, dall'altro. I registi - e possono essere bravissimi nel loro mestiere - si limitano a interpretare la sceneggiatura, a trasformare le parole in immagini. I cineasti, invece, sono capaci di prendere il materiale di qualcun altro e riuscire lo stesso a fare in modo che ne emerga una visione personale. Credo che il dovere di un regista sia raccontare la storia che vuole raccontare, il che significa che bisogna sapere di che cosa si sta parlando.Alcuni registi sostengono di non sapere mai in che direzione andranno quando cominciano a fare un film, e di costruirlo poco a poco durante il percorso. Un esempio di questo, al massimo livello, è di certo Fellini, che sosteneva che i suoi film nascessero dall'improvvisazione. Tuttavia non credo che L’occhio del regista 2 potesse essere davvero così: penso che anche lui avesse sempre qualche idea, magari astratta, di dove stava andando. Ci sono anche registi che hanno una sceneggiatura ma non sanno esattamente che tipo di piani e inquadrature useranno per una particolare scena finché non cominciano a provarla, o persino fino al giorno stesso in cui la girano. Ho bisogno di pianificare in anticipo le riprese e spesso decido la maggior parte delle inquadrature prima di iniziare a girare il film. Io non ci riesco, è una questione di carattere, immagino. La cosa più importante che ho imparato della regia è che consiste in una tensione costante tra il sapere esattamente che cosa si vuole - e fare di tutto pur di ottenerlo e l'essere capace di modificarlo a seconda delle circostanze, approfittando di una nuova idea più interessante. Tutto sta, quindi, nel riuscire a capire che cosa sia davvero essenziale. A volte si va a vedere una location e la si scopre molto diversa da quello che avevamo in mente quando abbiamo immaginato le riprese da girare lì. Che fare Cercare una nuova location, o cambiare le riprese? In altri casi può capitare, al contrario, di costruire le riprese a partire dalla location. Esiste una grammatica del cinema come ne esiste una in letteratura? Be' certo. E ci è stata fornita ben due volte. Come Jean-Luc Godard ha detto, abbiamo due grandi maestri nella storia del cinema: D.W. Griffith nell'era del muto, e Orson Welles nell'era del sonoro. Perciò è ovvio che ci siano alcune regole fondamentali.Come per tutti i registi, ci sono alcuni strumenti con cui sono fissato e altri che non amo molto. Per esempio, non mi dà nessun fastidio usare lo zoom, che molti odiano. Ma ci sono due cose dello zoom che non mi piacciono: prima di tutto troppi registi hanno la tendenza ad abusarne solo per ottenere un forte impatto.L’altro problema con lo zoom è puramente tecnico: ha una lente mobile e l’immagine risulta meno nitida che con un obiettivo fisso. Non c’è alcun segreto da conoscere per dirigere gli attori, in realtà. Dipende dal regista: alcuni ottengono grandi prestazioni anche se sono molto freddi ed esigenti con chi recita, qualche volta persino sgradevoli. Per quanto mi riguarda, credo di aver bisogno, per dirigerli bene, di apprezzarli, di stimarli come persone, o se non altro di stimare alcuni aspetti della loro personalità. Penso che sia il modo in cui lavorava Griffith: gli piacevano molto gli attori che dirigeva. Ho anche sentito raccontare molte storie su quanto invece Hitchcock fosse crudele con loro. Alcuni registi fanno film soltanto per il pubblico. Altri, come Steven Spielberg o Alfred Hitchcock, fanno film sia per il pubblico che per se stessi. Hitchcock era impareggiabile in questo, sapeva esattamente come sedurre e manipolare il pubblico. Si potrebbe dire che, però, realizzava soltanto film di suspense, e in un certo senso è così, ma dietro ci sono una filosofia e una psicologia così personali da fare di lui un grandissimo regista.Per quanto mi riguarda, io faccio film per me stesso. Il modo migliore di lavorare, per me, sia fare film come se fossi io il pubblico. L’occhio del regista 5 Fare film non era mai stato il mio obiettivo, in realtà, e in un certo senso è stato soltanto dopo essere diventato regista che ho cominciato a imparare il mestiere. Perciò si può dire che ho fatto il percorso al contrario. Ho insegnato recitazione dai diciannove ai ventitré anni, quando mi è stato proposto di girare film per la televisione e ho