Scarica La favola di Amore e Psiche nell’Adone di Marino e più Tesine universitarie in PDF di Letteratura solo su Docsity! Indice Introduzione.....................................................................................................................................................1 Marino e l’Adone..............................................................................................................................................2 1. La vita.......................................................................................................................................................2 2. Alcune opere e il Marinismo......................................................................................................................6 3. L’Adone.....................................................................................................................................................8 La favola di Amore e Psiche nell’Adone di Marino..........................................................................................17 1. Il mito di Amore e Psiche.........................................................................................................................17 2. Confronto tra Marino, Apuleio e Udine...................................................................................................24 3. Le allegorie del mito e la sua analisi psicanalitica...................................................................................29 4. Interpretazioni varie del mito..................................................................................................................31 Conclusioni......................................................................................................................................................40 Ringraziamenti................................................................................................................................................41 Bibliografia......................................................................................................................................................42 Introduzione Oggetto della presente tesi di laurea è l’esplorazione dei più disparati livelli interpretativi della favola di Amore e Psiche, avendo come base il IV canto dell’Adone di Giovan Battista Marino che la ospita. Tale trattazione è frutto della curiosità e dell’interesse personale per la mitologia e per i suoi vasti rimaneggiamenti nel mondo delle arti, del teatro e della letteratura. È infatti chiaro come la materia del mito abbia costituito da sempre una fonte inesauribile di studi e con quest’elaborato è mia intenzione esplicare al meglio tale fenomeno. Nel primo capitolo si parla della vita di Marino, del suo far meraviglia e dell’Adone, l’opera mastodontica che ha come protagonisti Venere e Adone la cui storia è purtroppo destinata a un finale assai tragico. Lo scopo di questa prima parte è una totale immersione nella trama del poema e nelle sue peculiarità, andando ad analizzare il lato puramente sensistico e intellettuale che riguarda l’iniziazione di Adone, l’aspetto edonistico del tema amoroso e quello rocambolesco della sezione romanzesca. Il secondo capitolo comincia con una breve analisi del concetto di mito che se da un lato si propone come modello comportamentale e come soluzione di tensioni, dall’altro cerca di soddisfare l’esigenza quasi ossessiva dell’essere umano che solo mediante la mitologia può provare a rispondere ai suoi quesiti cosmogonici. L’attenzione si sposta poi sulla trama della storia di Amore e Psiche, cui segue un attento confronto tra il IV canto del Marino, la favola apuleiana e il rifacimento in ottave di Ercole Udine, analizzandone sia i punti di contatto sia le diversificazioni. Negli ultimi due paragrafi del capitolo, il terzo e il quarto, si arriva a parlare delle varie interpretazioni del mito con una particolare attenzione all’analisi psicoanalitica di Erich Neumann, all’esaltazione della spettacolarità della stagione teatrale, alla prospettiva erotico-edonistica, a quella sensistica di Madame de Lambert e spiritualistica di Gabriel Mourey, al registro intimistico che riprende il concetto di «giardino» e, per finire, alla forma parodistica di La Fontaine. 1 Si reca a Torino insieme al cardinale Aldobrandini in occasione delle doppie nozze che uniscono le due figlie di Carlo Emanuele duca di Savoia, Isabella e Margherita, con Alfonso d’Este e Francesco Gonzaga, cui Marino offre due epitalami (rispettivamente Il balletto delle Muse e Il letto). In questa occasione è più che evidente lo sfrenato desiderio di affermazione e la volontà di entrare alla corte sabauda. Lo dimostrano «l’ampiezza del disegno nel caso de Il balletto delle Muse» e «l’audacia dei riferimenti erotici ne Il letto»5, cui passa a un elogio diretto a Carlo Emanuele: Il Ritratto di Don Carlo Emanuello, stampato a Torino nell’autunno del 1608, ottenendo anche il titolo di Cavaliere dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro. È di questo periodo lo scontro con Gasparo Murtola6, segretario del duca di Savoia, che a un certo punto attenta persino alla sua vita. Il poeta genovese gli spara alcuni colpi di pistola in mezzo alla strada dai quali il Marino esce miracolosamente illeso. Dopo questo triste episodio, l’autore dell’Adone indirizza un memoriale in forma di lettera a Carlo Emanuele nel quale – apparentemente – chiede clemenza per il rivale. Il suo intento è, in realtà, eludere alcune accuse anche abbastanza gravi che gli sono state mosse presentando la versione ufficiale dell’accaduto. Poche settimane dopo la lettera, a Parma, viene presentata una denuncia presso il Sant’Uffizio. Nel 1609 Marino si trasferisce stabilmente a Torino al servizio di Carlo Emanuele ma due anni dopo viene nuovamente arrestato per aver in qualche modo oltraggiato la figura del suo protettore7. A nulla sembrano valere le sue numerose conoscenze rimanendo di fatto in carcere per più di un anno, ottenendo la libertà solo nel giugno del 1612 grazie all’intervento dell’ambasciatore inglese a Venezia, Henry Wotton. Il poeta partenopeo preferisce rimanere a Torino per dedicarsi alla raccolta della Lira, terza e ultima parte delle Rime, e alla prosa delle Dicerie sacre. Proprio in apertura delle 5 Russo, Marino, cit. p.88. 6 Si fa riferimento alle Fischiate di Marino, cui Murtola risponde con le Risate e con un libello che accusa di eresia il nemico. 7 In una lettera a Francesco Gonzaga, così scrive: «Quando io aspettava qualche ricompensa della mia servitù in questa corte, eccomi prigione sotto pretesto che io abbia nelle mie poesie scherzato poco modestamente intorno alla persona del serenissimo padrone; ed insieme mi hanno tolte non solo tutte quelle poche robbe ch'io qui aveva, ma, quel che piu mi preme, le scritture, dove è la maggior parte delle mie fatiche imperfette.» (G. B. Marino, Epistolario, cit. vol. I, LXIV). 