Scarica La genesi della nuova comunità politica - Storia di Roma tra diritto e potere - Capogrossi e più Sintesi del corso in PDF di Storia del Diritto Romano solo su Docsity! CAPITOLO 1 LA GENESI DELLA NUOVA COMUNITA’ POLITICA Paragrafo 1 Le condizioni nel Lazio prima della fondazione di Roma Nell’ultimo millennio avanti cristo il Lazio era occupato da molteplici insediamenti umani che, in breve tempo, avrebbero dato origine a Roma e alle altre città del Latium vetus (il Lazio antico). Queste antiche comunità risultavano alquanto isolate a causa della conformazione geologica del territorio laziale, caratterizzato da vasti acquitrini, avvallamenti e aree boschive. Dal punto di vista economico possiamo distinguere diversi settori che contribuirono allo sviluppo di queste antiche comunità: 1)il settore maggiormente sviluppato era l’allevamento: oltre alla pecora fortemente allevato era il maiale, animale capace di sopravvivere nutrendosi dei prodotti dei boschi, senza la necessità di particolari cure da parte degli allevatori. 2)L’agricoltura, ancorché primitiva, era praticata con successo. Dato il clima umido che caratterizzava il Lazio il prodotto prediletto dai romani era il farro, un cereale molto resistente anche se povero dal punto di vista nutrizionale. Anche gli alberi da frutto venivano sfruttati dalle comunità del Lazio antico, in particolare il fico e l’ulivo. 3)Infine non bisogna dimenticare l’importanza che il commercio rivestiva per queste comunità in ascesa. La circolazione delle merci e delle persone avveniva attraverso una serie di rotte commerciali, coperte per terra o per mare. Fra di esse ricordiamo: la rotta che univa l’Etruria e la Campania; gli scambi con le città costiere, resi possibili dai progressi realizzati nella costruzione di imbarcazioni con cui navigare sul mar Tirreno… Quando si pensa alle comunità del Lazio antico, non bisogna immaginare delle realtà simili alle poleis greche o alle città costituite successivamente alla fondazione di Roma. Il Latium vestus era, infatti, caratterizzato dalla presenza di numerosi villaggi costituiti da poche capanne. Il fattore su cui si fondava l’unione di queste comunità era la presenza di legami familiari o presudoparentali, ancorati alla memoria di una discendenza comune. Anche i vincoli religiosi contribuivano a unire queste antiche comunità: un esempio eclatante è rappresentato dai populi Albenses, un insieme di villaggi collocati nel cuore dei Castelli romani, accomunati dal culto di Iupiter Latiaris. In queste comunità primitive la funzione di guida del gruppo era connessa con l’età e con le competenze militari. È possibile distinguere due figure, in cui si concentravano tutte le funzioni direttive e organizzative: 1)I Patres: erano gli anziani della comunità, dotati della saggezza necessaria ad organizzare e guidare la collettività. Oltre a funzioni “amministrative, i patres avevano funzioni religiose che gli conferivano grande prestigio all’interno della comunità. 2)L’assemblea degli uomini in arme: i guerrieri più valorosi e capaci esercitavano una forte influenza sulle scelte della collettività. In tempo di guerra è probabile che i loro poteri risultassero decisamente preminenti rispetto a quelli dei patres. Paragrafo 2 La fondazione di Roma A partire dall’VIII secolo A.C. nelle comunità del Lazio arcaico si registrano una serie di cambiamenti che in breve tempo porteranno alla fondazione di Roma. 1)Un notevole aumento della popolazione: reso possibile dallo sviluppo dell’agricoltura che, a parità di terreno, riesce a sostenere un maggior numero di individui rispetto all’allevamento. 2)Un importante sviluppo tecnologico: La produzione domestica dei manufatti venne sostituita da una produzione specializzata, in cui gli artigiani concentrarono la loro attenzione sui beni da produrre non dovendo più partecipare attivamente alle attività agricole o pastorali. Ciò rafforzò lo scambio fra i prodotti agro-pastorali e quelli artigianali. 3)L’affermazione di un’aristocrazia dominante, che aveva accumulato ricchezze attraverso la guerra. Attorno ai guerrieri e ai gruppi familiari più forti si concentrarono un numero crescente di seguaci, il che a sua volta portò ad una stratificazione sociale di queste antiche comunità. Il mutamento economico-sociale, descritto nelle righe precedenti, ha portato ben presto ad un’evoluzione delle antiche comunità laziali che assunsero gradualmente le caratteristiche di vere e proprie città (si pensi, come esempio, ad Ariccia, Palestrina, Tivoli. Tutti insediamenti che assunsero una fisionomia diversa dal villaggio dell’età precedente). Fra queste realtà proto-urbane bisogna ricordare la città sorta dal sinecismo (un termine che indica la formazione di città dall’unificazione di diversi insediamenti) dei villaggi situati sul Palatino. Questo colle, che dopo molti secoli diverrà la residenza degli imperatori di Roma, fu il nucleo originario della città eterna. Non è un caso che i Romani credessero che il Palatino fosse il luogo in cui la lupa allevò Romolo e Remo. L’importanza del Palatino, così come del Quirinale e del Campidoglio, era anzitutto strategica: dalla sommità di questi colli era infatti possibile controllare uno dei pochissimi guadi sul Tevere, situato nel punto in cui il fiume si divide in due. Tradizionalmente la fondazione di Roma si fa risalire al 21 aprile del 753 A.C., data che ci viene tramandata da Varrone erudito romano vissuto alla fine della Repubblica. A prescindere dall’esattezza di questa data, che suscita diverse perplessità fra gli archeologi e gli storici, nella seconda metà dell’VIII secolo A.C. un vento di cambiamento investì i villaggi del Latium, spingendoli ad abbandonare le loro caratteristiche arcaiche per evolversi verso uno schema urbano. La leggenda di Romolo che traccia i confini della città, simboleggia tutti i cambiamenti che si realizzarono con l’abbandono delle strutture tipiche degli antichi villaggi. Una volta confermato re dal consenso degli dei e dei concittadini, il fondatore definisce la forma sociale e istituzionale della città . Anzitutto distinguendo i suoi seguaci in patrizie e plebei . Quanto alla forma politica , egli avrebbe distribuito il popolo nelle tre tribù dei Romnes, Tities e Luceres, ciascuna suddivisa in dieci curie, suddivise a loro volta ognuna in dieci decurie. Ci troviamo quindi di fronte a un sistema piramidale di distribuzione della popolazione costituito da trecento decurie, trenta curie, tre tribù. Una distribuzione prioritariamente finalizzata alla guerra, giacché ciascuna curia avrebbe dovuto fornire alla città cento Nella città arcaica un ruolo fondamentale era rivestito dal Rex. Esso veniva designato seguendo la volontà divina, un fatto che trova conferma nella non ereditarietà di questa carica. La nomina del Rex avveniva attraverso diverse fasi: 1)La prima fase vede il coinvolgimento del senato il quale procede alla creatio del Rex. Secondo le fonti degli antichi alla morte del re il potere di interrogare gli dei tornava al senato (i romani dicevano auspicia ad patres redeunt). In questo periodo, denominato interregnum (in quanto collocato tra i due regni), alcuni membri del senato (i così detti interreges) individuavano il successore del vecchio re affinché potesse essere investito dei suoi poteri attraverso la solenne cerimonia dell’inauguratio. Gli interreges erano 10 ed esercitavano i poteri dell’interregnum per cinque giorni ciascuno. Se entro 50 giorni non avessero raggiunto il consenso necessario alla creatio del nuovo Rex, i poteri dell’interregnum passavano a un altro collegio di dieci senatori (i vecchi patres). 2)Una volta che il senato ha identificato il nuovo Rex il collegio degli auguri, composto da sacerdoti incaricati di invocare l’aiuto delle divinità, procede all’inauguratio del re (una solenne cerimonia di investitura che permarrà sino all’età imperiale). 3)Dopo la creatio e la successiva inauguratio il Rex doveva presentarsi dinanzi al popolo riunito nei comizi curiati. Il Rex era l’organo in cui si concentravano, nella Roma arcaica, i principali poteri. Esso, infatti, era allo stesso tempo: 1)Ductor dell’esercito: che veniva formato grazie ai soldati inviati da ognuna delle 30 curiae in cui si ripartisce la popolazione. 2)Garante della pax deorum e dei mores (il corpo normativo consuetudinario) : protetti attraverso la formulazione di norme, le così dette leges regiae, il cui compiuto era quello di risolvere i conflitti individuali che potevano sorgere fra i cittadini e di reprimere le condotte criminali. Queste norme venivano solennemente pronunciati dinanzi all’assemblea cittadina, unica garanzia di pubblicità in un’epoca in cui la scrittura era pressoché inesistente. 3)Custode del tempo: In epoca arcaica i Romani non conoscevano un calendario fisso, per questo il Rex aveva fra i suoi compiti quello di stabilire mensilmente il calendario, indicando i giorni fasti e nefasti, dinanzi ai comizi convocati dal pontefice massimo. Con il passare del tempo il Rex venne affiancato, nelle sue varie funzioni, da una serie di collaboratori: -)Nella guida dell’esercito: si andò affermando il ruolo del magister populi e del magister equitum (quest’ultimo al comando della cavalleria). -)Nel governo civile della città: il Rex era assistito dal praefectus urbi, un funzionario che con il tempo avrebbe visto crescere enormemente il suo potere. -)Nella sua funzione di garante della pax deorum e dei mores: venne affiancato dal collegio dei pontefici. Paragrafo 1.1. Gli organi costitutivi della città: i Patres. Il termine arcaico patres venne ben presto sostituito dal più moderno senatus (da senes anziano). Comunque lo si chiami il Senato è l’assemblea degli anziani. Inizialmente composta dai patriarchi (i patres) delle gentes che andarono a formare la città di Roma, le fonti ci dicono che con il tempo la sua composizione mutò non essendo più legata al numero di gentes presenti in città (ciò trova conferma nel numero di senatori, gradualmente aumentati fino al numero definitivo di trecento, decisamente superiore rispetto al numero di gentes che insieme formavano il popolo di Roma). I senatori venivano scelti dal Rex fra coloro che si fossero distinti, all’interno delle varie gentes, per ricchezza, valor militare o per le azioni compiute in tempo di pace. Per quanto concerne l’identificazione dei compiti cui erano preposti i senatori, ruotavano tutti intorno alla figura del Rex: 1) Procedevano alla creatio del Rex: secondo le modalità indicate nel paragrafo precedente. 2) Fornivano auxilium e consilium al Rex: circa l’incisività di questa funzione, gli storici ritengono che il senato non aveva in epoca arcaica quel potere decisionale che otterrà durante la fase repubblicana. Ciò nonostante le funzioni consultive, esercitate dai senatori nei confronti del Rex, contribuirono non poco allo sviluppo ordinato della comunità, che per molti versi risultava ancora legata alle tradizioni pre-civiche. Paragrafo 1.2. Gli organi costitutivi della città: il popolo Come abbiamo visto nel capitolo 1, parlando della suddivisione effettuata da Romolo nel popolo di Roma, al tempo dei Rex la popolazione risultava suddivisa in 3 tribù le quali a loro volta erano divise in trenta curiae, ciascuna suddivisa in 10 decurie (per un totale di 300 decurie). Questa suddivisione, il cui scopo era prettamente militare dato che l’esercito veniva formato attraverso i soldati che ciascuna curiae era tenuta a inviare, era fondata sull’appartenenza dei membri della curiae ad una stessa discendenza. Per quanto concerne le funzioni di queste curiae, quindi del popolo che le compone, esse avevano: 1)Una funzione militare: essendo l’esercito, come più volte ribadito, formato dalla somma dei contingenti fissi che ciascuna curia doveva fornite. 2) Una funzione cerimoniale: La nomina del Rex richiedeva, come abbiamo visto, la partecipazione del popolo riunito nel comizio curiato. 3)Nominavano i magistrati ausiliari del rex: quelli cioè che dovevano coadiuvarlo nelle sue funzioni (si pensi ad esempio al praefectus urbi). 4)Partecipavano alla formazione di una serie di atti di natura privatistica: si pensi come esempio all’adrogatio con cui un pater familias si assoggettava alla potestas di un altro pater familias il quale era privo di discendenti diretti. Questa cerimonia doveva svolgersi dinanzi ai comizi curiati. 5)Partecipavano alle decisioni importanti che venivano prese dal Rex e dai patres: inizialmente l’assemblea non era chiamata ad esprimere un voto ma semplicemente a manifestare il suo assenso o dissenso attraverso il suffragium (termine che con il tempo assunse il significato di voto ma che inizialmente era associato all’applauso). Paragrafo 2 i Collegi sacerdotali Per comprendere il ruolo dei collegi sacerdotali, appare utile esaminare l’importanza rivestita dalla religione nella Roma arcaica. In quest’epoca una serie di culti tendono a sovrapporsi, chiara manifestazione delle varie culture che attraverso processi di sinecismo hanno contribuito alla nascita di Roma. 1)Molto importanti sono, innanzitutto, i culti dei Penati (spiriti protettori della Religione romana, assimilabili agli angeli custodi del Cristianesimo) e dei Lari (spiriti protettori degli antenati defunti che, secondo le tradizioni romane, vegliavano sul buon andamento della famiglia, della proprietà o delle attività in generale). Questi culti sono di competenza di ciascun pater familias. 2)Accanto ai culti familiari, troviamo i culti e riti delle gentes e infine i culti della città. Rispetto a questi ultimi il culti arcaici, caratterizzati dall’adorazione di luoghi sacri o da pratiche magico-animistiche (si pensi come es al collegio sei Salii, una specie di sacerdoti guerrieri impegnati in rituali magici), cominciarono ben presto ad unirsi con nuovi culti che gradatamente presero il sopravvento. Chiara manifestazione di questa trasformazione religiosa fu la sostituzione delle tre supreme divinità arcaiche (Giove, Marte e Quirino), con quelle della religione olimpica che ruota intorno alla c.d. triade capitolina (composta da Giove, Giunone e Minerva) venerata in un grande tempio edificato sul Campidoglio. Da queste premesse è possibile esaminare i vari collegi religiosi che, con le loro funzioni, influenzavano non poco la vita della città: 1)Il collegio delle Vestali: composto da sacerdotesse il cui compito era la custodia del fuoco sacro, simbolo della città di Roma, che non doveva mai essere spento. Questo culto, che la tradizione vuole sia stato creato da Numa Pompilio, venne subito incardinato nell’apparato amministrativo statuendone la dipendenza dal Rex (in epoca repubblicana le vestali dipenderanno dal pontefice massimo). 2)Il collegio dei feziali: il cui compito era di legittimare le relazioni internazionali fra Roma e gli altri popoli. Solamente attraverso i feziali era possibile dichiarare una guerra giusta e, successivamente alla sua conclusione, stabilire le condizioni per la pace. Quanto detto fin ora non deve indurre a pensare che fossero i feziali a stipulare la pace (come se fossero dei moderni ambasciatori), al contrario essi dovevano solamente garantire che gli atti internazionali venissero conclusi secondo le forme previsto dai mores (le norme consuetudinarie). Questo rigido formalismo finì per tralasciare l’aspetto sostanziale delle decisioni che venivano prese dal Rex e dai patres, con l’effetto di legittimare qualunque atto (in particolare le guerre ) a patto che esso venisse compiuto secondo le forme prescritte dai feziali. 3)Il collegio degli auguri: Gli auguri erano dei sacerdoti il cui compito era di intercedere presso gli dei per chiederne l’ intervento. I Romani usavano distinguere gli auguria dagli auspicia: a)Gli auspicia: non erano formulati dagli auguri ma dal Rex e dai magistrati che lo coadiuvavano nelle sue funzioni. Al momento di compiere un atto, in particolare se dotato di una certa importanza, il Rex o i suoi magistrati verificavano che non vi fossero auspici sfavorevoli (segno che una divinità non voleva che l’atto fosse compiuto in quel giorno). L’atteggiamento ostile della divinità, attestato dalla lettura degli auspici, non impediva però che lo stesso atto fosse portato a termine nei Paragrafo 3 Le riforme di Tarquinio Prisco Strettamente collegate ai processi evolutivi riassunti nelle pagine precedenti, sono le due riforme avviate da Tarquinio Prisco: 1)L’ampliamento del senato: che, sotto il suo regno, passò da 200 a 300 membri. Lo scopo di questa riforma era creare un gruppo di senatori fedeli al re, le cui fortune erano strettamente connesse con le sorti del sovrano. 