accettato senza sapere bene come me la sarei cavata. Poi sono passato al cinema. Però non posso dire che faccio film per raccontare storie, non del tutto: il mio principale interesse sta nelle relazioni. Secondo me le relazioni tra due personaggi in un film sono una metafora di qualunque altro fatto della vita: la politica, la morale... tutto. Perciò di base faccio film per saperne di più sulle relazioni, non per dire qualcosa, perché non saprei che cosa dire. Penso che ci siano fondamentalmente due tipi di registi: quelli che conoscono e comprendono una verità e desiderano comunicarla al mondo, e quelli che non sono del tutto sicuri di quale sia la risposta a qualche cosa e fanno film come un mezzo per cercarla e trovarla. Questo è ciò che faccio io. Posso riflettere molto a lungo su un film prima di farlo, e certamente dopo, ma cerco di non pensare troppo quando sono sul set. Il mio modo di lavorare consiste nel determinare il prima possibile quale sia il tema del film, quale sia l’idea centrale espressa dalla storia. Una volta compreso questo, una volta concepito un principio unificatore, ogni altra decisione presa sul set ne deriva naturalmente e sarà influenzata da questo. L’unico modo per fare film che si rivolgano al pubblico è rivolgersi a se stessi. Come è possibile sapere ciò che il pubblico apprezzerà? Bisogna usare se stessi come spettatore tipo, ed è proprio ciò che faccio io. La prima cosa che faccio è impedire che gli attori recitino. Dico: «Niente recitazione, limitatevi a leggere le vostre battute». Questo li rilassa molto. Ciò che cerco di fare, in realtà, è trattenere la recitazione finché comincia ad accadere da sé. Perché lo fa: molto presto gli attori cominciano a muoversi mentre leggono le battute, e si inizia a capire che cosa desiderano fare. Secondo me, se ci sono sette cose che non funzionano nella scena, è meglio discutere di una soltanto; una volta sistemata quella se ne discute un’altra, e così via. Si risolve un problema per volta, insomma. Non si può chiedere a un attore di pensare a cinque cose diverse contemporaneamente, bisogna avere pazienza e dargli tempo. Il primo è che bisogna evitare di dirigere troppo.Se tutto va per il meglio, bisogna saper tacere. Bisogna imparare ad accettare la relativa facilità di questo mestiere. Il secondo punto, che è anche il più importante e che in genere stupisce i giovani registi, è che il lavoro di un attore non è affatto intellettuale. Un attore non ha bisogno di capire quello che deve fare, almeno non da un punto di vista convenzionale. Ha soltanto bisogno di farlo. C’è un’enorme differenza tra una regia che produce un comportamento e una che produce una comprensione intellettuale. La seconda non serve a niente. Potete parlare ore con L’occhio del regista 6 un attore per fargli capire il personaggio, ma non è questo che gli permetterà di recitare come si deve davanti alla macchina da presa, di essere abbastanza commovente o capace di turbare. Tutto quello che ha bisogno di comprendere è ciò che gli occorre per calarsi davvero in un certo tipo di situazione immaginaria. Perché la recitazione deriva esclusivamente dal desiderio, dalla volontà: è ciò che vogliamo che ci spinge a fare qualcosa, non ciò che pensiamo. Il consiglio che darei a tutti i futuri registi è di assistere a una lezione di recitazione. Meglio ancora: prendere loro stessi lezione e imparare qualche cosa di recitazione, perché è il modo migliore per capire di che cosa un attore ha o non ha bisogno per poter funzionare. L’altro consiglio su cui insisterei è che alla tecnica si ricorre quando le cose non accadono per conto proprio. Se le cose accadono per conto proprio, è sufficiente accogliere la fortuna con gratitudine e starsene buoni. WOODY ALLEN Brooklyn (New York), 1935 Prima di tutto, penso esistano due tipi di registi: quelli che scrivono il proprio film e quelli che non lo fanno. È molto raro che qualcuno appartenga a entrambe le categorie. Ciò che si ottiene scrivendo la propria sceneggiatura è un film originale in ogni sua parte in cui c’è uno stile che emerge molto rapidamente, e certi tic di regia o temi ricorrenti tendono ad apparire più spesso. Con questo tipo di regista il pubblico si trova più a contatto con una personalità. Mentre se un