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La lirica, Dalle origini a Leopardi, Sintesi del corso di Storia della lingua italiana

Riassunti del libro La lirica, dalle Origini a Leopardi di Sergio Bozzola, capitolo per capitolo

Tipologia: Sintesi del corso

2017/2018
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Scarica La lirica, Dalle origini a Leopardi e più Sintesi del corso in PDF di Storia della lingua italiana solo su Docsity! La formazione della lingua poetica e il Duecento Un’Italia plurilingue Soltanto a Duecento già avviato si cominciano a richiedere agli amministratori a ai funzionari competenze di volgare, per poter redigere documenti comprensibili al popolo, ma la lingua ufficiale della burocrazia, della diplomazia e della cultura rimane il latino. Alla naturale differenziazione dei volgari si sovrapponeva la presenza di varietà ALLOGLOTTE (cioè di provenienza diversa da quella prevalente o ufficiale), come ad esempio il francese e il provenzale nell’Italia settentrionale. Il francese godeva di un grande prestigio letterario, ed era utilizzato spesso dagli scrittori italiani, che non trovavano una lingua locale dal medesimo spessore e con una propria tradizione letteraria: • Brunetto Latini, il maestro di Dante, scrive il suo “Tresor”in francese • Martin de Canal, veneziano, compose le « Estoires de Venise” in francese • Rustichello da Pisa redasse il Milione di Marco Polo in francese con il titolo “Divisament dou monde” Lo stesso deve dirsi per il provenzale, che era la lingua della poesia lirica anche per poeti italiani come Sordello da Goito, Lanfranco Cigala, Bartolomeo Zorzi. Lo sviluppo dell’economia mercantile faceva sì che spesso intere classi di persone come i mercanti venissero a conoscenza di varietà linguistiche differenti dalla loro lingua materna in ragione della loro mobilità sul territorio peninsulare ed europeo. Tra le lingue e le culture incontrare ve n’erano anche di non romanze, come il greco e l’arabo. Presto, per fronteggiare le necessità pratiche delle comunicazioni d’affari, si elaborarono delle LINGUE INTERMEDIE (“lingue franche”), assimilabili ai moderni pidgins. Di tali varietà non esiste documentazione diretta, ma se ne conservano probabili tracce nel “Contrasto della Zerbitana”, e nelle varietà del “veneziano de là da mar”, una lingua mista che convoglia, sulla una base veneziana, elementi veneziani continentali, slavi, arabi, francesi, bizantini, e che si deve allo straordinario prestigio e alla grande diffusione del veneziano attraverso il mare e nell’entroterra, e del “franco-veneto”, una lingua a base genericamente veneta, in cui si innestano elementi latini e toscani, mescolati con il francese. È su questo sfondo che si staglia la prima affermazione di una lingua poetica unitaria, che ha la sua origine in Sicilia. I Siciliani e la lingua poetica del Duecento Un primo considerevole impulso all’accentramento linguistico venne dalla Magna Curia, cioè dalla corte di Federico II di Svevia (1194-1250), presso cui si raccolse quella che nella tradizione degli studi letterari fu chiamata la Scuola poetica siciliana. All’origine del primissimo movimento di accentramento linguistico in Italia si trova dunque un gruppo di TESTI POETICI. Tale movimento vedeva coinvolti anche poeti non siciliani -> l’appartenenza a questa scuola non presupponeva necessariamente l’appartenenza etnica e linguistica alla Sicilia, e “siciliani” erano e sono nell’insieme “la colonia italiana della poesia occitanica” (Contini). Nello stesso Dante il termine “siciliano” non aveva una connotazione esclusivamente letteraria, ma denotava l’insieme della cultura politica e dell’assetto istituzionale della Magna Curia. Ciò spiega tra l’altro la qualifica di “siciliani” che egli utilizza per autori e testi