2)L’allargamento della cavalleria: lo scopo fu del tutto simile a quello perseguito con l’aumento del numero di senatori. Il sovrano, cosciente del potere detenuto dalle antiche gentes, volle inserire al vertice dell’esercito gruppi a lui fedeli che si sarebbero contrapposti alla vecchia aristocrazia gentilizia. Paragrafo 4 le riforme di Servio Tullio: il passaggio dall’ordinamento curiato all’ordinamento centuriato Se le riforme introdotte da Tarquinio Prisco furono importanti, quelle di Servio Tullio portarono a un radicale cambiamento nell’organizzazione dell’esercito romano. Il sovrano etrusco, infatti, ruppe definitivamente con il passato, sostituendo l’ordinamento curiato con l’ordinamento centuriato. La primitiva legione curiata, composta dai soldati inviati dalle curiae e armati solamente con armi da offesa (spade, asce ecc.), venne sostituita dallo schieramento oplitico: un contingente composto da guerrieri dotati sia di armi offensive che difensive (corazze, scudi…). Questa evoluzione nella composizione dell’esercito di Roma, fu resa possibile dagli sviluppi tecnologici di quel periodo (in particolare dall’aumentata produzione metallica) e dalla presenza di un maggior numero di individui dotati della ricchezza necessaria all’acquisto di questi armamenti. L’introduzione dello schieramento oplitico avvenne contestualmente ad una nuova divisione dei cittadini, non più in base alla discendenza ma in base alla ricchezza. Con Servio Tullio venne introdotta a Roma la prima forma di Timocrazia (termine che deriva dal greco e significa, appunto, potere della ricchezza). Questo è il sistema di suddivisione sociale voluto da Servio Tullio: Tutti i cittadini vennero distribuiti in 5 classi corrispondenti a diversi livelli di ricchezza, suddivise a loro volta in centurie (che in epoca repubblicana consistevano in un totale di 193): 1)La prima classe era composta da coloro che avevano un capitale di 100.000 ( o 120.000 assi ). Essa forniva all’esercito, oltre alle centurie di cavalieri, che ammontavano a 18, comprensive però anche di quelle i cui cavalli erano forniti dalla città ( equo publico ) , ben quaranta centurie di juniores , cittadini tra i 18 e i 46 anni d’età che costituivano il vero corpo combattente della città , e 40 centurie di seniores, soldati più anziani che servivano da riserve. 2)La seconda classe di 75.000, la terza di 50.000 , la quarta di 25.000. Tutte e tre le classi fornivano dieci centurie di juniores ciascuna e dieci di seniores. 3)La quinta classe era composta da chi aveva un capitale di 12.500 assi ( o 11.000) . Essa forniva 15 centurie di juniores e quindici di seniores. A queste 188 centurie si devono aggiungere ancora cinque centurie : due di soldati del genio (tecnici che si collocavano, ai fini del voto, accanto alle centurie della prima classe), due centurie di musici (posti accanto alla quarta classe) e infine un’unica centuria di capite censi (in cui erano inclusi tutti i cittadini privi di qualsiasi capitale ed estranei alla specializzazione ora ricordate). La riforma serviana comportò che le classi più ricche dovevano fornire più uomini all’esercito. Ciò non solo aumentò la loro importanza nella difesa della città (e conseguentemente il loro prestigio), ma andò anche rafforzando il loro potere politico. L’ordinamento centuriano si estese, infatti, dall’originaria sfera militare alla dimensione politica facendo si che il voto dei membri delle prime classi pesasse molto di più rispetto a quello dei soggetti appartenenti alle classi inferiori. Questo sistema, pur non escludendo la vecchia aristocrazia gentilizia che normalmente era dotata della ricchezza necessaria per inserirsi nelle prime classi, garantiva una forte apertura ai nuovi gruppi sociali. Paragrafo 4.1. le tribù territoriali e il censimento dei cittadini La riforma introdotta da Servio Tullio, richiedeva una conoscenza precisa dei livelli di ricchezza della popolazione. A tale scopo il re etrusco introdusse due nuovi strumenti: 1)Il censimento: il cui scopo era quello di accertare con precisione la condizione economica di ogni famiglia Romana. 2)La distribuzione della popolazione in tribù territoriali: essa avvenne attraverso la sostituzione delle vecchie tre tribù dei Ramnes, Tities e Luceres, con nuove tribù suddivise a loro volta in tribù urbane (in cui erano collocati gli individui privi di proprietà fondiarie) e tribù rustiche (dove venivano raggruppati i proprietari dei fondi). In questo modo era possibile accertare con facilità la distribuzione della ricchezza fondiaria. Le tribù dovevano fornire alle varie centurie il sostentamento loro necessario attraverso un tributo che veniva riscosso dai tribuni aerarii. Questa prima forma di tassazione era proporzionata alla ricchezza dei singoli proprietari. Con il tempo il numero delle tribù rustiche andò aumentando (inizialmente 19, in età repubblicana divennero 33) lasciando al margine le 4 tribù urbane composte da cittadini nullatenenti. Paragrafo 4.2. Il controllo sociale e la repressione penale conseguente alla riforma di Servio Tullio L’ordinamento centuriato, introdotto da Servio Tullio, ebbe fra i suoi effetti di accentuare l’intervento autoritativo della città attraverso: 1)Un diffuso controllo sociale: finalizzato ad evitare lo spreco di ricchezze (spesso utilizzate dagli aristocratici per costruire tombe sfarzose più delle loro stesse dimore). Tale controllo è in linea con il sistema timocratico introdotto dal sovrano etrusco, in cui la difesa della città (quindi il suo sviluppo) poggiava sulla ricchezza individuale. 2)La repressione dei comportamenti individuali pericolosi per la comunità: la repressione criminale, in realtà, risultava ancora molto circoscritta. La maggior parte dei reati, infatti, venivano puniti direttamente dalle famiglie, che ricorrevano al loro diritto all’autodifesa. Fra i reati puniti direttamente dalla città occorre ricordare: a) L’uccisione violenza di un membro della comunità (il c.d. perduellio) e le azioni dirette contro la comunità politica (la proditio). Entrambi i crimini venivano giudicati dal rex, attraverso i suoi magistrati, e con tutta probabilità venivano puniti con la condanna a morte. b)Le condotte che violavano precetti e regole (in particolare regole religiose): queste venivano punite attraverso la sacratio, una procedura religiosa che comportava il distacco del soggetto in questione dalla città con la perdita contestuale di ogni tutela giuridica (non sarebbe stato più difeso in caso di aggressione alla sua persona o ai suoi beni). A conclusione di tutto questo discorso occorre ricordare che nonostante i grandi cambiamenti introdotti dai re etruschi, la struttura di base della società Romana rimase la famiglia proprio iure , organizzata intorno alla figura del pater familias. CAPITOLO 4 DALLA MONARCHIA ALLA REPUBBLICA Paragrafo 1 La cacciata dei Tarquini e la genesi della costituzione repubblicana Alla fine del VI secolo A.C. l’espansione etrusca in Italia subì una battuta d’arresto a seguito di alcune sconfitte militari subite nelle campagne contro i greci e i loro alleati latini. L’aristocrazia Romana approfittò della situazione per estromettere Tarquinio Prisco dal trono e proclamare la fine della monarchia. Il mutamento politico che si registrò a Roma in quegli anni, cancellò in parte le riforme introdotte dai monarchi etruschi. Tutto ciò ebbe l’effetto di garantire una nuova ascesa della vecchia aristocrazia gentilizia, il cui potere era notevolmente diminuito a seguito delle riforme introdotte da Servio Tullio. Nonostante la cacciata dei Tarquini, Roma rimase per qualche tempo legata alla sfera di influenza etrusca: a)In parte a causa della reazione di Porsenna, capo etrusco dei Chiusi, che invase Roma imponendo il divieto di lavorare il ferro se non per la produzione di strumenti agricoli (un vero e proprio disarmo ante litteram). b)In parte perché l’alleanza con gli etruschi risultava necessaria per contrastare il nuovo nemico di Roma: i Latini. Nei 50 anni successivi alla fine della monarchia, le gentes patrizie discussero a lungo su quale forma di governo fosse maggiormente consona alla preservazione della città, giungendo alle seguenti conclusioni: 1)Indispensabile risultava, anzitutto, la conservazione dell’ordinamento centuriato (introdotto con le riforme serviane). Il ritorno all’ordinamento curiato avrebbe, infatti, comportato un vero e proprio collasso dell’apparato militare, in un momento in cui la difesa della città risultava di primaria importanza. della legge delle XII tavole: una legge scritta, formalmente approvata dalla comunità politica, avente il valore irreversibile di un testo scritto che garantisce uguaglianza a tutti i cittadini. Le fonti offrono molti dettagli sulle varie fasi che portarono alla redazione della legge delle XII tavole. Notizie incerte vennero, invece, tramandate sulle fasi successive. Secondo la maggior parte degli storici nel 450 a.c. il collegio dei decemviri legibus scribundis venne rieletto per il secondo anno consecutivo, in modo da completare la redazione della legge delle XII tavole. In quell’anno il decemvirato venne integrato da un certo numero di membri provenienti dal ceto plebeo. Questa “democratizzazione” del collegio, presieduto nuovamente da Appio Claudio, attirò gradualmente l’ostilità dei patrizi che in breve tempo causarono la crisi del decemvirato e la conseguente espulsione di Appio Claudio. Questa situazione evidenzia qualcosa che si ripeterà continuamente nella storia di Roma: l’aggressione compatta del ceto aristocratico contro altri patrizi che, pur appartenendo all’élite al potere, cercano di stravolgere l’equilibrio cittadino, fondato sulla concentrazione del potere e delle ricchezze nelle mani di pochi. Da Appio Claudio, ai Gracchi, fino ad arrivare a Giulio Cesare, la storia di Roma è caratterizzata dalla presenza di un’aristocrazia che agisce con uno scopo ben preciso: preservare la libertas repubblicana, intesa come libertà di pochi patrizi destinati a governare la città e a possedere la maggior parte delle sue ricchezze. Appio Claudio è un tipico esempio di patrizio che, dal punto di vista degli stessi aristocratici, ha “tradito” i suoi “simili” per schierarsi a fianco della plebe. Il decemviro, infatti, aveva fra i suoi obiettivi la concentrazione delle funzioni legislative e di governo nel binomio decemviri-assemblea popolare, con lo scopo finale di realizzare una democrazia fondata sulla sovranità del demos (popolo). Appio Claudio era sicuramente un antesignano della democrazia. Le sue proposte, ancorché valide, erano tuttavia premature per i tempi in cui visse e per questo furono la sua rovina. Nel 449 a.c., dopo la redazione delle ultime due tavole e la cacciata di Appio Claudio, il collegio dei decemviri legibus scribundis venne sciolto, restituendo il potere ai consoli e agli altri magistrati che fino a quel momento avevano governato Roma. La legge delle XII tavole, pensata inizialmente da Appio Claudio come il punto di partenza di una nuova democrazia, divenne “semplicemente” il fondamento dello ius civile (il diritto della città). Nonostante alcuni storici si riferiscano alle leggi delle XII tavole utilizzando il termine codice, esso non deve essere pensato come una raccolta normativa che raccolga tutto il diritto di un determinato settore (come faranno i codici europei a partire dal tardo 1700). I romani erano coscienti che le norme contenute nelle XII tavole presupponevano altre fonti normative: i mores ancestrali, a cui i giuristi avrebbero fatto riferimento nell’attività d’interpretatio (affidata prima ai pontefici e poi a un gruppo di giuristi laici). La novità della legge delle XII tavole non è tanto nelle norme in essa contenute, quanto nella presenza di un testo scritto. Esso permette, infatti, a tutti i cittadini di conoscere il diritto della città, condizionando l’attività dell’interprete che nel modificare/innovare le norme troverà un punto di partenza proprio in questo testo, noto e controllato da tutta la comunità. Passando ad occuparci delle norme contenute nella legge delle XII tavole, esse riguardano principalmente i rapporti tra privati, lasciando a margine quello che noi chiameremmo diritto pubblico. La legge delle XII tavole rimane, in ogni caso, una legge primitiva fortemente legata al valore della familia proprio iure e alla violenza privata come forma di tutela contro i crimini altrui. Ciò nonostante in questi anni vengono introdotti elementi nuovi: 1)Nelle obbligazioni. La figura più importante rimane il nexum, una forma di garanzia, codificata nella tavola VI con la seguente formula: “Quando qualcuno fa un accordo o un trasferimento lo annuncia oralmente, gli sarà data ragione”. La sua solennità probabilmente derivava dal fatto che le garanzie sottintese al nexum erano della massima delicatezza per chi vi si sottoponeva. Con l'accettazione del nexum il debitore forniva come garanzia di un prestito l'asservimento di se stesso, o di un membro della sua famiglia su cui avesse la potestà (un figlio ad esempio), in favore del creditore fino all'estinzione del debito. Il nexum trovò spesso applicazione anche come negotium imaginarium: in questo caso il nexus chiedeva al creditore di un proprio debito rimasto insoluto di accettare la propria persona in qualità di nexus; questo accadeva perché nel sistema processuale romano arcaico il soggetto insolvente iudicatus era suscettibile di addictio definitiva al creditore, il quale poteva ridurlo in schiavitù od ucciderlo. Al nexum andò gradatamente affiancandosi il pactum, fonte di obbligazione che supera lo stadio della vendetta per trasformarsi in un accordo privato vincolante, la cui inadempienza portava a delle sanzioni. 2)Nella struttura della familia proprio iure: il sistema decemvirare incise sulla pesante autorità del pater familias. Particolarmente importante fu il superamento del sistema patriarcale del matrimonio cum manu (che prevedeva il trasferimento della figlia sotto la potestà del marito, con un ruolo del tutto analogo alle figlie). 3)fondamentale risulta, infine, la distinzione dei beni in due categorie diverse : le res mancipi e le res nec mancipi. Nella prima categoria sono ricompresi i beni di interesse pubblico (identificati grazie al giurista Gaio con “I fondi siti nel suolo italico, gli schiavi, gli animali che possono essere montati sul collo e sul dorso, e le servitù prediali”): essi possono essere ceduti solamente tramite un negozio solenne, la mancipatio, che prevedeva il coinvolgimento di una pluralità di testimoni. Paragrafo 4 la conclusione di un processo. Abbiamo visto che dopo lo scioglimento del collegio dei decemviri, il potere ritornò alle vecchie istituzioni repubblicane. I Plebei, forti delle loro recenti conquiste, premevano per l’ammissione alla carica di console. Questo è probabilmente il motivo che sta alla base della frequente sospensione della coppia consolare, sostituita (negli anni che vanno dal 444 a.c. al 367 a.c.) dai tribuni militum: ufficiali delle legioni, eletti ogni anno in un numero variabile da tre a sei, erano dotati di un potere (imperium) inferiore a quello dei consoli (potevano convocare il senato solo in via eccezionale, non accedevano al trionfo, non mantenevano alcun prestigio dopo la cessazione della carica). La mossa dei patrizi non sortì, tuttavia l’effetto sperato. I Tribuni militum, infatti, erosero gradualmente la supremazia patrizia (ciò è chiaramente dimostrato dall’elezioni di plebei a tale carica). Ciò nonostante i patrizi continuavano a detenere in via esclusiva il controllo sull’ager publicus, rendendo sempre più gravoso l’indebitamento degli strati più deboli della plebe. Una svolta si registrò nel 396 a.c. quando Roma conquistò militarmente la ricca città etrusca di Veio, ultimo ostacolo all’espansione Romana verso il Nord Italia. A seguito della vittoria a tutti i cittadini Romani venne distribuito un appezzamento di 2 ettari, ricavato dalle terre strappate a Veio. Questa politica di redistribuzione attenuò la lotta fra patrizi e plebei, fungendo da base per la successiva equiparazione politica dei due ceti, realizzata con le c.d. Leggi Licinie Sestie del 367 a.c. (così chiamate in onore dei magistrati proponenti). 