regista adatta la sceneggiatura di qualcun altro, potrà di certo fare un eccellente lavoro – se la sceneggiatura è buona – e potrà certo realizzare un film grandioso dal punto di vista visivo, ma non otterrà mai quella qualità personale che solo un autore possiede. Questo può essere positivo o negativo: si può scrivere la sceneggiatura e realizzare un film con una qualità personale, ma se non si ha niente di interessante o di nuovo da dire sulla vita, il prodotto non sarà mai così buono come quello di un regista che ha adattato una buona sceneggiatura quando arrivo sul set, non ho la più pallida idea di come girerò quello che devo girare, non ho nemmeno provato a pensarci. Preferisco cominciare senza idee preconcette. Per tornare all’aspetto tecnico, anche qui tendo ad avere un approccio diverso dagli altri. Quel che faccio è andare un po’ in giro con l’operatore, vedere dove voglio che l’azione si svolga, e quale aspetto desidero che abbia; poi, quando arrivano gli attori, chiedo loro di adeguarsi a ciò che ho deciso per la macchina da presa. La commedia è un genere particolare, molto impegnativo e molto rigoroso in termini di regia. Il problema è che niente deve interferire con la risata: niente deve distrarre lo spettatore da ciò che deve farlo ridere. Se si muove troppo la macchina da presa, se si fa un montaggio troppo rapido, c’è il rischio di uccidere la comicità. Perciò è sempre difficile realizzare una L’occhio del regista 7 commedia con uno stile fantasioso. La commedia deve essere realistica, semplice e chiara. Spesso mi domandano quale sia il segreto per dirigere gli attori, e tutti credono che io stia scherzando quando rispondo che l’unica cosa da fare è ingaggiare professionisti di talento e poi lasciare che facciano il loro lavoro. Ma è vero. Molti registi tendono a dirigere eccessivamente i loro attori, e gli attori li lasciano fare perché, be’, adorano essere diretti eccessivamente.Sono molti gli errori in cui un regista deve sempre cercare di non cadere, è chiaro. Il primo che mi viene in mente è evitare qualunque cosa che non corrisponda precisamente alla sua visione del film. Capita spesso, mentre si gira, di avere un’idea ingegnosa o un po’ audace che si desidera sperimentare. Ma se questa idea non trova posto nel film, bisogna avere l’onestà o l’integrità di metterla da parte. Il che non vuol dire che si debba essere rigidi o chiusi in se stessi, al contrario, anche questo sarebbe un errore. Un film è come un albero: una volta piantato il seme, comincia a crescere in maniera organica, e il regista deve crescere di pari passo se vuole arrivare a vederne la fine. Deve essere pronto a prendere in considerazione ogni genere di cambiamento. Credo che un altro grave errore sia cominciare a girare un film con una sceneggiatura debole o non ancora pronta, e pensare: «Va bene, la sistemerò sul set». L’esperienza mi ha dimostrato che con una buona sceneggiatura è possibile fare un pessimo lavoro di regia e tuttavia ottenere un discreto film, mentre con una cattiva sceneggiatura si può anche fare un eccellente lavoro di regia senza che questo migliori di molto le cose. E infine, il più grande pericolo contro cui mi sento di avvisare ogni futuro regista è il pensare di sapere tutto del cinema. EMIR KUSTURICA Sarajevo, 1954 L’idea di insegnare a qualcuno come realizzare un film è molto ambiziosa e anche molto stimolante ma, secondo me, non tanto realistica. Credo invece sia possibile proiettare alcuni film e analizzarli, con esempi precisi di scene o di riprese, per mostrare come ogni regista usi il proprio talento. Personalmente ritengo che la prima e più importante lezione per un futuro regista sia imparare a diventare un autore, a imporre la propria personale visione nel film. L’errore più grave che un giovane regista può commettere è credere che il cinema sia un’arte obiettiva. L’unico vero modo di essere un autore è non soltanto avere un punto di vista personale ma anche imporlo nel film, a ogni livello. Se si cerca di realizzare un film per il pubblico, non è possibile sorprenderlo. E se non lo si sorprende, non si riesce a farlo riflettere o evolvere. Perciò un film è prima di tutto e soprattutto di chi lo fa. Quando preparo una scena comincio sempre posizionando la L’occhio