Scarica La Controriforma: Il mondo del rinnovamento cattolico (1540-1770) e più Appunti in PDF di Storia solo su Docsity! LA CONTRORIFORMA - IL MONDO DEL RINNOVAMENTO CATTOLICO (1540-1770) Con il termine Controriforma o Riforma cattolica s'intende il periodo successivo allo Scisma protestante, scaturito dalle 95 tesi di Martin Lutero nel 1517, e che coincide con il concilio di Trento (1545-63). Secondo alcuni storici, questo periodo si conclude nel tardo Settecento, precisamente nel 1773, con lo scioglimento dei gesuiti. Capitolo 1: Il concilio di Trento Già prima della Riforma protestante erano scaturite da diverse correnti del cattolicesimo esigenze di riforma della Chiesa: in molti chiedevano un suo rinnovamento morale e disciplinare che prevedeva la formazione di sacerdoti degni, la riduzione degli scandali e la restaurazione della disciplina. Quindi il concilio di Trento non nacque dal nulla né fu causato dalla sola Riforma protestante, anche se in questa vi si potrebbe leggere l’elemento scatenante che scosse la Chiesa. Una delle vie per risolvere il problema protestante sarebbe stata la convocazione di un concilio ecumenico, ossia la riunione straordinaria di tutti i vescovi. A partire dal pontificato di Martino V (1417-31), il papato aveva restaurato il proprio potere sconfiggendo i conciliaristi (coloro che difendevano la supremazia del concilio sull'autorità papale) e, a causa di questo, i concili divennero sempre meno frequenti; nonostante ciò, la convinzione che il concilio rappresentasse l’unica istanza in grado di porre rimedio alla frattura della cristianità era sopravvissuta. A causa delle guerre d'Italia che si combatterono nella Penisola (1494-1559), il concilio si svolse in tre fasi: dal 1545 al 1548 con papa Paolo III (Alessandro Farnese); dal 1551 al 1552 con papa Giulio III (Giovanni Maria del Monte); dal 1562 al 1563 con papa Pio IV (Gian Angelo de' Medici). Il concilio di Trento aveva un triplice scopo: sradicare lo scisma religioso; riformare e portare la pace tra i cristiani; rivendicare per i cristiani i luoghi santi in Palestina. Per il papato, il primo di questi obiettivi era di suprema importanza, e perciò le prime due fasi del concilio si concentrarono sulla situazione tedesca, mentre la terza su quella francese. Il concilio di Trento si aprì il 13 dicembre 1545. Questa prima fase vide una partecipazione quasi esclusiva di italiani (solo due vescovi spagnoli, un inglese, un francese e un tedesco) ed anche una scarsa presenza numerica (4 cardinali, 4 arcivescovi, 20 vescovi e alcune decine di persone fra giuristi e teologi). I legati papali erano tre uomini di grande prestigio: Giulio III, Marcello II (Marcello Cervini) ed Ercole Gonzaga. Questi, in quanto principi della Chiesa, erano chiamati a presiedere un concilio che doveva risanare le divisioni provocate dalla riforma protestante, scaturita dalle critiche di Lutero. Alleatisi nella lega di Smalcalda, principi protestanti e città imperiali giurarono di difendere la loro nuova fede sfidando l'imperatore e il papa. I protestanti aborrivano la Babilonia romana, dove regnava l'ambizione, non la fede e dove l'agire del cristiano era regolato da leggi, non dalla coscienza individuale. Molti cattolici condividevano queste opinioni e lo scisma in Germania portò alcuni di loro a radunarsi in un piccolo circolo in Italia che premeva per il rinnovamento spirituale e morale della Chiesa. Se, da una parte, aderire alle riforme significava ammettere implicitamente le critiche dei protestanti che negavano anche la legittimità stessa del primato papale; dall'altra, senza un concilio generale della Chiesa, l'eresia sarebbe dilagata. I due problemi che il concilio doveva affrontare erano dunque la riforma disciplinare e l'eresia. Gli andamenti e i risultati di questa prima fase conciliare furono fortemente condizionati dal papa e dall'imperatore, che sostenevano vedute differenti sin dall'inizio: Paolo III vedeva nel concilio un modo per restaurare l’autorità della chiesa e lanciare la lotta contro gli eretici; Carlo V, al contrario, premeva per trovare un compromesso con i protestanti che gli consentisse di salvaguardare la sua autorità in Germania (contro Francesco I di Francia per la conquista dell'egemonia europea e la minaccia dei turchi e dei corsari berberi, aveva bisogno degli uomini e del denaro che i principi tedeschi gli potevano fornire). Quest'ultimo, inoltre, voleva affrontare in primis i problemi legati ai protestanti; mentre il papa volle affrontare subito le questioni teologiche. Il concilio si aprì una prima volta a Mantova e in un secondo momento a Trento, città che rappresentava un compromesso in quanto: città italiana dal punto di vista geografico, ma situata in un territorio che fa parte del Sacro romano impero; capitale di un principato governato da un principe vescovo (garanzie adeguate sia al pontefice sia all'imperatore); vicina ai paesi di lingua tedesca (segnale di apertura). I protestanti tedeschi rifiutarono il concilio generale della Chiesa riunito sotto l'autorità papale e, nel 1546, Carlo V dichiarò la lega di Smalcalda ribelle all'imperatore. Dopo un anno di riunioni, il dissidio tra il papa e l'imperatore fece crescere la discordia tra la fazione filoimperiale (vescovi spagnoli e napoletani) e quella papale: a seguito di ciò Paolo III fece spostare la sede del concilio a Bologna, città appartenente allo Stato della Chiesa, per sfuggire all'egemonia dell'imperatore. Così si concluse la prima fase del concilio di Trento, nella quale tutti i paesi cattolici erano rappresentati, ad eccezione di Svizzera, Polonia e Ungheria, mentre neanche un solo vescovo tedesco arrivò di persona a Trento, e il cui risultato furono quattro decreti concernenti i dogmi e quattro di riforma. Il decreto sulla Sacra scrittura e la tradizione stabiliva il canone della Vulgata; i decreti sul peccato originale e sulla giustificazione fissavano le differenze tra dottrine cattoliche e protestanti; il decreto sui sacramenti definiva il concetto di sacramento stabilendo il numero di sette. A differenza dei quattro decreti dogmatici, i quattro decreti di riforma furono oggetto di dispute e i legati si trovarono tra due fuochi: da una parte, la concezione conservatrice della riforma disciplinare prevalente nella curia e tra i vescovi italiani; dall'altra, la radicale esigenza avanzata da spagnoli, francesi e da un gruppo di italiani affinché fosse infuso un nuovo spirito. Si dibatté anche sugli studi biblici, sulla predicazione e sul problema della residenza dei titolari di benefici ecclesiastici. Il dibattito più importante riguardò la dottrina della giustificazione per sola fede, grido di battaglia della Riforma luterana: basata sugli scritti di san Paolo e di sant'Agostino, questa interpretazione della salvezza, individualistica e spirituale, minava nello stesso tempo l'autorità clericale e il valore dei sacramenti cattolici. Dopo varie revisioni, i padri conciliari votarono a favore del decreto sulla giustificazione. Irritato per il trasferimento del concilio, Carlo V fece pressione sul nuovo papa Giulio III affinché fosse riportato a Trento; convinse, inoltre, tre arcivescovi tedeschi e i protestanti a prendervi parte. I padri conciliari ripresero la discussione teologica sull'eucaristia ed emanarono un canone che affermava la dottrina della transustanziazione, cioè la trasformazione del pane e del vino durante la messa nel corpo e nel sangue di Cristo. Dal momento che questa costituiva una delle maggiori divergenze dottrinali tra protestanti e cattolici, la sua proclamazione effettuata ancor prima dell'arrivo dei protestanti non lasciò spazio a nessun compromesso. La seconda fase del concilio segnò la rottura definitiva tra cattolicesimo e protestantesimo. Inoltre, nel 1555, alla dieta di Augusta, Ferdinando ammise la propria sconfitta in Germania e riconobbe legalmente la confessione luterana nell'impero. Nel 1560 la situazione in Europa appariva cambiata: alla rivalità tra l'imperatore e il papa si era sostituito un panorama politico più complesso. Le quattro potenze che giocarono un ruolo cruciale in questa fase conclusiva furono: Spagna, Francia, Sacro romano impero e papato. Gli Asburgo e i Valois conclusero nel 1559 il trattato di Cateau-Cambrésis ristabilendo la pace nella cristianità, ma un nuovo movimento protestante, ispirato all'insegnamento di Giovanni Calvino, stava raccogliendo sostegno in tutta Europa, in particolare in Francia. Allarmato da ciò, papa Pio IV decise di riconvocare il concilio. Lo scontro tra lo schieramento episcopale e quello curiale divampò ancora una volta sulla questione dello consacrazione: i teologi spagnoli sostenevano che i vescovi erano ordinati per diritto divino; il partito curiale obiettava che questa formulazione del diritto divino dei vescovi sminuiva l'autorità papale. Nel 1563, l'imperatore, in una lettera al papa, manifestò la sua ansietà per il fatto che vi fossero due concili, uno a Trento e l'altro alla curia romana dove i cardinali sabotavano qualsiasi proposta di riforma. Sotto la guida del nuovo presidente del concilio, il cardinale Morone, il concilio tornò a nuova vita: secondo quest'ultimo il compito del concilio doveva essere la riforma delle membra Sulla questione delle donne si può dire che lo status familiare condizionava fortemente la religiosità femminile: tra le famiglie delle élite le giovani frequentavano scuole prestigiose sino alla pubertà; il convento procurava anche un asilo per mogli maltrattate, se di buona condizione sociale; alle fanciulle e alle donne dei ceti inferiori, le orsoline offrivano una vita religiosa commisurata ai loro mezzi finanziari. A metà Cinquecento l'Europa cattolica iniziò a dividere le donne in stati: vergini, sposate, mogli infelici, donne pubbliche, prostitute ravvedute e vedove. Per quanto riguarda la santità di coppia, la cooperazione tra uomini e donne era indispensabile per il successo dei nuovi ordini religiosi femminili. La santità generata fa riferimento alla castità: rafforzando il celibato del clero come uno dei suoi compiti primari, la Chiesa della Controriforma pose la castità al di sopra di tutti gli altri attributi della religiosità femminile. Per salvaguardare la castità, ai conventi urbani fu applicata la clausura e quelli rurali si spostarono entro le mura cittadine. All'interno dei conventi di clausura fiorì il misticismo: il ristretto spazio del monachesimo femminile incoraggiava una più inflessibile disciplina del corpo (digiuni, flagellazioni, ecc), mentre alimentava una vivace vita dell'anima, in quanto le visioni mistiche consentivano di sperimentare spazi infiniti. [Due ragioni erano quindi alla base della riforma dei monasteri femminili dopo il concilio di Trento: la gerarchia ecclesiastica mirava a una più rigida clausura delle monache per proteggerle dalle tentazioni del mondo; le famiglie dei ceti superiori cercavano di preservare il loro patrimonio sistemando le figlie in soprannumero nei monasteri.] Il rinnovamento cattolico cinquecentesco vide prendere forma a un controllo maschile della religiosità femminile molto più rigido. Le carmelitane scalze, ordine caratterizzato da stretta clausura e ascetismo, furono fondate da santa Teresa d'Avila, la quale divenne l’incarnazione dell’ideale femminile religioso, provvedendo a rendere invisibili le donne nei monasteri di clausura riformati. Le angeliche di san Paolo, fondate a Milano nel 1535 come ordine non sottoposto alla clausura, esemplificarono nella loro trasformazione la più ampia storia della religiosità femminile nell'Europa cattolica. In quanto ramo dell'ordine dei barnabiti, le prime angeliche comprendevano donne di diversa provenienza sociale. Dediti entrambi a una vita pia, le angeliche si mescolarono con i barnabiti: assieme discutevano argomenti spirituali, esaminavano le coscienze e si umiliavano in pubbliche processioni penitenziali. Nel 1536 furono, però, indagati dall'Inquisizione e tra il 1551 e 1552 i due ordini furono separati e le angeliche messe in clausura. Dopo l'imposizione della clausura furono introdotte delle divisioni sociali tra le sorelle laiche provenienti da famiglie umili e le monache nobili. La Compagnia di sant'Orsola, fondata nel 1532 da Angela Merici nei pressi di Brescia, riuscì a sfuggire alla clausura. Essa si sviluppò in una comunità urbana dove confraternite miste laico- clericali si dedicavano agli ospedali, orfanotrofi e ricoveri per prostitute. Grazie alle umili origini delle prime orsoline, riuscirono a resistere al tentativo di trasformare l'ordine in un monastero di clausura. Nel 1556 divennero una compagnia femminile affiliata ai padri della Compagnia della pace: nonostante l'obbedienza all'autorità religiosa maschile, le orsoline ottennero un maggior riconoscimento ecclesiastico e le dimensioni della Compagnia crebbero rapidamente. Riuscirono persino a guadagnarsi l'appoggio dell'arcivescovo Borromeo, che affidò loro l'insegnamento del catechismo alle fanciulle a Milano. [In questa prima fase di sviluppo in Italia, le orsoline, fornendo un'istituzione religiosa per donne di modesta provenienza sociale che vivevano in comunità non sottomesse alla clausura, rappresentarono la controparte sociale dei conventi tradizionali.] Da Milano il movimento si diffuse ad Avignone, dal quale nuove fondazioni si sparsero in Francia durante il Seicento: a Bordeaux le orsoline adottarono le regole dei gesuiti e divennero la casa madre di nuove comunità in Belgio e in Germania; a Parigi l'ordine assunse un carattere aristocratico sotto la direzione di due nobili vedove che si erano attivamente impegnate nell'introduzione in Francia delle carmelitane scalze. Affinché le fondatrici di nuovi ordini religiosi femminili conquistassero l'approvazione della Chiesa, erano necessarie tre regole: il sostegno di chierici maschi, l'esercizio della pietà senza alcuna pretesa di potere e il rango sociale. Tra le donne imitatrici dei gesuiti, l'inglese Mary Ward arrivò vicina a infrangere queste regole. L'idea di fondare un nuovo ordine religioso, ossia quello delle "damigelle inglesi", le fu suggerita da una visione, ma il suo