che leggeva in una lingua sostanzialmente toscanizzata. Pare dunque che si scrivesse in siciliano per scelta culturale, di adesione ad un milieu cui si riconoscevano prestigio e autorità letteraria. La gran parte dei testi della Scuola siciliana è stata tramandata in una forma molto differente da quella originaria, forma che si può considerare rispecchiata da quella dei grandi canzonieri manoscritti toscani di fine Due, inizio Trecento: • Ex Palatino 418 della Biblioteca nazionale di Firenze (P) • Laurenziano Rediano 9 della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze (L) • Il Vaticano latino 3793 della Biblioteca Vaticana (V) I copisti, trascrivendo i testi siciliani, ne adattarono la lingua al toscano (con coloriture locali) e in tale forma quei testi furono letti dai poeti siculo-toscani, dagli stilnovisti e dallo stesso Dante. In questa translatio si individuano le ragioni della presenza di sicilianismi anche nella lingua poetica in proprio dei poeti toscani coevi e successivi ai primi poeti siciliani. Alcuni tratti linguistici generali che caratterizzano diffusamente la lirica del Duecento a monte dello Stilnovo si possono dedurre dalla disamina congiunta dei testi siciliani pervenuti in forma toscanizzata e della lirica toscana della prima generazione. La stessa primazia della Scuola siciliana, stabilita da Dante è stata messa in discussione -> da cui la proposta di retrodatare almeno in via ipotetica, gli inizi della lingua letteraria italiana alla fine del Cento, nell’ipotesi che Federico II abbia soltanto posto il suo sigillo su un movimento letterario preesistente a lui (Castellani). In qualche caso i fenomeni siciliani rimangono stabilmente nella lingua poetica fino alle soglie della modernità. Eccone le caratteristiche principali: 1. La poesia siciliana è poesia d’amore (con la sola esclusione di alcuni sonetti dottrinali e moraleggianti). Questa contrazione tematica si trasmette alla tradizione lirica italiana, tanto che nella letteratura italiana il concetto di poesia lirica tenderà a coincidere con quello di poesia amorosa. 2. La lingua è immediatamente aristocratica, aulica e illustre. Siciliano illustre è la definizione della lingua poetica siciliana passata in uso nella tradizione degli studi. 3. Larga immissione di elementi forestieri, afferenti a tradizioni letterarie di grande prestigio, che danno un certo numero di suffissi e materiali lessicali transalpini, che saranno ereditati dalla poesia toscana del Duecento: • Anza • Enza • Mento • Ag(g)io • Ore • Ura 2. Colori linguistici locali caratterizzano in realtà diffusamente la lirica duecentesca avanti lo stilnovo, poiché fino a secolo inoltrato non si impone la supremazia dei poeti fiorentini. Molti provengono da altre città toscane, o da Bologna, che è uno dei centri di produzione lirica di maggiore rilievo. All’interno della tradizione siculo-toscana, si può esemplificare la rilevanza delle lingue locali attingendo alle sintesi di Casapullo e Coletti in Galletto Pisano; in Bonagiunta ORbicciani; i settentrionalismi che alterano la lingua toscana o siculo-toscana nei testi trascritti nei “Memoriali bolognesi”; in aggiunta agli aretinismi di Guittone già citati. Se poi si fuoriuscisse dall’asse siculo- toscano, si dovrebbe tracciare un profilo di molteplici e differenti espressioni in lingua poetica colta fuori di Toscana, alimentata dal latino e semmai da lingue di cultura transalpina, fiorite in sedi culturali estranee a quell’asse: Bonvesin de la Riva, Giacomino da Verona, Uguccione da Lodi. 3. La lingua della poesia comica, ossia di poeti come Rustico Filippi, Ser Jacopo da Leona, Cecco Angiolieri, Folgore da San Gemignano, Cenne de la Chitarra, è caratterizzata da un lessico apertamente realistico, conseguenza di temi legati agli usi e