del regista 10 astrazione, e che richiedono una comprensione più intuitiva che logica. Per me la potenza di un film va oltre il semplice compito di narrare una storia; ha a che fare con il modo in cui la si narra e in cui si riesce a creare un mondo, un’atmosfera o una sensazione dentro i quali lo spettatore si ritrova immerso. Il sonoro invece – e comprendo ovviamente anche la musica in questa categoria – è un’entità concreta e potente che abita fisicamente il film, come se fosse la sua casa. Certo, occorre trovare i suoni giusti, il che richiede moltissime discussioni e moltissimi esperimenti. Pochi registi sono davvero capaci di usare il sonoro oltre il suo aspetto puramente funzionale, e il motivo è che se ne preoccupano soltanto dopo aver girato il film. BERNARDO BERTOLUCCI Parma, 1941 Nei miei film lascio sempre la porta aperta per permettere alla vita di entrare nel set. E, paradossalmente, questo è il motivo per cui lavoro con sceneggiature sempre più strutturate. Se ho una struttura forte dalla quale partire, mi sento più a mio agio nell’improvvisare. Per me l’aspetto interessante dell’imprevisto è il fatto che compaia in una situazione nella quale, in teoria, tutto è pianificato. Per lungo tempo ho affrontato ogni ripresa come se fosse l’ultima, come se qualcuno dovesse portarmi via la macchina da presa appena avessi finito di girarla. Così avevo la sensazione di stare rubando ogni inquadratura, e in questa condizione mentale è impossibile pensare in termini di «grammatica» o anche di «logica». Persino oggi non preparo mai niente in anticipo, non decido i tagli. In effetti, cerco di sognare durante il sonno le riprese che girerò il giorno dopo sul set. La comunicazione è un fattore vitale per far funzionare bene una troupe. Occorre stabilirla prima di cominciare a girare, perché dopo, sul set, sarebbe troppo tardi. La macchina da presa è molto presente nei miei film. È ciò che governa la mia regia, nel senso che si muove continuamente. Non riesco a resistere alla tentazione di muoverla. Credo che derivi da una specie di desiderio di avere un rapporto sensuale con i personaggi, nella speranza che questo si tramuti poi in un rapporto sensuale tra i personaggi. In un periodo più psicanalitico della mia vita, pensavo che la «carrellata in avanti» fosse il movimento del bambino verso la madre, mentre la «carrellata indietro» era il contrario, il movimento del bambino che cerca di scappare. Penso che il segreto per lavorare bene con un attore sia prima di tutto sapere come sceglierlo. Per riuscirci bisogna dimenticare per un momento il personaggio della sceneggiatura e vedere se le persone che si hanno davanti ci incuriosiscono oppure no. È molto importante perché, durante le riprese, è la curiosità verso un attore che ci spinge a esplorare il personaggio che incarna. Per quanto riguarda la direzione degli L’occhio del regista 11 attori in generale, direi che cerco sempre di applicare le regole del cinema-verità al mondo della fiction. Ma a questo serve l’improvvisazione: cercare di sfiorare la verità e dimostrare che qualcosa di profondamente vero può nascondersi dietro la maschera di un personaggio. In apparenza, un film è la trasformazione in immagini di un’idea. Ma più segretamente, per me, è sempre stato un modo di esplorare qualcosa di più personale e di più astratto. OLIVER STONE New York, 1946 La cosa più importante di cui un regista ha bisogno è un punto di vista. Quando si guarda un film, se si presta attenzione, è il pensiero che c’è dietro il film a essere interessante, in realtà. Il resto è semplicemente... scenario. E tuttavia il cinema è un’arte fatta di collaborazione. Qualcuno potrebbe quindi dirmi che in fin dei conti non è più veramente il mio film, che è un’opera collettiva, ma è falso. Un film è sì uno sforzo collettivo, ma deve sempre esserci una persona responsabile di tutto, una persona la cui visione lo renda coerente, altrimenti la collettività non arriva da nessuna parte, non produce nulla. La cosa più difficile in realtà è riuscire a capire a quale spettatore ci si rivolge, e per questo cerco di fare sempre più proiezioni test. Perché il pubblico cambia, e di recente mi pare che si sia trasformato molto in un pubblico televisivo. Il momento critico di tutto