desiderio di "prendere il medesimo sentiero della Compagnia" fu contrastato dagli stessi gesuiti. Ciononostante, nel 1611 la Ward e le sue compagne istituirono un ordine insegnante per fanciulle cattoliche inglesi in esilio sul continente, adottando le regole educative dei gesuiti e conquistando l'approvazione papale nel 1616. Nel 1621 la Ward si recò a Roma dove fu ricevuta da papa Gregorio XV e da Vitelleschi, generale dei gesuiti, che le rifiutò l'uso del nome della Compagnia. La sua indipendenza condusse alla soppressione delle case italiane nel 1625, ma la Ward fondò comunità a Monaco, Vienna, Presburgo e Praga. Nel 1631 fu imprigionata per due mesi a Monaco su ordine dell'Inquisizione e, dopo il suo rilascio, abbandonò l'idea di un ordine di gesuitesse e trasformò le case in comunità secolari dedite all'istruzione delle fanciulle. Le visitandine o suore della Visitazione furono fondate nel 1610 ad Annecy da Francesco di Sales, vescovo di Ginevra, assieme a Jeanne Françoise de Chantal. Nel 1618, nonostante i negoziati di Sales con Roma e la strenua opposizione della de Chantal, non poterono sfuggire alla clausura. Capitolo 3: La Chiesa trionfante La Chiesa trionfante (Portogallo, Spagna e Italia) teneva a bada il contagio protestante diffondendo l'obbedienza cattolica in Africa, in Asia e nelle Americhe attraverso esplorazioni, conquiste e missioni. Una differenza di stile distingueva il rinnovamento cattolico italiano e iberico: quello italiano pareva ispirare una maggior dedizione alla carità offrendo aiuto ai poveri, orfani e donne bisognose; quello iberico, caratterizzato dalla repressione, sembrava rendere più rigidi i confini della fede. I missionari cattolici nella Cina del Seicento descrivevano la "gentilezza" italiana in contrasto con l'inflessibilità spagnola. Un'importante caratteristica che distingueva gli imperi ispano-portoghese e l'Italia dagli altri paesi cattolici era l'Inquisizione. Il Portogallo Il Portogallo, in quanto governato da una dinastia e da una nobiltà che dominavano la Chiesa, fu uno dei primi stati ad accettare i decreti conciliari. Fino alla rivolta del 1640 contro la Spagna, per mezzo della quale i portoghesi riacquistarono un dinastia autoctona, i due stati iberici erano uniti da stretti legami religiosi. In Portogallo il cattolicesimo assunse tre caratteristiche particolari: in primo luogo, il forte senso imperialistico della nazione alimentò una corrente sotterranea di messianismo e di millenarismo dal 1550 fino alla fine del Seicento; in secondo luogo, la persecuzione degli ebrei convertiti tenne occupata l'energia repressiva dell'Inquisizione e del rinnovamento cattolico per la maggior parte dei due secoli; infine, i gesuiti portoghesi, autentica incarnazione di quel rinnovamento, furono cacciati e annientati dal governo poco dopo la metà del Settecento. I movimenti messianici emergono a intervalli nella storia del cristianesimo. I sogni messianico- millenaristici derivavano dalla missione del Portogallo come nazione che doveva portare il cristianesimo al mondo non cristiano. La morte del re crociato Sebastiano nel 1578 fece sorgere il mito di un futuro sovrano messianico che avrebbe diffuso ovunque la fede cattolica e la pace. Nel periodo dell'unione dinastica questo messianismo, detto "sebastianesimo", alimentò sentimenti antispagnoli. L'Inquisizione, istituita nel 1547, operò in modo da proteggere il paese dai nemici interni, i "giudaizzanti", e da quelli esterni, i protestanti (la vasta maggioranza dei casi esaminati dal Sant'Uffizio riguardava i primi). Organizzata in modo simile a quella spagnola, l'Inquisizione portoghese era diretta al vertice da un Consiglio generale e si articolava in quattro tribunali regionali: Lisbona (con giurisdizione anche in Brasile e nelle isole atlantiche), Coimbra, Évora e Gôa (che copriva tutto l'oriente portoghese). Inquisizione e visite episcopali divennero due istituzioni complementari: mentre i "nuovi cristiani" (conversos o marranos) rappresentavano l'80% delle vittime dell'Inquisizione, i "vecchi cristiani" costituivano più del 95% degli accusati in occasione delle visite diocesane. Tra i reati di competenza dell'autorità episcopale c'erano la bestemmia, i peccati sessuali e la magia. Per quanto riguarda la Compagnia di Gesù, appoggiata sin dall'inizio dalla monarchia, si diffuse rapidamente in Portogallo. La provincia portoghese assunse una funzione importante nell'iniziativa cattolica poiché il papa aveva posto tutte le missioni in Asia sotto il padroado portoghese e i gesuiti coprivano il ruolo principale nelle missioni religiose. Il successo procurò loro molti nemici - tra cui anche l'Inquisizione - ma ebbero il peggior avversario nel marchese di Pombal, che individuò nella Compagnia l'ostacolo principale all'affermazione dell'assolutismo illuminato: nel 1759 espulse millesettecento gesuiti dai domini portoghesi e ruppe i rapporti diplomatici con la Santa Sede. La sua iniziativa, nel nome di un cattolicesimo illuminato antipapale, chiuse la storia della Controriforma in Portogallo e segnò la fine del rinnovamento cattolico. La Spagna I vescovi spagnoli capeggiarono il partito riformatore al concilio di Trento opponendosi ai sostenitori della curia romana, che ai loro occhi difendevano più i privilegi che il fervore cattolico. Nel 1632 fu istituita a Madrid una commissione sugli abusi della Santa Sede: la Chiesa spagnola si sentiva superiore al papato, soggetto alla decadenza morale. I tre aspetti fondamentali del cattolicesimo spagnolo sono: in primo luogo, l'immagine della monarchia spagnola che si considerava la più sicura paladina della fede; in secondo luogo, il campo d'azione dell'Inquisizione; in terzo luogo, la legittimità di entrambe le istituzioni, indiscussa per la maggioranza della popolazione, la quale giunse a interpretare l'ispanicità come la perfetta forma di cattolicesimo. Nel 1564 Filippo II fece promulgare i decreti tridentini nei suoi domini e nel 1565 esortò i vescovi a tenere concili provinciali e diocesani, allo scopo di portare avanti le riforme. Filippo II governò anche come una sorta di papa re al quale il pontefice aveva accordato il diritto di nominare tutti i vescovi e capi degli ordini religiosi in Spagna. Egli era raramente deferente verso i pontefici, ma sosteneva anche il papa nella difesa delle frontiere del cattolicesimo contro protestanti e musulmani: all'estero distribuiva truppe e denaro spagnoli per combattere in difesa della fede cattolica; in patria promosse la duplice causa del centralismo monarchico e della riforma cattolica soffocando una rivolta dei mori a Granada (1568-78) e costruendo per sé un palazzo che era anche un monastero. Per promuovere la doppia causa della centralizzazione monarchica e della riforma cattolica i re spagnoli si servivano dell'Inquisizione: creata dal papato nel Medioevo per combattere l'eresia, venne riconosciuta come istituzione solo nel 1483, quando il papa ne concesse la giurisdizione ai re cattolici. La sua missione originaria era la lotta all'apostasia dei conversos (cristiani d'ascendenza ebraica), i quali, spesso detentori di posizioni di privilegio e di ricchezza, suscitavano ampio risentimento. Insieme con gli statuti della "purezza del sangue" (limpieza de sangre) che fissavano il requisito della discendenza non ebraica per l'accesso a cariche ecclesiastiche e civili, l'Inquisizione contribuì all'esclusione di una minoranza dalla piena partecipazione alla vita civile e religiosa. Gli statuti della purezza del sangue furono avversati da alcune istituzioni spagnole, in particolare i gesuiti e i carmelitani scalzi; nella pratica il loro rigore fu spesso aggirato attraverso l'elaborazione di false genealogie e matrimoni misti tra conversos e vecchi cristiani. Dopo la campagna iniziale contro i conversos, le persecuzioni aumentarono dal 1540 prendendo di mira nuovi bersagli: alumbrados, protestanti e moriscos. Tra il 1540 e il 1700 l'Inquisizione spagnola processò e condannò 50mila persone. Mentre "giudaizzanti", moriscos, protestanti e alumbrados rappresentavano i più pericolosi nemici del cattolicesimo spagnolo, la maggior parte dei processi del Sant'Uffizio riguardava offese minori contro la fede perpetrate da vecchi cristiani, che potevano lingua francese, e le province meridionali fedeli agli Asburgo che avevano mantenuto la lingua e i caratteri locali. Mentre le province settentrionali si distaccarono per formare un'unità politica protestante indipendente, quelle meridionali acquisirono una forte identità cattolica. Il successo dei gesuiti belgi è indizio tangibile del progresso del rinnovamento cattolico: tra il Cinquecento e gli inizi del Settecento il clero rappresentò la sola porzione in crescita della popolazione; negli anni sessanta del Seicento circa un sesto della popolazione di Anversa, la più grande città del Belgio, faceva parte di confraternite; nell'insegnare la dottrina cristiana ai giovani, il governo centrale collaborò con le autorità locali e il clero. Gli stessi arciduchi, Alberto e sua moglie Isabella, furono protettori dei nuovi ordini regolari della Controriforma, appoggiando gesuiti, cappuccini e recolletti, introducendo dalla Spagna i carmelitani scalzi e mantenendo a corte un confessore carmelitano e predicatori gesuiti. Isabella, in particolare, fu molto attiva nel promuovere i nuovi ordini regolari femminili. In materia di fede, si mostrarono pronti nel disciplinare il clero e il laicato recalcitranti: dalla corte arciducale alle magistrature locali furono diramate ordinanze contro il concubinato dei chierici, l'eresia protestante, la bestemmia, la stregoneria, l'infanticidio e i delitti sessuali. Sovraccaricato di energia religiosa, il Belgio divenne un paese d'esportazione del rinnovamento cattolico: da qui molti giovani diventarono missionari in Olanda, nell'America spagnola e in Cina. La Francia La lotta tra protestanti e cattolici in Francia rifletté tutti gli orrori della guerra civile. A partire dall'ascesa al trono di Luigi XIII e dall'egemonia del suo favorito, il cardinale Richelieu, la politica monarchica e la causa della Controriforma avanzarono di pari passo. L'episcopato francese si era dichiarato indipendente da Roma sin dal Trecento e l'ideologia gallicana guardava alla monarchia come alla maggiore sostenitrice degli interessi specifici della Chiesa francese. I difensori del gallicanesimo individuarono due fronti nemici: la minoranza ugonotta in patria e gli ultramontani, partigiani di Roma e del papato, che abbracciavano un cattolicesimo militante. La battaglia contro questi occupò la monarchia francese a partire dagli anni trenta del Seicento. Durante le guerre di religione, la Lega cattolica militante si alleò alla Spagna, nemica tradizionale. Non tutti i cattolici accettarono la conversione di Enrico IV, il cui assassinio da parte di un ex studente dei gesuiti nel 1610 screditò il cattolicesimo militante. L'opposizione cattolica al "cristianissimo" re Luigi XIII e al cardinale Richelieu si consolidò durante gli anni venti e trenta del Seicento, appoggiando gli alleati protestanti contro la Spagna cattolica. L'opposizione a Richelieu, coalizzata intorno a Maria de' Medici, chiedeva la formazione di un fronte controriformistico contro tutti i protestanti. Questo schieramento d'opposizione, detto partito dei "devoti", si disgregò quando il cardinale-ministro consolidò il proprio potere. La politica di Richelieu conseguì brillanti risultati: identificando la fedeltà alla monarchia con il cattolicesimo, la corte definì i termini entro i quali la minoranza calvinista doveva dimostrare la propria lealtà. Poste di fronte alla scelta tra lealtà contrapposte, molte comunità protestanti restarono neutrali durante la ribellione di Rohan. Alcuni si convertirono al cattolicesimo sottomettendosi al re. Con lo scoppio della guerra civile inglese e l'esecuzione di re Carlo I da parte di un parlamento protestante, ribellione e calvinismo divennero più strettamente legati agli occhi dei francesi, anche se le comunità ugonotte dimostrarono la loro lealtà verso la corona all'epoca della Fronda. I decreti e i canoni del concilio di Trento non furono mai ufficialmente recepiti nel regno di Francia; il parlamento di Parigi e altri oppositori delle prerogative papali consideravano tali provvedimenti lesivi delle libertà gallicane. In contrasto con il regno di Francia, il ducato di Lorena e l'enclave papale della Provenza prestarono obbedienza a Roma e alla riforma tridentina. Sul piano sociale i protestanti annoveravano le élite giudiziarie, mercantili e artigianali, mentre i cattolici erano distribuiti tra la piccola nobiltà e i contadini. Anthime Denis Cohon, due volte vescovo di Nîmes, legato da rapporti clientelari a Richelieu, incarnò un fenomeno tipicamente francese: il vescovo riformatore politicamente impegnato. Egli fece edificare una cappella reale nella cattedrale, decorandola con i simboli delle autorità regia e cattolica. Vescovo residente, imitò Carlo Borromeo nel portare avanti le riforme diocesane. Sotto il governo di Richelieu e di Mazzarino la monarchia francese preferì adottare verso la minoranza protestante un atteggiamento di persuasione attraverso le missioni cappuccine e gesuite. La riforma cattolica fece lenti progressi a Nîmes: continuarono le conversioni al protestantesimo e i matrimoni misti, nonostante la più restrittiva interpretazione dell'editto di Nantes da parte di Luigi XIV. Queste restrizioni culminarono nelle conversioni forzate del 1679, seguite da una campagna missionaria che si concluse nel 1685 con la revoca dell'editto di tolleranza. Il protestantesimo in Linguadoca sopravvisse in parte grazie alla sua coesione interna, in parte grazie alla debolezza della riforma cattolica. Il rinnovamento cattolico prese una strada differente nella diocesi di Chartres, più vicina alla capitale. Tra il 1620 e il 1650 una serie di visite diocesane riuscì a produrre un clero più sobrio e rispettoso dell'obbligo del celibato. Nella seconda metà del secolo fu il turno dei laici: i decreti sinodali condannarono i matrimoni clandestini, regolarono le confraternite e in generale