1)La prima delle tre leggi: prevedeva che uno dei due consoli potesse essere un plebeo (facoltà che divenne un obbligo negli anni seguenti). In questo modo si garantiva la possibilità della plebe di accedere a tutte le magistrature cittadine, civili e religiose. 2)La seconda legge introduceva un limite alle terre pubbliche che potevano essere possedute da ciascun cittadino: 125 ettari. Questa norma erose il monopolio dei patrizi nello sfruttamento dell’ager publicus, rendendo lo sfruttamento di lotti minori accessibile a un maggior numero di cittadini. 3)La terza legge limitava il peso dei debiti: stabilendo che gli interessi già pagati dal debitore dovessero computarsi come parte del capitale da restituire. Una riforma che precede una ancor più importante, la lex Potelia Papiria del 326 a.c.: essa eliminava l’asservimento personale del debitore al creditore (tipica del nexum), introducendo un vincolo solo dal punto di vista economico-giuridico. Le Leggi Licinie Sestie portarono all’ascesa di una nuova aristocrazia politica, la nobilitas patrizio-plebea selezionata sulla base dell’appartenenza alle cariche magistratuali, che si sostituì nel governo della città all’antica nobiltà di nascita costituita dai patrizi. In quello stesso anno un nuovo magistrato, il pretore, viene introdotto fra le cariche cittadine. Il suo compito sarà quello di amministrare la giustizia e regolare le controversie fra privati. CAPITOLO 5 IL COMPIUTO DISEGNO DELLE ISTITUZIONI REPUBBLICANE Paragrafo 1 Il consolato e il governo della città Parlando del quadro istituzione delle Roma repubblicana, occorre abbandonare l’idea moderna di ordinamento istituzionale: inteso come un insieme di organi, puntualmente regolamentati nel loro funzionamento da una norma fondamentale (una Costituzione). Nel mondo Romano non solo non esisteva una costituzione scritta, ma le stesse leggi che regolavano il funzionamento delle istituzioni, erano soggette a continui cambiamenti. Per questo motivo nell’esaminare le istituzioni repubblicane, appare preferibile concentrare l’attenzione solamente su quegli organi che si sono conservati e perfezionati nel tempo, tralasciando quelli che hanno fatto da “comparsa” nella storia della Repubblicana Romana. I Consoli: la carica consolare venne introdotta all’inizio della repubblica; tuttavia si consolidò definitivamente solo nel 367 a.c. (con l’emanazione delle Leggi Licinie Sestie). Ai consoli era conferito il supremo potere di comando, La sua iurisdictio (un termine che deriva dall’unione di due parole, ius e dicere, che significano dire il diritto) riguardava essenzialmente il controllo delle procedure e il loro rispetto durante il processo. Il pretore non decideva le cause nel merito, tale compito era rimesso a giudici privati che adottavano la sentenza sulla base dei fatti allegati dalle parti; egli si limitava a valutare il rispetto delle regole proprie del diritto romano. Il potere del pretore di entrare all’interno del processo finì per creare un nuovo diritto, lo Ius Honorarium: un insieme di norme create di volta in volta dal pretore ( e in minima parte anche dagli altri magistrati), per regolare casi concreti non direttamente disciplinati dallo ius civile (quella parte del diritto romano derivato dai mores maiorum, dalle XII tavole e dalla loro interpretatio). Con il tempo lo Ius Honorarium finirà per sostituirsi allo Ius civile portando al definitivo superamento del rigido formalismo che aveva caratterizzato le legis actiones, sostituite ben presto dal processo formulare. Le legis actiones avevano un difetto fondamentale: ogni errore, anche minimo, nella pronuncia dei certa verba o nel compimento dei gesti previsti dal rituale avrebbe comportato la perdita della lite. Questo problema era superato nel processo formulare dalla pronuncia di verba concepta, parole concepite di volta in volta dal pretore giusdicente e modellate sulla controversia concreta, grazie alle quali si perveniva ad affidare il giudizio ad un giudice o collegio di giudici. Tali verba concepta, ben presto redatte per iscritto, venivano denominate formulae, donde il nome di processo per formulas (o processo formulare). d)I Censori: La magistratura del Censore fu istituita nel 443 a.C. sulla base di una proposta presentata al Senato, per ovviare al problema sempre più pressante, del ritardo con cui venivano tenuti i censimenti, fino ad allora di responsabilità dei consoli. Venivano eletti direttamente dai comizi centuriati. All'inizio la durata in carica era di cinque anni, ma già dal 433 a.C., il periodo fu diminuito in modo da non superare i 18 mesi. A differenza degli altri magistrati superiori non erano muniti di imperium, rimanendo estranei ai compiti militari e alle dirette delibere politiche (a differenza dei Consoli non avevano il diritto di convocare il senato o i comizi centuriati). Ciò nonostante il loro rango e il loro prestigio erano altissimi, addirittura superiori ai Consoli. Un fatto che induce a pensare che né i Consoli né i tribuni della plebe potessero esercitare l’intercessio nei confronti dei Censori. I censori svolgevano alcuni compiti fondamentali: -)Effettuavano il censimento della popolazione: in modo da distinguere i cittadini dagli stranieri; gli schiavi dai nati liberi e dai liberti. Attraverso queste distinzioni era possibile collocare ciascun cittadino in una famiglia, stabilire le proprietà fondiarie a lui connesse, inserirlo nelle varie classi di censo (introdotte con l’ordinamento centuriato voluto da Servio Tullio). -)Esercitavano la cura morum: La sorveglianza sui comportamenti individuali e collettivi. In caso di comportamenti particolarmente gravi, i censori irrogavano una specifica sanzione, la nota censoria: essa comportava l’emarginazione del soggetto colpito dalla comunità, con la conseguente iscrizione in una classe di centurie inferiore a quella cui aveva diritto in base al suo patrimonio e con l’esclusione dai ranghi del senato: -)Fondamentale è il loro controllo sulle attività economiche della città, attraverso il vaglio delle entrate e delle spese pubbliche; la verifica degli appalti concessi ai privati; l’amministrazione delle proprietà e dei beni pubblici (registrati nel censimento, insieme ai beni privati). -) Selezionavano i candidati alla carica senatoriale: esercitando la c.d. lectio senatus. Non è chiaro il criterio utilizzato dai censori per selezionare i candidati al senato, anche se è probabile che essi si attenessero a criteri obiettivi scegliendo i senatori fra gli ex magistrati, partendo da quelli gerarchicamente superiori: prima venivano scelti gli ex censori ed ex consoli, poi gli ex pretori e infine gli ex questori. Con il declino e la caduta della Repubblica Romana la carica venne poi assunta direttamente dagli imperatori, spesso in chiave anti-senatoria. 2)I magistrati minori: privi di imperium e dotati di una semplice potestas che ne legittimava le azioni (magistrati cum potestas). a)I questori: il cui compito primario era l’amministrazione delle finanze pubbliche, in collaborazione con i censori e sotto il controllo del senato. b)I tribuni militum: magistrati nominati annualmente, alcuni dai consoli altri dai comizi centuriati, per governare l’esercito. Essi rappresentano quelli che definiremmo oggi “ufficiali superiori” dell’esercito, con funzioni di comando sulle legioni, che continuavano ad essere la struttura fondamentale dello schieramento militare romano. c) I tribuni della plebe: La loro stessa creazione avviene all’epoca della secessione dell’Aventino, per dotare la plebe di un contropotere da esercitare nei confronti delle alte magistrature e del senato. Questa particolare magistratura era dotata di una serie di poteri fondamentali: -)Il potere di intervenire contro coloro che avevano arrecato un danno ai plebei (attraverso l’emissione di una sanzione, la c.d. mutae irrogatio). -)Il potere di esercitare l’intercessio: bloccando la delibera di qualunque altro magistrato, consoli compresi. -)il potere di uccidere il trasgressore delle leggi sacrate: attraverso l’esercizio della summa coercendi potestas. Questo potere dimostra che i tribuni della plebe, ancorchè non dotati di imperium, rivestivano un’importanza fondamentale nelle istituzioni repubblicane. -)Convocare la plebe in Assemblea per l’approvazione delle leggi plebee (i c.d. plebei scita o plebisciti). d)Gli edili della plebe: introdotti accanto ai tribuni della plebe e dotati di compiti organizzativi all’interno della città. in seguito verrà introdotta un’altra figura, gli edili curali (così chiamati perché sedevano su un particolare sedile, la sella curale), aventi il compito di sovraintendere alla vita materiale ed economica della città attraverso il controllo: dei mercati, della viabilità, dell’igiene pubblica, dei giochi, delle cerimonie ecc. Paragrafo 3 Il senato Inizialmente il senato, seguendo uno schema tipico della fase monarchica, era composto solamente da patrizi. Dovettero passare molti anni dall’avvento della repubblica, perché i plebei fossero ammessi alle magistrature superiori e, conseguentemente, alle cariche senatorie. Il senato era incaricato di una serie di compiti fondamentali: 1)Approvare le leggi deliberate dai comizi centuriati. Con il tempo questo controllo successivo venne sostituito da una conferma preventiva, in cui il senato autorizzava i vari magistrati a presentare una proposta di legge ai comizi centuriati (a cui si garantiva in tal modo una maggiore libertà nella stesura della legge). 2) Delineare le linee essenziali dell’intera politica romana: i certi settori particolarmente delicati e importanti (come la politica estera, la gestione delle entrate pubbliche ecc.) si affermò una prassi in base alla quale i magistrati dovevano non solo chiedere il parere del senato (il c.d. consultum) ma anche attenersi a quanto indicato dallo stesso (quello che definiremmo oggi parere obbligatorio e vincolante). 3)Mediare nelle possibili tensioni che potevano sorgere fra la coppia di consoli: per comprendere il rapporto fra i consoli e il senato occorre tener presente che i primi, una volta terminato il loro mandato annuale, entreranno a far parte del senato. Per questo motivo il loro comportamento, nel corso della carica, era profondamente condizionato dal loro collegamento con il consesso senatorio. A sua volta questo collegamento spiega perché il senato non potesse autoconvocarsi, spettando tale compito ai consoli dotati dello ius agendi cum patribus. Per quanto concerne l’organizzazione interna al senato, essa funzionata secondo una logica gerarchica legata al rango degli ex magistrati che ne facevano parte: la sua presidenza, per tale motivo, era affidata all’ex censore più anziano. Paragrafo 4 il popolo e le leggi della città: i comizi centuriati e la nomina delle magistrature Fino adesso abbiamo esaminato le funzioni e i poteri delle magistrature esistenti successivamente al 367 a.c. Non è stato tuttavia trattato un tema fondamentale: come avveniva l’elezione dei magistrati? Secondo le fonti i magistrati venivano eletti annualmente dal popolo, riunito nei comizi centuriati, attraverso una votazione a maggioranza in cui ciascuna centuria rappresentava un voto. Dal momento che le centurie erano in totale 193, accadeva spesso che le 18 centurie di cavalieri e le 80 centurie di prima classe, di accordassero per votare all’unisono . In tal modo le centurie che avevano preso parte all’accordo realizzavano da sole la maggioranza, tagliando fuori dalla decisione tutto il resto della popolazione. La convocazione dei comizi centuriati avveniva ad opera di un magistrato a ciò legittimato che, avendo individuato una data consentita dal calendario politico e religioso della città, annunciava pubblicamente la loro convocazione. A questo punto bisogna distinguere a seconda che l’assemblea dovesse eleggere i magistrati ovvero dovesse approvare le c.d. leggi comiziali. 1)La scelta dei magistrati non era libera: essa, infatti, avveniva all’interno di una ristretta rosa di candidati, precedentemente selezionati dai magistrati uscenti e approvati dal senato. 2)Le leggi comiziali venivano approvate attraverso una votazione che si svolgeva subito dopo una fase di dibattito. L’assemblea poteva decidere se federale di Diana, attraverso la costruzione sull’Aventino di un apposito tempio da parte di Servio Tullio, con lo scopi di trasformare Roma nel principale centro di culto della regione. L’ampiezza del territorio romano alla fine del VI secolo a.c., può essere ben intesa può essere ben intesa attraverso la lettura del primo trattato fra Romani e Cartaginesi che, secondo Polibio, sarebbe stato stipulato negli anni immediatamente successivi alla cacciata di Tarquinio il Superbo, ultimo re di Roma. Questo trattato pone dei limiti alle possibili aggressioni di Roma da parte dei Cartaginesi e viceversa. E’ interessante il fatto che questo “patto di non aggressione” riguarda tutte le città del Lazio, il che ci deve far concludere che già alla fine del VI secolo a.c., il controllo di Roma si estendeva su tutta la regione. L’immediata conseguenza di questa espansione territoriale fu l’aumento della popolazione, che venne divisa in due parti: cittadini e non cittadini: i primi erano dotati di diritti politici; i secondi ne erano privi. Ad eccezione dei diritti politici, a Roma vigeva il principio della territorialità del diritto: in base al quale il diritto dello stato si applicava a tutti coloro che si trovavano all’interno del suo territorio, indipendentemente dalla loro cittadinanza. Gli stranieri dunque erano tenuti a rispettare le leggi civili e penali di Roma che di contro gli forniva una tutela analoga a quella garantita ai cittadini. Ciò segna un netto contrasto rispetto alle poleis greco-italiche in cui prevaleva il principio della personalità del diritto: in base al quale ogni individuo era soggetto alle leggi dello stato di appartenenza; quando si trovava in un altro Stato la sua protezione non era garantita dagli uomini ma dagli dei (la frase “l’ospite è sacro”, giunta fino ai giorni nostri, dipende da questa protezione che l’ospite chiedeva agli dei quando si trovava in terra straniera). Paragrafo 2 Latini e cittadini delle colonie Il Trattato stipulato con Cartagine sarà seguito pochi anni dopo da un altro trattato ancora più importante: il Foedus Cassianum, un patto di alleanza fra Romani e Latini che istituiva una lega comune il cui scopo era garantire la protezione reciproca dei cittadini appartenenti alle diverse comunità alleate. La logica di quest’accordo, appare ben diversa rispetto a quella che sta alla base del trattato Roma-Cartagine: esso voleva sancire una forma di comunanza giuridica tra Romani e Latini Prisci (un nome utilizzato per distinguere questi latini dai successivi abitanti delle colonie). In base a questa assimilazione giuridica fra le due comunità, ai Latini che si fossero trovati a Roma sarebbero stati garantiti alcuni diritti fondamentali: 1)Lo ius commercii: il diritto di commerciare liberamente con Roma con la possibilità di ricorrere al magistrato per la tutela dei propri atti negoziali. 2)Lo ius connubii: il diritto di contrarre matrimonio con un cittadino Romano. 