il processo di costruzione di un film sono le riprese, perché molto più che in fase di scrittura o di montaggio, può accadere qualunque cosa e non si ha mai una seconda opportunità. Quindi, quando la mattina arrivo sul set, di solito ho una lista di quindici o venti inquadrature che voglio realizzare quel giorno, e inizio sempre dalle più importanti. LARS VON TRIER Copenaghen, 1956 Scrivo io stesso le mie sceneggiature. Perciò immagino ci sia una differenza tra scrivere da soli il proprio materiale e adattare quello altrui, ma come registi bisogna essere in grado di prendere il lavoro di un altro sceneggiatore e farlo proprio. E d’altra parte si potrebbe anche sostenere che persino quando si scrive la propria sceneggiatura ci si basa sempre su qualcosa di visto o sentito, e quindi in un certo senso questa non ci appartiene. Secondo me è un po’ arbitrario. Sono invece fermamente convinto del fatto che sia necessario realizzare film per se stessi e non per il pubblico. Se si comincia pensando al pubblico, secondo me ci si smarrisce e si fallisce, è inevitabile. Certo, bisogna avere il desiderio di comunicare con L’occhio del regista 12 gli altri, ma basare su questo tutto il film non funzionerebbe mai. Bisogna farlo perché lo si vuole fare, non perché il pubblico lo vuole. Ciò non significa che non si debbano fare film commerciali, significa solo che anche quelli devono piacere a noi prima ancora che al pubblico. Per un regista è molto importante evolversi, ma molti confondono l’evoluzione con il miglioramento, mentre sono due cose molto diverse. Io mi sono evoluto nel mio lavoro perché ho sempre continuato a spostarmi verso cose differenti, ma non credo di essere migliorato il mio unico talento come regista è che sono sempre assolutamente certo di ciò che sto facendo. In conclusione, mi sembra di non avere da dire niente di preciso. Non faccio film per esprimere delle idee. Capisco che vedendo i miei primi film si possa essere spinti a pensarlo, visto che sono un po’ freddi e quasi matematici. Eppure, persino all’epoca, penso che nel profondo il punto di forza era già lo stesso di oggi: l’emozione. È stata la ricerca dell’emozione che ha sempre guidato il mio lavoro WONG KAR-WAIW Shanghai, 1958 Scrivo io stesso le mie sceneggiature. Per me la cosa più importante nella sceneggiatura è sapere in quale spazio si svolge, perché in base a ciò poi si può decidere che genere di personaggi vi si evolveranno dentro, come parleranno, si muoveranno, ecc. Lo spazio può persino dire chi sono i personaggi, perché si trovano lì, e così via. Se si ha un luogo in mente, tutto il resto viene fuori poco a poco, così vado a esplorare le location prima ancora di cominciare a scrivere. L’unica cosa che cerco di chiarire molto bene quando comincio un film è il genere in cui collocarlo. La musica è molto importante nei miei film. Tuttavia raramente la faccio comporre apposta, perché trovo molto difficile comunicare con i musicisti: loro hanno un linguaggio musicale, io ne ho uno visivo, e la maggior parte delle volte non riusciamo a capirci. Perché anche la musica per un film deve essere visiva, deve possedere una chimica capace di far reazione con l’immagine. Perciò il mio modo di lavorare consiste nel registrare e mettere da parte qualunque brano, classico o contemporaneo, che mi capiti di ascoltare e che mi ispiri qualcosa di visivo, e so che prima o poi lo userò. In questo modo mi creo una banca dati di brani che corrispondono perfettamente al mio universo visivo alla quale posso attingere quando ne ho bisogno. Non sono particolarmente fissato con gli aspetti tecnici. Per me la macchina da presa non è nient’altro che uno strumento per tradurre ciò che gli occhi vedono. La maggior parte delle mie scelte è istintiva. La scelta di un attore è completamente arbitraria. È come il desiderio: perché ci si innamora di una certa persona e non di un’altra? Non c’è spiegazione. C’è qualcosa che fa clic ed è L’occhio del regista 15 naturalmente il restante dieci per cento è più complesso, perché ogni attore è diverso dall’altro, ognuno ha il proprio modo di lavorare, di comunicare. Non credo mai ai registi quando sostengono che i loro film sono esattamente come li avevano immaginati. È impossibile. Ogni giorno sul set ci