incoraggiarono il popolo a praticare un cattolicesimo tridentino purificato. Rinnovamento cattolico e restaurazione dell'autorità regia divennero sinonimi in Francia: l'episcopato francese, infatti, dipendeva dal potere regio per combattere il protestantesimo e promuovere la riforma cattolica. Questa dipendenza era accentuata dal patronage regio, dal momento che quasi tutti gli abati e vescovi erano clienti del re o potenti cortigiani. Germania, Austria e Boemia Alla fine del Cinquecento pareva che la Riforma avesse inondato il Sacro romano impero: per quanto riguarda le città rappresentate nella dieta imperiale, meno di un terzo rimase cattolico. Nell'Europa centrale le norme tridentine cominciarono ad affermarsi all'inizio del Seicento e la maggior parte dei provvedimenti produsse risultati solo nel Settecento. Il primo impulso venne dalle file di un patriziato cattolico ancora fedele alla tradizione: Johannes Gropper, canonico a Colonia e membro del patriziato, si oppose ai candidati protestanti in occasione dell'elezione dell'arcivescovo e introdusse i gesuiti, che fecero di Colonia la prima e la più solida delle loro fortezze tedesche. La forza intrinseca del protestantesimo costituiva soltanto una parte del problema: una strenua resistenza alle riforme era opposta dal cattolicesimo tradizionale, che difendeva i privilegi corporativi e le pratiche devozionali. Al pari della Chiesa gallicana, la Chiesa imperiale rappresentava gli interessi della nobiltà e del patriziato considerando i benefici alla stregua di patrimoni familiari. Il risultato fu che la riforma del clero delineata a Trento rimase lettera morta: il concubinato dei chierici persisté sino agli inizi del Seicento; il cumulo dei benefici rimase una pratica comune anche tra vescovi devoti alla riforma cattolica; i decreti tridentini furono pubblicati a Colonia solo nel 1612; i pochi seminari eretti nel Seicento mancavano di fondi sufficienti e di studenti. Interessi dinastici e confessionali s'intrecciarono in Baviera e in Austria. Di fronte all'opposizione dei nobili protestanti il duca Alberto V soppresse le libertà aristocratiche imponendo un programma di radicamento dell'obbedienza cattolica e di centralizzazione politica. Un consiglio di ecclesiastici istituito nel 1570 controllava e disciplinava il clero; i gesuiti fondarono collegi, assunsero la gestione delle università e addestrarono le generazioni successive di burocrati e di ecclesiastici. Essere cattolico divenne quindi il requisito necessario per l'ascesa sociale. Intorno ai Wittelsbach crebbe un culto dinastico che dipingeva i principi come morali, pii e cattolici che li portò, nel 1585, ad assumere il controllo dei vescovadi settentrionali (Colonia, Liegi, Münster) introducendo il modello bavarese anche in quei territori. L'immagine del principe cattolico fu portata all'estremo grado di perfezione dalla propaganda austriaca degli Asburgo: legata a una leggenda miracolosa, questa pietas austriaca fu trasformata in obbedienza verso le istituzioni imperiali e in lealtà alla dinastia. Sviluppata alla perfezione sotto l'arciduca Ferdinando di Stiria, poi imperatore Ferdinando II, quest'immagine indebolì la determinazione dei nobili protestanti che si opponevano. Sotto Ferdinando, prima la Stiria, poi le altre terre austriache furono liberate dai protestanti: i pochi resistenti, di fronte alla scelta tra la conversione e l'esilio, furono schiacciati con l'uso delle armi. L'unica sfida seria per Ferdinando fu rappresentata da una sollevazione nell'Austria superiore nel 1619, nella quale la nobiltà protestante, contraria a un sovrano cattolico, fu sconfitta nello scontro tra eserciti nella battaglia alla Montagna Bianca. Nel 1624 la cittadinanza urbana fu ristretta ai cattolici e nel 1627 alle famiglie della nobiltà furono concessi sei mesi per convertirsi o emigrare. Tali drastiche misure crearono l'immagine della tirannia cattolico-asburgica, oscurando gli sforzi più moderati di rinnovamento del cattolicesimo attraverso la fondazione di collegi gesuiti. Nel cuore dell'impero il cattolicesimo guadagnò terreno più per mezzo della protezione e della persuasione: la corte imperiale di Vienna riuscì a estendere il proprio patronage e per tutto un secolo dopo il 1613 i principi protestanti si convertirono uno dopo l'altro al cattolicesimo alla ricerca di territori, titoli, uffici o identità. La Compagnia di Gesù, addestrando un nuovo genere di chierici e di burocratici nei loro tanti collegi e nel Collegio Germanico di Roma, costituiva una delle forze principali della restaurazione cattolica nell'Europa centrale. Dietro l'ondata gesuitica si nascondeva un'importante trasformazione sociale: l'élite mercantile del Cinquecento fu lentamente trasformata in una classe dirigente giudiziaria detentrice di uffici. C'erano inconfondibili segni di rinnovamento cattolico tra la popolazione anche senza la coercizione e la disciplina: nei primi decenni del Seicento ritornarono in auge i pellegrinaggi. Nella Germania meridionale la gente comune imitava la pietà dei governanti: il santuario ad Altötting, luogo centrale della pietà dei Wittelsbach e degli Asburgo nel Seicento, divenne una meta popolare nel Settecento. Capitolo 5: La Chiesa martire Nell'Europa nordoccidentale governata da regimi protestanti, il cattolicesimo era bandito, perseguitato e represso. L'Inghilterra Morendo Enrico VIII Tudor (1547) aveva lasciato il caos nel Paese, soprattutto in campo religioso. Egli aveva fondato una Chiesa Anglicana che non era protestante perché riconosceva tutti i dogmi di quella cattolica e non era cattolica perché respingeva il primato del Papa e lo attribuiva al Re. Il figlio Edoardo VI, protestante, perseguitò i cattolici, ma morì presto e senza eredi. La sorellastra Maria, cattolica, perseguitò i protestanti (per questo soprannominata Maria la Sanguinaria), ma anche il suo regno durò poco. A succederle sul trono fu la sorellastra Elisabetta, al potere dal 1558 al 1603, e con la quale si infranse ogni speranza di una restaurazione cattolica in Inghilterra. Il cattolicesimo inglese divenne nel corso del Seicento una minoranza religiosa in cui era predominante la gentry. La storia del cattolicesimo nell'Inghilterra dell'età moderna può essere divisa in tre periodi: una fase iniziale, dal 1560 al 1620, contrassegnata dall'espansione, dalle persecuzioni, dal martirio e da uno slancio eccezionale; un periodo centrale di stabilità seguito da un declino fra il 1630 e il 1700, e infine un periodo di recupero e assestamento settecentesco che nell'Ottocento portò alla fine della discriminazione. La ferocia delle persecuzioni rifletteva la profonda insicurezza della regina (religiosamente indifferente) e dei suoi consiglieri (protestanti) di fronte alla ribellione interna e alle invasioni straniere: nel 1569 Elisabetta dovette fronteggiare una ribellione cattolica, nota come la “ribellione del Nord”, sotto il duca di Northumbria; nel 1570 papa Pio V aiutò la ribellione cattolica scomunicando la regina e dichiarandola deposta; nel 1580 papa Gregorio XIII finanziò dei piani d'invasione e assassinio; nel decennio successivo la Spagna e l’Inghilterra si scontrarono nei Paesi Bassi (le 7 Province Unite del Nord di religione calvinista), sostenuti dall'Inghilterra che, nel 1588, fronteggiò un’invasione spagnola sconfiggendo l’Invincibile Armata. Considerati potenziali traditori, i cattolici inglesi dovettero far fronte a una selvaggia repressione. Tra la prima esecuzione nel 1577 e la morte di Elisabetta nel 1603 il regime giustiziò 183 cattolici (soprattutto preti) e ne imprigionò, torturò e deportò un numero ancor maggiore. Così come era in cambio dell'obbedienza; dall’altro il sogno di una piena restaurazione cattolica, dell’estirpazione del protestantesimo e dell’abolizione degli insediamenti inglesi. La disunione persisté anche durante la ribellione del 1641. Furono le armi a decidere le sorti della causa religiosa. I massacri dei protestanti inglesi da parte degli irlandesi durante le prime fasi della rivolta alimentarono la leggenda della crudeltà cattolica. L’esercito vittorioso di Oliver Cromwell condusse rappresaglie selvagge e il Commonwealth confiscò le terre di molti cattolici (sia Old Irish che Old English). Duramente colpito, il cattolicesimo in Irlanda ebbe un lento recupero dopo la restaurazione, negli anni sessanta del Seicento. L'Ungheria La battaglia di Mohacs (1526) tra il sultano Solimano il Magnifico e il re Luigi II non solo distrusse le élite politiche della nazione ungherese, ma decapitò anche le gerarchie cattoliche: insieme al loro re, morirono anche sei vescovi ungheresi (metà dei prelati del regno). Con la morte di Luigi II, la corona passò agli Asburgo e l'Ungheria venne divisa in tre parti: ad ovest e a nord, la cosiddetta "Ungheria Reale", controllata dagli Asburgo; ad est il principato di Transilvania e a sud l'Ungheria ottomana. Così spartita, l'Ungheria cessò di essere uno stato indipendente fino al 1918. L’episcopato cattolico così indebolito non poteva resistere alla Riforma protestante: mentre la Riforma Luterana guadagnò adepti tra i coloni tedeschi della Transilvania e dell’Ungheria superiore, la seconda ondata della riforma calvinista provocò molte conversioni tra i nobili ungheresi (i più eminenti furono i principi di Transilvania). In mezzo a una moltitudine di confessioni protestanti e sette minori, la Chiesa cattolica combatté per mantenere la sua tenue presenza in tutte e tre le regioni dell’Ungheria: in Transilvania il cattolicesimo rappresentò una minoranza religiosa tollerata; nell’Ungheria ottomana le autorità musulmane favorirono i protestanti, guardando i cattolici con sospetto per il fatto di condividere la religione con il nemico, cioè con gli Asburgo; nella monarchia ungherese sotto gli Asburgo, il rinnovamento cattolico passò in secondo piano rispetto all’urgenza della guerra contro gli Ottomani ed ebbe inizio solo agli inizi del Seicento. Nell’Ungheria ottomana e in Transilvania i governanti espropriarono le terre della Chiesa su larga scala. Perfino nella cattolica monarchia ungherese la Chiesa non fu risparmiata. Agli inizi del Seicento ebbe inizio un lungo processo di rinnovamento cattolico che – centrato sulla monarchia ungherese – condivise molte caratteristiche con la Controriforma in atto nelle altre terre degli Asburgo: protetto dai governanti asburgici e dagli alti ufficiali e promosso da gesuiti, francescani e vescovi, il cattolicesimo lottò per l'espansione in una terra dominata dai protestanti. Per riportare gli ungheresi (protestanti) al cattolicesimo, missionari gesuiti e francescani di varie nazioni (ungheresi, tedeschi, polacchi e italiani) cercarono di spostare l’equilibrio confessionale in favore di Roma. Nel frattempo, le fila ecclesiastiche ungheresi erano riempite da un nuovo clero di ritorno dal Collegio gesuitico tedesco e ungherese di Roma. Per il trionfo finale del cattolicesimo fu molto importante anche la vittoria dell’esercito asburgico sui nemici transilvani e ottomani nel corso del Seicento. Con l’annessione della Transilvania e la sconfitta finale degli Ottomani nell’ultimo decennio del Seicento, la Controriforma asburgica si estese alla riunificata Ungheria (con la pace di Carlowitz del 1699 l’Impero Asburgico recuperava Ungheria, Transilvania, Croazia e Slavonia). La combinazione di persuasione e repressione non riuscì a sradicare interamente il protestantesimo, ma stabilì la supremazia della Chiesa cattolica, consentendo nel ‘700 una seconda ondata di missioni cattoliche tra la popolazione rurale. Fino al 1690 il cattolicesimo riuscì a sopravvivere anche in altri modi nell’Ungheria turca, zone che Roma considerava terre perdute. Sostenuti dalla Congregazione per la Propaganda della fede, creata nel 1622, i missionari aiutarono la minoranza cattolica fino a che l’area non fu annessa nell’Impero Asburgico. I missionari più attivi furono i francescani bosniaci, che erano spesso in relazioni strette con le autorità locali ottomane. L’inizio della Luna Guerra nel 1683 portò a dei cambiamenti. I francescani bosniaci accolsero gli eserciti cristiani e li incoraggiavano a ribellarsi contro il governo turco. I turchi si rifecero sui francescani bosniaci distruggendo la maggior parte dei conventi e costringendo i frati a fuggire. Al tempo della pace di Carlowitz erano rimasti in Bosnia solo cinque conventi. Con il ritorno dell'organizzazione della Chiesa cattolica - che era sopravvissuta in esilio nella monarchia ungherese - i frati bosniaci furono considerati come residui di un'epoca ottomana passata. Tuttavia, essi avevano giocato un ruolo indispensabile nel mantenere ungheresi, slavi del sud e rumeni all'interno del cattolicesimo romano. Capitolo 6: La curia papale Nel corso del concilio di Trento i sostenitori del pontefice circoscrissero le riforme alle "membra" della Chiesa, lasciando la riforma del "capo" allo stesso pontefice; ma quella riforma tardò. Mentre il clima morale della curia romana dopo Trento diveniva più ascetico e pio, sul piano istituzionale esisteva una notevole continuità tra il papato rinascimentale (1300-1500) e quello barocco (1600). Due furono le linee di tendenza principali: la trasformazione del papato in monarchia assoluta, con potenziamento della corte papale e amministrazione più centralistica dello Stato pontificio; la mescolanza di governo temporale e spirituale che rifletteva la compresenza dei due, talvolta contraddittori, del pontefice, a un tempo principe di uno stato italiano e supremo pastore della Chiesa universale. Tra il 1540 e il 1770 ventinove uomini divennero papi: erano tutti italiani e provenivano soprattutto dall’Italia centro-settentrionale. Mentre i papi della prima età moderna provenivano da differenti ambienti sociali, in seguito solo due furono di umili origini; gli altri discendevano da famiglie delle élite di governo o dalle file del patriziato urbano (banchieri, giuristi, mercanti, ecc). I soli due papi di umili origini, Pio V, che si distinse per la sua attività a capo dell'Inquisizione romana, e Sisto V, furono eletti all’indomani del Concilio di Trento e incarnarono lo