commerci della vita quotidiana. Dai primi sonetti di Rustico il lessico torva un corrispettivo nella permeabilità allargata alla fono morfologia della lingua popolare: come i senesismi di Cecco Angiolieri. Il tutto va interpretato come opzione letteraria per una lingua di genere, dunque come operazione colta. Nei testi comici si ritrovano forme dittongate secondo l’uso parlato ma non secondo quello poetico e aulico (“fuoco”, “cuore”, “nuovo”) e condizionali toscani contro quelli siciliani. Lo Stilnovo La tendenza storiografica più recente tende a ridiscutere la sistemazione della tradizione lirica duecentesca fondata sulla lettura tendenziosa che ne fa a posteriori Dante stesso nel DVE. Altri studiosi sostengono l’esistenza di tradizioni e linee di continuità differenti, tanto che finisce per essere rimesso in discussione il concetto dello stilnovo come “scuola”, su cui, tra cautele e distinguo, si fondava l’interpretazione di Gianfranco Contini, il quale discorre di una lirica che oggettiva l’esperienza amorosa, rendendola incorporea e astratta. Definizione che, per non fare che un esempio, difficilmente si può conformare alla poesia cavalcantiana, caratterizzata da una concezione dell’esperienza amorosa diversa se non opposta, in quanto refrattaria a quella sublimazione e rappresentata in termini psicologicamente negativi e pessimistici come passione che aliena e inchioda il soggetto in una condizione angosciosa. Stando così le cose, Berisso propone di delimitare lo stilnovismo con un criterio che possiamo definire negativo (“momento di rottura con la cultura poetica e filosofica precedente), e che qui spostiamo sul versante linguistico. È cioè possibile discorrere di stilnovismo linguistico solo, o prevalentemente, per sottrazione. Sottrazione, inoltre, graduale, tale da non comportare opposizioni assolute: si veda ad es. la larga persistenza di lessico “cortese” e di fono morfologia siculo-toscana in Guinizzeli. Persistenza che sarò dovuta quantomeno alle circostanze anagrafiche, tali per cui la presunta paternità stilnovistica è da giocarsi sul piano della poetica, fondata cioè più nella teoria poetica che nella lingua. Altrettanto conservativa la lingua di Lapo Gianni. Viceversa, avvia ad un rinnovamento del linguaggio poetico nel segno della liberazione dai padri Guido Cavalcanti, che primo ne riduce gli ingredienti siculo-toscani e l’alto tasso di convenzionalità. La sua appartata e originale POSIZIONE FILOSOFICA va insieme con la propensione ad una SINTASSI INNOVATIVA, che conosce punte di complessità in crescita rispetto alla “dulcedo” proverbialmente attribuita agli stilnovisti. Con Dino Frescobaldi sono irrimediabilmente scomparsi dall’orizzonte poetico i siciliani, Guittone e la sua scuola, come si vede confermato nella sua lingua poetica di avanzata fattura stilnovistica. Altrettanto, anche se con minore compattezza, accade nelle liriche stilnovistiche di Dante e nella poesia di Calvacanti, come testimoniano la generale riduzione stilnovistica dei suffissi in –ore e –ura e la stessa drastica riduzione dei costrutti perifrastici col participio presente che caratterizzano diffusamente la lirica prestilnovistica. Vi si aggiunga il dato generale di una sintassi dalla spiccata caratterizzazione “logica”. Lo Stilnovo gioca insomma le sue carte linguistiche sul piano della RIDUZIONE e della MISURA. La “dolcezza” designerà tecnicamente anche questa “discretio”, questa ponderata selezione, secondo il criterio del volgare illustre definito da Dante stesso nel DVE. Dante lirico L’insieme della lirica dantesca non sarebbe interpretabile come “libro di poesia”, ma come serie di sperimentazioni su tastiere linguistiche differenti e in qualche caso anche contrapposte. Quell’interpretazione era fondata sulla ricostruzione del corpus