3)Lo ius migrandi: questo diritto non venne introdotto con il Foedus Cassianum, bensì in epoca successiva. Esso stabiliva la possibilità dei Latini di acquistare la cittadinanza Romana, spostando la loro residenza a Roma. Gli stessi diritti ora esposti spettavano ai Romani che decidevano di intrattenere rapporti con le città Latine. Un’altra importante conseguenza di questo Trattato fu la possibilità che l’insieme delle città della Lega fondasse nuove colonie. Si trattava di piccole comunità semi-urbane, create dalla citta-madre e situate in punti strategici anche molto distanti. Questa facoltà della Lega di fondare colonie fu effettivamente esercitata durante tutto il V secolo a.c. A partire dal IV secolo a.c. Roma, avendo acquisito il predominio sulle città del Lazio, si appropriò del potere di fondare autonomamente le colonie. Fu l’inizio della fine della Lega, che venne definitivamente sciolta nel 338 a.c. La fondazione di colonie da parte di Roma non solo garantiva il controllo su nuovi territori, ma servì anche a realizzare una politica demografica ed economica. Le colonie, infatti, assicuravano l’alleggerimento demografico della città (spesso sovrappopolata) tramite il trasferimento di gruppi consistenti di popolazione in nuovi territori che venivano in tal modo urbanizzati. I territori cittadini, a loro volta, potevano essere redistribuiti ai cittadini, in particolare ai meno abbienti. La fondazione di una nuova colonia avveniva sulla base di una delibera del senato e con l’approvazione dei comizi, che nominavano i magistrati incaricati delle procedure necessarie alla sua istituzione. Contestualmente veniva redatto uno statuto che ne avrebbe regolato la vita e l’organizzazione interna. Una delle caratteristiche più importanti delle colonie romane, che in ciò si distinguevano dalle colonie latine, è lo stretto legame con la madre patria. Le colonie, infatti, non costituivano una struttura istituzionale esterna a Roma; i cittadini che vi si trasferivano mantenevano la cittadinanza Romana. Altra caratteristica essenziale è l’organizzazione urbanistica della colonia. Essa avveniva per mezzo degli agrimensori: tecnici nominati a tal scopo dai magistrati incaricati della fondazione della colonia. Gli agrimensori, dopo aver identificato un punto centrale, tracciavano due linee perpendicolari (una orizzontale l’altra verticale) che dividevano la colonia in 4 rettangoli. Queste linee (chiamate Cardo e Decumano maggiore) rappresentavano gli assi centrali dell’intero sistema urbanistico. In parallelo a queste linee venivano tracciate, a distanza regolare, altre linee (cardini e decumani) che incrociandosi ad angolo retto, creavano tanti rettangoli di uguali dimensioni. Questi rettangoli erano le centurie, la loro area era di circa 50 ettari. Attraverso queste linee i Romani creavano nella colonia una fitta rete di strade rurali, così da assicurare a tutte le unità fondiarie un rapido accesso alla via pubblica. Lo scopo finale di questa politica urbanistica era di rendere efficiente la colonia, favorendone un rapido sviluppo. SCANNERIZZARE PAGINA 137 Paragrafo 3 La svolta del 338 a.c. e i nuovi statuti giuridici di Roma Come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, nel corso degli anni Roma acquisì sempre un maggior potere nel territorio italico. Ciò fu reso possibile, oltre che dalle colonie e dalle espansioni non violente, anche dalla guerra. La politica militare romana subì nel tempo un profondo cambiamento. 1)All’epoca della conquista di Veio (394 a.c.): Roma non seppe far altro che distruggere questa ricca città etrusca, disperdendone la popolazione o riducendola in schiavitù. Si tratta di una politica abbastanza comune, tipica delle poleis greco italiche, ma che era affetta da un forte limite: l’indebolimento eccessivo della città conquistata che, di conseguenza, non poteva portare grandi benefici e risorse alla conquistatrice. 2)Molto diversa fu la politica adottata dai romani nel 338 a.c. quando, dinanzi all’ennesima defezione dei Latini dall’alleanza, li aggredirono militarmente sconfiggendoli. In conseguenza di questa vittoria Roma ottenne il potere sovrano su tutte le città della Lega. A differenza di quanto era avvenuto all’epoca di Veio, in questo caso Roma non distrusse le città Latine ma le sottomise al suo potere. Alle città Latine veniva lasciato un ampio margine di autonomia organizzativa interna (di fatto non inferiore a quello che possedevano da Stati sovrani). Ai loro cittadini venivano riconosciuti lo ius commercii, lo ius connubii e lo ius migrandi. Roma, tuttavia, si preoccupò di recidere rapidamente i legami esistenti fra le città latine, in modo da evitare la creazione di un’alleanza anti romana. Questa distinzione fra Romani e Latini permarrà fino al I secolo a.c., quando a tutti gli italici verrà concessa la cittadinanza Romana. Paragrafo 4 La genesi del sistema municipale I Romani, onde estendere la loro influenza, avevano attribuito ad alcune comunità una cittadinanza romana limitata, in quanto priva di diritti politici. Essi la chiamavano: civitas sine suffragio (si pensi come esempio a Cerveteri o Capua). I Cives sine suffragio erano pienamente parificati ai Romani sotto il profilo dei diritti privati; restavano invece esclusi dalle cariche politiche e dalle cariche militari. La conseguenza più importante di questa cittadinanza limitata, è che quando un cives sine suffragio entrava in contatto con un cittadino Romano, avrebbe applicato il diritto di quest’ultimo. Inoltre i cittadini delle diverse civitas sine suffragio, quando entravano in rapporto fra loro, non applicavano il diritto dell’uno o dell’altro ordinamento ma il diritto romano che, a partire dal III secolo a.c., divenne il speranza di poterli restituire con i guadagni ricavati dalle campagne militari e dalla spoliazione delle province. 3)Una volta eletti alle cariche minori si poteva aspirare a quelle superiori, fino a giungere al vertice della repubblica con l’elezione a console o censore. Due erano i principi fondamentali che regolavano l’accesso alle cariche: a)La non duplicabilità: non si poteva essere eletti alla stessa carica per due anni consecutivi. b)Gli intervalli di tempo tra la scadenza di un mandato in una certa magistratura e la possibilità di presentarsi ad un’altra (intervallo fissato in 2 anni). Entrambi i principi avevano come scopo di evitare un’eccessiva concentrazione di potere nelle mani di un solo uomo. Questi principi, unitamente al servizio militare cui si doveva sottoporre preliminarmente il futuro magistrato, fecero si che in età ciceroniana bisognava avere: 37 anni per diventare edile curale; 40 per accedere alla pretura; 43 per il consolato. Il sistema così delineato comportava che colui che veniva eletto a una carica magistraturale, era uscito da uno lungo “collaudo” in cui erano state testate anzitutto le sue capacità militari attraverso una forte selezione che premiava solamente i migliori o, come accade ancora oggi, i più fortunati. Un’ulteriore conseguenza di questo sistema, che trova le sue radici nell’impegno militare del futuro magistrato, è che le legioni romane, per secoli costituite da cittadini-proprietari che si dedicavano alla guerra non per professione ma mossi da uno spirito patriottico (oltre che da interessi economici), furono comandate da soldati esperti (i futuri magistrati) che in modo professionale assunsero tali funzioni. Ciò permise agli eserciti di Roma di fronteggiare armate ben disciplinate e addestrate come quelle dei macedoni, dei cartaginesi, dei regni d’Oriente. In conclusione occorre sottolineare che malgrado il rinnovamento del ceto dirigente, realizzato attraverso la creazione della nobilitas patrizio-plebea, la vita politica di Roma continuò ad essere controllata dalle consorterie nobiliari. Ciò trova conferma nel fatto che gli strati superiori della plebe (quelli che ambivano alle cariche magistraturali), cominciarono anch’essi ad organizzarsi in gentes. Roma rimaneva, dunque, fortemente legata alle tradizioni. La formazione politica, militare e sociale dei membri della nobilitas patrizio-plebea, si ispirava alle tradizioni familiari, al ricordo dei grandi uomini vissuti nelle precedenti generazioni. In questo contesto il “popolo minuto” era chiamato a un ruolo di comparsa. La vita della città era fondata sui rapporti di parentela, sull’appartenenza gentilizia e su un ulteriore legame molto importante: quello clientelare. Il cliens in età romana era quel cittadino che, per la sua posizione svantaggiata all'interno della società, si trovava costretto a ricorrere alla protezione di un "patronus" o di una intera "gens" in cambio di svariati favori, talvolta al limite della sudditanza (applicatio) fisica o psicologica. Lo schema clientelare non venne utilizzato solamente a Roma. Quando, infatti, un magistrato romano otteneva la resa di una città o di una popolazione, attraverso una vittoria militare, andava immediatamente ad assumerne la protezione. Egli si faceva intermediario fra la comunità e il senato, divenendo il referente costante per ogni richiesta che la popolazione volesse fare a Roma. In cambio di questa protezione politica il magistrato esigeva un continuo supporto materiale. Questo schema verrà utilizzato in epoche successive per intere province, costrette a pagare un tributo a Roma in cambio della sua protezione. Paragrafo 2 Gli sviluppi sociale tra IV e III secolo a.c. Negli anni in cui si realizzò l’avvento della nuova nobiltà patrizio-plebea, Roma aveva esteso enormemente i suoi territori, fino a controllare l’intera Italia centrale. Dopo la sconfitta dei latini (nel 338 a.c.) e il conseguente scioglimento della Lega introdotta dal Foedus Cassianum, i principali nemici di Roma divennero i Sanniti (un antico popolo italico stanziato nel Sannio, corrispondente agli attuali territori della Campania settentrionale, dell'alta Puglia, di gran parte del Molise, del basso Abruzzo e dell'alta Lucania). Iniziò dunque una lunga guerra, che nel tempo porterà Roma a dominare l’intero territorio italico. Dopo una serie di vittorie delle legioni romane nel III secolo a.c. Taranto, ultima roccaforte dei sanniti, era pronta a cadere. I sanniti, certi della sconfitta, chiesero aiuto a Pirro, discendente di Alessandro Magno, per resistere alla potenza di Roma. Tutto fu vano: nel 272 a.c. le armate di Roma conquistarono Taranto, eliminando ogni residua resistenza dei Sanniti. Oltre ai Sanniti i Romani combatterono in quegli anni molti altri popoli: i Galli, gli Umbri, gli Etruschi ecc. Questa ininterrotta e felice politica militare, produsse un enorme espansione di Roma non solo dal punto di vista territoriale ma soprattutto economico. Il problema è che questa grande espansione rese molto più complessa la gestione delle entrate finanziare così come delle spese, in particolare quelle utilizzare per il sostentamento dell’esercito. I magistrati, la cui carriera come abbiamo visto nel paragrafo precedente aveva una forte connotazione militare, erano incapaci di gestire adeguatamente la complessa situazione finanziaria di Roma. La soluzione fu semplice: appaltare a privati imprenditori le attività economiche di interesse statale. Eccone alcuni esempi: a)Le terre pubbliche, ottenute grazie alle campagne militari in cui Roma era costantemente impegnata, venivano affidate ai privati a fronte del pagamento di un canone periodico. Questi, a loro volta, suddividevano le terre ricevute in gestione in tanti ager publicus, che venivano assegnati a piccoli agricoltori dietro il pagamento di un canone. Gli appaltatori guadagnavano grazie alla differenza fra la somma periodica che dovevano versare allo stato e i canoni che essi ottenevano dai contadini (somme che, secondo le fonti, erano piuttosto elevate). b)Le riscossioni tributarie nelle province: di esse venivano incaricati dei privati (tramite un appalto). Essi si facevano carico di questa incombenza, lucrando la differenza fra il percepito e la somma da versare alle casse di Roma. c)Lo sviluppo delle opere pubbliche, l’organizzazione del vettovagliamento per gli eserciti: tutte queste attività si svolgevano mediante degli appalti stipulati dalla città con privati imprenditori. Questo complesso sistema fu reso possibile dall’affermazione di un nuovo gruppo sociale: gli equites (coloro, cioè, che nella divisione in centurie erano capaci di fornire all’esercito i cavalieri. La loro ricchezza verrà fortemente utilizzata nel corso della storia di Roma (basti pensare al finanziamento della flotta romana, durante la Prima guerra punica ovvero al sostentamento delle armate durante la lunga guerra contro Annibale). Paragrafo 3 Appio Claudio e gli inizi della modernizzazione Uno dei personaggi che meglio rappresenta il clima politico-sociale del IV secolo a.c. è Appio Claudio, discendente del famoso decemviro che ricoprì tale carica nel 451 e nel 450 a.c. [vedi capitolo 4 paragrafo 3]. Eletto ripetutamente alle massime cariche magistraturali (fu censore nel 312 a.c.), nel corso della sua lunga carriera svolse un’importante opera di modernizzazione della città, intervenendo nei più vari settori. Fra di essi particolarmente importante è l’attività urbanistica: Sotto Appio Claudio venne costruita la via Appia, chiamata dai Romani “la regina delle vie”, il cui nome deriva proprio dal personaggio di cui stiamo parlando. Questa grande opera pubblica è una chiara espressione della politica economica voluta da Appio Claudio. Al contrario dei gruppi tradizionalisti, orientati verso il consolidamento dei possedimenti fondiari dell’Italia centro-settentrionale, Claudio riteneva fondamentale stabilire una via di comunicazione e di commercio con la Magna Grecia. Ciò avvenne attraverso la costruzione di strade (come l’Appia che univa Roma con la Campania e con la Puglia) e attraverso lo sfruttamento del Mare. Claudio aveva capito che la fortuna di Roma dipendeva dalle terre situate a meridione, futuro terreno di scontro tra i Romani e la potente Cartagine. L’attenzione di Appio Claudio per il commercio, lo indusse ad adottare una serie di riforme: 1)Modificò la composizione delle tribù: tenendo conto, nel conteggio della ricchezza, non solo dei beni immobili posseduti (la ricchezza fondiaria) ma anche della ricchezza mobiliare. In questo modo i soggetti privi di rendite fondiarie, precedentemente iscritti nelle 4 tribù urbane, vennero conteggiati fra le tribù rustiche. 