spirito della Controriforma. Dopo il 1590 (dopo Sisto V), tuttavia, il papato divenne prerogativa esclusiva dei ceti dirigenti italiani. La maggior parte dei papi aveva una formazione giuridica: 19 papi furono dottori in diritto canonico e civile, 5 furono uomini di lettere e 3 teologi. La prevalenza di giuristi è riconducibile al fatto che i papi dell’età barocca erano solitamente scelti trai i membri del clero secolare, formati nel diritto canonico. Solo 4 dei 29 pontefici appartenevano a ordini religiosi: Paolo IV era stato uno dei fondatori dei teatini; Pio V e Benedetto XIII erano domenicani; Sisto V francescano. Alla base di molte elezioni al pontificato vi erano storie di successi familiari: il raggiungimento della suprema carica ecclesiastica veniva costruito sull’accumulazione di ricchezza, sulla tessitura di relazioni sociali e sull'investimento finanziario negli uffici, sostenuti da diversi parenti. Quando un individuo diveniva papa, ci si aspettava che ciò avrebbe suggellato la fortuna della famiglia grazie a doni e favori. Il fenomeno del nepotismo sopravvisse al riformismo tridentino per più di un secolo. La curia papale servì come mezzo d'ascesa sociale e i Borghese, che si trasformarono da élite urbana familiare di rinomanza locale in uno dei principali clan aristocratici dell'Italia moderna, ne costituirono il maggior esempio. Il loro passaggio dal ceto urbano professionale alla nobiltà terriera si realizzò in due generazioni e trovò coronamento nell'elezione di Camillo Borghese con il nome di Paolo V nel 1605. La loro ascesa mostra l'importanza del patronage: come tutti gli stati dell'età moderna, anche il papato funzionava sulla base di questo per quanto riguardava l’articolazione del potere e la distribuzione degli uffici. L’elemento fondamentale di questo sistema era l'istituzione del cardinal nipote. Dal momento che il Papa riuniva nella propria persona sia il potere spirituale che quello temporale, accadeva che molti pontefici non possedessero le qualità necessarie per l’esercizio del potere politico. I papi avevano dunque bisogno di consiglieri politici di fiducia che trovavano tra i loro parenti. La figura del cardinal nipote, inizialmente necessaria, ben presto divenne dannosa per il prestigio dello stesso papato durante il pontificato di Alessandro VI (1492-1503) quando il figlio Cesare Borgia fu l’ispiratore del Principe, il trattato di Machiavelli sull’esercizio del potere. Clemente VII (1523-1534), cugino di Leone X de’ Medici, fu l’ultimo cardinal nipote eletto al pontificato. Con il concilio di Trento si instaurò un nuovo clima. Il cardinal nipote si comportava come un vicepapa: decideva la politica estera, dirigeva la Segreteria di stato, era in contatto epistolare con tutti i nunzi e, dopo la creazione delle congregazioni cardinalizie nel 1588, sovrintendeva anche l’amministrazione papale in espansione. Un cardinal nipote di notevole importanza che si distinse per la propria attività e che rivestì il ruolo di vescovo esemplare della Controriforma fu Carlo Borromeo, elevato dallo zio Pio IV alla porpora in giovane età. Tuttavia la limitata permanenza nella carica del cardinal nipote, il cui potere declinava alla morte del Papa regnante, imponeva una logica politica familiare che metteva in pericolo le riforme, conducendo all’accumulazione frenetica di benefici durante il regno del pontefice per la redistribuzione ai parenti. Per le élite clericali, c'era poca differenza tra proprietà della Chiesa e proprietà familiari: per mezzo del nepotismo le enormi risorse dello Stato pontificio diventarono un patrimonio destinato alla parziale ridistribuzione tra le famiglie in ascesa (attraverso l’esenzione dalle tasse, il cumulo di benefici, i doni e le assegnazioni di uffici) che, a loro volta, con l’avido acquisto di titolo e terre vennero a formare un nuova nobiltà. Dopo il concilio di Trento, i vari tentativi volti a sopprimere il nepotismo riuscirono soltanto a contenere temporaneamente i suoi eccessi: il nepotismo fu abolito solo nel 1692 sotto Innocenzo XII, in conseguenza di una crisi delle finanze papali. Se il papato medievale era stato innovatore in campo amministrativo, il papato dell’età moderna fu precursore dello stato moderno: aveva un esercito permanente, istituì una tassa diretta permanente nel 1543, creò il primo corpo diplomatico stabile, centralizzò l’amministrazione e soppresse le autonomie locali, favorì il mercantilismo sviluppando strade, porti, industrie e commerci. Nello Stato pontificio la centralizzazione dell’amministrazione procedeva parallelamente alla concentrazione dell’autorità nella monarchia pontificia. Il maggior rivale ecclesiastico del papato era costituito dal collegio dei cardinali. Dopo Sisto IV (1471-84), il peso del collegio cardinalizio era diminuito a causa della rapida espansione del numero complessivo dei suoi membri, dal momento che i papi successivi avevano continuato a elevare alla porpora i loro sostenitori per rafforzare la propria autorità politica. Tra le file dei cardinali si trovavano numerosi membri delle più illustre casate principesche d’Italia (Carafa, Gonzaga, Medici, Farnese, ecc). Tuttavia il collegio perse gradualmente la sua autorità come senato incaricato di controllare il potere della monarchia papale. Dopo la metà del Cinquecento i papi consultavano sempre meno i cardinali riuniti in assemblea preferendo come propri consiglieri i cardinali nipoti. La trasformazione dei cardinali in funzionari ai vertici dello Stato pontificio fu completata nel 1588 quando Sisto V riformò la Segreteria di stato e creò quindici congregazioni cardinalizie permanenti: sei per sovrintendere gli affari temporali (la flotta, la riscossione delle imposte, le strade, ecc) e le altre per quelli spirituali (l’Inquisizione, i riti, l’Indice, l’applicazione del concilio di Trento, ecc). Le congregazioni riflettevano la doppia natura della monarchia papale definita da uno storico come "un corpo e due anime". Tre tribunali si occupavano delle controversie della Chiesa universale: la Penitenzieria trattava casi di coscienza e teologia; la Segnatura si divideva in una sezione di giustizia e una di grazia, funzionando come corte d’appello per casi inerenti alla religione; la Rota funzionava nello stesso tempo come prima istanza e corte d’appello nei casi misti civili e religiosi. Quattro istituzioni si occupavano delle finanze e della produzione dei documenti (la Cancelleria, la Dataria, la Camera apostolica e la Segreteria di stato). Altri uffici si occupavano del governo secolare del pontefice: il prefetto e il governatore sovrintendevano all’amministrazione della città di Roma mentre sei legati servivano come governatori regionali delle province (Bologna, Marca di Ancona, Romagna, Umbria, Patrimonio di San Pietro e Campania). In campo diplomatico il papato nominava ambasciatori permanenti nei paesi cattolici. Questo istituto, che si sviluppò per la prima volta alla fine del Quattrocento, acquisì nuova rilevanza a causa della sfida protestante: i nunzi di Colonia, Bruxelles, Monaco, Madrid e Vienna lavoravano in stretto accordo con i principi cattolici per sradicare il protestantesimo e proteggere gli interessi del papato. Per finanziare la costruzione dello Stato pontificio e far progredire la causa della Chiesa universale, il papato ricorse alle tasse e alla vendita degli uffici. I papi spesero notevoli somme di denaro per finanziare la causa della Controriforma: il papa fornì le galere e le truppe che sconfissero i turchi a Lepanto (1571); fornì sussidi agli eserciti spagnoli; grandi somme furono destinate a sostenere la diplomazia e gli eserciti cattolici (la Lega cattolica in Francia e le truppe imperiali che in Ungheria combattevano i turchi) e, in misura minore, a sostenere i numerosi esulti cattolici provenienti dall’Europa protestante. Poiché le entrate ecclesiastiche provenienti dagli altri paesi si clero e nell’indottrinamento dei laici diventando il simbolo più significativo del rinnovamento cattolico. A Trento era stato stabilito che la giurisdizione spirituale del vescovo era suprema e indiscussa. Le disposizioni prevedevano: la convocazione regolare di concili provinciali e di sinodi diocesani sotto la presidenza del vescovo per promulgare i decreti di riforma e per discutere problemi di cura pastorale; l'uso del tribunale ecclesiastico per correggere i comportamenti devianti del clero; l’effettuazione di visite parrocchiali per raccogliere informazioni sulla proprietà ecclesiastica, sulla condotta del clero e sull’obbedienza dei laici. Tuttavia le difficoltà incontrate dalle riforme tridentine furono molte. In ogni diocesi il vescovo riformatore vedeva contestata l'affermazione della propria autorità spirituale in quanto i canonici del suo capitolo cattedrale ignoravano le esortazioni a migliorare la propria condotta morale; le chiese collegiate e i monasteri opponevano resistenza alle visite episcopali e ai provvedimenti disciplinari ricorrendo alle esenzioni e ai privilegi papali di cui godevano; gli ordini regolari rifiutavano l’obbedienza al vescovo dichiarando di sentirsi obbligati a una maggiore obbedienza ai superiori degli ordini; gran parte dei benefici sfuggiva al controllo del vescovo, dal momento che il diritto di nomina apparteneva a potenti ecclesiastici e laici. A Milano Borromeo fronteggiò tutti questi ostacoli entrando presto in conflitto con le autorità civili [il re spagnolo Filippo II ereditò il Ducato di Milano], che intervenivano attivamente negli affari ecclesiastici nominando i candidati e vigilando sulla disciplina del clero. Sostenuto dallo zio, Borromeo si scontrò con il governatore in difesa della dignità ecclesiastica. Ci furono recriminazioni da entrambe le parti che condussero alla scomunica. Dopo la morte dello zio nel 1565 e a partire dal 1572 con Gregorio XIII, meno favorevole alla sua strategia di scontro, Borromeo imparò a cercare dei compromessi. La sua popolarità crescente, d'altronde, indusse le autorità spagnole alla moderazione. Nei 19 anni del suo episcopato Borromeo convocò sei concili provinciali e undici sinodi, duranti i quali fu discussa l’applicazione delle riforme tridentine. La legislazione e le istruzioni raccolte negli Atti della chiesa di Milano, pubblicati nel 1582, fornirono lo schema per la diffusione della riforma borromaica, la cui chiave stava in un clero più disciplinato ed educato. Il moderno confessionale, la cui invenzione è talvolta a torto attribuita a Borromeo, rappresentava un espediente per evitare l’adescamento sessuale delle parrocchiane da parte dei confessori: si evitava il contatto fisico tra confessore e penitente arrivando, nelle successive evoluzioni, a garantire l’anonimato nella confessione dei peccati. Per migliorare la preparazione dei chierici in conformità ai decreti tridentini, fondò tre seminari: uno per il clero della città di Milano, il secondo per il clero delle parrocchie rurali e il terzo per i missionari diretti in Svizzera. Non ancora soddisfatto per il livello culturale del clero, nel 1579 fondò una nuova comunità di preti, gli oblati di Sant’Ambrogio, che sarebbero diventati l’élite clericale della sua riforma. Quando Borromeo giunse a Milano, la riforma cattolica precedente aveva già fondato un’estesa rete di scuole per l’insegnamento del catechismo. Ostile all’insegnamento della dottrina cristiana da parte dei laici, si appropriò delle scuole ponendole sotto la direzione ecclesiastica. L'anno della sua morte, nel 1584, la diocesi di Milano vantava 740 scuole con tremila insegnanti e 40mila alunni. I vescovi dediti alla riforma si volsero al suo ricordo e imitarono il suo esempio; il papato lo utilizzò come simbolo per sottolineare l’obbedienza a Roma; il popolo di Milano lo ricordò come il pastore che durante la peste del 1576 era rimasto al suo posto e aveva mobilitato frati e preti affinché si prendessero cura degli afflitti, organizzando lazzaretti. Le riforme tridentine toccarono il livello più alto a Milano sotto Borromeo (1564-84), ma i risultati conseguiti non poterono essere mantenuti dopo la morte del vescovo: gli Atti della chiesa di Milano restarono inapplicati e lo slancio riformatore si esaurì. La riforma tridentina non fece altri progressi fino all’episcopato del cugino, Federico Borromeo (1595-1631). Sempre per quanto riguarda la riforma, il concilio di Trento ne fornì la teoria, ossia il momento storico e le norme canoniche; Roma la pratica, cioè le istituzioni per la formazione di una nuova élite clericale; Milano rappresentò la sintesi di queste due. Lo slancio della riforma fu presto avvertito in Spagna. A Trento i vescovi spagnoli avevano difeso l’obbligo della residenza episcopale e il rafforzamento dell’autorità del vescovo per fronteggiare la disobbedienza del clero. Molti prelati spagnoli erano tornati nelle loro sedi impazienti di applicare i decreti della riforma, con il sostegno di Filippo II. Una volta vinte le resistenze del clero contro i decreti tridentini, i vescovi possedevano due strumenti per correggere il comportamento dei chierici: i tribunali ecclesiastici e l’Inquisizione. La riforma tridentina del clero implicava la criminalizzazione del comportamento dei chierici fino ad allora tollerato: il vino, le prostitute e il gioco; il raggio dei crimini andava da bestemmia, rissa, concubinato sino all’omicidio. Il modello milanese fu decisivo anche al di fuori della Spagna. In Francia, le riforme tridentine tuttavia procedevano lentamente e in modo irregolare a causa dell’opposizione gallicana al papato. L’episcopato dell’Europa centrale invece non era affidabile: in quanto principi del Sacro romano impero, spesso i vescovi si comportavano più come governanti che come pastori. Nell’Europa settentrionale emerse la figura del vescovo politicamente impegnato: qui gli interessi dinastici, la religione cattolica e la lotta contro i protestanti avevano dato origine a una potente mistura politico- religiosa che plasmò i prelati della Chiesa. Nei territori contesi ai protestanti lo strumento per infondere l’obbedienza al papato e al cattolicesimo romano era costituito dai vari collegi romani gestiti