4 Dicerie sacre, il Marino tenta un elogio a papa Borghese con l’obiettivo di sedare le ostilità del Sant’Uffizio così da poter tornare serenamente a Roma. Nel 1615, su invito della regina Maria de’ Medici, si reca a Parigi in quella che è di fatto una fuga dopo che l’Inquisizione ha richiesto la reclusione del poeta a Torino e il suo trasferimento a Roma. Descrive così il suo soggiorno alla corte francese: «Son vivo (la Dio mercé), sano e (quod peius) ricco come un asino. Le mie fortune qui vanno assai bene. Son ben venuto da questa maestà ed accarezzato da tutti questi prencipi»8. Il soggiorno parigino non fa dunque che accrescere il suo prestigio letterario. In questo periodo progetta una stampa dell’Adone da dedicare a Concino Concini9, uno degli uomini più influenti del paese e con il quale instaura un legame immediato e spontaneo. Ma nel 1617 tale Concini viene fatto assassinare per ordine di Luigi XIII e il Marino, ritrovatosi in una situazione alquanto particolare, decide di indirizzare l’Adone non più a Concini ma al nuovo re ormai divenuto maggiorenne, avviando un’accomodatura del poema che si protrarrà a lungo. Intanto vengono pubblicate la Galeria a Venezia (1619) e la Sampogna a Parigi (1620). Dopo otto anni, Marino torna in Italia. Qui viene accolto e celebrato dall’intero mondo letterario, fatta eccezione per Stigliani10. In seguito alla pubblicazione dell’Adone, il Marino promette di mandare in stampa altri due grandi progetti: la Strage de gl’Innocenti e le Trasformazioni. Nel 1623 Gregorio XV muore improvvisamente e al soglio pontificio viene eletto Maffeo Barberini con il nome di Urbano VIII, austero classicista che non è di certo incline alla poesia frivola e sensuale di Marino. 8 G. B. Marino, Epistolario, cit. vol. I, CXXX. 9 È il favorito della regina Maria de’ Medici e sposato con Léonore Dori, sua confidente, cui il Marino dedica Il Tempio, portato in stampa a Lione nel 1615. Ottiene il titolo di maresciallo d’Ancre ma la sua grande influenza politica attira le antipatie del giovane Luigi XIII e dell’alta aristocrazia francese, ragion per cui viene fatto uccidere. 10 Tommaso Stigliani è un caso particolare. Quando, nel 1605, pubblica le Rime, è evidente quanto sia dominato dal gusto barocco – ben più del Marino stesso, suo rivale. Ma già a partire dal 1616 comincia la sua inversione di rotta che culmina nell’attacco all’Adone contenuto nell’Occhiale (1627). Ma sebbene abbia riempito pagine e pagine di polemiche contro lo stile eccessivo del poeta napoletano (venendo considerato l’antimarinista per eccellenza), è sua l’immagine della luna-frittata, una delle più esagerate del secolo e indice della sua ispirazione poetica. 5 Quest’ultimo, tornato a Napoli, riceve altresì un’accoglienza calorosa e viene eletto principe dell’Accademia degli Oziosi, radunata attorno al Manso. Già ammalato, muore il 26 marzo del 1625. 2. Alcune opere e il Marinismo Nella produzione mariniana, colpisce innanzitutto la riproduzione dei materiali letterari già noti alla tradizione, soprattutto petrarchesca e tassiana. Nella lettera a Claudio Achillini (1620), posta a premessa della Sampogna, Marino scrive: Sappia tutto il mondo che infin dal primo di ch'io incominciai a studiar lettere, imparai sempre a leggere col rampino, tirando al mio proposito ciò ch' io ritrovava di buono, notandolo nel mio zibaldone e servendomene a suo tempo, ché insomma questo è il frutto che si cava dalla lezione de' libri. Così fanno tutti i valenti uomini che scrivono; chi così non fa non può giamai, per mia stima, pervenire a capo di scrittura eccellente11. Leggere “col rampino” significa, per l’appunto, riprendere l’antico repertorio di topoi, situazioni, stilemi letterari e retorici (spesso esasperandone la componente briosa) con l’unico obiettivo di suscitare la meraviglia di chi legge. Del resto, come adeguatamente sintetizza un celebro passo della Murtoleide: «È del poeta il fin la meraviglia, / (parlo dell'eccellente e non del goffo): / chi non sa fa stupir vada alla striglia!» La presenza di metafore ardite, concettose e sensuali, valorizza lo stile del poeta partenopeo e lo eleva a massimo esponente della letteratura barocca, espressione di una cultura quanto mai slegata dalle regole imposte su una società che va maturando. La crisi dell’equilibrio classicistico e la fine della certezza antropocentrica sono solo alcune delle novità che vanno a rappresentare la stagione poetica del Seicento. Quando nel 1602, Marino pubblica le Rime, notevole è il loro successo editoriale. L’opera è divisa in due parti: la prima, dedicata a Melchiorre Crescenzi, comprende 456 sonetti articolati in 11 G. B. Marino, Epistolario, cit. vol. I, CLI. 6 Come testimonia una lettera di Camillo Pellegrino (1596), l’idea iniziale era quella di un poemetto senza troppe ambizioni, risalente agli anni napoletani. Poi, nel 1605, Marino scrive a Bernardo Castelli: L'Adone, il quale è diviso in tre libri. Il primo contiene l'origine dell'innamoramento fra la Dea e ’l giovane; e qui potrebbe entrare una figura di Adone addormentato in un prato, con la faretra appesa ad un arbore e i cani a’ piedi, e la Dea che gli sta sopra in atto di vagheggiarlo. Nel secondo si raccontano gli amori e i godimenti dell'uno e dell'altro; e vi farebbe a proposito la figura di Venere e di Adone che stanno trastullandosi in un boschetto abbracciati insieme, overo in atto di stare ascoltando gli uccelli che vengono a mover lite innanzi a loro. Nell'ultimo si narra la caccia dell'infelice giovane e la sua morte, col pianto che fa la Dea sopra il corpo dell'amato15. Lo scheletro della favola è chiaro ma per motivi che rimangono tuttora ignoti (forse riconducibili all’ostilità nutrita dall’Inquisizione) il progetto di stampa non va a buon fine. Per una nuova descrizione del poema bisogna attendere la Lettera Claretti del 1614, in cui si parla di un Adone «distribuito in quattro libri, cioè Amori, Trastulli, Dipartita e Morte»16. Significative sono le lettere che Marino scrive a Fortuniano San Vitale e a Giovan Battista Ciotti (datate tra il 1614 e il 1615) in cui è evidente il desiderio del poeta di dare alle stampe l’Adone a Parigi, lontano dal processo rimasto aperto del Sant’Uffizio17 e non prima di averlo ulteriormente ampliato. Ma anche in Francia la pubblicazione del poema subisce una serie di battute d’arresto a causa di alcuni avvenimenti: tra questi, la morte di Concini e il conseguente riadattamento dell’Adone alle misure del nuovo re, le campagne militari contro l’opposizione ugonotta e i disaccordi tra Maria de’ Medici e suo figlio Luigi XIII, che rendono impossibile dare alle stampe un’opera che vuole omaggiare tanto il giovane sovrano quanto la regina madre. Per stringere i tempi, Marino decide persino di spedire il «benedetto Adone» a Venezia, seppur incompleto di «due ultimi quinternetti 15 G. B. Marino, Epistolario, cit. vol. I, XXXVI. 16 Lettera Claretti, 43 cfr. Russo, Marino, cit. p. 253. 17 «L'Adone penso senz'altro di stamparlo lá, si per la correzione, avendovi da intervenir io stesso, si perché forse in Italia non vi si passerebbono alcune lasciviette amorose.» (G. B. Marino, Epistolario, cit. vol. I, CXV). 