delle rime dantesche allestita da Barbi e collaboratori, fondata su argomenti di ordine linguistico e stilistico e non su riscontri oggettivi di tipo documentaristico. Sulla base di tali argomenti veniva avanzata anche un’ipotesi di ordinamento cronologico delle rime. Quell’ordinamento è stato scardinato da De Robertis nella sua recente e nuova edizione critica sulla base dell’esame della tradizione manoscritta. In essi si definisce addirittura una sorta di interno “canzoniere”, costituito dal gruppo compatto delle canzoni “che occupa e blocca l’entrata del libro” ed è “tale quale Dante poteva immaginarsi di poter essere letto e ricolto”. In una parte di queste liriche, raggruppate proprio per questo da Barbi tra le “giovanili”, sono ben evidenti i segni linguistici della tradizione siculo-toscana, per la presenza cospicua di SICILIANISMI e GALLICISMI. Fa gruppo a sé l’insieme delle liriche della tenzone poetica fra l’Alighieri e Dante da Maiano. Nelle quali, se non è proprio “guittoniano”, Dante certo fiancheggia la tecnica dell’aretino nella lingua artificiosa e nella metrica. Nella sua maturità lirica, nei dintorni dello stilnovismo e della lirica morale, Dante rigetterà questa eredità, relegando Guittone tra gli “exempla vitanda”. Altrettanto compatta sembra la lirica ascrivibile stilisticamente allo stilnovo, le poesie cioè che lo stesso Dante definisce come “nove rime” in Purgatorio XXIV 50, nel colloquio con Bonagiunta Orbicciani. Esse costituiranno, insieme alla poesia petrosa, l’esperienza letteraria più significativa per la grande lirica petrarchesca. Le caratteristiche linguistiche del Dante stilnovista muovono da un rigetto dell’artificio esibito e dello scavo esasperato nella semantica e nelle virtualità compositive e associative della parole, a favore di un’UNITA’ E FUSIONE TONALE e di un LESSICO PIU’ PREVEDIBILE E PIANO, imperniato su pochi concetto-parole chiave, più essenziale e filosofico. Vi si aggiungano inoltre l’ASSENZA DI RIME RARE e piuttosto l’uso di RIME DESINENZIALI E AFFISSALI; una sonorità soave e “dolce” dei rimanti, con la tendenziale esclusione di gruppi fonici corposi e consonantici e il rigetto di ogni forma di realismo nei contenuti e nelle forme. A quest’altezza è promosso un primo sfoltimento del bagaglio linguistico siciliano, con i suoi ascendenti provenzali e francesi e una sintassi lineare e dal grado di complessità medio. Il gruppo stilisticamente compatto delle petrose trova il proprio centro di gravità linguistico nella RIMA, e non per caso è qui che Dante sperimenta, importandola da Arnaut Daniel, la forma della SESTINA, che consiste nella costrizione dell’interno componimento entro lo stesso gruppo di rimanti, che ruotano, nelle sei strofe, secondo uno schema di RETROGRADATIO CRUCIATA: I strofa: ABCDEF II strofa: FAEBDC Etc. Il martellamento ossessivo sulle stesse voci implica, ad evitare la CREBRA REPETITIO (secondo l’uso espressivo dello stesso Dante), la valorizzazione di tutte le loro possibilità semantiche, metaforiche e grammaticali. Ecco allora lo slittamento metaforico della parola. In questa tecnica sono in nuce gli artifici più eclatanti della restante rimeria petrosa: la rima equivoca per diversità semantica e grammaticale, o più sottilmente, solo grammaticale, o nell’identità grammaticale, esclusivamente semantica, la corposità fonica delle parole e la rima difficile, e la sua intensificazione fonica e semantica come rima derivativa, inclusiva, ricca. Tutto ciò va di necessità insieme alla MAGNANIMITA’ LESSICALE, specie in direzione concreta e realistica. Vi sono infine le rime di argomento filosofico e morale. A giudizio di Contini queste rime non segnano uno iato rispetto alla precedente lirica amorosa, ma vi si innestano. A differenza di ciò che accade nella tradizione