dai gesuiti. Nella prima età moderna il Collegio Germanico, fondato nel 1552 con l'obiettivo di introdurre il cattolicesimo in Germania, fu la sola istituzione per la formazione dell’élite del clero secolare tedesco (tra il 1560 e il 1803 il 18% di tutti i vescovi dell’impero proveniva dal Collegio Germanico). Lo stesso obiettivo aveva il Collegio Romano dei gesuiti in Polonia. L’episcopato polacco, intorno alla metà del Cinquecento, fu molto tollerante verso i diversi movimenti religiosi in concorrenza tra loro per fare proseliti. Un nuovo episcopato conforme ai modelli tridentini si affermò solo negli anni settanta del Cinquecento, grazie al fervore del cardinale Osio e della Compagnia di Gesù stabilitasi un decennio prima in Polonia. Molti studenti che si erano formati prima nei collegi gesuitici polacchi e poi al Collegio Romano rivestirono alte cariche ecclesiastiche. Prima di Trento, far parte del clero comportava un particolare status giuridico: i membri del clero erano soggetti al diritto canonico e ai tribunali ecclesiastici ed esenti dalle imposte e dalla giurisdizione secolare; ciò conferiva anche il diritto di ricevere i frutti delle proprietà e degli uffici ecclesiastici. La maggioranza del clero dopo la semplice tonsura non giungeva a prendere gli ordini maggiori (suddiacono, diacono, prete); i suoi membri non celebravano la messa, non avevano obblighi pastorali e solitamente non indossavano l’abito clericale; presentati dalla famiglia per la tonsura, attingevano alle risorse della Chiesa per avere istruzione, entrate e una posizione. Sino al tardo Cinquecento, la gerarchia ecclesiastica esercitò scarso controllo sulle ordinazioni: non erano richieste prove d’ammissione, non era stato fissato il livello necessario di conoscenza teologica e non venivano compiute indagini sulla vocazione e sulle origini dei candidati. Ciò che rendeva appetibile l’ordinazione ecclesiastica era il beneficio, ossia l’ufficio sacro al quale la Chiesa aveva collegato il diritto di ricevere rendite dalle proprietà ecclesiastiche. Il clero detentore di benefici andava dal parroco con un modesto tenore di vita sino ai grandi prelati con entrate da principi. I cappellani invece facevano parte del clero privo di benefici e vivevano dei compensi derivanti dalle messe e dall’amministrazione dei sacramenti. Dal momento che molti di questi benefici e messe private si trovavano al di fuori della giurisdizione episcopale, il vescovo era in grado di esercitare scarso controllo sulla proliferazione dei culti e sulla diversità delle liturgie. La riforma tridentina deve essere interpretata come il duplice tentativo di potenziare il controllo episcopale sul clero e di unificare le diverse pratiche liturgiche: essa aveva lo scopo di creare un clero più preparato sul piano morale (ed anche più resistente all'infiltrazione delle pratiche laiche nella vita sacramentale), che usasse testi liturgici canonicamente approvati (il catechismo, il breviario e il messale romani). Per riformare il clero i vescovi possedevano vari strumenti: i seminari diocesani per formare un clero preparato; i sinodi diocesani per trasmettere le istruzioni del vescovo; le visite diocesane per conoscere e controllare la vita parrocchiale; le corti ecclesiastiche per svolgere indagini sui chierici e se necessario punirli. I provvedimenti tridentini volti a istituire seminari diocesani sotto la guida episcopale riflettevano i limiti dell’autorità vescovile sulle nomine del clero; il diritto di nomina spesso si trovava nelle mani di altri ecclesiastici o di signori laici. Il seminario intendeva addestrare una nuova generazione di chierici dediti alle riforme e obbedienti al vescovo. Tuttavia, ad eccezione della Milano borromaica, l’applicazione di questo decreto tridentino fu un fallimento. Grazie al nuovo clero tridentino, formatosi sulla base della disciplina episcopale e dell’educazione gesuitica nel collegi, solo nel tardo Seicento furono fondati dei seminari stabili. Nelle prime decadi del Seicento la qualità del clero era notevolmente migliorata. Il clero, anzitutto, rispettava nella maggioranza il celibato. Il celibato ecclesiastico si radicò nelle città per ovvie ragioni: l’autorità episcopale era vicina; il giudizio del laicato era inevitabile e il tradizionale anticlericalismo di mercanti e artigiani rendeva più urgente l’affermazione di un clero moralmente inattaccabile. Le cose erano diverse in campagna, in quanto il prete rurale postridentino non differiva molto dal suo vicino: viveva spesso con una donna, manteneva una piccola fattoria, amministrava i sacramenti, si vestiva come i suoi parrocchiani dopo aver celebrato la messa e socializzava con loro nelle osterie. Di conseguenza, il celibato ecclesiastico era più difficile da imporre nelle aree rurali. La situazione migliorò solo nel corso del Seicento, quando si assistette anche a un aumento delle rendite ecclesiastiche per l’aumento del prezzo del grano e in parte all'amministrazione dei benefici ecclesiastici. L’aumento delle entrate spronò anche le vocazioni ecclesiastiche. Sostenuta da entrate migliori, la dignità del nuovo clero tridentino rivelava anche il possesso di un profilo sociale più elevato (figli della borghesia oppure avevano studiato all’università, o venivano dalla città). Si assistette così alla conquista della campagna da parte della città: formatisi in università e collegi urbani, il nuovo clero di origine cittadina portava alla gente di campagna una liturgia uniforme e un nuovo pensiero tutto cittadino formatosi sui libri. Capitolo 8: I santi della Controriforma Tra il 1540 e il 1770 ventisette uomini e cinque donne vissuti in quel periodo furono canonizzati dalla Chiesa. Provenivano in maggioranza da due paesi: Italia e Spagna. Tutti erano membri del clero; all’infuori di sei rappresentanti del clero secolare (un papa, due arcivescovi, due vescovi e un prete), la maggioranza apparteneva agli ordini religiosi (soprattutto gesuiti, cappuccini e teatini). Si possono distinguere sette tipi di santi: il fondatore, il riformatore, il mistico, il vescovo, il missionario, quello attivo nella società e il martire. Quello dei santi fondatori era il gruppo più numeroso ed includeva sia i fondatori dei nuovi ordini religiosi della Controriforma sia alcuni dei loro più stretti collaboratori. C’erano Gaetano Thiene, cofondatore dei teatini con papa Paolo IV (Gian Pietro Carafa); Ignazio di Loyola, padre fondatore dei gesuiti; Vincenzo de’ Paoli, fondatore dei lazzaristi ecc. A fianco dei santi fondatori stavano i riformatori degli ordini religiosi: un esempio è Teresa d’Avila che riformò le carmelitane scalze, fondando in tutta la Castiglia conventi di stretta osservanza il cui successo si irradiò dalla Spagna agli altri paesi cattolici d’Europa. Teresa fu considerata la santa mistica per eccellenza del rinnovamento cattolico. Quello delle sante mistiche fu un gruppo secondo per importanza solo a quello dei santi fondatori: erano donne che prolungavano un’antica tradizione di mistiche medievali la cui santità e i cui presunti poteri di guarigione suscitarono l’ammirazione e al tempo stesso il sospetto della Chiesa. Oltre a Teresa d'Avila, di questo gruppo facevano parte: Caterina de’ Ricci, domenicana italiana, che godette in vita di grande reputazione per le sue visioni; Maria Maddalena de’ Pazzi, carmelitana italiana a cui venivano attribuiti poteri soprannaturali; Rosa da Lima, domenicana, la prima santa non europea a essere canonizzata. Vi furono anche santi mistici: un esempio è il francescano italiano Giuseppe da Copertino, venerato per le sue guarigioni, il misticismo e le levitazioni. Il gruppo di santi che esemplificò le riforme avviate dal concilio di Trento è quello dei vescovi, i quali applicarono i decreti, disciplinarono il clero e guidarono il laicato. Come i santi fondatori, anche i santi vescovi crearono istituzioni, ma più come legislatori e amministratori che come capi carismatici. Il più importante fra loro fu ovviamente Carlo Borromeo, cardinal nipote di Pio IV, che il proprio nome al più monumentale progetto erudito della Chiesa cattolica. Nel 1635, sopraffatto dal lavoro, chiese aiuto al gesuita belga Godefroid Henskens. Nel 1643 furono pubblicati ad Anversa i primi due volumi, denominati Acta sanctorum, relativi al mese di gennaio. Quindici anni dopo uscirono i tre volumi del mese di febbraio: il mondo degli studiosi, sia protestante che cattolico, accolse la pubblicazione con entusiasmo. Al posto di Bolland malato, si unì un nuovo collaboratore, Daniel van Papenbroek. Sostenuti dal papa, viaggiarono per l’Italia e la Francia, diffondendo la fama degli agiografi e visitando monasteri, cattedrali e università alla ricerca di manoscritti dispersi. Nel 1668, tre anni dopo la morte di Bolland, uscirono i tre volumi del mese di marzo. Nel 1681 morì anche Henskens. Durante l’ultimo quarto del secolo, gli Acta Sanctorum curati da Papenbroek dovettero superare una grave crisi. Lavorando su sant’Alberto (per il mese di aprile), patriarca latino di Gerusalemme a cui si doveva la regola dei carmelitani, Papenbroek redasse un commento basato su fonti storiche che non concordava con le leggende del santo sostenute dall’ordine carmelitano. L’uscita di questo volume diede inizio a una guerra di opuscoli che si protrasse per 15 anni. I carmelitani attaccarono gli agiografi gesuiti e nel 1695 l’Inquisizione spagnola accusò Papenbroek e il defunto Henskens di numerosi errori dottrinali, dichiarandoli eretici. Il papa Innocenzo XII costrinse entrambe le parti al silenzio e, a poco a poco i ragionevoli argomenti dei bollandisti ammorbidirono gli oppositori, finché nel 1715 l’Inquisizione spagnola annullò la condanna. Gli Acta sanctorum furono colpiti da una tempesta ancora più grave nel 1773 quando lo scioglimento della Compagnia di Gesù interruppe i lavori; successivamente la Rivoluzione francese condusse alla dispersione della raccolta. Il progetto, ripristinato nel 1837, è finalmente prossimo a essere completato dopo 4 secoli dalla sua ideazione. La congregazione dei Riti, fondata nel 1588, era l’istituzione ufficiale incaricata delle canonizzazioni. I suoi membri raccoglievano prove dai testimoni in base a questionari volti ad accertare tre cose: lo stato civile e religioso dei testimoni, il loro paese d’origine e di residenza, l’età, gli antenati, la professione, la data dell’ultima confessione e comunione e il nome del confessore; i legami tra i testimoni e i candidati alla santità con particolare attenzione alle virtù teologali (fede, speranza e carità) e cardinali (prudenza, giustizia, fortezza e temperanza) di questi ultimi; i poteri sovrannaturali dei candidati come miracoli, chiaroveggenza, profezie, ecc. Per il laicato la santità consisteva principalmente nella capacità di fare miracoli, soprattutto di curare malattie. La figura del santo eroico della Controriforma, modello di virtù teologiche, elaborata all’inizio del Seicento dalla Chiesa ufficiale, era estranea al laicato delle generazioni più tarde, i cui santi erano soliti a guarire. Eroe e guaritore erano le due diverse visioni della santità: l’una privilegiata dalla gerarchia ecclesiastica e l’altra adottata dal laicato. Nei due secoli del rinnovamento cattolico il primo modello di santo eroico, confezionato dai chierici durante i decenni militanti della Controriforma, lasciò gradualmente il passo al santo guaritore del Settecento. Nella storia della canonizzazione si possono individuare tre periodi distinti: tra il 1610 e il 1622 una fase iniziale d’incertezza lasciò il posto alla canonizzazione di cinque modelli di santità eroica della Controriforma; tra il 1658 e il 1690 furono riconosciuti da Roma nove santi “della seconda generazione” della Controriforma; dopo una cesura di 22 anni, nel 1712 il papato diede nuovo impulso alla nascita dei santi procedendo alle canonizzazioni del 1726 (5 canonizzazioni), 1745-46 (4), 1767 (5). I cinque santi canonizzati tra il 1610 e il 1622 erano eroi della Controriforma: Borromeo, Francesco Saverio, Loyola, Teresa e Filippo Neri. Essi servirono da modelli per i santi "della seconda generazione" della Controriforma canonizzati tra il 1664 e il 1671: Tommaso di Villanueva, Francesco Borgia, Francesco di Sales, Pietro d'Alcantara, Maria Maddalena de' Pazzi, Gaetano Thiene, Luigi Bertrando e Rosa da Lima). La figura del vescovo esemplare, fissata dalla vita di Borromeo, fu riprodotta da Francesco di Sales e Tommaso di Villanueva; il primo missionario gesuita, Francesco Saverio, ispirò Tommaso di Villanueva, missionario tra i moriscos spagnoli e Luigi Bertrando, missionario tra gli indios dell’America spagnola; Ignazio di Loyola ispirò Francesco Borgia, generale gesuita; le doti mistiche di Teresa d’Avila ispirarono Maria Maddalena de’ Pazzi e Rosa da Lima; l’ascetismo di Pietro d'Alcantara e la carità di Gaetano Thiene riflettevano la pietà dell’oratoriano Filippo Neri. Se questo secondo gruppo di santi rappresentò un'imitazione della prima generazione eroica, le canonizzazioni settecentesche espressero un concetto di santità più vicino alla sensibilità laicale. Famoso per la sua pietà personale, durante il suo pontificato papa Benedetto XIII (1724-30) creò un nuovo gruppo di santi, le cui virtù presero le distanze dall’eroismo di quelli della Controriforma: nel 1724, ad esempio, canonizzò il cappuccino Felice da Cantalice, venerato per la sua povertà e carità nel prendersi cura dei malati e dei poveri di Roma. Il pontefice più favorevole ai nuovi santi vicini al popolo fu Clemente XIII (1758-69). Se si paragonano tra loro il Sei e Settecento, emerge un cambiamento: dalla santità militante e gloriosa dei gesuiti si passò a un modello ispirato dalla spiritualità francescana e caratterizzato dalla semplicità, dalla vicinanza al popolo e dalla capacità di guarigione. Nei primi anni della Controriforma coloro che aspiravano alla santità lasciavano la loro patria e intraprendevano viaggi in terre lontane alla ricerca di imprese eroiche e del martirio. Nel Settecento coloro che erano reputati santi restavano invece in patria e la loro fama di santità era circoscritta a una