9 con la fine del ventesimo canto e la lettera di dedicazione alla reina madre»18. Alla fine di un percorso editoriale tanto tortuoso, il 24 aprile del 1623, l’Adone, poema del Cavalier Marino viene pubblicato a Parigi presso Oliver de Varennes per poi essere dato alle stampe anche in Italia nello stesso anno. A seguito delle numerose aggiunte, l’Adone costituisce l’opera più ampia della letteratura italiana che con i suoi 40.984 versi e le sue 5.123 ottave, supera di tre volte la Divina Commedia. L’esile favola mitologica degli amori di Venere e Adone è la stessa narrata da Ovidio nelle Metamorfosi; invece, a Nonno Panopolita e alle sue Dionisiache si deve l’impianto epico del poema. Ma il Marino si rifà anche a numerosi altri autori greci e latini, come Lucano, Apuleio e Claudiano. Tra i poeti italiani, una presenza non indifferente è quella di Dante19 ma un modello altrettanto importante è rappresentato da Ariosto. Notevole è l’influsso del Tasso, sebbene rimanga netto il divario tra l’ispirazione prevalentemente storica del Mondo creato e quella mitologica di Marino. Il poema comincia con un antefatto nel canto I (La Fortuna) dove si narra di Amore fanciullo che vuole vendicarsi di Venere dopo aver subìto la sua ira20. Ascoltato il suggerimento del Dio Apollo e aiutato dagli altri dèi, fa in modo che Adone raggiunga il regno di sua madre, Cipro, e che venga condotto da Clizio al Palagio d’amore (canto II). Qui è raccontato il mito del giudizio di Paride. Nel canto III (L’innamoramento) Venere vede Adone addormentato e colpita dalla freccia di Amore se ne innamora immediatamente. Il sentimento viene ricambiato e la Dea conduce il bell’uomo nel suo palazzo. Il canto IV (La Novelletta) ospita la favola di Amore e Psiche che Amore stesso narra a Adone e che sarà il fulcro di questo mio elaborato. Mercurio appare nel canto V (La Tragedia), raccontando cinque storie tragiche di giovani che hanno amato delle divinità. 18 G. B. Marino, Epistolario, cit. vol. II, CXCVIII. 19 Celebre è un verso del canto IV, La novelletta, ottava 277, («ritornò salva a riveder la luce»), in riferimento all’ultimo verso dell’Inferno dantesco (XXXIV 139: «e quindi uscimmo a riveder le stelle»). 20 «Amore pur dianzi, il fanciullin crudele, / Giove di nova fiamma acceso avea. / Arse di sdegno e, ’l cor d’amaro fiele / sparsa, gelò la sua gelosa dea, / e ’ncontro a lui con flebili querele / richiamossi del torno del torno a Citerea; / onde il garzon sovra l’etade astuto / da la materna man pianse battuto.» (G. B. Marino, Adone, a cura di E. Russo, ed. BUR, canto I, 11). Non è chiaro a quale momento della mitologia classica si faccia riferimento. 10 Dopodiché, nei canti successivi (Il giardino del piacere, Le delizie, I trastulli, La fontana di Apollo, Le meraviglie e Le bellezze) vi è l’iniziazione alla conoscenza sensitiva attraverso la sperimentazione dei piaceri dei cinque sensi e alla conoscenza intellettiva attraverso l’esplorazione dell’universo sino al pianeta Venere. Di qui l’elogio a Galileo Galilei. Con il canto XII (La fuga) il poema avvia una trama romanzesca con la Gelosia che istiga Marte a recarsi a Cipro e con Venere che subito fa fuggire Adone munito di anello fatato. Il giovane giunge nel regno della maga Falsirena che se ne invaghisce. Il canto XIII (La prigione), il XIV (Gli errori) e il XV (Il ritorno) narrano le sofferenze di Adone perseguitato dalla maga, la sua trasformazione in pappagallo, la fuga dal carcere in cui è stato imprigionato e il suo ritorno a Cipro dove scopre gli amori di Venere e Marte. Aiutato da Mercurio, riacquista l’aspetto umano e dopo alcune peripezie in balia dei ladroni di Malagorre, Adone è accolto a Cipro da una Venere travestita da zingara che lo ammonisce di non andare più a caccia. Per poter regnare sul regno della Dea, il giovane deve poi sottoporsi a un concorso di bellezza maschile nel canto XVI (La corona), che vince facilmente. Il canto XVII (La dipartita) è l’antefatto della morte di Adone, che si prepara alla caccia dopo che Venere è partita per Citera. Nel canto XVIII (La morte) Falsirena spinge Marte alla vendetta. Adone viene aggredito da un cinghiale, ma la freccia che gli scaglia è stata preparata da Amore e fa innamorare la bestia che, per poterlo baciare, lo ferisce a morte. Intanto Venere, avvertita in sogno, raggiunge il luogo della morte del suo amato. Il canto XIX ospita La sepoltura e il poema si chiude con il canto XX (Gli spettacoli), in cui Venere indice tre giorni di giochi in onore del defunto. Da sottolineare è la duplicazione del meccanismo narrativo che fa dell’Adone un poema bifocale: dei canti III e XV è il doppio incontro di Adone e Venere, a seguire il doppio momento di felicità (canti VIII e ancora XV) e, per finire, il doppio lutto dei canti XII e XVIII, rispettivamente rappresentati dalla separazione e dalla morte. Le sequenze narrative si ripetono quasi identiche: Venere vince un concorso di bellezza all’inizio del poema mentre Adone lo vince alla fine; i sei 11 È una forza soverchiante che tutto abbraccia e tutto muove27, secondo una prospettiva che il linguaggio barocco esprime appieno. In tal senso, Marino affronta il capovolgimento della figura dell’eroe. Nella sua opera, Adone è un personaggio assolutamente passivo. Si lascia guidare come un automa, non ama la violenza, non si oppone al rivale Marte, è straordinariamente tollerante nei confronti della donna amata e dei suoi tradimenti e non è né un buon cacciatore né un buon giocatore (perde una partita a scacchi). Viene inoltre descritto come un giovane delicato, senza barba, con un perenne rossore sulle guance, esattamente come vuole la tradizione greca. È la personificazione dell’antieroe, quasi femminile in alcuni suoi atteggiamenti. Di contro, Venere è la seduttrice. Attraverso il suo incontro con Adone viene narrata la storia della rosa rossa, eletta a simbolo della passione amorosa dopo che questa (precedentemente bianca) punge il piede della Dea, tingendosi del suo sangue. È la scusa per essere notata dal bel giovinetto e sedurlo. Venere tradisce suo marito Vulcano, si innamora di Adone, ma intanto si concede a Marte con una certa disinvoltura. Tuttavia, neanche lei può niente contro l’atroce destino che incombe sul suo amato, frutto del caso e dei capricci divini. Proseguirei l’analisi, aprendo una piccola parentesi riguardante la commistura di generi letterari distinti che vanno susseguendosi all’interno del poema. Se i canti che vanno dal VI al XI rappresentano la sezione esamerotica nella quale Adone è iniziato alla conoscenza sensitiva e intellettuale, dal canto XII scatta la dimensione romanzesca, con la separazione dei due amanti. Si tratta di un aggiunta inedita alla favola originaria che permette a Marino di movimentare la struttura del poema mitologico. A causa dell’arrivo precipitoso di Marte a Cipro, il bel giovane è costretto alla fuga. Qui s’imbatte nella «fata de’ tesori28», Falsirena, che, in una dinamica in tutto simile al primo incontro tra Venere e Adone, si innamora di quest’ultimo venendo però rifiutata. Il modulo romanzesco si 27 Il poema ha inizio proprio da una vendetta di Amore. «Amor fu solo autor di sì gran moto» (G. B. Marino, Adone I, 59). E ancora: «Amor, a te che l’universo reggi» (XIV, 384); in relazione al fatto che chiunque sia nel completo dominio di Amore. Lo stesso Marte, Dio della guerra, in nome della passione che lo lega a Venere perde la sua fierezza e la sua mascolinità, lasciandosi cingere la testa di corone di fiori e cospargere di oli profumati. 