2)Permise ai liberti di accedere alle cariche senatorie, una riforma che fece storcere il naso alla maggior parte dei Romani. Fra le sue funzioni, molto importante fu l’adozione di norme volte a regolamentare il rapporto fra i cittadini Romani e un numero sempre crescente di stranieri, spesso privi dello ius commercium (che avrebbe comportato l’applicazione allo straniero del diritto civile romano). Queste norme vennero adottate dal pretore nell’esercizio della iurisdictio di cui era dotato. I suoi interventi divennero nel tempo talmente numero che nel 242 a.c. accanto al vecchio pretore (da allora chiamato urbanus, cioè cittadino) venne creato il praetor peregrinus, con il compito di intervenire nei litigi tra stranieri ovvero tra Romani e stranieri. Questi interventi portarono al superamento della logica delle legis actiones (caratterizzata dalla rigidità delle frasi pronunciate in parole arcaiche, che dovevano essere usate esattamente, pena la nullità del processo) attraverso l’affermazione di un nuovo tipo di processo: il processo formulare. La sua introduzione si fa risalire alla prima metà del II secolo a.c., quando le norme create dal pretore per gli stranieri cominciarono ad essere applicate anche ai cittadini romani. Il processo formulare si basava sulla pronuncia di verba concepta, parole concepite di volta in volta dal pretore giusdicente e modellate sulla controversia concreta, grazie alle quali si perveniva ad affidare il giudizio ad un giudice o collegio di giudici. Tali verba concepta, ben presto redatte per iscritto, venivano denominate formulae, donde il nome di processo per formulas (o processo formulare). Il processo formulare continuerà ad essere applicato congiuntamente all’antico sistema processuale delle legis actiones fino al 18 a.c., quando Augusto adottò la Lex Iulia Iudiciorum Privatorum, con cui stabilì definitivamente l’applicazione del solo processo formulare. A sua volta il processo formulare troverà applicazione fino al 342 d.c. quando Costanzo e Costante, figli di Costantino, decretarono la sua sostituzione con la Cognitio Extra Ordinem [vedi capitolo 16]. Paragrafo 3 l’editto del pretore (o editto tralaticium), il ius gentium e il ius honorarium Nel tempo le formule adottate dal pretore, pur derivando dalla soluzione di casi concreti, andarono trasformandosi in regole generali. Ciò derivò dal fatto che il pretore, essendo un magistrato superiore dotato di imperium, aveva la prerogativa di emanare gli editti (contenenti prescrizioni da rendere note a tutta la popolazione). Tramite gli editti i due Pretori, all’inizio di ogni anno, rendevano note alla popolazione le situazioni giuridiche non tutelate dallo ius civile, che avrebbero ricevuto la loro protezione. Questo nuovo corpus normativo divenne nel tempo così complesso, che i Romani gli diedero un nome: ius gentium (il diritto degli uomini) spesso chiamato anche ius honorarium. La differenza fra lo ius gentium e lo ius honorarium è che il primo, secondo gli schemi tradizionali, è composto da quell’insieme di regole comuni a tutti i popoli; il secondo, invece, è quel sistema di norme che nel periodo successivo al 367 a.C. venne introdotto dai magistrati romani (principalmente dal praetor) al fine di colmare le lacune dell'ormai obsoleto ius civile. In realtà la differenza fra lo ius gentium e lo ius honorarium appare assai sottile e difficilmente fondata sul fatto che lo ius gentium consista in un insieme di norme comuni a tutti i popoli. Nonostante l’importante contributo fornito dai pretori al diritto sostanziale, il settore in cui questi magistrati ebbero maggior successo fu il diritto processuale attraverso la graduale introduzione del processo formulare. Le formule, da utilizzare durante il processo, venivano indiate dai pretori per mezzo dell’editto. La stabilizzazione del processo formulare si realizzò quando i Pretori, di anno in anno, andavano ripubblicando l’editto dell’anno precedente, con l’aggiunta eventuale di un provvedimento, qualora si dovessero regolamentare situazione che non si erano ancora mai presentate. A questo punto occorre fare alcune precisazioni: a)Lo Ius Honorarium: sempre più sviluppato e diffuso grazie all’intervento dei pretori, non cancellò del tutto lo ius civile che rimarrà valido per tutta la durata della repubblica e anche all’epoca del principato. b)I due sistemi, lo ius civile e lo ius honorarium, trovavano il loro punto di raccordo nella cooperazione fra magistrati (da cui proveniva lo ius honorarium) e giuristi (interpreti del diritto civile). basti pensare che molto spesso i magistrati, dinanzi a questioni particolarmente importanti, chiedevano l’ausilio dei giuristi. Paragrafo 4 La scienza giuridica romana come sapere aristocratico Come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, un ruolo fondamentale nell’evoluzione giuridica del diritto, venne giocato dai giuristi laici del III/II secolo a.c. A questo punto una domanda sorge spontanea: I “normali” cittadini che funzione avevano in questo complesso sistema? Essi sicuramente partecipavano ai comizi in cui si facevano le leggi. Tuttavia, dinanzi alle difficoltà incontrate nella vita di tutti i giorni, non potevano far altro che rivolgersi agli esperti di diritto (collegio dei pontefici prima, giuristi laici poi) per sciogliere i nodi di un diritto oscuro e spesso contraddittorio. Per questi motivi la scienza giuridica rimase durante tutta l’esperienza romana un sapere nelle mani degli aristocratici (patrizi e plebei ricchi abbastanza da dedicare il loro tempo allo studio del diritto). I depositari di questo sapere assistevano gratuitamente gli altri cittadini, almeno in epoca repubblicana, in modo da crearsi un folto gruppo di clientes da utilizzare alle successive elezioni. Ma da cosa deriva questa attenzione degli aristocratici allo studio del diritto? secondo gli esperti questa “dedizione giuridica” deriva principalmente dalla diffusione della filosofia ellenistica, la quale considerava attività “onorevoli”: la letteratura, la poesia e l’oratoria (su cui si fonda, a sua volta, lo studio del diritto). Paragrafo 5 Dalla giurisprudenza delle guerre annibaliche alla crisi della repubblica Fu proprio la diffusione della filosofia ellenistica a creare il terreno fertile per la nascita di una vera e propria scienza del diritto. Ma a questo punto viene da chiedersi: cos’è la scienza del diritto? Per rispondere alla domanda bisogna ricordare che i giuristi romani, a partire dal II secolo a.c., cominciarono a lavorare su sistemi di classificazione, così da raggruppare i fatti giuridicamente rilevanti che avessero elementi in comune Attraverso queste classificazioni si venne formando un sistema di regole e categorie, organizzato secondo gli schemi della dialettica greca (per generi e specie). Ciò portò alle seguenti innovazioni: a)Vennero distinti i diritti obbligatori dai diritti reali. b) Venne distinto il diritto di proprietà dal possesso. c)Vennero migliorate le condizioni di vita della donna, eliminando il vecchio matrimonio cum manu (che prevedeva il passaggio della donna, dopo le nozze, sotto la potestas del pater della famiglia dello sposo). d)Venne introdotto definitivamente il contratto: inteso come l’accordo con cui due o più parti andavano a creare una situazione giuridicamente protetta dall’ordinamento. Si riuscì in tal modo a superare lo schema chiuso della stipulatio, garantendo l’insaturazione di relazioni di maggiore complessità. Tradizionalmente la nascita della scienza giuridica si fa risalire al 198 a.c., data in cui venne eletto console Sesto Elio Peto Cato, autore dei Tripertita. Quest'opera, come dice anche il titolo, era divisa in tre parti: una trattava le XII Tavole, la seconda interpretazione pontificale, la terza riguardava le legis actiones. Le parti venivano analizzate tutte separatamente per far mettere in rilevanza la profonda differenza tra le XII Tavole e l'interpretatio, oltre a parlare i come venivano regolate le legis actiones. Quest'opera perciò ha come obiettivo di compiere un'analisi del diritto di quell'epoca. Per questo motivo Sesto Elio viene ritenuto il primo vero giurista romano da cui poi nacque la giurisprudenza romana poiché i precedenti scritti che si perdono nella tradizione si limitano a elencare i vari atti normativi mentre lui è il primo a fare una vera e propria analisi comparata. A questa fase “fondatrice” della giurisprudenza, fece seguito una fase più matura che coincide con l’età tragica delle guerre civili (dal I secolo a.c. al I secolo d.c.), dominata da due personalità: 1)Quinto Mucio Scevola: Secondo molte fonti si tratta del primo autore responsabile di una generale organizzazione del sistema giuridico. Cicerone, anche se non lo amava, ci dice che egli fu “il primo ad organizzare il diritto”. Il grande giurista, che svolse la sua carriera politica fra la fine del II secolo a.c. e l’inizio del I secolo a.c., presenta una tipica mentalità aristocratica. Egli viene ricordato per alcune opere fondamentali: a)Un libro di definizioni: il c.d. oron (che in greco significa, appunto, definizione). b)i diciotto libri del iurisi civilis: una raccolta con cui il giurista ha realizzato una prima sistemazione del diritto civile Romano. 2)Servio Sulpicio Rufo, di una generazione più giovane di Quinto Mucio Scevola (svolse le sue funzioni politiche fino al 43 a.c.) è considerato da Cicerone, suo grande amico, di molto superiore a Mucio. Un’idea, quella di Cicerone, che può facilmente essere condivisa dato che non esiste campo, nel diritto Romano, in cui Servio non abbia dimostrato la sua particolare capacità analitica. Si ritiene, infatti, che egli abbia avuto l’intenzione di riorganizzare l’intera materia giuridica all’interno di un quadro unitario nuovo (superando la frammentazione del diritto in ius civile e ius honorarium). 3)Resta infine un ultimo giurista da considerare, prima di terminare l’esame dell’esperienza giuridica repubblicana e passare a quella imperiale: Marco Antisio Labeone. Vissuto durante l’epoca di Augusto, si sottrasse tenacemente ai tentativi del princeps di inserirlo fra i suoi stretti collaboratori. Fu I Romani erano comunque attenti a garantire la sopravvivenza di un’organizzazione cittadina delle province. Per questo la grande maggioranza delle città provinciali conservò una più o meno ampia autonomia, il proprio sistema di leggi, le proprie istituzioni. L’unico limite consisteva nel controllo esercitato dal governatore provinciale, e nell’obbligo di pagare a Roma un tributo (il c.d. stipendium) e di sottostare a specifici obblighi (ad esempio le città libere siciliane vennero obbligate a vendere a Roma il frumento ad un prezzo stabilito). Questo sistema degenerò quando gli appaltatori responsabili delle riscossioni tributarie (i c.d. publicani, chiamati in questo caso decumani in quanto riscuotevano la decima), aumentarono esponenzialmente i tributi che dovevano essere pagati dalla popolazione, in modo da aumentare la differenza fra le somme incassate e quelle da versare a Roma. I governatori, invece di condannare questo comportamento, si associarono con i publicani per lucrare anch’essi a spesa delle popolazioni sottoposte. Un altro problema fondamentale delle province era la nomina dei magistrati incaricati di governarle. Con il moltiplicarsi delle province sottomesse a Roma, i magistrati ordinari divennero insufficienti dal punto di vista numerico. A questo punto Roma, anziché nominare nuovi magistrati ordinari, utilizzò l’istituto della prorogatio imperii per affidare il governo delle province a quei magistrati (consoli e pretori) che avevano terminavano il loro anno di mandato. La prorogatio permetteva al magistrato di mantenere il suo potere di imperium, non più come magistrato ordinario in carica, bensì come pro-console o propretore, incaricato di governare una certa provincia; una carica che avrebbe conservato fino a che il senato non avesse nominato un suo successore. La nomina a governatore di una provincia divenne uno dei motivi su cui si fondarono le maggiori contese fra i magistrati superiori, data la possibilità di arricchirsi enormemente grazie allo sfruttamento delle province. Per quanto riguarda l’organizzazione amministrativa delle province, per ognuna di esse venne adottato uno Statuto, redatto da 10 cittadini (i c.d. decem legati), sotto la supervisione del Senato. Una volta completato lo Statuto veniva emanato dal governatore provinciale, nel frattempo nominato dal Senato, nell’esercizio del suo potere di imperium. Oltre al Governatore il senato nominava un gruppo di legati di rango senatorio, per coadiuvare e controllare lo stesso governatore. Importante era, inoltre, la figura del Questore: dotato sia di funzioni militari che di compiti finanziari. I poteri del governatore si estendevano, tra l’altro, al controllo del sistema giudiziario. Il diritto romano, infatti, venne utilizzato per regolamentare la vita delle comunità sottomesse a Roma (ad eccezione delle citta alleate che, in base a specifici trattati, mantenevano la loro autonomia giuridica). La repressione criminale, invece, dipendeva dall’esercizio dell’imperium militiae da parte del governatore (il potere di intervenire militarmente a difesa della provincia). Paragrafo 3 L’innesto della cultura ellenistica Dopo la sconfitta di Cartagine durante la Seconda guerra punica, Roma puntava a conquistare tutti i c.d. Regni ellenistici (la Grecia, la Siria, l’Egitto, il regno del Ponto, la Macedonia, i Regni dell’Asia minore). I Romani erano consapevoli che se tutti questi regni si fossero uniti insieme in un’alleanza anti-romana, Roma non avrebbe avuto scampo. Per questo, fra il 200 e il 167 a.c., venne ideata una strategia semplice e geniale: perseguire sistematicamente la divisione fra questi regni, stringendo alleanze con alcuni, isolando altri, combattendo battaglie individuali. In questo modo vennero conquistate nell’ordine: la Macedonia, la Siria, l’Egitto, la Grecia. Salvo alcuni casi isolati, in cui il Senato volle garantire a questi regni un’autonomia analoga a quella posseduta quando erano degli “Stati sovrani”, queste vittorie di Roma ebbero l’effetto di incrementare enormemente il numero di province direttamente controllate dai Governatori Romani. La conquista di questi territori, inoltre, non arricchì Roma solo dal punto di vista economico. Essa comportò l’introduzione di nuove idee, valori, modi di pensare. E’ in questo momento che la classe dirigente impara il greco come sua seconda lingua, che si avvicina alla filosofica greca e all’arte oratoria dei sofisti; tutti strumenti che influenzeranno non poco la vita politica e giudiziaria di Roma, contribuendo inoltre alla formazione di quella scienza giuridica di cui si è parlato nel capitolo 8. Questo allargamento culturale di Roma, contribuì a indebolire quella certezza che i Romani avevano sempre riposto nella tradizione e nei valori costituivi della repubblica. Paragrafo 4 L’impero mediterraneo e la trasformazione della società romana Uno degli effetti più significativi dell’espansione territoriale di Roma, fu la trasformazione della città che, nel giro di 2 o tre generazioni, mutò radicalmente le sue caratteristiche. I principali cambiamenti furono: 1)Un aumento esponenziale delle ricchezze: concentrate nelle mani dell’aristocrazia e del ceto equestre. 2)L’investimento di queste ricchezze in attività remunerative , che a loro volta comportavano un ulteriore arricchimento. Fra le principali attività occorre ricordare: a)Gli investimenti immobiliari: realizzati attraverso l’acquisto di insulae, i “palazzoni” dove abitava la plebe (Le insulae sono le case dei romani. Per il numero di persone che ospitato, potrebbero essere definitivi dei villaggi messi in verticale. La loro altezza è considerevole, toccando e spesso superano di 21 metri. I primi piani delle insulae erano i più lussuosi, destinati a ricchi professionisti o a magistrati minori, che impreziosivano la loro casa con preziosi arredi. Più si saliva nei piani, più aumentava la povertà; il motivo è semplice: gli abitanti dei piani superiori, in caso di incendi, che erano molto frequenti a Roma, avevano meno probabilità di uscire vivi dal caseggiato.). Questi palazzoni, una volta acquistati, venivano concessi in affitto a un amministratore professionista. Tra il proprietario e l’amministratore c’era un accordo: il proprietario dava in affitto tutti i piani alti all’amministratore per 5 anni e in cambio chiede solo il canone dell’appartamento al pianterreno, che spesso ha il costo di una domus patrizia. L’amministratore, inoltre, dovrà impegnarsi a mantenere il decoro del palazzo, ad effettuare le dovute manutenzioni, a riscuotere gli affitti. Molti erano i ricchi Romani che si arricchivano investendo nelle insulae (basti pensare che Cicerone guadagnava ogni anno 80.000 sesterzi, grazie all’affitto degli appartamenti di cui era proprietario). b)L’acquisto di proprietà fondiarie: un investimento facilitato dall’abbandono delle terre da parte dei contadini che, a causa della lunga guerra contro Cartagine, avevano passato gran parte della loro vita lontana dai campi. Non era facile per costoro tornare, una volta lasciato l’esercito, a “zappare la terra”. Appariva molto più conveniente trasferirsi in città per dedicarsi al commercio ovvero arruolarsi per le guerre d’Oriente, nella speranza di collezionare ricchi bottini. Si realizzò dunque un rapido inurbamento dei contadini, che favorì i membri dell’oligarchia romana che estese i suoi domini, incorporando i capi degli antichi agricoltori. 