ristretta area geografica entro la quale istruivano, confortavano e guarivano compaesani. Entrambi i modelli di santità coesistettero nel cattolicesimo dell'età moderna ma, quando nell’età dei Lumi il prestigio del papato iniziò a declinare, raggiungendo il punto più basso all’epoca della Rivoluzione Francese, l’Europa cattolica parve perdere interesse verso i martiri. L’ordine che aveva fornito tanti martiri e tanti santi, la Compagnia di Gesù, fu esso stesso attaccato dagli stati cattolici (Portogallo, Spagna, Francia, Napoli e Sicilia, Colonie del Sud e Centro America) e sciolto nel 1773 per decreto papale (ciò non poté avvenire durante il pontificato di Clemente XIII, che fu un ardente difensore dei gesuiti, ma avvenne sotto il suo successore, Clemente XIV, sul quale le corti borboniche esercitarono una pressione talmente violenta da costringerlo a sopprimere la Compagnia di Gesù "per la pace della Chiesa"). Capitolo 9: Sante, beatas, indemoniate Le sante della Controriforma furono cinque: Teresa d’Avila, Caterina de’ Ricci, Maria Maddalena de’ Pazzi, Jeanne Francoise de Chantal e Rosa da Lima. Teresa d’Avila fu una delle figure femminili più importanti della Controriforma cattolica grazie alla sua attività di riformatrice degli ordini religiosi, fu infatti la fondatrice delle carmelitane scalze. Anche se la fama postuma fu suggellata dalla canonizzazione del 1622, per tuta la sua vita Teresa dovette combattere contro l’ostilità e lo scetticismo dei chierici maschi. La crescente diffidenza verso la religiosità femminile nel cattolicesimo della prima età moderna rifletteva sia le preoccupazioni tridentine per il celibato ecclesiastico, sia la posizione tradizionale contro la direzione religiosa femminile. Due volte indagata dall’Inquisizione per eresia, intraprese la stesura della propria autobiografia spirituale perché ne venissero esaminati gli eventuali errori dottrinali. Il testo del Libro della mia vita manifestava l'esistenza di un contrasto tra il modo in cui Teresa si presentava e le prescrizioni dei suoi confessori maschi. Uno dei confessori che le avevano ordinato di scrivere esaminò l’opera su incarico dell’Inquisizione senza trovarvi alcuna “cattiva dottrina”, tuttavia si oppose alla riproduzione di quelli scritti perché, secondo le sue parole, “non è un bene che gli scritti di una donna siano resi pubblici”. Così l’Inquisizione sequestrò la Vita fino al 1586, anno della morte della Teresa, quando la sua reputazione di santa si era ormai sparsa per tutta la Spagna. La Vita fu utilizzata durante il processo di canonizzazione e divenne la più famosa opera di mistica del cattolicesimo dell’età moderna servendo da esempio agli scritti religiosi di altre donne. Nessuna delle altre quattro sante della Controriforma raggiunse come autrice un grado di prestigio paragonabile a quello di Teresa: Caterina de’ Ricci, monaca domenicana, lasciò numerose lettere, ma la sua fama fu diffusa dalla biografia redatta dal confessore del suo convento, su richiesta di Filippo Neri; Maria Maddalena de’ Pazzi, carmelitana, doveva la reputazione di mistica a due confessori che ne stesero la biografia; Jeanne Françoise de Chantal, fondatrice dell’ordine della Visitazione e figlia spirituale di Francesco di Sales, lasciò molte lettere ma pochi scritti religiosi; Rosa da Lima, terziaria domenicana, deve la sua notorietà alla testimonianza postuma del suo protettore, un contabile. L'esperienza religiosa di molte donne è documentata dai loro stessi scritti o da ciò che dettarono, ma la maggior parte di questi testi rimase sepolta in forma manoscritta negli archivi conventuali sino alla scoperta, avvenuta alcuni secoli più tardi; altre donne lasciarono testimonianza delle loro esperienze religiose sia nei documenti dell’Inquisizione spagnola sia nei teatrali resoconti di possessione demoniaca. Sebbene l’autobiografia di Teresa ispirasse molte generazioni di pie donne a emulare il suo percorso spirituale, nessuna riuscì come lei a coniugare il ruolo di mistica con quello di fondatrice di un ordine religioso. La lotta delle donne dell’Europa cattolica fu combattuta nei ristretti confini dei conventi e nell’immaginazione della mente. I tre ruoli religiosi attribuiti alle donne entro il cattolicesimo dell’età moderna erano monaca, beata e indemoniata. Quattro delle cinque sante della Controriforma furono monache; la quinta, Rosa da Lima, era una terziaria domenicana e una beata la cui famiglia non poteva sostenere l’ingresso in convento. Tutte le esperienze di misticismo femminile approvate dalla Chiesa tridentina ebbero luogo negli edifici conventuali, di solito nella cappella, spesso nel corso della messa, dove le estasi potevano avere testimoni. Teresa descrisse molte estasi involontarie di cui aveva avuto esperienza in pubblico; Caterina de’ Ricci, nelle sue estasi, contemplava e recitava gli avvenimenti precedenti alla crocifissione; le estasi di Maria Agreda divennero un vero e proprio spettacolo quando i suoi superiori consentirono ai laici di assistervi, finché ella stessa supplicò di essere lasciata sola. Tutte e tre queste donne potevano contare su protettori potenti: Teresa poteva contare sul padre hidalgo, sui parenti in convento e su una potente nobildonna; Caterina aveva uno zio frate domenicano e confessore presso il suo convento, nonché un vasto circolo di corrispondenti epistolari, tra cui Filippo Neri a Roma; Maria Agreda conquistò l’amicizia di Filippo IV di Spagna, che si rivolgeva a lei per consiglio spirituale e politico. Per le religiose il misticismo rappresentava una forma alternativa di autorità. La mistica trecentesca santa Caterina da Siena ispirò molte donne della Controriforma, tra cui Teresa D’Avila, Rosa da Lima e Maria Maddalena de’ Pazzi. Col tempo la stessa Teresa sarebbe diventata un modello. Le esperienze mistiche permettevano inoltre alle religiose di eludere il controllo dell’autorità ecclesiastica maschile. Il Cristo nel ruolo di confortatore appariva al tempo stesso come giovane amante e come madre. Il linguaggio erotico delle estasi mascherava la lotta interiore con la sessualità che accompagnava le vocazioni religiose e la segregazione nei conventi. Ossessionate dall’astinenza, segregate in piccole comunità e controllate da chierici maschi, le religiose incisero le loro lotte fisiche sui loro stessi corpi: paralisi, febbri, dolori, allucinazioni, svenimenti e periodiche malattie ne riflettevano la reclusione fisica e spirituale. In un’epoca di missioni e di rinnovamento cattolico, gran parte delle religiose si trovò esclusa dalla possibilità di testimoniare la propria fede. Esse tuttavia ardevano di zelo missionario: Maria Agreda, che non lasciò mai la piccola città natale, ebbe visioni dell’universo e del mondo e si vide trasportata a predicare la fede agli indios del Nuovo Messico (ciò le procurò fastidi con l'Inquisizione spagnola). Marie de L’Incarnation fu una delle poche missionarie dell’età moderna. Appoggiata dai gesuiti francesi, nel 1639 sbarcò in Quebec con due orsoline. L’insegnamento della dottrina cristiana alle figlie degli uroni ebbe scarso successo, soprattutto a causa dell’antipatia nutrita dagli indigeni americani per la vita claustrale delle donne cattoliche, ma alla fine esse riuscirono a risvegliare vocazioni tra gli abitanti degli insediamenti coloniali francesi. La Spagna, terra d'origine di tante mistiche, era anche il paese dell’Inquisizione. Il Sant’Uffizio difendeva la fede cattolica non solo contro eretici e conversos, ma anche contro l’esplosione del sovrannaturale, di origine divina o demoniaca. I domenicani, ordine religioso composto di teologi razionalisti, dalle cui file provenivano gli inquisitori, nutrivano gran sospetto verso il misticismo Nel campo del mecenatismo artistico, l'aristocrazia cattolica dell'Europa centrale svolse un ruolo parallelo a quello della curia papale; si distinsero tra gli altri i principi-vescovi del Sacro romano impero e le grandi aristocratiche abbazie benedettine della Baviera e dell’Austria. Il periodo d’oro della creazione artistica nell’Europa centrale venne a coincidere con il declino del mecenatismo papale avvenuto dopo il 1660. Mentre le finanze papali andavano in rovina e la fine del nepotismo a Roma induceva gli artisti a cercare impiego altrove, la nuova ricchezza dell’Europa settentrionale attirava talenti fuori dall’Italia. Una buona parte del mecenatismo francese protesse l’arte secolare, ma l’arte religiosa fiorì nella Germania cattolica e in Austria. Accanto alla grande arte e architettura vi erano le innumerevoli pale d'altare, pitture votive, statue, stampe, xilografie, ecc. di cui erano committenti le élite locali, le confraternite e il popolo devoto. L’arte “alta” e quella popolare erano in un certo senso legate tra loro. Questa relazione tra “alto” e “basso” fu evidente ad Anversa, centro dell’arte cattolica dell’Europa settentrionale e capitale dell’industria libraria della Controriforma. Le stampe devozionali mescolavano raffigurazione e testo; volte a intrattenere, istruire e ispirare, le tre principali forme di stampe devozionali comprendevano: i suffragia, prodotti per i sodalizi e le confraternite mariane dei gesuiti in onore dei loro protettori e usati per gli esercizi devozionali mensili; i testi illustrati destinati ai bambini iscritti alle scuole di catechismo organizzate dai gesuiti e dal governo arciducale; le stampe votive per pellegrini che commemoravano i loro viaggi. Riflettendo il cattolicesimo della Controriforma e servendo come veicoli di diffusione dei valori tridentini tra il laicato, le stampe devozionali modellarono la pietà popolare durante il Seicento e parte del Settecento. Ma con il venir meno dello slancio cattolico e con il declino dei gesuiti, la produzione subì un crollo. Anche l’architettura fu profondamente influenzata dal clima culturale della Controriforma. Ne sono testimonianza le nuove chiese barocche, che concentravano lo spazio e la luce nella zona centrale dove si predicava, si celebrava la messa e si somministrava la comunione. A coronamento dello spazio centrale, vi era una cupola che consentiva alla luce di entrare e nello stesso tempo richiamava l'attenzione sugli affreschi del soffitto raffiguranti Dio e il paradiso. Esercitando un’accurata vigilanza teologica sui pittori, il clero assegnava soggetti e temi allo scopo di contrapporsi agli insegnamenti dei protestanti e di celebrare le dottrine e le istituzioni cattoliche. In effetti il mecenatismo papale nell’arte era in gran parte una risposta alla sfida protestante. Le dottrine e i sacramenti cattolici rifiutati dai protestanti fornivano nuovi soggetti per l’iconografia controriformistica: venivano rappresentate la confessione, l’eucarestia, il purgatorio, il valore della carità e delle buone opere. L'iconografia della Controriforma era caratterizzata da molte immagini di martirio, ma a metà Seicento un gusto più morbido la mutò determinando il passaggio dalla rappresentazione di torture sanguinose a quella della gloria trionfante. L'esperienza mistica, tema centrale della santità controriformistica, costituiva per gli artisti una sfida maggiore: pittura e scultura tentarono di catture le estasi interiori e le divine illuminazioni dei santi tridentini. Capitolo 11: La stampa cattolica La Chiesa cattolica era profondamente consapevole del potenziale pericolo insito nella rivoluzione della stampa, ma fu la Riforma protestante che spaventò le gerarchie cattoliche spingendole all’effettiva censura dei libri. Nel 1542 l'Inquisizione romana, appena ripristinata da Paolo III, estese la sua giurisdizione fino a includere la repressione dei libri eretici. La definitiva rottura con i protestanti a Trento, nel 1547, fu all’origine dell’idea di stendere un Indice romano di libri proibiti, realizzato nel 1559 sotto il pontificato repressivo di Paolo IV (Gian Pietro Carafa). Questo primo Indice romano bandiva tre categorie di libri: la prima categoria era costituita dall’intera produzione di alcuni autori, tra i quali i principali esponenti della Riforma e anche Erasmo da Rotterdam; la seconda comprendeva singole opere di determinati autori; la terza libri anonimi. La morte del Carafa e la successione di Pio IV diedero avvio a un’opera di ammorbidimento del primo Indice romano, compito assegnato alla III sessione del concilio di Trento. Respingendo molte misure rigorose dell’Indice paolino, i padri tridentini affermarono l’autorità dei vescovi nella censura, introdussero l’espurgazione, che avrebbe permesso il recupero di molti testi condannati fino a quel momento, respinsero la condanna totale dell’opera di Erasmo e permisero la lettura, previa licenza, della Bibbia in volgare. Nel 1566 con l’elezione di papa Pio V (Michele Ghislieri) - la cui carriera, come quella di Paolo IV, era legata al Sant’Uffizio - la politica papale sulla censura subì un nuovo irrigidimento. Egli ordinò la revisione dell’Indice tridentino e nel 1571 incaricò dell’esercizio della censura una commissione di cardinali, istituzionalizzata nel 1572 con il nome di congregazione dell’Indice. Nel 1596, sotto Clemente VIII, fu infine pubblicato un Indice romano definitivo, che incorporò l’Indice pubblicato dal Concilio di Trento e vi aggiunse altri 1.100 titoli. L’Indice clementino del 1596, i cui principi rimasero in vigore fino alla metà del Settecento, proibiva tutti gli scritti di eretici sulla religione, gli scritti lascivi e osceni, le opere di astrologia, di divinazione e di arti occulte; permetteva, previo esame e licenza degli inquisitori, la lettura di libri di eretici che non trattavano di religione, i libri di cattolici tradotti da eretici e le opere di controversia tra cattolici ed eretici in lingua volgare; permetteva la lettura, previa licenza scritta dell’inquisitore o del vescovo, delle bibbie in volgare. Quando nel 1596 fu pubblicato l’Indice clementino, in Italia era difficile trovare le opere religiose protestanti, ma altri titoli condannati negli Indici precedenti, come le bibbie italiane in volgare, le opere di Erasmo e gli scritti letterari “lascivi”, circolavano ancora. La competizione tra le congregazioni dell’Indice