28 Marino, Adone, Allegoria al canto XII. 14 protrae per altri due canti con la prigionia del protagonista, la sua improvvisa metamorfosi in pappagallo, il suo ritorno a Cipro e la scoperta del tradimento di Venere con il Dio della guerra. Dopo aver riottenuto sembianze umane, Adone si traveste da donna, viene rapito dai banditi di Malagorre e assiste al suo scontro con Orgonte, inviato da Falsirena con lo scopo di riportalo indietro. In questa fase del racconto vengono presentati nuovi personaggi: da una parte ci sono Filora e Filauro, il quale si innamora di Adone credendolo una donna; dall’altra Sidonio e Dorisbe, la cui storia d’amore sembra avere un lieto fine29, in opposizione all’impianto tragico del poema. La sezione del romanzo d’avventura termina con il tanto agognato ricongiungimento dei due amanti a Cipro. In ultima analisi mi interessa esaminare l’acceso dibattito nato in seguito all’uscita in stampa del poema. Ma prima è necessaria una premessa. Nel 1623 Marino scrive una lettera a Giacomo Scaglia: Vi manca [alla conclusione del poema] ancora un lungo discorso, ch' io ho fatto sopra questo libro ed entrerà subito dopo la lettera dedicatoria; e veramente mi sarebbe sommamente caro che in Italia non si vedesse quest'opera senza esso, perché oltre il dichiarare molti miei pensieri intorno a si fatto poema, parlo diffusamente dello scrivere lascivo. Onde, se potrete trattener tanto la publicazione finch'io lo mandi, vi priego a farlo30. Tale discorso avrebbe innanzitutto giocato un ruolo di difesa preventiva dell’Adone, parandone le critiche, sia letterali che clericali, e allo stesso tempo avrebbe introdotto appropriatamente e in maniera immediata nello scenario italiano un’opera fattasi tanto ricca e ambiziosa. Jean Chapelain parla dell’Adone come di un buon poema, costruito secondo le regole generali dell’epopea, il migliore del suo genere che sia mai stato pubblicato e lo definisce «un poëme de paix»31. Ma, 29 «L’avvenimento di Sidonio e di Dorisbe, [...], ci rappresenta il ritratto d’un vero e leale amore, che, quando [...] è guidato dalla prudenza e regolato dalla temperanza e dalla modestia, spesso sortisce buon successo» (Marino, Adone, Allegoria al canto XIV). 30 G. B. Marino, Epistolario, cit. vol. II, CXCVIII. 31 Lettre ou discours de M. Chapelain, cfr. Marino, Adone, p. 104. 15 nonostante ciò, l’opera mariniana non è stato esente dalle critiche perché sostanzialmente viola i princìpi aristotelici ed è privo di unità. Tommaso Stigliani attacca ferocemente l’Adone nel suo L’Occhiale (1627), ma prima di questo nessuna opera del Marino (fatta eccezione per il sonetto contestato dal Carli a causa di un banale lapsus mitologico) ha mai incontrato un pubblico dissenso. Una prima sezione de L’Occhiale è dedicata alle contestazioni riguardanti la struttura stessa del poema, il suo processo costruttivo, le discordanze e gli errori di arte poetica che caratterizzano l’Adone nelle parti qualitative (favola, giudizio, tradizioni, stile). Parecchio più ampia e significativa è la seconda sezione, in cui Stigliani procede a segnalare errori, cadute di stile e, soprattutto, dimostrando la presenza di innumerevoli plagi a discapito di autori antichi e moderni (es. Virgilio e Tasso), oltreché dolendosi di altri furti commessi ai propri danni. Nel 1630 appare postuma la Difesa di Girolamo Aleandri, mossa da una solida ostilità nei confronti di Stigliani. Afferma che l’abilità dimostrata dal poeta partenopeo nel realizzare un poema partendo da una magra favola mitologica sia indice di eccellenza e che sia proprio il suo stile, ricco di metafore e suggestioni, la virtù più alta dell’opera. Dopo di lui, altri letterati hanno espresso le loro opinioni in merito (Nicola Villani, Errico Scipione) mentre altri hanno preferito dedicarsi a libelli violentissimi contro lo Stigliani (Andrea Barbazza con le Strigliate, Giovanni Capponi con le Staffilate). Nel 1645 lo stesso Stigliani, a vent’anni dalla morte del rivale, non si esimia dal condurre l’ennesimo feroce attacco. Intanto, nonostante l’Adone sia stato posto all’Indice, l’opera continua a circolare tra i lettori colti di tutta Europa, ottenendo grandissimo successo. Ciò nondimeno, per tutto il Settecento e l’Ottocento, l’intera produzione poetica del Marino diventa improvvisamente sinonimo di cattivo gusto e intellettualismo artificiale; così come la cultura barocca in generale. Anche tra i poeti italiani del Novecento Marino non ha molta fortuna, se si esclude d’Annunzio, che nel romanzo L’innocente (1892) descrive il canto dell’usignolo, riprendendo alcune espressioni del 16 preferendo figurare come un comune amante35. Intanto, l’oracolo di Mileto profetizza uno sposo crudele e terribile per la giovane Psiche («Né genero sperar dal tuo destino / generato d’origine mortale, / ma feroce, crudele e viperino, [...]»36). Disperato, il re lamenta e maledice il fato avverso ma è Psiche stessa, portatrice del significato morale del racconto, a rassicurarlo e a confortarlo, correggendo quindi l’approccio poco costruttivo alla miseria del padre. Dopodiché, abbandonata ai bordi di una rupe così come profetizzato, viene presa dal vento Zefiro e condotta al palazzo di Amore. Qui, la fanciulla viene accolta da ancelle invisibili: [...] non bramar di veder quel che non lice, spirito astratto et impalpabil ombra. Gli altri beni e piacer tutti son tuoi, ciò che qui vedi o che veder non puoi.37 I due amanti consumano la loro passione di notte, approfittando della completa oscurità in cui è immersa la camera della bella fanciulla («De la vista il difetto adempie il tatto, / quel che cerca con l’occhio accoglie in braccio; / s’appaga di toccar quel che non vede, / quanto a l’un senso nega a l’altro crede»38). Ciò si ripete tutte le notti e senza che il volto del Dio possa essere visto poiché egli desidera conservarsi invisibile ai suoi occhi. Tutto sommato, Psiche si ritrova a vivere una vita felice e appagante ma una visita delle sorelle maggiori rappresenta per lei l’inizio della fine. Invidiose della ricchezza e della fortuna in cui è immersa la più giovane, il malvagio duo inizia a tramare un piano per riprendersi una rivincita: infrangere la gioia di Psiche sembra essere l’unico modo. Poco dopo aver appreso da Amore di essere in dolce attesa («che fia divino et immortale al mondo / se s’asterrà dal mio conteso aspetto»39), le sorelle instillano in Psiche l’idea che a 35 Ivi, 45. Amore afferma, per altro, di preferire all’immortalità la morte per la passione. 36 Ivi, 50. 37 Ivi, 93. Qui l’anticipazione del divieto di non poter vedere il suo sposo. 38 Ivi, 98. 39 Ivi, 125. 