sono troppi aspetti che non si possono controllare. Al massimo si può sperare che il film avrà lo stesso spirito con il quale lo abbiamo immaginato, ma il risultato finale sarà sempre una sorpresa. JOHN WOO Canton (Cina), 1946567 Non seguo alcuna regola, nessuna grammatica cinematografica. Quando riprendo una scena, tento ogni genere di piano. Inoltre, tendo a servirmi soltanto di due tipi di obiettivi per comporre le mie inquadrature: un amplissimo grandangolo e un teleobiettivo estremo. Uso il grandangolo perché quando voglio vedere qualcosa lo voglio vedere completamente, con la maggiore quantità di dettagli possibile. Quanto al teleobiettivo, me ne servo per i primi piani perché mi sembra che crei un vero «incontro» con l’attore. Credo che se si vuole lavorare con gli attori, prima di tutto bisogna innamorarsene. Se li si odia, è inutile anche provarci. Discutiamo di ciò che amano e di ciò che odiano, e mi sforzo di scoprire il pregio principale di ognuno perché nel film cercherò di enfatizzare quello. La musica è importante nei miei film. Mentre preparo una scena mi piace ascoltare un certo tipo di musica. Infatti, molto spesso, quando giro una scena non sto a sentire davvero il dialogo, continuo ad ascoltare la musica in cuffia. Se gli attori sono bravi so che diranno bene le loro battute, ma mi piace che la recitazione si accordi con le emozioni suscitate dalla musica, perché è lo stato d’animo che mi interessa. Faccio film per due motivi principali. Prima di tutto perché ho sempre avuto difficoltà a parlare e a comunicare con le persone, e i film per me sono un modo di gettare un ponte tra me stesso e il resto del mondo. E in secondo luogo, perché mi piace esplorare, scoprire cose sul mondo, sulla gente e su me stesso. Un aspetto che mi interessa particolarmente è cercare di capire che cosa possono avere in comune due persone in apparenza molto diverse: è un tema ricorrente nei miei film, che mi piace analizzare, e in questo senso posso dire di fare film per me stesso. Anche quando sono sul set non penso mai al pubblico, non mi domando mai se apprezzerà il film oppure no, non cerco mai di prevedere come reagirà. JEAN-LUC GODARD Parigi, 1930 L’occhio del regista 16 Il consiglio che oggi darei a chiunque volesse diventare regista è piuttosto semplice: fare un film. Negli anni Sessanta non era così facile perché non esisteva nemmeno il super8, qualunque cosa si volesse girare bisognava affittare una 16mm, nella maggior parte dei casi muta. Ma oggi non c’è niente di più semplice che comprare o prendere in prestito una piccola videocamera. Credo ci siano due tipi di approccio al cinema. Il primo è quello dei registi che realizzano film «tradizionali», magari anche «convenzionali» ma, almeno, sono coerenti nel farlo. Intendo dire che cominciano da qualcosa di simile a un desiderio, un’idea che li affascina; e poi quell’idea comincia a crescere, a svilupparsi, e loro iniziano a prendere appunti; cominciano a visualizzare le ambientazioni, persino le immagini, poi i personaggi e la storia. E quindi iniziano a preparare il film, proprio come un architetto prepara le planimetrie di una casa. Il mio è diverso. Di solito comincia con una sensazione astratta, una sorta di strana attrazione per qualcosa di cui non sono sicuro. E fare il film per me è un modo di scoprire che cosa sia quell’elemento astratto, di verificarlo. Devo anche spiegare che comincio sempre a lavorare su un film a partire dalla possibilità reale di farlo. Intendo dire che aspetto sempre di avere il via libera da un produttore prima di scrivere anche una sola riga di sceneggiatura. Credo che un regista abbia molti doveri, e questo sia nel senso professionale sia morale del termine. Il primo è quello di esplorare, di essere in un costante stato di ricerca. Un altro è di lasciarsi stupire una volta ogni tanto. In un film esistono due livelli di lettura: il visibile e l’invisibile. Ciò che si mette davanti alla macchina da presa è visibile e, se non c’è nient’altro, allora si sta realizzando un film per la televisione. I veri film, per me, sono quelli in cui c’è qualcosa di invisibile, che può essere scorto – o compreso – attraverso la parte visibile, e solo perché questa è stata allestita in un certo modo. Si potrebbe dire che