e l’Inquisizione da un lato, e l’irrisolta questione dell’autorità episcopale nella censura dei libri dall'altro, impedirono infatti l'effettiva attuazione della censura. In Spagna e Portogallo l’Inquisizione operò indipendentemente da Roma ed esercitò una censura effettiva sulla pubblicazione e sulla distribuzione dei libri proibiti. Tuttavia, dopo il 1600 la censura libraria iberica, come in tutto il mondo cattolico, seguì la guida di Roma e aggiornò di conseguenza le sue liste di libri proibiti. Nell’Europa settentrionale, dove l’Inquisizione non riuscì ad affermarsi in maniera permanente, il compito della censura libraria fu affidato a vescovi e università: la facoltà di teologia della Sorbona, ad esempio, pubblicò il suo primo vero Indice di libri proibiti nel 1544. Nei Paesi Bassi, centro della stampa e del commercio dei libri, specialmente ad Anversa, stampatori e librai, i quali nutrivano simpatie protestanti o traevano profitto dal commercio di opere protestanti, si opposero alla repressione. Tuttavia, con l'occupazione militare del paese da parte del duca d'Alba, il primo Indice completo fu pubblicato ad Anversa nel 1569 e gli stampatori non furono risparmiati. Il primo obiettivo degli Indici pubblicati a Roma e negli altri centri cattolici era quello di combattere l’eresia protestante e a questo fine furono condannati tutti gli scritti dei fondatori delle nuove eresie (Lutero, Calvino, Zwingli e altri) e di autori protestanti. Ma anche alcuni autori cattolici finirono per attirare i sospetti dell’Inquisizione: Erasmo da Rotterdam, ad esempio, fu censurato in Italia e Spagna poiché alcuni circoli cattolici erano convinti che la sua satira antipapale e anticlericale avesse preparato il terreno per la Riforma protestante. La difesa della Chiesa romana e della fede cattolica si sarebbe estesa, oltre la condanna delle opere protestanti, a tutti gli scritti critici o sovversivi dell’autorità cattolica (questo portò, nei due secoli successi, alla condanna di molte opere di autori cattolici). Il secondo obiettivo della censura era costituito da tutti i libri che non trattavano di religione, ma erano giudicati offensivi per la morale. Furono così condannati libri che riguardavano duelli, astrologia e magia, ma anche autori che trattavano di politica, scienza e costumi in un modo giudicato sovversivo dell’ortodossia cattolica. Nel Cinquecento furono così messi all’Indice Machiavelli, Tasso, Castiglione, Montaigne, ecc; dopo il Seicento furono condannati i pensatori più importanti dell’Europa moderna come Copernico, Galileo, Kant, Montesquieu, ecc. L’ampiezza delle condanne degli Indici romani dopo il 1600 fu minore di quella degli Indici cinquecenteschi, sebbene aumentasse il numero di categorie di opere proibite. Le proibizioni del Cinquecento erano dirette soprattutto contro eretici protestanti, e anche durante il Seicento le opere protestanti continuarono ad essere sotto stretta sorveglianza. L’Indice si occupò anche della propaganda della fede nei confronti dei pagani e della controversia dei riti cinesi. Furono condannate anche le opere che mettevano in discussione la giurisdizione romana, ad esempio sul matrimonio, i testi mistici, le opere gianseniste e molti autori gesuiti. L’Indice condizionò profondamente la vita intellettuale e la produzione di libri nell’Europa cattolica (coloro che leggevano un libro eretico venivano scomunicati e chi ne leggeva più di uno commetteva un peccato mortale; le sanzioni di carattere spirituale portarono molti autori ad autocensurarsi) e creò due mondi cattolici separati: quello dotato di accesso ai libri proibiti e quello privo di tale accesso. La condanna della Bibbia in volgare nel 1596 provocò forti proteste da parte dei cattolici dell’Europa settentrionale. Abituati a leggere la Bibbia nelle loro lingue volgari, i cattolici della Germania, della Polonia, della Svizzera, della Boemia e della Dalmazia protestarono sostenendo l'indispensabilità delle bibbie cattoliche in volgare nelle regioni dove erano presenti più confessioni religiose. Il papato così concesse il diritto di leggere bibbie in volgare nelle terre cattoliche del nord. La censura dei libri ebbe effettivamente successo solo nei paesi dove l’Inquisizione e l’Indice poterono imporre efficaci frontiere culturali e religiose. Sotto il pontificato di Benedetto XIV la Chiesa cattolica, sentendosi minacciata dalle nuove correnti intellettuali, si sforzò di limitare la censura. L’ultimo Indice romano fu pubblicato nel 1948 e abolito solo nel 1966. Emergono due caratteristiche principali della stampa cattolica dell’età moderna: il prevalere di autori appartenenti al clero, soprattutto membri della Compagnia di Gesù, e la natura internazionale della produzione e distribuzione della stampa cattolica. I gesuiti, in quanto ordine dedicato all’insegnamento e a fini intellettuali, produssero una vasta quantità di libri per le loro attività pedagogiche, ma anche opere devozionali e teologiche. Essi pubblicarono più di 30 mila titoli: la categoria più consistente riguardava la teologia (11 mila titoli); gli altri testi scritti pubblicati dalla Compagnia riguardavano soggetti non teologici che spaziavano dalla giurisprudenza alle arti, dalle scienze alla letteratura, storia e geografia. Le due più grandi categorie profane comprendevano libri di storia e geografia (8.000) e opere di letteratura (7.000), prodotti rispettivamente dall'attività missionaria e da quella pedagogica della Compagnia. Le opere geografiche includevano atlanti e racconti di viaggi in Cina, Giappone, India, Etiopia e Americhe. Le opere di storia coprivano la storia universale, ecclesiastica, profana e missionaria, riflettendo l'attenzione e l'ossessione della Compagnia per la conservazione delle testimonianze. Le opere di letteratura comprendevano dizionari e grammatiche di molte lingue, ma anche opere teatrali e orazioni funebri. I libri di arte e scienza (3.600 titoli) comprendevano opere di filosofia, trattati di matematica, trattati astronomici, libri di chimica, di fisica e di scienze naturali. Alcuni gesuiti redassero anche opere sulla pittura, sulla musica, sull’architettura e sulla danza. La produzione a stampa cattolica non europea era essenzialmente devozionale e liturgica. Agli inizi della conquista cattolica dell’America soldati e frati diedero alle fiamme i codici dei popoli indigeni, sostituendoli con una nuova letteratura cattolica meso-spagnola. In Giappone i gesuiti produssero soprattutto testi religiosi, in Cina invece molte opere cattoliche si occupavano della scienza, della tecnologia e degli scritti classici europei, pur essendo prevalenti i soggetti religiosi: le opere cinesi rappresentano infatti la più vasta sezione della stampa cattolica non europea. Tra lo stabilirsi della missione cattolica in Cina nel 1583 e l’apice del suo successo intorno al 1700, i missionari europei tradussero, composero e pubblicarono circa 450 opere in cinese: di questo totale 120 trattano di scienza, tecnologia e geografia europee, altri 330 sono testi religiosi. Questa biblioteca cattolica cinese si può dividere in tre categorie: religione, scienza e discipline umanistiche. I testi religiosi comprendevano le traduzioni di preghiere, vite dei santi, ecc, ma non della Bibbia. Le opere scientifiche riguardavano l’astronomia e la matematica. Per quanto riguarda le discipline umanistiche, solo una porzione ridotta del corpus testuale greco-romano fu tradotta in cinese. Questi testi potrebbero essere ulteriormente suddivisi nei generi della retorica e della filosofia. Ai lettori missioni americane, riuscirono a stabilire buoni rapporti con gli indios guaraní, che si convertirono in massa al cristianesimo. Nel 1610 fu fondato a Guairá il primo insediamento cristiano degli indios, la reducción, allorché gli indios riuscirono a sfuggire allo sfruttamento dei colonizzatori e, nello stesso periodo, fu fondata anche la prima scuola in lingua guaraní. Il momento di svolta per la missione giunse negli anni trenta del Seicento: attaccati da bande di cacciatori di schiavi, molti indios fuggirono dalle reducciónes abbandonando il cristianesimo e l’agricoltura stanziale per il nomadismo e lo sciamanesimo. I missionari gesuiti fondarono nuove reducciónes e convinsero il viceré spagnolo di Lima a fornire agli indios armi da fuoco per l’autodifesa. Nel 1641 l’esercito delle reducciónes sconfisse i cacciatori di schiavi e i loro alleati indios. In questa regione di frontiera gli indios cristianizzati delle reducciónes servivano ad assicurare il controllo territoriale alla corona spagnola contro le tribù indiane non pacificate e non cristianizzate, in cambio di esenzioni dalle imposte. I gesuiti delle reducciónes prestavano servizio come medici e intermediari tra la società tribale indigena e la società coloniale. Questo ruolo di mediazione fu evidente nell'ultimo decennio del Seicento quando i missionari gesuiti convertirono i chiquitos, nomadi delle foreste che vivevano in Brasile e in Paraguay, i quali accettarono il cristianesimo in cambio della pace con il viceré spagnolo. Nelle reducciónes, il cristianesimo rappresentò una mescolanza tra rituali indigeni e simboli cristiani: un esempio sono i sacramenti che venivano celebrati in lingua indigena con musiche, processioni e danze dei riti indios. Questo paradiso degli indios cristiani, protetto per 150 anni, fu distrutto negli anni cinquanta del Settecento. Un trattato territoriale tra Spagna e Portogallo impose l’evacuazione delle reducciónes sulle rive dell’Uruguay: i gesuiti si unirono ai guaraní in una vana resistenza, che nel 1754 fu alla fine annientata dall’esercito alleato ispano-portoghese. Nel 1767, gli indios dimostrarono a loro volta fedeltà ai gesuiti sollevandosi nel Potosí (Bolivia) contro le truppe regie giunte per arrestare i padri in seguito alla soppressione borbonica dell’ordine. La storia degli indios guaraní rappresenta un incontro riuscito con il cristianesimo, almeno durante il periodo delle reducciónes gesuitiche. Tuttavia ci possiamo chiedere quanto essi avessero effettivamente capito del cattolicesimo. Tra i due estremi del rifiuto totale e della conversione concreta esistevano molteplici risposte possibili: verso l'estremo della conversione le risposte degli indios si classificano in sincretismo (mistura di religioni indigena e cristiana), nepantilismo ("nel mezzo") o conformismo esteriore; verso l'estremo del rifiuto si hanno la dissimulazione, la resistenza passiva e la ribellione. Ancora più combattivo fu il manipolo di "uomini-dio" del Messico coloniale, capi religiosi che combinavano il ruolo tradizionale dello sciamano con quello del messia cristiano. Politica, razza e sincretismo – tre temi centrali nell’evangelizzazione cattolica delle Americhe spagnole – furono importanti anche per la storia del cristianesimo nell’impero marittimo portoghese, costruito molto tempo prima del concilio di Trento. Un messianesimo reale , che derivava dalla crociata contro l’Islam, caratterizzò le scelte dei re portoghesi del Cinquecento, che identificarono l’espansione portoghese con il realizzarsi di un regno universale cristiano, il quinto impero profetizzato nella Bibbia. A fianco delle isole di Capo Verde e di São Tomé, nel Cinquecento popolate da mulatti, l’obiettivo principale dei portoghesi era il regno del Congo, i cui re si erano convertiti al cristianesimo. Nell’Africa occidentale furono sporadiche le attività missionarie, ma tutto naufragò con il commercio degli schiavi. Nella seconda metà del Cinquecento la missione in Congo era fallita e le piccole enclaves portohesi di Capo Vede e São Tomé davano rifugio a pochi preti europei non ancora adattati e che dipendevano per la loro sopravvivenza dalle linee commerciali. Anche le altre enclaves portoghesi – nell’oceano Indiano (Mozambico, Gôa, Sri Lanka) e nell’Asia orientale (Macao, Nagasaki) – furono fondate lungo gli itinerari marittimi commerciali della flotta portoghese. Il dibattito sull’ordinazione del clero extraeuropeo nei domini portoghesi rispecchiava la discussione sviluppatasi nell’America spagnola: la minoranza difendeva l’opportunità della preparazione di sacerdoti africani e asiatici, mentre la maggioranza (colonizzatori e chierici) nutriva sentimenti razzisti. Nel 1571 a São Tomé fu aperto un seminario per la formazione dei mulatti locali ma fu subito chiuso per introdurre nel luogo chierici europei. Pochi sacerdoti portoghesi erano tuttavia desiderosi di prestare servizio ai tropici. Il seminario fu riaperto nel 1595 e vi fu addestrato un clero secolare di mediocre levatura per il servizio locale. La distinzione tra un clero europeo di livello più alto e un clero africano di livello inferiore fu mantenuta in tutto l’impero portoghese. In aggiunta al pregiudizio razziale, l’opinione diffusa tra i missionari (gesuiti) era che un’educazione teologica seria, quindi in latino, doveva essere impartita solo in Europa. Ma anche quando il clero non europeo veniva istruito in Europa, le barriere razziali impedirono che venisse trattato con giustizia. Un esempio eclatante fu quello di Mateo de Castro, cristiano di Gôa appartenente alla casta dei bramini: dopo che l'arcivescovo di Gôa gli aveva rifiutato l'ordinazione, si recò a Roma dove fu ordinato; tuttavia, quando tornò in India, le autorità civili ed ecclesiastiche portoghesi si rifiutarono di riconoscere le sue credenziali. Il commercio africano degli schiavi era alla base del pregiudizio razziale esistente nel cattolicesimo portoghese. La Chiesa d’oltremare era la maggiore proprietaria di schiavi. Capitava a volte che gli uomini di Chiesa europei condannassero la schiavitù in Africa e la brutalità del commercio degli schiavi in America (come il domenicano portoghese Fernando Oliveira, l'arcivescovo del Messico Alonso de Montufar, Bartolomé de Albornoz e il gesuita Alonso de Sandoval), ma le loro proteste rimasero isolate. Persino il grande predicatore di corte, il gesuita António Vieira, difensore dei diritti degli indios, appoggiò la schiavitù africana perché essa alleviava il destino degli indios del Brasile. Data la diffusa convinzione della superiorità