19 presentarsi da lei ogni notte non sia una splendida creatura divina, bensì un mostro. Segue una tanto accurata quanto spiacevole descrizione del «fier serpente»40 che, una volta saziato il desiderio sessuale, sarebbe passato a un altro genere di appetito, divorandola. Psiche, incapace di reggere il peso dell’incertezza, decide di rompere quell’unica regola imposta dal suo amato e di far luce, letteralmente, sul suo aspetto, armata altresì di un pugnale. Approfitta che stia dormendo, gli si avvicina lentamente e accosta la lucerna per poterlo finalmente guardare ma ciò che si rivela ai suoi occhi la lascia senza fiato: nessun serpente, nessun mostro con tre lingue ha mai dormito accanto a lei ma Amore. Incantata dalla sua bellezza, Psiche lascia cadere il coltello e con esso tutti i suoi dubbi. Dopodiché prende tra le mani un dardo lasciato ai piedi del letto, si punge un dito e subito l’incauta fanciulla è preda del desiderio amoroso. Da qui il celebre momento di Amore che si desta: Et ecco allor la liquefatta oliva de l’aureo lucernier scoppia e sfavilla e, vomitando da la fiamma viva di fervido licor pungente stilla, a l’improviso con tormento atroce su l’ ala destra l’omero mi coce.41 Sconvolto e deluso, Cupido fugge via mentre la fanciulla è in lacrime, disperata. Dopodiché comincia la seconda sezione, con Psiche che tenta di darsi la morte abbandonandosi tra le onde di un fiume ma inutilmente, perché finisce per raggiungere l’altra sponda. Qui incontra Pan, il Dio mezzo capro e mezzo uomo, che la consola e la esorta a cercare il perdono di Amore («Umil più tosto con preghiere e voti / quel sì possente Dio placar procura, / lo qual, credimi pur, fia ch’a tuoi 40 Ivi, 135. 41 Ivi, 165. Dopodiché il Dio prorompe contro la giovane in una sequela di accuse: «Quest’è l’amor? Quest’è la fé giurata? / Dunque tu paglia al voco, io foco al vento? / Tu dunque onda alo scoglio, io scoglio a l’onda? / Io stabil tronco e tu volubil fronda?» (168); arrivando persino a schernire le sue sorelle, artefici di quel crudele destino e assegnandole la sua punizione: «Ma quelle egregie consigliere tue / la pena pagheran del lor fallire. / Giusto flagel riserbo ad ambedue, / te sol con la mia fuga io vo’ punire.» (171). 20 preghi / ogni sdegno deposto alfin si pieghi»42). Ma prima, decide di vendicarsi. Giunta alla casa della sorella maggiore, la giovane racconta angosciata di aver finalmente scoperto l’identità del suo sposo e che questo, oltraggiato, abbia poi scelto di fuggire. Ma Psiche riferisce anche dell’ultimo desiderio di Amore, in realtà una menzogna: «Io tutti i miei pensier per tal misfatto / volgo in tua vece a la maggior tua suora; / ella (e t’espresse a nome), io vo’ che sia / e di me donna e de la reggia mia»43. Cupido l’avrebbe sposata se si fosse presentata alla rupe. Emozionata all’idea di diventare la nuova moglie del Dio alato, la donna si reca immediatamente al posto stabilito e richiamato Zefiro, e senza alcuna esitazione, si lascia cadere nel vuoto. Ad aspettarla, chiaramente, non trova nessuna gentile brezza e il suo «corpo immondo e vile»44 s’infrange contro i sassi, ruzzolando in mare. Lo stesso destino è riservato all’altra sorella. Intanto, scoperta l’unione dei due amanti e furiosa come non mai, Venere si precipita nelle stanze in cui il figlio si è richiuso per guarire dal «dolor di doppia piaga»45, disprezzandolo per aver disobbedito a un suo ordine e per aver tanto amato quella donna mortale. Arriva persino a dire di voler generare un altro e migliore Amore, non ritenendolo più degno dei suoi privilegi e delle sue armi con le quali ha finora installato il desiderio amoroso in qualsiasi creatura vivente, divina o meno. La rabbia di Venere è lacerante: [...] Io finché quel crin d’or, che per costume più d’una volta innanellando tersi, per me tronco non veggia, e quelle piume, che ’n questo sen di nettare gli asperci, di mia man non gli svella, unqua non fia 42 Ivi, 184. 43 Ivi, 190. 44 Ivi, 193. È chiaro l’intervento di Amore come voce narrante grazie al malevolo giudizio espresso in merito alla sorella di Psiche, ormai morta. 45 Ivi, 196. La duplice ferita di Amore è da un lato quella del tradimento, dall’altro quella della passione. 21 non mi vedrà, siami nemico o sposo, tanto che ’l sole a questi occhi dolenti porti l’ultimo dì de’ miei tormenti.51 Ascoltando tali parole, la Dea non può che esserne toccata («[...] / ma ’l petto a quel parlar l’apre e penetra / un non so che di tenerezza nova»52). Allora Giove, il padre degli Dei, sorride e, sinceramente commosso dall’ardente sentimento che lega i due amanti, ordina di celebrare le nuove nozze di Amore e Psiche: [...] Rapita già tra l’immortal famiglia, gusta il cibo divino e la bevanda, e meco dopo tante aspre fatiche nel teatro del ciel sposata è Psiche.53 Infine, fecondata dal Dio alato, la fanciulla ora immortale dà alla luce una bambina: Voluptas. 2. Confronto tra Marino, Apuleio e Udine Per l’elaborazione del canto IV dell’Adone, Marino attinge a piene mani non solo dal testo latino della favola apuleiana ma anche dal rifacimento in ottave di Ercole Udine, pubblicato alla fine del Cinquecento. Innumerevoli sono, infatti, le riprese ora all’uno e ora all’altro. Ciò premesso, non mancano elementi che rivelano un notevole distacco da tali modelli e il più evidente è certamente rappresentato dall’estremo restringimento dell’ultima prova a cui la giovane Psiche si sottopone. Contrariamente a quel che accade in Apuleio e in Udine, Marino decide di riassumere l’intera 51 Ivi, 285. 52 Ivi, 287. 53 Ivi, 290. 24 vicenda in cinque sole ottave e il motivo di ciò non è tanto da ricondurre alla dimensione impegnativa del canto, quanto più all’intenzione di evitare il parallelismo con il viaggio sotterraneo di Adone. A tal proposito c’è da ricordare quanto le due storie siano estremamente collegate. I punti di contatto sono molteplici (il fascino dei protagonisti, il coincidere del momento di gioia col soggiorno nel palazzo di Amore, la continua presenza del pericolo della morte e del mondo sotterraneo) ma non mancano gli elementi che vedono una vera e propria opposizione: Adone è un uomo, Psiche una donna; il percorso narrativo è inversamente simmetrico, secondo la sequenza iniziazione-nozze-morte dell’Adone e il percorso sacrificio-iniziazione-nozze54 de La Novelletta; la storia principale termina con un funerale, quella di Psiche con un matrimonio; il diverso ruolo di Mercurio, aiutante dell’uno e oppositore dell’altra. Senza contare che il personaggio di Psiche ha un ruolo maggiormente attivo all’interno della sua storia; è curiosa e indomabile rispetto a un Adone che, al contrario, è distratto e sottomesso. La favola del canto IV e la storia principale vanno quindi lette l’una sulla falsariga dell’altra55. Per ottenere tale risultato, il Marino ha ricucito alcuni elementi del racconto alla propria maniera: un esempio è la sequenza, assente in Apuleio, di Psiche addormentata e contemplata da Amore, in relazione al momento in cui Adone è visto per la prima volta da Venere (III, 80-83); o ancora l’accoglienza ricevuta al palazzo di Eros che palesemente si ricollega all’analoga situazione vissuta dall’amante della Dea. Altro tipo di modifiche nascono dalla necessità di adattamento al contesto narrativo e stilistico dell’Adone, in particolare con lo scopo di evitare ripetizioni e incongruenze con la storia principale. Diversamente da quello che accade in Apuleio e in Udine, ne La Novelletta il narratore dell’intera vicenda è lo stesso Amore e per tale ragione Marino elimina del tutto la lunga descrizione di Cupido dormiente (è, infatti, improbabile che il Dio si attardi a lodare se stesso) solo per poterla inserire, e arricchire, più avanti, quando riferisce le parole di Psiche (IV, 187-188). Come si è già ampiamente accennato, l’Adone è 54 Al contrario di Adone, l’iniziazione di Psiche è puramente spirituale e non sensitiva. 