3)Il largo utilizzo di manodopera schiavista. La nascita di enormi tenute agricole, sottoposte al controllo di pochi aristocratici romani, rese necessario l’uso massiccio di manodopera schiavista. Gli schiavi vennero utilizzati in vari settori (agrario, minerario, navale). Accanto a questi schiavi “non specializzati”, ve n’erano altri la cui importanza fu fondamentale per la crescita culturale ed economica di Roma: artisti, letterali, filosofi, commercianti, esperti nelle materie economiche, artigiani. La loro influenza non deriva tanto dai servigi che essi fornivano ai loro padroni quando dalla possibilità di questi ultimi di liberarli, riconoscendogli contestualmente la cittadinanza romana. Divenuti liberi questi schiavi costituivano un nuovo gruppo sociale, le cui differenze sociali e culturali avrebbero contribuito all’arricchimento della società romana. La manomissione degli schiavi acquista ancora più importanza se si tiene conto che i figli di ex schiavi, nati dopo che i loro genitori erano stati liberati dalle “catene del servaggio”, erano considerati ingenuii, cittadini a tutti gli effetti capaci di ascendere alle magistrature superiori. Da questo punto di vista Roma è una delle società più aperte del mondo antico. Paragrafo 5 La teoria della costituzione mista Verso la metà del II secolo a.c. un grande storico greco, Polibio, si interrogò sui motivi dello straordinario successo politico di Roma. Secondo lo studioso il vantaggio di Roma sarebbe derivato dalla sua capacità di coniugare insieme le tre forme di governo che caratterizzano tutte le società umane: il potere monarchico (identificabile nella forza dei consoli); il potere aristocratico (dei senatori) e il potere democratico (dei comizi). L’analisi di Polibio è interessante in quanto ci permette di capire che a differenza degli ordinamenti moderni, caratterizzati dalla divisione dei poteri (Legislativo, esecutivo e giudiziario) fra diversi organi; nell’esperienza romana si registra una confusione dello stesso potere tra soggetti diversi. Nell’esercizio di un potere venivano, infatti, coinvolti più titolari in modo da garantire una forma di controllo reciproco (ad esempio per l’adozione di una legge era necessaria la proposta di un magistrato, il consenso del senato e la votazione dei comizi). Questi equilibri, di cui ci parla Polibio, verranno meno con la caduta della repubblica e l’ascesa di una nuova realtà fino a quel momento estranea alla comunità romana: l’impero. CAPITOLO 10 LA PROSPETTIVA DELLE GRANDI RIFORME E LA CRISI DELLA CLASSE DIRIGENTE ROMANA In realtà il suo programma politico era per certi versi contraddittorio: contrastava gli aspetti patologici dell’espansionismo imperiale, sostenendone le premesse basate sulla potenza romana; fece votare leggi frumentarie (che consentivano la distribuzione di grano a prezzo politici ai cittadini romani meno abbienti) sostenendo l’esistenza di una plebe parassitaria in contrasto con il progetto di ripopolamento delle campagne. Inoltre sarebbe stato necessario un maggiore appoggio dal parte della classe equestre che preferì invece sostenere il senato (nonostante i vantaggi a breve termine che avrebbe ottenuto alleandosi con Gracco). In questo periodo si delinea un nuovo problema: quello della cittadinanza dei Latini e di altri gruppi italici che chiedevano la cittadinanza di fronte all’inversione di tendenza romana che iniziò a circoscrivere tali concessioni. Su questo argomento il progetto di Gaio era molto limitato in quanto intendeva concedere la cittadinanza solo agli antichi Latini che ne erano ancora restati fuori e di estendere agli alleati italici i benefici che erano stati dei Latini (commercium e conubium). Il senato cercò di isolare Gaio facendolo contrastare da Druso (altro tribuno) che interpose il veto contro la proposta di Gaio di estensione della cittadinanza e cancellò successivamente la politica graccana con la lex agraria epigraphica (111a.C.) riconsolidò gli antichi possessi di ager publicus trasformati in proprietà e permise l’alienabilità delle assegnazioni graccane in modo da far recuperare le terre agli antichi possessori. CAPITOLO 11 IL TENTATIVO DI RESTAURAZIONE SILLANA E IL TRAMONTO DELLA REPUBBPLICA Paragrafo 1 Le riforme militari di Mario e la crisi italica La sconfitta dei Gracchi non aveva risolto i problemi che le loro proposte avevano cercato di superare: a)La crisi demografica con i fenomeni di inurbamento (favoriti dalle frumentationes). b)la pressione degli Italici per la cittadinanza. Negli anni immediatamente successivi alla morte di Gaio Gracco, vi fu una difficile campagna militare contro l’invasione dell’Italia da parte di popolazioni celtiche e germaniche. La campagna venne guidata da un bravo generale di origine plebea: Gaio Mario, che riuscì a difendere la penisola. Durante questa campagna Gaio Mario dovette affrontare un problema fondamentale: la crisi dell’esercito romano, causata dall’assenza di quella classe di contadini-soldati che fino a quel momento avevano formato la base delle legioni romane. Mario, per risolvere il problema, arruolò volontari tra i cittadini nullatenenti, attirati dal soldo e dal bottino. Questo porterà ad una trasformazione dell’esercito romano: da un esercito composto da contadini-soldati fedeli alla res publica a un esercito di mestiere, i cui veterani avrebbero avuto una più diretta e esclusiva fedeltà nei confronti dei propri comandanti. Gli stessi comandanti, alla fine del loro comando, erano sempre più restii a rientrare nei ranghi come semplici membri dell’aristocrazia senatoria. Dopo la fine della campagna militare contro i celti e i germani, Mario venne eletto ripetutamente al consolato. Per lunghi anni dominò il panorama politico romano, quale membro del “partito” popolare. Nonostante il suo prestigio, la guida effettiva del “partito” era stata assunta dai più radicali Saturnino e Glaucia. Essi perseguirono una politica votata all’eliminazione fisica più che politica degli avversari. Molto pericolosa fu la lex Appuleia de maiestate minuta che precisava e ampliava il crimen maiestatis con cui si colpivano i reati politici. Tale imputazione, per l’indeterminatezza dei comportamenti annoverabili come un attentato alla maiestas populi Romani, era facilmente utilizzabile nella lotta politica che caratterizzava quel periodo. Saturnino e Glaucia raggiusero il culmine della scelleratezza quando nel 100 a.C, per farsi rieleggere tribuni della plebe, assassinarono il candidato avversario. Questo evento portò il senato a emanare il senatus-consultum ultimum, incaricando lo stesso Mario di intervenire contro i suoi alleati. La nobilitas romana perpetrò successivamente l’assassinio dei due ex tribuni dopo che erano stati disarmati e imprigionati da Mario. Questo evento segnò il tramonto politico di Gaio Mario; la guida dei popolari fu assunta da Cinna. Negli stessi anni fece la sua comparsa sulla scena politica Livio Druso (figlio dell’avversario di Gaio Gracco). La sua politica si discostò da quella paterna, essendo per molti versi molto più simile a quella dei Gracchi. Druso diede molta attenzione al problema dell’estensione della cittadinanza agli Italici: quale tribuno della plebe presentò ai comizi una proposta di legge che prevedeva una progressiva concessione della cittadinanza romana agli alleati italici. L’oligarchia senatoria, alleata con buona parte del ceto equestre ( che recentemente al seguito dell’aumento del numero dei senatori aveva visto propri membri entrare nella curia) bloccò l’approvazione della legge e i più oltranzisti assassinarono lo stesso Druso. Di fronte a questa chiusura dei Romani sul tema della cittadinanza, scoppio una ribellione delle città italiche, che rivendicavano quell’estensione della cittadinanza più volte promessa dai politici del partito popolare. Il motivo della rivolta degli Italici è che queste città, alcune sottomesse altre alleate di Roma, erano effettivamente oppresse da Roma che le teneva al giogo. L’ambizione della maggior parte degli Italici e dei latini era dunque quella di ottenere una completa parificazione con i Romani. Roma reagì inizialmente alla rivolta ricorrendo all’uso della forza. Ben presto, tuttavia, il senato si rese contro dell’impossibilità di piegare gli alleatici italici ricorrendo alle armi e decise dunque di seguire un’altra strada. Nel 90 a.c. venne adottata la lex Iulia de civitate latinis et sociis danda: Essa riconosceva la cittadinanza romana ai Latini e a tutti le città italiche che avessero immediatamente deposto le armi contro Roma. Subito si presentò il problema della trasformazione delle numerose comunità italiche in municipi romani. L’Aristocrazia romana, inoltre, voleva evitare che queste nuove città acquisissero eccessivo potere e per questo agirono in due direzioni: a)Da un lato inquadrò i nuovi cives, ancorchè molto numero, in un numero molto limitato di tribù così da circoscrivere il loro peso politico. b)Dall’altro stabilì la regola per cui le riunioni comiziali avvenissero a Roma con l’ovvia conseguenza che non tutti poterono recarvisi. L’estensione della cittadinanza portò, in ogni caso, ad un rapido mutamento linguistico della penisola a favore del latino, e al deperimento delle tradizioni autoctone (soprattutto giuridiche). Paragrafo 2 Le guerre in Oriente e l’affermazione di un nuovo potere personale: Silla Della crisi fra Roma e i suoi alleati Italici approfittò Mitridate, Re del Ponto che, dopo essere stato provocato da un’avventurosa spedizione contro di lui da parte di un modesto esercito locale, guidato e accompagnato da forze romane, invitò la popolazione dei piccoli staterelli ancora indipendenti e delle numerose città assoggettate da Roma a massacrare tutti i commercianti romani e italici che si trovavano nei loro territori. Roma non poteva sopportare un simile affrontò; per questo venne immediatamente organizzata una campagna militare contro Mitridate il cui comando venne assegnato (anche se molti preferiscono usare il termine estorto) a Lucio Cornelio Silla, esponente del partito degli optimates. Durante questa campagna militare, nota con il nome di Prima guerra mitridatica, Lucio Cornelio Silla (tra l'88 a.C. e l'84 a.C.) riuscì a cacciare Mitridate dalla Grecia, ma dovette ritornare immediatamente a Roma. Durante la sua assenza, infatti, i contrasti fra optimates e populares avevano raggiunto un punto critico. Fu un susseguirsi di leggi comiziali incompatibili e contraddittorie, abusi, violazioni, procedimenti criminali de maiestate avviati dai popolari e proposte di senatusconsultum ultimum dagli aristocratici. Il partito popolare, guidato dal radicale Cinna, fece uccidere familiari di Silla e membri del partito senatorio. La vendetta di Silla non si fece attendere: tornato vittorioso dalla Grecia marciò col suo esercito su Roma e, sconfitti gli avversari, impose un ordine legale fondato sul terrore. Il massacro degli esponenti popolari, anche senatori, fu attuata attraverso le famose liste di porscrizione: capi popolari e avversari di Silla vennero dichiarati “nemici della Repubblica”, i loro beni espropriati (lasciandone una parte a chi avesse denunciato il proscritto) e la loro vita lasciata alla mercè di ogni assassino legalizzato. A questo punto Silla decise che era il momento di ottenere il pieno controllo sulla Repubblica Romana. Nell’82 a.c. fece approvare dai comizi centuriati, ormai asserviti al suo volere, la lex Valeria de Sulla dictatore. Essa attribuì a Silla i poteri assoluti in qualità di “dittatore per ricostruire la repubblica e scrivere le leggi”. Silla rimase in carica due anni. Allo scadere del termine, pur potendo rimanere dittatore a vita, si ritirò non ritenendo più necessari i poteri che gli erano stati conferiti. Paragrafo 3 Le riforme sillane Durante i due anni in cui fu dittatore, Silla introdusse una serie di riforme finalizzare a riaffermare l’antica centralità del senato come sede primaria della politica, limitare il potere del tribunato della plebe e contrastare la crescita del peso politico dei comandi militari. d)Il De ambitu (broglio) e)Il De sicariis et veneficis (uccisioni violente e gravi turbative di ordine pubblico) Verso la metà del secolo, una lex Calpurnia (149), costituì un tribunale stabile in cui giudicare questi crimini, secondo lo schema delineato nelle righe precedenti. In ogni caso, la repressione dei crimina era ancora legata a una logica privatistica di autodifesa. Non vi era un soggetto terzo, quale un pubblico funzionario, ma la difesa della città era affidata a tutti i suoi membri e la vittoria in un processo comporta un premio ricavato dalla stessa condanna pecuniaria. In questi procedimenti la giuria aveva il compito di dichiarare la colpevolezza mentre il magistrato doveva irrogare la condanna. Era possibile evitare la condanna a morte, prima della pronuncia, con lo ius exilii: chiedendo di essere esiliati da Roma (una pena più grave di quanto possa sembrare in quanto Roma, a quel tempo rappresentava la libertà e la civiltà, inoltre col tempo l’esiliato dovette abbandonare l’intero territorio italico). Nel complesso uno dei settori in cui le riforme sillane incisero più profondamente fu il processo criminale permettendo di meglio precisare i reati perseguiti e separando le funzioni di polizia dal giudizio criminale. Silla, coerentemente, soppresse il diritto di appello al popolo da parte del condannato (svolta non duratura). Paragrafo 6 I signori della guerra Silla, che dopo due anni di dittatura si ritirò a vita privata, pur non vivendo ancora a lungo, vide parte delle sue riforme incrinarsi. Appena possibile il partito popolare ridiede vigore ai tribuni della plebe e ne soppresse la separazione con il restante cursus honorum. I fattori della crisi antecedente erano ancora presenti ed erano accentuati dagli interessi della società romana: l’accentuato sfruttamento delle province, l’inurbamento della plebe rurale, il mutamento del sistema agricolo ( latifondi e schiavi), il professionalizzarsi dell’esercito. La novità di questo periodo è la sempre maggiore rilevanza degli equites. Il maggior punto di incontro tra la classe senatoria e gli equites si trova nella guerra: il più colossale investimento economico della società romana era nella sua macchina bellica. I senatori sostenevano la guerra in quanto era necessaria per la loro carriera, gli equites per il guadagno che ne derivava. CAPITOLO 12 L’ETA’ DELLE GUERRE CIVILI Paragrafo 1 La perdita di centralità del senato e i nuovi poteri personali La progressiva perdita di prestigio (come disse Giugurta “ogni cosa a Roma è in vendita, anzitutto i suoi senatori”) del senato contribuì a riaccendere la situazione di crisi e di guerra civile permanente. Il senato era divenuto sempre più parte del gioco politico. A ciò si aggiungeva la tendenza alla formazione di poteri personali a base militare. Alla tradizionale dicotomia tra il sistema ordinario delle magistratura cum imperio e delle promagistratre associate al governo delle province (e titolari esclusive dei poteri militari), si aggiunse il meccanismo di conferire (sempre più di frequente) poteri magistraturali sganciati dal meccanismo della prorogatio imperii. A Pompeo (privato cittadino), con la lex gabinia de piratis persequendis del 67 a.c., sono stati conferiti poteri straordinari, ancora più ampi di quelli usualmente conferiti ( meno limiti territoriali e durata superiore ad un anno) allo scopo di poter contrastare efficacemente i pirati. Pompeo successivamente riuscì a strappare a Lucullo il comando della guerra in oriente, accrescendo ulteriormente il proprio potere personale data la successiva possibilità di organizzarle nuove province (che sarà tuttavia contrastata dal senato). Paragrafo 2 Il primo triumvirato L’irresistibile sviluppo di questi poteri personali trovo evidenza quando un accordo privato esautorò esplicitamente il ruolo del senato attraverso la formazione di quello che viene chiamato il primo trimvirato. I protagonisti di questo triumvirato, reso legittimo nel 60 a.c. dal voto dei comizi, furono: 1)Marco Licinio Crasso seguace di Silla era un potente e ricchissimo esponente del ceto equestre; 2)Gneo Pompeo Magno: seguace di Silla e generale all’apice del prestigio; 3)Gaio Giulio Cesare: pur appartenendo all’aristocrazia, appare legato alla tradizione popolare (anche per la stretta parentela della moglie con Mario). Ognuno di essi aveva interessi personali ma l’accordo giovava a tutti: 1)Crasso intendeva rinverdire il suo prestigio militare con una nuova guerra contro i Parti (una popolazione che viveva in Medio Oriente, in un territorio corrispondente all’attuale Iran settentrionale). 