europea, pochi missionari presero seriamente le culture indigene con le quali venivano in contatto e si limitarono a impararne i dialetti per l'opera di evangelizzazione. Un'importante eccezione è data da Roberto de' Nobili, che si immerse nello studio di testi sanscriti e braminici, sperando di scoprire i segreti dell'induismo al fine di trovare concordanze sul piano culturale tra il cristianesimo e la religione indigena. Il tentativo, tuttavia, fu contrastato. Numerosi furono i problemi incontrati nel processo di evangelizzazione. In Africa, dove lo sforzo missionario era poco marcato, sopravvissero le pratiche tradizionali e la poligamia persino tra gli africani battezzati in Congo, Mozambico e Angola. Alla classe di governo africana i rituali cattolici fornivano un ulteriore linguaggio per la legittimazione del loro potere, una volta che si fossero guadagnati l’alleanza con i portoghesi. Capitolo 13: Le missioni cattoliche in Asia Il cattolicesimo trionfò in Asia per mezzo di strumenti diversi dal fuoco e dalla forza. L'India, il cui centro era Gôa, costituiva il fulcro dell'impero portoghese in Asia. Qui i portoghesi incontrarono una situazione più complessa di quella del Brasile o dell’Africa; la storia della cristianizzazione di queste aree rappresentò un momento di incontro con l’induismo, con l’Islam e anche con le comunità siro-cristiane (o di san Tommaso). Queste ultime, insediatesi da tempo sulla costa del Malabar, all'inizio accolsero favorevolmente il contatto con i portoghesi, che fornirono aiuto ai siro-cristiani contro i mercanti musulmani, loro rivali. Le tensioni scoppiarono nel 1550 quando i missionari portoghesi, considerando eretiche le loro dottrine e liturgie, provarono a cambiarle. Nel 1653, dopo il decreto del 1599 che prescriveva la totale conformità ai rituali romani, i siro-cristiani si scissero e una minoranza ritornò ai riti tradizionali, nonostante gli sforzi di riconciliazione dei carmelitani italiani tra il 1660 e il 1670. L’espansione cattolica in India sotto i portoghesi è scandita da tre fasi: la prima, dall’arrivo di Vasco de Gama nel 1500 fino al 1530, fu caratterizzata da un forte messianesimo e dalla militanza contro l’Islam; la seconda, terminata intorno al 1600, vide un intenso processo di cristianizzazione, che si tradusse nella creazione di istituzioni ecclesiastiche nelle aree sotto il diretto governo portoghese; la terza fase del consolidamento, dopo il 1600, fece progressi lenti e difficili dovendo fronteggiare la resistenza indigena e l’affermazione protestante nell’Oceano Indiano . La monarchia portoghese e la Compagnia di Gesù furono in quest’impresa i padri del cristianesimo indiano. I primi cristiani furono i soldati portoghesi e le loro mogli indigene. Nel giro di pochi anni una violenta campagna di conversioni distrusse tutti i templi indù nell’area sotto il diretto governo coloniale. Nel frattempo, giungevano gesuiti e missionari in cerca di anime da convertire. Qui si distinse il santo missionario Francesco Saverio, che giunse in India nel 1542 e convertì numerosi indiani. Roberto Nobili invece adottò la cultura e i costumi del mondo indiano (cibo, vestiti, pulizia) sperando di attrarre le élite della società indù, ma ebbe scarso successo. La presenza spagnola nelle Filippine rimase esigue e confinata alla città fortificata di Manila. Non vi erano imperi indigeni da sconfiggere o "culti pagani" da sradicare e, inoltre, l'immigrazione coloniale dalla madre patria qui non si sviluppò mai. Il dominio coloniale spagnolo dipendeva più dalla capacità di persuasione dei missionari che dalla violenza dei soldati. La cristianizzazione delle Filippine conseguì dunque buoni successi: vi fu l’accettazione in massa del cristianesimo da parte di un popolo amichevole e obbediente, anche se la conoscenza della spagnolo era limitata e il clero spagnolo era poco presente. I primi commercianti portoghesi giunsero in Giappone nel 1543 e nel 1549 furono raggiunti dal gesuita Francesco Saverio. Nel 1559 fu fondata una missione gesuitica a Kyoto, la capitale imperiale. Per quasi un secolo l’attività missionaria in Giappone parve avere grande successo; temporanei arretramenti nel 1587 condussero a sporadiche persecuzioni, sino alla repressione finale del 1614, che sarebbe durata per più di due decenni. Grazie al sostegno dei signori feudali (daimyo) i gesuiti riuscirono ad affermarsi nel paese e a ottenere il favore dello shogun (generale supremo). Negli anni ottanta del Cinquecento cambiò drasticamente la politica missionaria dei gesuiti: Alessandro Valignano rovesciò la politica di discriminazione verso il clero indigeno avviata da Francisco Cabral, primo superiore della missione, che aveva trascorso dieci anni in Giappone imparando ben poco della lingua e continuando a disprezzare gli indigeni. Valignano tracciò le linee guida per la successiva evangelizzazione: i gesuiti dovevano essere ben educati, prestare attenzione al rango, agli abiti e alle forme di cortesia; dovevano mangiare cibi giapponesi e le chiese dovevano essere costruite in stile giapponese. La scelta più importante fu quella di formare un clero giapponese accuratamente preparato e nel 1580 furono fondati due seminari per l'educazione di studenti sia europei sia giapponesi. Questo cambiamento strategico, tuttavia, giunse troppo tardi: quando nel 1614 ebbe inizio la repressione su larga scala, la missione giapponese aveva conferito gli ordini sacri solo a 15 sacerdoti indigeni. La generazione successiva al 1580 rappresentò sia l'apogeo della missione giapponese sia l'inizio della sua fine. Il catechismo di Valignano, scritto in latino e tradotto in giapponese, fu il primo testo cristiano in lingua volgare (1580). Sotto la direzione dei gesuiti, nel 1590, si cominciò a pubblicare un flusso costante di libri in giapponese. In Giappone il cristianesimo si diffuse soprattutto tra l'élite di governo e i samurai. Nel 1587 sotto Hideyoshi, che nutriva delle riserve verso il cristianesimo, fu promulgato un editto che limitava le pratiche cristiane e bandiva tutti i missionari, ma queste disposizioni non furono rispettate rigorosamente. Nonostante l’opposizione dei gesuiti, i francescani spagnoli da Manila giunsero in Giappone nel 1593, spezzando il monopolio missionario dei gesuiti. Nel 1597, in seguito al naufragio di una nave portoghese pesantemente armata e piena di frati a bordo, lo shogun Hideyoshi fece crocifiggere un gruppo di 26 missionari francescani e gesuiti. Dopo la morte di Hideyoshi, il cristianesimo conobbe una tregua di 15 anni. Sebbene il nuovo shogun Tokugawa paresse tollerare il cristianesimo, i portoghesi non godevano più del monopolio commerciale: i loro rivali, gli inglesi e gli olandesi, tentavano di far apparire il cattolicesimo nel peggior modo possibile. Sporadiche persecuzioni locali portarono a massicce dimostrazioni di fede da parte dei cristiani giapponesi e alla manifestazione della volontà di essere sottoposti al martirio. Allarmato dalla loro organizzazione e autonomia, Tokugawa promulgò nel 1614 un editto che bandiva tutti i missionari stranieri. Quasi tutti i missionari lasciarono il paese, ma il cristianesimo sopravvisse ancora per due anni in clandestinità. Nel 1616, però, il nuovo shogun Hidetada, ostile al cristianesimo e a qualsiasi contatto con gli stranieri (intendeva creare un “paese chiuso”), avviò Non tutti gli uomini di Chiesa condividevano l'entusiasmo dei missionari: gran parte della disapprovazione era diretta contro il carattere seduttivo delle missioni gesuitiche. Nonostante le critiche del giansenismo, nel lungo periodo il cattolicesimo tridentino ebbe successo non nell’eliminare le "superstizioni", ma nel coniugare l’ortodossia e la spiritualità popolare: un esempio sono le confraternite e i pellegrinaggi. Il concilio di Trento aveva predisposto la riorganizzazione della vita delle confraternite: aveva cercato di imporre l’autorità ecclesiastica su queste associazioni volontarie laiche e aveva tentato di separare il sacro dal profano. Lo spirito del rinnovamento si rifletté soprattutto su tre nuovi tipi di associazioni: la confraternita del Santo sacramento; le confraternite del Rosario e i sodalizi mariani. La confraternita del Santo sacramento, organizzata a Parigi nel 1629, è un’istituzione caratteristica della pietà gallicana del Seicento, formata da 501 laici (appartenenti alla nobiltà e alla borghesia commerciale) e 405 chierici. I membri di questa confraternita si dedicavano a colloqui spirituali, lettura di testi di pietà, donazioni caritative, visite a ospedali e prigioni, sostegni a missioni, conversioni di donne cadute nel peccato e di protestanti, sostegni a missioni e seminari. Le confraternite del Rosario, organizzate dai domenicani nell’Europa settentrionale e le cui prime due congregazioni furono stabilite a Douai (1470) e a Colonia (1475), divennero, dopo il Concilio tridentino, indice della diffusione del vigore della Controriforma. I sodalizi mariani, che rappresentavano il più importante tipo di confraternita controriformistica, inizialmente organizzati dai gesuiti per gli studenti dei loro collegi, giunsero a comprendere una vasta parte della popolazione urbana dell’Europa cattolica, in particolare le élite laiche ed ecclesiastiche e successivamente i ranghi più bassi della società urbana (magistrati, mercanti, artigiani). I sodalizi mariani erano divisi per ordini: gli studenti dei collegi erano raccolti nelle congregazioni di arti liberali e di teologia; le élite spirituali e di governo erano inquadrate in circoli riservati a coloro che conoscevano il latino; artigiani e donne si riunivano in sodalizi destinati a quanti conoscevano solo il volgare. I sodalizi mariani costellavano il paesaggio urbano dell’Europa cattolica addensandosi soprattutto in Belgio, Renania, Baviera, Lorena e Italia centrosettentrionale. Mentre i sodalizi si diffondevano, le élite celavano la loro ricerca della santità nel più grande segreto. Le prime congregazioni segrete furono fondate all’interno dei sodalizi di Napoli (1611) e di Roma (1637) per favorire una più stretta unione tra i membri segreti e rafforzare lo spirito della congregazione. Mentre i collegi gesuitici controllavano l’educazione dell’Europa cattolica, i loro studenti, diventati magistrati e funzionari, occupavano i ranghi all’interno dei sodalizi (nelle città della Germania cattolica accadeva spesso che tutti i magistrati appartenessero a sodalizi mariani). Questo contribuiva alla formazione di una nuova élite cattolica (laica ed ecclesiastica) plasmata dai valori del cattolicesimo tridentino. Nelle zone rurali, l’inizio del Settecento rappresentò un età d’oro di rinascita religiosa: fiorirono i pellegrinaggi, le confraternite e le devozioni. La religiosità popolare, pur conservando il tradizionale carattere terapeutico, era stata depurata da molti degli "eccessi" (vino, danze, veglie, ecc) condannati dal clero. La parrocchia emergeva ora come il luogo centrale del culto, a seguito della chiusura delle cappelle rurali e delle chiese private. Lentamente, però, le élite dell’Europa cattolica esaurirono lo spirito militante che aveva modellato la società tra il 1560 e il 1650. Lo stile della Controriforma passò di moda tra le élite: in Francia la figura del devoto dell’età di Luigi XIII lasciò il posto a quella del libertino dell’epoca di Luigi XV; in Germania principi e i nobili frequentavano l’opera invece che i teatri dei gesuiti. La Chiesa dovette anche fronteggiare delle dispute interne, che inasprirono il confronto tra Stato e Chiesa. La più rilevante di queste dispute derivava dal giansenismo, ossia dalle dottrine del vescovo Cornelius Jansen, che affermava che solo un’esigua élite di uomini timorati di Dio avrebbe trovato la salvezza attraverso la grazia divina e la predestinazione. Urbano VIII, Innocenzo X e Alessandro VII condannarono Jansen e le sue proposizioni . La conseguenza più importante della controversia giansenista non fu di carattere teologico, ma politico. Per molti vescovi francesi e belgi e per i loro sostenitori laici, il giansenismo divenne il simbolo della resistenza contro gli eccessi del potere pontificio, evidenti nelle azioni repressive papali e nella complicità dei gesuiti. Un’ulteriore sfida alla Chiesa tridentina venne dall’Illuminismo. Tre uomini di cultura – Van Espen, Febronius e Muratori – furono i rappresentanti di questa nuova apertura che caratterizzò il cattolicesimo illuminato: essi attaccarono il papato, difesero l’autorità dei principi, difesero il potere dei vescovi e condannarono i gesuiti. Il Settecento fu un’epoca segnata dal deismo, dalla filosofia, dalla scienza e dalla sensualità, nella quale i misteri e la gloria del cattolicesimo tridentino era passati di moda. Nel frattempo maturava l’ostilità verso i gesuiti, la cui presuntuosa arroganza metteva in evidenza la debolezza del potere papale. La Compagnia di Gesù subì una intensa campagna diffamatoria in Europa, mentre nelle Americhe venne incolpata di avidità di denaro e sete di potere e di tutti i mali della regione. Nel 1759 i gesuiti furono espulsi dal Portogallo (accusati anche di essere coinvolti nel fallito attentato a Giuseppe I del 1758); nel 1761 vi fu lo scioglimento della Compagnia in Francia e nel 1767 furono espulsi da Napoli e da tutti i possedimenti spagnoli. Papa Clemente XIV, sotto l'intensa pressione dei potentati cattolici, sciolse l'ordine nel 1773. La soppressione della Compagnia di Gesù da parte dei Borboni si tradusse anche con il bando di centinaia di gesuiti dai domini portoghesi e spagnoli delle Americhe, con conseguente danno per gli indigeni che abitavano nelle missioni gesuitiche. La Chiesa cattolica, alla vigilia della Rivoluzione francese, si presentava lacerata da dissidi interni, minacciata dai sovrani cattolici e sfidata da atei e filosofi deisti. Il cattolicesimo, a quanto pareva, si era salvato dalla Riforma protestante solo per cadere preda dell'irreligiosità. Tuttavia, successivamente alla vittoria contro Napoleone, il cattolicesimo sarebbe riemerso dopo il 1815 in un mondo restaurato, nel tentativo di ripristinare il ricordo della gloria trascorsa.