55 Lo stesso accade nelle Metamorfosi: contaminate dall’avventura parallela di Psiche, le trasmutazioni di Lucio non possono che leggersi come altrettante prove di un essere destinato alla salvezza. 25 particolarmente ricco di digressioni e lo stesso vale per il canto IV. La prima riguarda le ottave 38- 42, in cui vi è l’elogio alla bellezza di «quel sovruman, sovradivino oggetto»56 che è Psiche. Lo scopo è quello di allontanare il lettore, distrarlo, allo stesso modo in cui Amore rimane incantato dalla bellezza dell’amata, finendo per pungersi con la sua stessa freccia e innamorandosi di lei. Il Dio alato si perde nel contemplare il viso aggraziato della fanciulla: «que’ lumi perfidi»57 che uccidono ancor prima di minacciare, le guance dal colore di un’alba vermiglia e la bocca preziosa, paragonata a un fiore profumato, a un giardino, a una raccolta di gemme: Somiglia intatto fior d’acerba rosa ch’aspra le labra de le fresche foglie l’odorifera bocca e preziosa, ch’un tal giardino, un tal gemmaio accoglie, [...] Se parla o tace, o se sospira o ride, (che farà poi baciando?) i cori uccide.58 Procede poi alla descrizione della chioma, simbolicamente l’oceano in cui l’amante annega. Infine, il seno, «morbido letto del mio cor languente»59 e guanciale di gigli. Una seconda digressione è rappresentata dal lutto della famiglia di Psiche alla sua esposizione sulla montagna (52-79). Il Marino sceglie di attuare una prolissa descrizione gotica de «l’infausto monte»60 (pendio roccioso, grotte scure, mare cupo, boschi impenetrabili, triste processione) e una dettagliata elaborazione del topos elegiaco classico del lamento al mare (72-77). Essendo un tema particolarmente caro al poeta, viene riproposto in occasione dell’abbandono di Amore (173-174) e 56 Marino, Adone, IV, 37. 57 Ivi, 38. 58 Ivi, 40. Esplorando le connotazioni sessuali dell’immagine, suggerita dal rapporto metonimico petali-labbra ed enfatizzato dall’uso del termine «intatto» in relazione al fiore, Amore fantastica sull’impatto di questa bocca da baciare. 59 Ivi, 42. 60 Ivi, 67. 26 3. Le allegorie del mito e la sua analisi psicanalitica Nel canto IV dell’Adone e in generale in tutta l’opera, troviamo il conflitto tipicamente barocco tra funzione estetica e morale delle arti. Le allegorie che il Marino ha scelto di inserire all’inizio di ogni canto sono viste da alcuni come meri accessori, del tutto irrilevanti per la comprensione del mito, mentre per altri rappresentano un’ironica sfida interpretativa per il lettore. È tuttavia chiaro che la parte lirica voglia offrire un’esamina del rapporto tra fantasia mitologica e rigorosità; mentre l’allegoria presenta questa stessa relazione tradotta nel conflitto morale tra carne e spirito, lussuria e virtù. Tale accezione avvalora l’interpretazione psicanalitica di Erich Neumann che, proprio nel mito di Amore e Psiche, vede rappresentato il conflitto tra le pulsioni dell’inconscio e la coscienza che insieme riduce e nobilita tali pulsioni alla luce dell’intelletto. Ma più di tutto, Psiche parte da una condizione ciclica, «uroborica» (Neumann parla del matrimonio tra Amore e Psiche come di «un’estasi di oscurità»64 in cui Psiche è prigioniera, costretta in un mondo tutto perfetto rappresentato dal palazzo di Eros) per poi raggiungere un livello in cui l’amore diventa crescita e trasformazione. Psiche conosce la verità vivendo un’esperienza traumatica, rinunciando quindi al suo paradiso personale, che altro non è che la «cieca ebrezza di chi scopre l’amore»65. Non accetta di adattarsi a un’agevole esistenza che la relegherebbe in una condizione di passività e frustrante ignoranza, e combatte per raggiungere la totalità di sentimenti ed esperienze anelata. Amore non è da meno: sebbene meno evidente, il percorso di formazione del Dio alato non è da ignorare, il quale giunge a un livello di consapevolezza solo quando riesce a sfuggire alla dipendenza nei confronti della madre Venere. Anche il rapporto tra la Dea e Psiche gioca un ruolo chiave nell’analisi interpretativa. Venere diventa il simbolo della seduzione e della fertilità, immagine antitetica a Psiche che persegue invece un amore concepito come individuazione. Allo stesso tempo, però, le due donne sono fortemente accumunate tanto dalla loro intraprendenza e determinazione, quanto dalla loro 64 Erich Neumann, Amore e Psiche. Un’interpretazione nella psicologia del profondo, a cura di V. Tamaro, Roma, Astrolabio, 1989 (prima ed. in lingua tedesca, Zurigo, 1952), cit. p. 53. 65 Sozzi, Amore e Psiche, cit. p. 21. 29 indicibile bellezza, al punto che lo stesso Amore ha una sorta di capogiro: «[...] / la bella madre mia non è costei? / No che non è, vaneggio, il ver confesso, / [...]»66. Degno di nota è anche il nesso funebre di amore e morte67. Partendo da un’idea di Sigmund Freud, alcuni elementi sembrerebbero riprendere il motivo delle «tre sorelle» (il mito delle tre Parche). Secondo questa tesi, Psiche sarebbe da considerare come la rappresentazione della morte stessa. Eppure, in molti non sono d’accordo con questa interpretazione. Innanzitutto, bisogna precisare che il sonno in cui cade Psiche non è da intendere in nessun’altra maniera che questa: un sonno da cui poi viene ridestata. È vero che in molteplici occasioni abbia dichiarato di voler morire, ma di fatto non è mai morta; a meno che non si pensi alla sua «morte» in seguito alla scomparsa di Eros ma si tratta, anche qui, di un qualcosa di puramente simbolico. Per questo non bisogna parlare di trionfo della morte, come suggerisce erroneamente Neumann, ma di trionfo dell’amore e della vita. Lo stesso Neumann afferma che le prove di Psiche sono da interpretare in chiave erotica ma che allo stesso tempo puntino al raggiungimento di una crescita personale. Ad esempio, il mucchio di semi che la ragazza deve mettere in ordine rappresenta, secondo lo psicanalista, la «uroborica mescolanza dell’elemento maschile» e, addirittura, la «promiscuità di Afrodite» mentre le formiche simboleggiano «l’ordine segreto dell’inconscio collettivo»68. C’è però qualcosa che non quadra. Perché Venere, immagine di erotica promiscuità, dovrebbe invitare Psiche a mettere ordine tra quei svariati semi; lei che simbolicamente auspica al disordine? Direi di proseguire. Psiche ha appena superato la prima prova e ora deve impadronirsi di un fiocco di lana da un gregge di arieti (simboli della forza devastante maschile) ma davvero può quest’azione essere equiparata a una castrazione? Tra l’altro, la giovane si limita a raccogliere quei velli dai rami dei cespugli su cui le pecore li 66 Marino, Adone, IV, 43-44. 