il visibile è un po’ come un filtro che, posto a una determinata angolazione, lascia passare certi raggi di luce e permette di vedere l’invisibile. Oggi troppi registi non vanno oltre il livello del visibile, dovrebbero porsi più domande, oppure dovrebbero essere i critici a porle, ma non quando i film sono già stati fatti, come accade adesso. Credo sia fondamentale per un regista saper raccogliere attorno a sé un gruppo di persone con le quali possa comunicare e, soprattutto, scambiare opinioni. I film migliori sono quelli in cui c’è stato scambio, e per ottenerlo il regista ha solo bisogno di un’altra persona, che può essere anche un attore, o un tecnico. MILOS FORMAN Čáslav (ex Cecoslovacchia), 1932 L’occhio del regista 17 Credo davvero che esistano due differenti approcci alla regia. Da una parte, ci sono quelli che decidono di fare film perché sono ispirati dal grande cinema: hanno visto Fellini, Welles o Bergman e si sono detti: «Voglio farlo anch’io». Dall’altra parte, ci sono quelli che decidono di fare film per reazione al brutto cinema, che si cimentano nella regia come se si lanciassero in una rivoluzione. E nell’insieme, penso che quelli della seconda categoria siano i più promettenti, perché i primi tenderanno sempre a imitare e a copiare, mentre gli altri cercheranno di innovare, di fare cinema a modo loro piuttosto che ricalcare quello dei grandi maestri. La lezione più importante che credo di aver appreso in materia di regia e che a mia volta cerco di insegnare si fonda su questo principio: arrivare a dire la verità senza essere noiosi. È una cosa al tempo stesso molto semplice e assai complicata, perché la verità, accidenti, è spesso noiosissima. Le bugie sono molto più interessanti, intriganti e affascinanti. Allora che fare? La prima soluzione auspicabile è scoprire una verità nascosta. Ma è quasi impossibile perché, in fondo, si sa quasi tutto. La seconda è riscoprire una verità, far ritornare in superficie una verità che il pubblico ha dimenticato, generalmente perché l’ha voluto, l’ha evitata perché scomoda o disturbante. Non è impossibile, ma è comunque molto difficile. La terza soluzione, infine, è raccontare una verità che tutti conoscono, ma trovando un modo sorprendente per presentarla. MTHIEU KASSOVITZ Parigi, 1967 Paradossalmente, l’altra grande lezione che credo di aver appreso è che la regia deve adattarsi al soggetto e non il contrario. Un regista si presenta con la sua personalità, le sue scelte e i suoi gusti in fatto di regia ma deve trattare ogni film come un’entità separata. La sceneggiatura è la base. Senza una sceneggiatura solida il regista non può andare da nessuna parte. Alla fine, ci si possono inventare tutti i movimenti di camera che si vuole, ma non si fa altro che filmare degli attori. E allora bisogna saperli dirigere, ma innanzitutto bisogna saperli scegliere. Se scegli un attore scarso, è la fine, non ci puoi fare niente. Io ho la tendenza a scegliere basandomi su criteri puramente umani. Non cerco di trovare l’attore che corrisponde esattamente a quello che è scritto nella sceneggiatura. Prendo qualcuno con il quale ho una buona intesa intellettuale, anche a costo di modificare in seguito il personaggio. Credo che il pericolo più grande per un regista sia di riposarsi sugli allori, cioè credere di aver capito tutto e saper fare tutto. Ho ancora molte cose da imparare e so anche che non smetterò mai di imparare. Ma è questa la cosa geniale del cinema, che non è una scienza. E puoi anche fare cento film, ma penso che al centunesimo sarai sempre incompetente. L’occhio del regista 20 Sarebbe sciocco dire che faccio film solo per me stesso. Però non posso neanche dire che li faccio esclusivamente per il pubblico. Credo di fare film che mi appassionano, ma sempre nella speranza che appassionino anche il pubblico e che io possa condividere la mia felicità con lui. Tengo sempre in considerazione il pubblico e farei qualsiasi cosa per colpirlo, ma mai al punto di tradire la mia idea del film. Non andrei mai contro il mio modo di sentire allo scopo di guadagnarmi uno spettatore in più. Voglio che al pubblico piaccia il film, ma deve piacere prima di tutto a me. Quando ci sono da prendere delle decisioni penso che, seguendo questa regola, sia più