2)Pompeo aveva aderito in quanto sperava di ottenere, grazie a i comizi controllati da Cesare, l’assegnazione delle province d’Asia che il senato era restio a concedergli. Inoltre tentava di uscire dall’isolamento derivante dalla gelosia dell’aristocrazia e dalle sue troppo evidenti ambizioni. 3)Cesare (che aveva mostrato quanto fosse forte la sua influenza sui comizi essendosi fatto eleggere pontifex maximus contro importanti esponenti dell’oligarchia senatoria) intendeva conseguire l’appoggio politico e finanziario di Crasso, allo scopo di completare la carriera politica con il consolato e tentare poi, con i comandi provinciali, di acquisire quella forza militare di cui era già titolare Pompeo. Paragrafo 3 L’ascesa di Cesare Abbiamo visto nel paragrafo precedente gli scopi che hanno spinto Crasso, Pompeo e Cesare a formare il triumvirato. A questo punto una domanda sorge spontanea: sono riusciti a realizzare i loro piani? 1) Crasso sicuramente no: egli, infatti, morì prematuramente durante la guerra (persa) contro i Parti. 2)Cesare: Nel 59 a.c., l’anno del suo consolato, fece adottare dai comizi una serie di leggi per ottenere gradatamente il consenso di tutta la popolazione: a)Il consenso dei militari: attraverso l’adozione di una legge agraria, ispirata al programma politico dei Gracchi, ma con una particolarità: la terra non veniva distribuita ai nullatenenti bensì ai veterani dell’esercito. b)Il consenso degli abitanti delle province: attraverso la creazione di nuove colonie in Italia (come Capua) e la riforma delle leggi sui reati di concussione a danno dei provinciali (la c.d. lex Iulia de repetundis). c)Il consenso del ceto equestre: con la lex de publicanis egli ridusse di un terzo la somma di denaro che i cavalieri dovevano pagare allo stato, favorendo così le loro attività. d)Il consenso del popolo: attraverso una legge che imponeva al senato di stilare le relazioni di ogni seduta (gli acta senatus). Dal 58 al 50 a.c. Cesare, dopo aver ottenuto le sue vittorie sul fronte orientale, condusse le sue legioni in Gallia dove, nel giro di 8 anni, ottenne la definitiva vittoria con la sottomissione di Vercingetorige, capo degli Arverni, attorno al quale si strinsero tutti i popoli celti. 3)Pompeo: Durante gli anni del triumvirato Pompeo fu console in Italia e Proconsole in Spagna e in Siria. In realtà Pompeo Magno non si allontanò mai da Roma, governando le province per mezzo dei suoi legati ed esercitando, di fatto, il pieno controllo sulla città eterna. Il Potere detenuto da Pompeo a Roma lo indussero a ritenersi superiore a Cesare con cui si trovava sempre più in conflitto. In questo contesto esplose la famosa guerra civile fra Cesare e Pompeo. Nel 52 a.c. il senato, consapevole dell’enorme potere che Cesare stava ottenendo attraverso le sue conquiste militari, voleva costringere il “conquistatore delle Gallie” a presentare la sua candidatura al consolato quale privato cittadino (senza dunque l’appoggio dell’esercito, fortemente temuto dall’aristocrazia senatoria). Lo scopo di questo invito era semplice: assassinare Cesare prima che potesse ottenere altro potere. Cesare, al contrario, intendeva rientrare a Roma solo dopo la sua elezione, in modo da essere tutelato dalla sua carica che gli garantiva (almeno formalmente) l’inviolabilità. Nel frattempo il patto triumvirale, che aveva legato Cesare a Pompeo e Crasso, era ormai del tutto inesistente. Il senato, intimorito dai successi di Cesare, aveva dunque deciso di favorire Pompeo, nominandolo consul sine collega nel 52 a.C., perché frenasse le ambizioni del suo vecchio alleato. Vi fu subito una nuova stagione di sanguinose vendette fondata sul sistema delle liste di proscrizione sillane. Tutti i congiurati, molti membri della nobiltà senatoria e del ceto equestre furono inseriti nelle liste (non solo per motivi politici ma anche economici; tra questi figurava anche il senatore Cicerone). Nel 42 a.C. a Filippi le legioni di Ottavio e Antonio sconfissero definitivamente l’esercito di Cassio e Bruto, che si suicidarono, segnando la fine della tradizione repubblicana. Paragrafo 6 Lo scontro tra Ottaviano e Antonio Il Triumvirato fra Ottaviano Antonio e Lepido, che aveva ben funzionato nella guerra contro i Cesaricidi, cominciava a “stare stretto” ai tre triumviri in tempo di pace. Per evitare che si giungesse ad un conflitto venne trovato un accordo che prevedeva una spartizione territoriale delle competenze: a)Ad Antonio: venne assegnato l’Oriente, parte più ricca e popolosa dell’impero b)A Ottaviano: l’Italia e le province occidentali. c)A Lepido: l’Africa. Ben presto Lepido, “anello debole” di questa catena a tre maglie, venne esautorato dai suoi poteri. Nel 37 a.c. venne stipulato un nuovo triumvirato i cui tutti i poteri vennero suddivisi fra Antonio e Ottaviano, mentre a Lepido fu solamente concessa la carica onorifica di pontefice massimo. Una volta rimasti solamente in due al potere, divenne inevitabile lo scontro. Antonio assunse un atteggiamento che lo avrebbe portato rapidamente alla rovina. L’insuccesso nella campagna contro i Parti; il divorzio da Ottavia per il matrimonio con Cleopatra (troppo presente accanto ad Antonio insieme a Cesarione e i loro figli e che facevano pensare a una politica dinastica lontana da Roma); l’illegittima pubblicazione del testamento di Antonio, che conferiva ai suoi figli il controllo sugli Stati orientali dipendenti da Roma quasi fosse egli stesso un monarca di quei luoghi, contribuirono a indebolire la posizione di Antonio. Nel frattempo Ottaviano, con l’aiuto del suo più grande generale Agrippa, sconfisse Sesto (figlio di Pompeo) aumentando il proprio prestigio. Gli storici analizzando la guerra fra Antonio e Ottaviano, sono concordi nel sostenere che Antonio, nonostante le modificazione apportate alla storia dallo stesso Ottaviano vincitore, era un abile generale, un competente magistrato e un uomo che, nonostante la propria ambizione, mostrò sempre lealtà verso gli impegni assunti. Ottaviano, al contrario, non era un abile militare ma un astuto uomo politico. Per garantirsi la vittoria si circondò di abili generali e ministri, fece il possibile per accrescere il proprio prestigio e popolarità e si fece difensore degli interessi italici. Nel 32 a.C., nonostante fosse scaduta la sua posizione di triumviro, fece prevalere la finalità della propria carica sulla durata. Assunto il consolato entrò in guerra non contro Antonio, generale romano, ma contro Cleopatra. Antonio andò in suo soccorso, attirato da Agrippa ad Azio, nel 31, quasi non combatté, ritirandosi con Cleopatra e parte della flotta e perdendo cosi molte navi e uomini. Rifugiati ad Alessandria i due si suicidarono nel 30a.C. all’arrivo di Ottaviano. CAPITOLO 13 AUGUSTO E LA COSTRUZIONE DI UN NUOVO MODELLO POLITICO-ISTITUZIONALE Paragrafo 1 La sperimentazione di una forma politica Ottaviano doveva provvedere a formalizzare il nuovo sistema di potere, cosa che fece in un arco di tempo relativamente lungo. Possiamo distinguere diverse fasi che lo portarono ad ottenere il potere assoluto a Roma. 1)Inizialmente si protrasse la situazione precedente all’avvento di cesare, con la conservazione delle strutture tipiche della Roma repubblicana. Nel 27 a.C. si fece eleggere console con il fidato Agrippa. Immediatamente: a)Assunse la funzione di princeps del senato, al quale sembrò restituire prestigio e ruoli e annunciò che la crisi della repubblica era finita. (sottolineata nelle Res gestae, si tratta di una delle abili manipolazioni che lo portò a un così grande potere). b)Mantenne costantemente i poteri della tribunicia potestas (i poteri, anzitutto di veto, dei tribuni della plebe). c)assunse il controllo militare attraverso l’imperium in tutte le province non pacificate (quelle in cui erano stanziate le legioni). d)Ottenne dal senato una nuova designazione: Augustus, a sottolineare la sacralità del suo ruolo. Inoltre da Cesare ottenne il praenomen “Imperator”. 2)Nel 23 a.C. capì che non aveva più senso circoscrivere le su funzioni attraverso l’elezione ad una magistratura repubblicana. Il potere, infatti, gli era assicurato dal carattere sacrosanto della sua persona che gli permetteva: a)Di convocare comizi. b)Di esercitare il veto contro ogni possibile iniziativa dei magistrati, un potere derivante dalla tribunicia potestas (a vita). c)Di convocare e presiedere il senato assumendo preminenza su esso ( lo ius agendi cum patribus tipico dei Consoli). d)Di esercitare i suoi poteri proconsolari, per interferire anche sulle province senatorie che si trovavano oltre il pomerio. e)Di esercitare la funzione di censore: con censimenti e revisioni dei ranghi del senato. Nel 22 a.c. ripristinò l’ordinaria coppia di censori, scegliendo due illustri senatori per ricoprire tale carica. Nel corso dei suoi lunghi anni al potere, declinò molte cariche che richiamavano al periodo della guerra civile come il dictator il censor perpetuus ecc. La politica di Augusto fu senza dubbio genale: onde evitare di essere accusato di voler ripristinare la monarchia, egli inizialmente conservò tutte le strutture tipiche della repubblica romana ma arrogando a se la maggior parte dei poteri. Questo enorme potere personale, garantito dal pieno controllo dell’esercito, sono alla base dell’avvento di Ottaviano quale Imperator Caesar Augustus. Il suo principato durò molti anni (fino al 14 d.c.), ciò gli permise di dare stabilità al suo progetto politico realizzando la pax augustea (simboleggiata dall’Ara Pacis costruita nell’8 d.c.) e avviando , grazie alla straordinaria durata del suo impero, il secolo d’oro augusteo, caratterizzato finalmente da pace e certezze. Paragrafo 2 Equilibri da salvaguardare Augusto eviterà le brusche accelerazioni che Cesare aveva tentato di dare al sistema politico-istituzionale romano, mantenendo i valori della tradizione repubblicana e confermando un ruolo non solo formale alle antiche istituzioni (in primis il senato). Il suo governo sarà caratterizzato dall’equilibrio tra le antiche istituzioni e il nuovo sistema politico in cui il potere è accentrato nelle sue mani ma, sebbene appaia come una monarchia, sarà da altri interpretata come una diarchia tra il vecchio sistema repubblicano (rappresentato dal senato) e il superiore protettorato del principe. Il princeps era al di sopra di ogni cittadino della nobilitas a cui egli stesso apparteneva, sia per il potere sia per la ricchezza, secondo un sistema fortemente gerarchico ma non era al di sopra dell’intero gruppo sociale. Il suo potere fu da egli stesso definito auctoritas (non solo autorevolezza e prestigio, ma anche potere di indirizzo, sorveglianza e integrazione al livello giuridico da parte di un soggetto nei confronti di un altro). Grande importanza rivestirono anche i suoi ministri e collaboratori tra cui Agrippa e Mecenate (autore di quella politica culturale di recupero di valori atti ad esaltare la pax Augusta); nonché la moglie Livia, incarnazione dell’antica e idealizzata matrona romana e donna di grande capacità e influenza. Paragrafo 3 Un sistema dualistico Gli equilibri diseguali, disegnati da Augusto, comportavano un ridimensionamento del ruolo del senato a favore del governo del princeps: 1)Al princeps spettava il compito di definire gli aspetti strategici nel campo della politica estera e militare, dell’amministrazione provinciale e della politica finanziaria. 2)Al senato: era riconosciuto il diritto di essere coinvolto nelle scelte più importanti che dovevano essere prese dal princeps. Fondamentale era inoltre l’adozione dei senatus consulta, che in periodo repubblicano avevano lo scopo di guidare l’azione di governo dei vari magistrati, acquisirono una funzione normativa e, tra la fine del I e il II sec d.C., diventarono un’autonoma fonte normativa. Un ulteriore ruolo conservato dal senato fu quello della repressione criminale. Sotto Augusto era competente per il crimen maiestatis ( alto tradimento) e il crimen repetundarum (concussione). La sua composizione, che come abbiamo visto nel capitolo precedente era stata fortemente modificata da Cesare, venne riportata alle sue caratteristiche originarie. Il numero di senatori fu ridotto a 600 ( con l’eliminazione di molti provinciali inseriti da Cesare). Al senato poterono aspirare solamente i discendenti (in via agnatizia o adottiva) di un senatore o coloro che venivano nominati direttamente dal principe (a cui era riconosciuta la lectio senatus, il diritto di selezionare i senatori, e la commendatio, cioè il controllo, sui comizi che dovevano eleggerli). 3)Il controllo sui mercati e l’approvvigionamento di Roma venne affidato al praefectus annonae. Di ceto equestre e sotto il controllo del princeps. 4)La prevenzione e la difesa della città dagli incendi venne affidata al praefectus vigilum, selezionato fra gli esponenti del ceto equestre. Paragrafo 3 Una rete amministrativa In virtù delle sue funzioni censore, che gli imponevano di esercitare un controllo sulle attività economiche di Roma , il principe agì su diversi fronti: 1)assunse, attraverso l’opera di curatores (appartenenti al ceto equestre), la gestione e la tutela dell’immenso patrimonio immobiliare di Roma. I monumenti religiosi e pubblici, le vie, gli acquedotti, le fognature e altre strutture pubbliche a Roma e in Italia furono sottoposte all’attenzione, indiretta, del princeps. 2)Un campo molto importante fu la segreteria del principe: necessaria al coordinamento dei vari uffici del governo centrale. Questo fu reso possibile grazie a una fitta e ben organizzata rete di comunicazione. Generalmente tale ruolo venne ricoperto da funzionari scelti nel ceto equestre coadiuvati da liberti imperiali. 3)Il patrimonio privato dell’imperatore (res privata) fu progressivamente inserito nel sistema delle finanze pubbliche e gestito secondo le logiche delle grandi signorie aristocratiche fondate su schiavi e liberti). L’istituzionalizzazione del patrimonio personale del principe portò da una parte alla concentrazione verso di esso di nuovi flussi economici ( acquisizioni a seguito di condanne, i proventi dell’attivo delle province, molti lasciti testamentari usati per garantire il resto del testamento). Conseguenza di questo fu che il nuovo patrimonio privato non sarebbe stato devoluto secondo le logiche della successione ereditaria privatistica, ma trasmesso al successore nel potere imperiale e affidato a un procurator a patrimonio. A questo patrimonio ne fu affiancato un altro, ancora più privato, la res privata, caratterizzato da una maggiore disponibilità. 4)Altro organismo fondamentale creato da Augusto fu il consilium principis, con il compito principale di garantire i suoi rapporti col senato (essendo composto da molti senatori), col tempo assunse un valore molto più ampio ricomprendendo esponenti autorevoli del vertice del sistema del governo imperiale e i migliori giuristi (con Adriano vennero addirittura retribuiti). Paragrafo 4 Il Fisco Un settore dove Augusto incise profondamente fu la politica finanziaria e monetaria dell’impero. 1)Disciplinò le competenze circa il diritto di battere moneta (da sempre del senato), attribuendo a se stesso la monetazione d’oro e d’argento e al senato quella di bronzo (per rispettare formalmente quel dualismo principe-senato che caratterizza il suo governo). 2)introdusse, a fianco all’aerarium populi, un nuovo tesoro. L’aerarium populi diventò il tesoro amministrato dal Senato romano, mentre il princeps ne creò uno nuovo denominato fiscus e dallo stesso Imperatore amministrato. Vero è che il princeps aveva il controllo generale dell'intero sistema fiscale, compreso l'aerarium populi Romani. In sostanza si veniva così a creare un dualismo nell'amministrazione finanziaria imperiale con la separazione tra due fondi, uno appartenente al populus ed un altro al princeps. 