della poesia morale duecentesca, il linguaggio delle canzoni morali di Dante è insolitamente perspicuo e accessibile. Il tema morale tuttavia convoglia un potenziamento dell’impianto argomentativo, che significa in qualche caso l’esplicito rigetto del soave stile, un incremento del lessico filosofico e una sintassi articolata. Ne conseguono la maggiore estensione delle stanze, l’uso più frequente del settenario, che può appoggiare le fasi minori e logicamente transitive dell’argomentazione. Le liriche filosofiche e morali sono caratterizzate da un complessivo arricchimento lessicale, rispetto al lessico selettivo e chiuso delle poesie della “Vita nuova”, e da un incremento della COMPLESSITA’ SINTATTICA DELLA FRASE, che tuttavia torna a ridursi in “Tre Donne” e “Doglia mi reca”. La complicazione sintattica va insieme all’incremento statistico degli attriti tra sintassi e metro, con una punta massima, non per caso, nelle petrose e nelle canzoni didattiche. Sono le stesse poesie ad essere caratterizzate in misura maggiore dalle interpolazioni, dai casi cioè in cui un’unità sintattica viene interrotta per l’interposizione di un elemento ad essa subordinato o coordinato: tratto dunque di complicazione e articolazione del discorso, contro la prevalente linearità della sintassi stilnovistica. Presa infine tutta insieme, la lirica dantesca segna anche un passo ulteriore verso il superamento dei modelli transalpini e siciliani: sono in netta diminuzione i suffissi di origine provenzale e francese, così largamente utilizzati dalla lirica siciliana e siculo-toscana, come anche le dittologie sinonimiche, l’uso del gerundio assoluto – molto frequente nella lingua poetica del sec. XIII – e delle similitudini, specialmente di quelle standardizzate dalla tradizione lirica – mentre sarà la Commedia a rilanciare la figura, ma secondo modi sostanzialmente nuovi. Petrarca e il Trecento La lingua dei Rerum Vulgarium Fragmenta Dante rimarrà per qualche decennio il modello primo della poesia trecentesca, e lo sarà in quanto poeta della Commedia, ma certo anche nella sua parte lirica (una particolare fortuna avranno ad esempio le petrose). E tuttavia, nel lungo termine, il vaglio decisivo attraverso cui passa la lirica italiana è rappresentato dai Rerum Vulgarium Fragmenta di Petrarca. È proprio il genere letterario cui appartiene la Commedia a deporre a sfavore di una sua continuata fortuna nella tradizione: la cui caratteristica più evidente sarà proprio la dominante lirica, immune per proprie ragioni interne, relative alle restrizioni di genere letterario, al pluristilismo e all’apertura tematica a tutto campo proprie della Commedia. D’altra parte, il cosiddetto monolinguismo del Canzoniere attribuitagli dapprima da Contini, è stato successivamente messo in discussione da una parte della critica, come si osserverà più avanti. È stata inoltre recentemente messa in evidenza l’imponente portata innovativa della sintassi e la complessità nel confronto con la tradizione di genere lirico. di Dante, garante della loro residua autorità. La linea petrarchesca, ancora labile, comincia a comporsi in modo discontinuo e frastagliato. Prevale una tendenza alla larga apertura tematica e al pluristilismo. Anche scrittori di spicco come Boccaccio e Franco Sacchetti mostrano una notevole apertura alla poesia popolare, i cui ingredienti sono sovente mescolati ai temi dotti, di ascendenza stilnovistica. Fuori di Toscana, i due modelli ponevano, prima ancora di una questione stilistica e letteraria, una pressante istanza linguistica, in quanto avanzavano entrambi il toscano come lingua della poesia anche fuori di Toscana. È a partire da questo secolo che si avvia il processo della sua affermazione e della conseguente marginalizzazione delle lingue locali al rango di