facile capire quello che vuoi e affidarti al tuo istinto. La cosa più importante per me è stabilire in modo chiaro quello che non voglio. Una volta fatto questo, la maggior parte del la voro è fatta. Mi resta solo da trovare un equilibrio tra quello che voglio e quello che posso fare, che non sono per nulla la stessa cosa. Pur sapendo esattamente come voglio che venga il film, non lo posso fare da solo. Fare un film è prima di tutto un’arte collettiva. Quando arrivo sul set la mattina, la prima cosa che faccio è fissare gli spostamenti degli attori. Il casting è senza dubbio una delle responsabilità maggiori di un regista. Perché se fai un buon casting, hai fatto l’ottanta per cento del lavoro. Ci sono molti attori di talento. Ma gli attori veramente eccezionali hanno una vita interiore molto intensa. Hanno un’anima. Per questo penso che sia importante passare del tempo con loro, per conoscerli nella loro intimità. E un giorno in cui passeggiavo con Sean, gli ho visto fare una cosa che mi ha convinto all’istante che era la persona giusta per quel ruolo. Una volta fatta la scelta, cerco di adattarmi alle diverse esigenze di ogni attore. Le prove sono una questione delicata. Non puoi farne troppe perché gli attori rischiano di perdere la spontaneità di cui hanno bisogno per rendere viva la sceneggiatura quando sono sul set. Però, ci sono alcune scene che io ho bisogno di provare per verificare se quello che ho in mente funziona anche in pratica. Le prove permettono pure ai tuoi attori di prendersi il tempo di sperimentare e tentare delle cose che non potranno mai provare sul set, dove si hanno i minuti contati. In fin dei conti, direi che dirigere gli attori significa semplicemente fargli comprendere qual è l’obiettivo emotivo del personaggio nella scena. Ma bisogna essere chiari e precisi. La scelta dei vocaboli è cruciale. penso che più soldi si mettono in un film, meno il film sarà buono ARTHUR PENN Philadelphia, 1922 – New York, 2010 Qualche volta ho insegnato regia e ho notato che la più grave lacuna degli studenti di cinema si manifesta sempre nel lavoro con gli attori. La cosa più sorprendente era che sembravano ignari di come le persone si comportano in genere. Niente sembrava L’occhio del regista 21 naturale. Alla fine ho capito che facevano tutto al contrario. Per me è il modo in cui le persone si comportano a dirmi dove piazzare la macchina da presa. Comincio lasciando gli attori liberi di utilizzare lo spazio, osservo come si muovono, e a quel punto so come inquadrarli. Il cinema ha la stessa grammatica di tutti gli altri tipi di drammaturgia: l’azione si sviluppa progressivamente, c’è un conflitto, delle rotture dell’equilibrio, ecc. Il cinema, però, ha un modo unico di mostrarlo. In un’opera teatrale, i personaggi raccontano quello che gli passa per la testa e veniamo a sapere quello che pensano dai dialoghi. In un film, una persona può dire una certa cosa, mentre al contempo l’immagine mostra tutt’altro. Di conseguenza, la chiave per fare film è l’immaginazione. Un regista lavora trovando l’equivalente fisico di un pensiero interiore. Trasforma un’esperienza intellettuale in azione. La cosa più importante che ho scoperto facendo film è stata, credo, che non bisogna filmarli come se fossero uno spettacolo teatrale, giacché l’immagine è molto più eloquente delle parole e in un film tutto dipende dal punto di vista. Pur ritenendo essenziale che il regista conferisca al film un punto di vista, sono altrettanto convinto che la macchina da presa debba rimanere il più possibile neutrale e che, per esempio, non debba mai muoversi, se non è necessario per la storia. Penso che i registi dovrebbero fare soltanto la regia. Ne conosco molti che scrivono le proprie sceneggiature e ritengo che spesso lo facciano più per narcisismo che per una vera, intima necessità di essere un autore. Per quanto mi riguarda, il momento più difficile quando si realizza un film è il finanziamento. Perché i produttori vogliono sentirsi dire solo questo: «Sarà un film meraviglioso, i vostri soldi sono al sicuro con me e guadagnerete dieci volte quello che avete investito». In tutta franchezza, chi ci crede? Di certo non io. Non c’è modo di sapere se realizzerò un buon film, sicuramente non prima di averlo girato.