67 «In essequie funebri inique stelle / cangian le nozze tue liete e festanti? / Le chiare tede in torbide facelle, / le tibie in squille e l’allegrezze in pianti? / Sono i crotali tuoi roche tabelle? / Ti son gl’inni e le preci applausi e canti? / E là dove destin crudo ti mena / reggia il lido ti fia, letto l’arena?» (Marino, Adone, IV, 56). È chiaro come l’ottava riprenda l’opposizione tra nozze e corteo funebre, in relazione al destino di Psiche, promessa in sposa a un uomo terribile. 68 Neumann, Amore e Psiche, cit. p. 21. 30 hanno inavvertitamente lasciati; non li sottrae nemmeno. Ad ogni modo, attuare un’analisi psicanalitica del mito è difficile e poiché ci si sta muovendo sul terreno dell’inconscio, diventa ancor più difficile riuscire ad accettare molte delle interpretazioni teorizzate. 4. Interpretazioni varie del mito Nella stagione medievale, le trattazioni più gettonate del mito sono due. La prima, quella di Boccaccio, è ispirata al pensiero di Marziano Capella che sin da dubito muta l’albero genealogico di Psiche, l’anima razionale, rendendola figlia di Apollo, Dio del sole, ed Endelechia, nome che, secondo Calcidio, significa «età perfetta», o ancora «ansiosa ascesa». Le sorelle maggiori rappresentano, invece, l’anima vegetativa e l’anima sensitiva. La storia di Psiche, dice Capella, non vuole far altro che narrare il cammino di ogni uomo che vuole avvicinarsi a Dio: l’errore di Psiche consiste nel voler conoscere il divino nella sua totalità: è sbagliato pensare che Egli possa essere tangibile, razionalmente o sensisticamente accertabile. La seconda interpretazione è quella di Filippo Beroaldo il Vecchio che si rifà alle riflessioni di Fulgenzio (seppur non rimanendo estraneo alla disamina precedente), secondo cui Psiche è l’anima intesa come soffio di vita, figlia di Dio e della materia, e sorella della carne e della libera volontà che sempre tendono ad allontanarla dal bene. Psiche è inoltre vittima delle persecuzioni di Venere (la libido) che ordina a Cupido di intervenire per suo conto. Ma la cupiditas è ambigua, è tanto benevola quanto malevola, e il vero motivo per cui Amore non vuole che lo veda è per evitare che Psiche apprenda i piaceri della libidine. Ma lei cede al suggerimento delle sorelle, accende la fiamma del desiderio che cade e brucia le carni, lasciando apparire la macchia del peccato. L’anima, quindi, dopo la stagione innocente e dopo aver perduto la propria felicità, cade inesorabile nel peccato ma poi, attraverso innumerevoli difficoltà, si riscatta e raggiunge il suo paradiso. Similmente al bruco che si trasforma in farfalla (ψυχή in greco, vuol dire anche alito di vento e farfalla), il mito di Amore e Psiche racconta la storia di un’iniziazione. 31 Psiche non avrebbe mai dovuto vedere il suo sposo e tolto il desiderio di infrangerla, il problema della rappresentazione sparisce. I due innamorati sono perfettamente visibili l’un l’altra, al punto che proprio Amore dice all’amata di avere occhi solo per lui. La curiositas che condanna Psiche a una serie di sventure riguarda le sue origini, non il suo aspetto. Infine, altri cambiamenti riguardano l’introduzione di due nuovi personaggi amanti di Psiche, Cléomène e Agénor, che alla fine si uccidono precipitando dalla rupe e la riduzione delle quattro prove a una sola, la discesa agli Inferi. Lo stesso impianto spettacolare è dato da Fontanelle alla sua Psyché (1678), recitata all’Académie Royale de Musique. Anche qui, le prove vengono ridotte e addirittura il ruolo delle sorelle invidiose è quasi nullo poiché è la stessa Dea a suggerire a Psiche di far luce sul volto del misterioso amante, ma senza brandire naturalmente alcun pugnale. Tale scoperta, diversamente da come accade nella pièce di Molière, ha luogo sulla scena ma non senza espedienti: Fontanelle immagina, infatti, che Amore abbia assunto sembianze mortali per potersi manifestare innanzi all’amata. Ciò che però accumuna le due opere è l’esplicito invito, da parte degli autori, a gioire dei piaceri della vita attraverso una prospettiva ben più sentimentale, legata all’affettività e alla sensibilità: si parla, infatti, di un amore tenero e dolce. Questo genere di mutamenti non interessa solo il teatro, ma anche le diverse trasposizioni poetiche. C’è chi, come Hénault, suggerisce un altro vero motivo che spinge l’eroina a commettere quel gesto proibito (che non è più un’inane curiositas, ma è alimentato dall’ansia dell’amore ricambiato); oppure chi, come Savioli, sostituisce la figura delle due sorelle con la personificazione dell’Invidia. L’interpretazione puramente sensistica del mito, diffusasi maggiormente in età illuministica, vede il suo esempio più significativo in Madame de Lambert che, nella sua opera (Psyché, en grec Âme), scrive: «L’âme est mise dans le corps pour jouir, et non pas puoi connaître. Ses sens, ce sont les portes et les canaux par lesquels elle se répand, se communique et se mêle avec tous les objects sensibles; ce sont les ministers de ses plaisirs»72. I sensi sono veicolo di piacere. Psiche è felice 72 Sozzi, Amore e Psiche, cit. p. 82. («L’anima è messa nel corpo per godere, e non per conoscere. I suoi sensi sono le porte e i canali attraverso i quali essa si espande, entra in contatto e si mescola con tutti gli oggetti sensibili. Essi sono i ministri dei suoi piaceri»). 34 fintanto che l’identità del suo sposo rimane ignota e la felicità scaturisce dall’appagamento, raggiungibile dall’anima solo attraverso i «canali». Questo è il punto focale dell’analisi di Madame de Lambert riguardo la favola di Amore e Psiche (la più bella che gli Antichi ci abbiano lasciato, secondo Voltaire), sulle cui considerazioni Giacomo Leopardi articolerà il suo personale pensiero nel 1821: La favola di Psiche, cioè dell’Anima, che era felicissima senza conoscere, e contentandosi di godere, e la cui infelicità provenne dal voler conoscere, mi pare un emblema così conveniente e preciso, e nel tempo stesso così profondo, della natura dell’uomo e delle cose, della nostra destinazion vera su questa terra, del danno del sapere, della felicità che ci conveniva, che unendo questa considerazione, al manifesto significato del nome di Psiche, appena posso discredere che quella favola non sia un parto della più profonda sapienza, e cognizione della natura dell’uomo e di questo mondo. [...] l’uomo non è fatto per sapere, la cognizione del vero è nemica della felicità, la ragione è nemica della natura, [...]73 Leopardi accenna persino a quanto analogamente accade nella vicenda biblica della Genesi, ove all’acquisizione della conoscenza segue la cacciata dal Paradiso, e alla presunta origine della favola che andrebbe ricercata nell’«antichissima sapienza» egiziana, in particolare nel mito di Iside74. Al tramonto del secolo dei Lumi, si va diffondendo una nuova linea interpretativa il cui maggior esponente è Romance de Mesmon. Lo scrittore ritiene che il racconto si concluda con l’atto sconsiderato di Psiche e la conseguente fuga di Amore; tutto ciò che avviene dopo (la persecuzione di Venere, le prove, il matrimonio felice sull’Olimpo) è da ricondursi all’intervento di Apuleio e al suo desiderio di esporre la storia completa dell’anima umana secondo i dettami del sistema platonico. Per Mesmon, Psiche è l’anima intellegibile, è intelligenza pura; solo un Dio può 73 Giacomo Leopardi, Zibaldone di pensieri, in «Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura», La Monnier, Firenze, 1921, cit. p. 504. 