3)Costruì casse separate (rationes) per vari settori della spesa pubblica: bilancio militare , spese per il sistema burocratico, acquisendo la gestione diretta delle entrare. Molto importante tra queste è l’aerarium militare(gestito da 3 praefecti di rango pretorio che rispondevano al principe, nel quale confluirono varie imposte di successione, vendite all’incanto e contributi diretti del principe) con la funzione di supportare parte delle spese militari ( non il pagamento delle truppe) e principalmente la liquidazione dei veterani (prima in terre poi in denaro) di cui doveva conservarsi la fedeltà. Questo complesso sistema fiscale lasciava ampio spazio a possibili conflitti. Per questo motivo per tutelare l’impero vennero nominati vari giuristi e, con Adriano, venne istituito l’advocatus fisci, chiamato a rappresentare l’interesse dell’amministrazione finanziaria nei rapporti con i privati e nei relativi contenziosi. Claudio invece istituì il procurator a rationibus (poi solo rationalis) con il compito d tracciare una specie di bilancio generale dello stato. Paragrafo 4 il centro del potere e il governo provinciale Il sistema istituzionale delineato da Augusto e il rallentamento dell’espansione militare romana, resero possibile un periodo di pace (non al livello imperiale e delle elites, che continuavano con congiure, omicidi e lotte di potere) avvertito sia al livello centrale che provinciale. Questo sistema continuò a funzionare fino a Marco Aurelio (fine II sec d.C.). Il riaffermato primato di Roma e dell’Italia non aveva impedito un processo di romanizzazione delle elites locali: a)Claudio (imperatore dal 41 al 54 d.c.) inserì nel senato esponenti provinciali e si impegnò in una politica di concessione della civitas Romana a numerose comunità provinciali; b)I Flavi al potere dal 69 al 96 d.c. (Vespasiano, Tito e Domiziano) latinizzarono intere province; Vespasiano fu il primo imperatore di origine italica; Traiano fu il primo imperatore provinciale. L’elemento che maggiormente permise alle elites provinciali di compiere questa “scalata sociale”, fu l’esercito. Esso, infatti, permetteva di accumulare enormi ricchezze, sufficienti da garantire l’accesso al rango equestre; rendeva possibile la nomina nelle magistrature superiori e il conseguente inserimento nella nobilitas senatoria o, come accadde a Vespasiano o a Traiano, l’accesso al principato. Per quanto riguarda le province esse vennero suddivise in due categorie: 1)Provinciae Populi Romani: sotto il controllo del senato e governate da proconsoli, secondo lo schema tipico che abbiamo visto nel capitolo 9. 2)Provinciae imperiali: governate dall’imperatore attraverso i legati Augusti princeps. Per quanto riguarda l’esazione fiscale, essa non venne più affidata in appalto ai pubbliciani, responsabili spesso di un eccessivo aumento delle imposte, bensì a procuratori imperiali. Ciò garantì un notevole miglioramento rispetto al precedente sistema degli appalti, evitando lo sfruttamento irrazionale delle fonti di ricchezza. Paragrafo 5 L’apparato militare Il fondamento militare del nuovo potere imperiale e la professionalizzazione degli eserciti, qualcosa che come abbiamo visto nel capitolo 11 si era già realizzata con Gaio Mario. Nel primo secolo del principato l’organico delle legioni doveva aggirarsi intorno ai 150000 uomini ( sotto augusto 25 legioni da 5000 uomini a cui devono aggiungersi gli ausiliari e la flotta. Il servizio militare durava 16 anni ( più 4 di riserva) che divennero nel 5d.c. 20 + 5. La liquidazione era conferita principalmente in denaro e non più in terreni. I veterani ottenevano anche una serie di privilegi: la cittadinanza romana, la legittimazione del matrimonio con la convivente ( durante il servizio non potevano sposarsi) e dei figli. Salvo la sconfitta della selva di Teutoburgo (nel 9 d.c.) dove tre legioni romane guidate da Varo vennero distrutte da guerrieri germanici guidati da Arminio (comandante degli ausiliari dell’esercito di Varo che decise di “tradire” i romani per mettersi a capo delle tribù germaniche che volevano combattere il tentativo di occupazione da parte di Roma) e salvo la conquista della Britannia meridionale sotto Claudio e della Dacia con Traiano, la strategia militare romana fu principalmente di consolidamento e difesa dei confini. Le armate romane, eccetto le poche coorti di pretoriani (italici e con maggiori possibilità di carriera), erano stanziate al di fuori dal territorio italico. Nei porti di Ravenna e Miseno (Napoli) erano stanziate le flotte romane. Venne diminuita la presenza militare in Iberia ed Egitto, ormai pacificati. Una maggior concentrazione di truppe fu conservata in Africa, Numidia, Mauritania, Palestina, Sardegna, Rezia, Britannia meridionale, Germania superiore e inferiore, Pannonia, Dalmazia e Cappadocia (a difesa dai Parti). Vespasiano sarebbero stati riconosciuti tutti i poteri esercitati dai suoi predecessori, ad esclusione di Caligola e Nerone colpiti da damnatio memoriae. Fu un grande amministratore, autoritario e autorevole, impose i valori tradizionali del mondo da cui proveniva: sapienza contadina, abitudine al risparmio, duro lavoro, cautela e tenacia. L’attenzione per il funzionamento ottimale dell’amministrazione prevalse rispetto all’etica aristocratica. Fra le sue riforme occorre ricordare: a)Un grandissimo risanamento delle finanze pubbliche ( per il quale venne tacciato tacciato di taccagneria). Recuperò, tra le altre cose, quelle parti di terre pubbliche restate indivise ma fruite da vari comunità e privati, suscitando malumori. b)Realizzò una serie di censimenti allo scopo di rivelare lo stato materiale dell’Italia: stato dei territori, città, proprietà fondiarie, assetti municipali, mappe catastali, che saranno utilizzati per molto tempo. c)Potenziò il sistema difensivo: attraverso l’assimilazione degli antichi staterelli semi-liberi e la conseguente semplificazione delle linee difensive, e attraverso la valorizzazione delle grandi barriere naturali quali il Reno e il Danubio (messe alla prova sotto il principato di Domiziano da incursioni germaniche). Va ricordato inoltre che sotto Vespasiano venne realizzato l’Anfiteatro Flavio, noto a tutto il mondo con il nomignolo inventato dai cittadini romani: il Colosseo. Alla morte di Vespasiano gli succedettero i suoi figli: prima Tito (imperatore dal 79 all’81 d.c.) poi Domiziano (che governò Roma dall’81 al 96 d.c.). Con entrambi gli imperatori si ebbe un progresso nell’assimilazione delle popolazioni extraitaliche con la romanizzazione delle elites provinciali (conferendo lo ius Latii a molte città provinciali). Domiziano fece anche un intervento di tipo protezionistico a sostegno dell’agricoltura italica. Tuttavia il suo governo fu di tipo autoritario, si sviluppò ulteriormente il sistema amministrativo accentuando le tensioni col senato che probabilmente portarono al suo assassinio. La morte di Domiziano portò alla fine degli imperatori appartenenti alla dinastia Flavia. Nelle dinastie Giulio-Claudia e Flavia, era presente un elemento fondamentale: il legame dinastico. i comandanti militari, fedeli a un membro della famiglia, proseguivano nella loro fedeltà nei discendenti. Paragrafo 3 il governo dei migliori e la militarizzazione dell’impero Dopo la morte di Domiziano per quasi un secolo la successione imperiale fu sottratta alla logica familiare, attraverso il meccanismo dell’adozione, se non dei più meritevoli, di soggetti già inseriti nel potere imperiale. Questa scelta non fu casuale, ma vi è l’influenza dei vari gruppi di potere ( esercito, aristocrazia senatoria..). Dopo il breve regno di Nerva (imperatore dal 96 al 98 d.c.), la guida di Roma passo a Traiano (che governò l’impero dal 98 al 117 d.c.). Il principato di Traiano è noto per i suoi successi militari: la conquista della Dacia (tuttavia non completata in quanto non si ottenne una vittoria definitiva sui parti) che portò l’impero alla sua massima estensione. Il suo successore Adriano (117-138 d.c.), uomo colto e permeato dalla cultura ellenistica, operò una politica di consolidamento dei confini ( limes) e riorganizzò l’apparato di governo definendo i tipi di carriera e le retribuzioni di diversi livelli di funzionari ( 60, 100, 200, 300 mila sesterzi l’anno). Durante il suo principato scomparvero i liberti imperiali dagli uffici di vertice a vantaggio dell’ordine equestre. Venne da lui anche favorita la presenza di giuristi nella burocrazia imperiale e venne codificato l’editto del pretore, su suo ordine, dal più grande giureconsulto dell’epoca ( Salvio Giuliano). I successori di Antonino Pio (138-161 d.c.) e poi Marco Aurelio (161-180 d.c.), non introdussero grandi innovazioni. Fu l’ultima fase alta dell’impero, caratterizzato da una sicurezza elevata. Con la fine del principato di Marco Aurelio e la sfortunata designazione del figlio Commodo (180-192 d.c.) si ebbero diversi problemi: la guerra con i Parti costò molto in termini economici e di vite all’impero, vi fu una grave pestilenza che portò ad una crisi demografica ed economica (in particolare un grande indebolimento del sistema finanziario municipale, molto dispendioso, che contava sempre meno investimenti privati) con la conseguenza che vennero arruolati anche dei barbari per la difesa dell’impero. Commodo, del tutto inadeguato, accentuò questa crisi e venne ucciso durante una congiura (fu il suo stesso maestro d’armi a ucciderlo mentre stava facendo il bagno). La sorte di Commodo toccò anche al suo successore, Pertinace (Imperatore per pochi mesi nel 193 d.c.) ad opera dei pretoriani ( sempre più avidi di ricchi compensi). La crisi politica che ne seguì mise il potere imperiale nelle mani dei militari che fecero divenire imperatore, per acclamazione, il comandante militare Settimio Severo (193-211 d.c.). Lui e i suoi successori dovettero affrontare come problema principale quello della difesa dei confini dell’impero. Con Settimio Severo si conclude il percorso iniziato da Augusto, evolutosi nel tempo (soprattutto sotto Adriano) della creazione di un sistema di governo fondato sulla progressiva concentrazione di potere nella figura del principe e sul funzionamento di una complessa macchina burocratico-militare. Con il suo successore Caracalla(211-217 d.c.) venne estesa la cittadinanza romana a quasi tutti gli abitanti dell’impero (Constitutio Antoniniana). Paragrafo 4 La forma della sovranità Ancora nell’età dei Severi le strutture portanti dell’impero continuavano ad essere le armate, i vertici del governo (identificati con il ceto senatorio) e i vertici dell’amministrazione (composti dai membri del ceto equestre). Nel rapporto tra principe e burocrazia un ruolo fondamentale fu svolto dai giuristi: la loro presenza dei settori più rilevanti dell’amministrazione fece si che l’apparato statale assumesse il loro formalismo, la loro coerenza logica e fu determinante per il processo di concentrazione dei processi normativi e giurisdizionali nella figura del principe (affermando la totale dipendenza degli strumenti esecutivi, della gerarchia della legge e della giustizia dalla volontà del principe). I giuristi mostrarono un certo disinteresse per quello che può essere definito come il “diritto amministrativo” romano. Erano descritte genericamente alcune cariche con i loro compiti, poteri e doveri. Ciò dipendeva probabilmente dal diretto rapporto del principe con l’apparato da lui costruito che, prendendolo come principale figura di riferimento, rendeva impossibile a questa primitiva burocrazia la spersonalizzazione dei ruoli tipica dei sistemi moderni. Paragrafo 5 Il paradosso dell’economia La svolta politica del principato augusteo rese possibile un ridisegno dei rapporti economici, con lo scopo di favorire la crescita economica dell’Italia, che si era già garantita ottime entrate con l’esportazione di vino, olio e suppellettili in ceramica prodotti in serie. Questo sviluppo venne favorito: a)Dall’introduzione in Italia di manodopera a buon mercato: ottenuta grazie alle varie conquiste belliche. b)Dai prelievi forzosi di beni e servizi dalle province a favore del centro (che alteravano il funzionamento del mercato e la formazione dei prezzi). Con Augusto e i suoi successori si vide la fine dei prelievi arbitrari di tipo privatistico e uno sviluppo razionale del prelievo pubblicistico. L’unificazione politica, la sicurezza anche giuridica, le opere pubbliche, le strade, resero possibile lo sviluppo del modello economico di “Hopkins”. Lo storico di Cambridge, analizzando la situazione di Roma nel periodo qui trattato, concluse che l’equilibrio dell’impero romano fu caratterizzato da un ciclo economico (definito sistema chiuso) nel quale il centro dell’impero importava ricchezza dalla periferia (le province) grazie alla sua supremazia politica, le periferie producevano e vendevano beni al centro in modo da poter pagare i tributi che venivano a loro volta utilizzati dal centro per acquistare i beni delle province. Questo portò a un indebolimento economico del centro che fu tuttavia più che compensato dallo sviluppo della periferia. Bisogna infine ricordare che sul sistema economico romano pesò sempre di più il costo della macchina da guerra romana, supportato interamente dalla base economica dell’impero unificato ( e non autoalimentato dalla conquista come avveniva precedentemente). CAPITOLO 16 IL DIRITTO DEL PRINCIPE opiniones (le opinioni fornite dai giuristi rispetto a determinate questioni giuridiche); i commenta (con cui i giuristi analizzavano singoli rami del diritto); le istitutiones (raccolte giuridiche dedicate alla didattica) ecc.Grazie a tutte queste opere si è venuta costruendo una moderna scienza del diritto, elaborata da giuristi medievali e moderni e fondata su metodi analitici e logici. Per quanto riguarda i giuristi, questi inizialmente appartenevano al ceto senatorio, già negli ultimi anni del principato di Augusto, tuttavia, vennero ammessi giuristi appartenenti al ceto equestre che nel corso del tempo, superarono di molto i primi. Paragrafo 3 La matura stagione della scienza giuridica L’integrazione tra i giuristi e il principe, completata sotto Adriano con la codificazione dell’editto del pretore, esprimeva il mutato assetto di governo in questa fase storica. La concentrazione del potere legislativo nelle mani del potere imperiale, portò anche a un ridimensionamento dello ius respondendi(introdotto da Augusto). Con questa svolta si avviava l’ultima grande fioritura della scienza giuridica romana (nell’età degli Antonini e dei Severi) con giuristi quali Ulpiano, Paolo, Modestino, Marciano. Si dovrà attendere sino alla rinascita orientale, con i giureconsulti di Giustiniano, perche venga raccolta, selezionata e riorganizzata l’antica eredità giuridica nella realizzazione del Corpus iuris civilis, testo fondante della scienza giuridica medievale. Paragrafo 4 La certezza del diritto Ci si potrebbe chiedere quanto le conoscenze giuridiche, fatte circolare attraverso la pubblicazione di opere di comenta o raccolte di responsa, fossero diffuse. Durante gli ultimi due secoli della Repubblica questi erano noti sicuramente ai gruppi sociali privilegiati e interessati a una adeguata conoscenza del diritto ma anche dai pratici ( avvocati con estrazione inferiore). Tuttavia sempre in un ambito territorialmente limitato a Roma e i territori circostanti. Dopo la guerra sociale e la progressiva estensione della cittadinanza romana, il diritto romano venne applicato a territori sempre più vasti e distanti, con la conseguenza che determinate informazioni necessitavano di lungo tempo per arrivare. Se arrivava con difficoltà l’editto del pretore in questi territori, era improbabile che arrivasse l’interpretatio e il resto delle opere dei giuristi che di fatto regolavano i rapporti tra privati. A sostegno dell’unità e certezza del diritto vennero, perciò, introdotti strumenti quali lo ius respondendi ex auctoritate principis che, tentando di introdurre una gerarchia all’interno della scienza giuridica, garantiva un livello minimo di certezza de diritto. Molto fu realizzato anche con l’azione di coordinamento del principe espressa attraverso rescripta, epistulae, decreta. In ogni caso di tutte le opere scritte dai grandi giuristi nel periodo della grande fioritura fino all’età dei Severi, noi dobbiamo ritenere che queste fossero distribuite in numero progressivamente inferiore, per cerchi concentrici, allontanandosi dal centro.