74 Osiride come Amore, è un Dio errante, che viaggia per il mondo allo scopo di diffondere l’agricoltura e le leggi per una più serena vita civile. Secondo la tradizione egiziana, viene ucciso da suo fratello Set che getta nelle acque del Nimo i pezzi del suo cadavere e solo dopo lunghe ed estenuanti ricerche, Iside riesce nell’impresa di ritrovare tutte le parti. Con l’aiuto di Horos, il figlio nato dalla loro unione, Osiride viene ricomposto, ottenendo così la corona degli Inferi. 35 desiderarla e sposarla. Nessun contatto col reale, con un qualsiasi oggetto esteriore dovrebbe compromettere la purezza della sua contemplazione75. Ed è proprio quando entrano in gioco le altre facoltà terrene che comincia la caduta di Psiche, rappresentata dal cedimento verso i piaceri sensibili, dalla violazione delle regole, dalle lunghe e tortuose prove che è costretta ad affrontare. L’anima chiede inoltre aiuto alle persone sbagliate: Cerere, Dea dell’abbondanza, e Giunone, Dea delle ricchezze e degli onori, sono a tutti gli effetti delle divinità materiali, in un certo senso terrene. Sempre secondo Mesmon, avrebbe dovuto seguire sin da subito il consiglio di Pan, immagine amichevole e rasserenante che insegna il ritorno alla semplicità e alla purezza. Ma lo scrittore ha dei dubbi riguardanti la sua lettura del mito. Innanzitutto, il personaggio di Amore contiene una contraddizione: il Dio alato è insieme amore celestiale, innocente desiderio e ribelle sconsiderato, figlio crudele di Venere. Ciò da adito ad almeno due interpretazioni contrastanti, rispettivamente quella idealizzante e quella erotico-edonistica. Altro testo ottocentesco in cui il mito di Amore e Psiche trova una delle sue più compiute trattazioni è il poema di Victor de Laprade, Psyché (1841). Già nell’introduzione, l’autore dichiara che la sua principale fonte di ispirazione non va ricercata in Apuleio o nelle reinterpretazioni a lui contemporanee, ma nei riferimenti iconografici e scultorei antichi. Nella sua Psyché, Laprade affronta diversi temi. Parla del piacere inteso come desiderio e appagamento carnale e solo al termine del poema il reale significato del «piacere» sarà rivelato: non effimera ebbrezza ma purissima estasi. Più avanti, la fanciulla si ritrova accomunata a una serie di figure femminili che come lei non sono state in grado di gestire la curiositas, la bramosia o aspirazione al potere (Psiche, Eva e Pandora). Nonostante ciò, è importante tener conto di una cosa: En traversant le mal nous marchons vers le bien. Le bien de toute chose est la source et le terme. Chaque homme du bonheur es soi porte le germe.76 75 Sozzi, Amore e Psiche, cit. p. 89. 36 sempre uguale. E la lampada, che finora è stata vista come inizio di sventure o come barlume di speranza, per Régnier diventa il lume ideale che brilla nella notte. Ma il Novecento non è soltanto un secolo di profonde riflessioni. A questo periodo appartengono una serie di «traduzioni» del mito in forme creative di tipo parodistico80, atti a stravolgere il significato intrinseco della favola. Naturalmente questo non vale solo per la storia di Psiche ma anche per molti altri personaggi mitologici: Prometeo frequenta un caffè parigino e finisce per essere accusato di vendita illegale di fiammiferi; Orfeo ed Euridice litigano per via di un cavallo che è stato sistemato in soggiorno; Teseo parla di Arianna come di un’insopportabile nevrotica, fissata con la letteratura e i suoi orribili nomignoli. Ma è al 1669 che risale l’opera ibrida di Jean de La Fontaine (Les Amours de Psyché et de Cupidon), celebre per aver mescolato interpretazioni scherzose e serie. L’ironia dell’autore è da ritrovare negli atteggiamenti umani delle creature mitologiche, solitamente avvolte da un’aura di sacralità (Zefiro arriva sempre di corsa, sempre affannato, come un qualsiasi solerte domestico; mentre Amore è timoroso di non piacere ai lettori); in alcune scelte lessicali; nella vicenda mitica che s’intreccia alla realtà contemporanea; o ancora nella raccolta di riflessioni compendiose che spesso terminano in clamorosi ossimori («Les ennuis d’amour ont cela de bon qu’ils n’ennuyent jamais»81). Il registro serio è anch’esso evidente in più occasioni e su più livelli. La vicenda, secondo una prospettiva puramente edonistica, è un invito verso un amore libero e libertino. Eppure, La Fontaine unisce a tale livello di comprensione quello legato alla sensibilità, all’elogio della tendresse, della dolcezza amorosa. Soprattutto, il racconto di Psiche esalta l’incanto delle illusioni, ponendo la sua attenzione sul momento immaginativo, il momento dell’incertezza e dell’inquieto desiderio82. Ciò porta a pensare che, nonostante sia vissuto prima di molti autori che ho finora menzionato, La Fontaine si è infine rivelato il più «moderno», colui che è stato capace di unire diversi livelli interpretativi nonostante l’impianto scherzoso. 80 Sebbene la parodia del mito sia già comparsa precedentemente nel Settecento e nell’Ottocento, anche se in generi differenti. 81 Sozzi, Amore e Psiche, cit. p. 197. («Le noie d’amore hanno questo di buono, che non vengono mai a noia»). 82 Ivi, cit. p. 199. 39 Conclusioni Al termine di questo lavoro, è possibile comprendere come la favola di Amore e Psiche sia stata oggetto di numerose disamine e che, quasi sicuramente, ce ne saranno altre in futuro. È Marino uno dei pochi ad aver sapientemente condotto, similmente a La Fontaine, un’analisi del mito basata su più livelli simbolici; seppur abbia scelto di tralasciare il genere parodistico. Secondo il poeta, la 40 favola di Psiche rappresenterebbe lo stato dell’uomo: la giovane ha come sorelle la Carne e la Libertà dell’arbitrio (esattamente come suggeriscono Boiardo e Fulgenzio) e attraverso uno stile che punta tutto sulla sensualità e sulla ricerca del piacere, Marino esprime già dalle prime ottave del canto la morale della storia. La lettura del IV canto dell’Adone offre altresì una chiara prospettiva del mito che è al tempo stesso edonistica e platonica, imitando il conflitto di cui si è già parlato e che rispecchia la società e il gusto propriamente barocco; quello tra estetica e moralità. Conflitto che non rappresenta un’insanabile frattura avvenuta per mezzo della cupiditas, in quanto Amore non abbandona realmente Psiche: la prima cosa che fa, non appena guarisce dalla ferita, è andarla a cercare e fornirle quell’aiuto che risulterà provvidenziale e definitivo. È infatti attraverso Marino che il mito sembra proporre «la più armoniosa conciliazione degli opposti, quel nesso fra l’umano e il divino che a noi, oggi, sembra così difficile ristabilire ma che parve, allora, luminosa possibilità, luminosa come la lampada che arde nelle mani di un’eroina che Capella e Boccaccio chiamano non a caso “figlia del sole”»83. Ringraziamenti A questo punto vorrei dedicare qualche riga a tutti coloro che in questi mesi e, in generale, durante tutti gli anni di università, mi sono stati in qualche modo vicini. 83 Sozzi, Amore e Psiche, cit. p. 48. 41