dialetti; processo che viene tuttavia riconosciuto precocemente. La lingua toscana si conforma più di altre lingue alla norma grammaticale del latino, cioè alla stabilità e alla regolarità del latino, ed è per questo che essa è più condivisa (e condivisibile) e comprensibile. • Plurilinguismo in Veneto e in altro Settentrione La tendenza dei POETI VENETI è all’espressionismo e al plurilinguismo, ed è stata in seguito ampiamente documentata. Commistione che del resto consegue alla parificazione e contaminazione delle fonti, assunte indiscriminatamente, senza distinzioni di genere o di autorità. Questa tendenza sembra del resto caratterizzare più ampiamente la tradizione manoscritta trecentesca, nella quale non si hanno che raramente casi di grandi raccolte che esprimano, nelle loro scelte, un progetto culturale, e la più parte dei grandi manoscritti si presenta come collezione antologica priva di un principio ordinatore strutturante e selettivo. La lirica del Trecento, insomma, e la sua lingua, tendono a compendiare l’intera latitudine della lirica precedente. Ne consegue la necessità di affrontare non come di consueto, la presenza di un determinato autore in un altro, bensì la fruizione plurima e simultanea di un insieme di modelli da parte di un insieme di assimilatori. Nel notaio trevigiano Nicolò de’ Rossi abbiamo una lingua che da una parte tende a delimitare la presenza del dialetto locale, dall’altra, tuttavia, dimostra la disponibilità a lasciar correre forme locali con perfetta consapevolezza. Il contenimento dei tratti spiccatamente locali, trevigiani, come la caduta di vocali finali, e la disponibilità vieppiù larga verso forme che vi si allontanano e appartengono piuttosto alla koinè (con questo termine si designa una lingua condivisa in un’area non toscana linguisticamente frazionata in più dialetti; essa presenta tracce ben visibili del dialetto locale, che sono tuttavia ridotte dall’imitazione del toscano e dall’influsso, soprattutto nella grafia, del latino; in un senso più specifico, il termine designa la lingua delle cancellerie non toscane fra Tre e Quattrocento) trevisano-padana e a quella veneta. Così, nello stesso canzoniere troviamo passi di squisito toscaneggiare, nei quali la lingua locale sembra affiorare come residuo, in pochi tratti linguistici marcabili perlopiù come generici settentrionalismi. Ma vi troviamo anche saggi di lingua più scopertamente locale. Sulla stessa linea, portata tuttavia a conseguenze più radicali, si colloca la vicenda linguistica di Francesco di Vannozzo, padovano. Egli condivide con la gran parte dei lirici del secolo un certo eclettismo nella scelta dei modelli con il conseguente plurilinguismo, giocato nella varietà delle lingue locali incrociata con una grande ricchezza di temi. Il suo veneziano scopre caratteri riflessi, grazie ad un’accentuazione di tratti quali di solito si rileva in chi scrive in un dialetto non suo o comunque a pro di un pubblico alloglotto. Così ipercaratterizzato è anche il suo pavano; e a tali testi egli affianca poesie dal colorito più spiccatamente toscaneggiante. Si varia da movenze petrarchesche a passi dialettali. Si aggiunga il diffuso cedimento al’esibizione tecnica. Il ferrarese Antonio Beccari fu linguisticamente aperto ad esperienze diverse. In generale vanno osservati il rilievo marginale avuto dal modello petrarchesco e la tendenza ad un certo ibridismo, che tuttavia non riguarda tutte le sue liriche. Parte di essere infatti denuncia un avvicinamento a Petrarca, e particolarmente, non a caso, quelle di argomento amoroso. Sembra cioè presentarsi la situazione che caratterizzerà molta lirica quattrocentesca, nella quale Petrarca compare come uno tra i molti modelli. E può pertanto accadere che nello spazio ridotto delle due strofe di uno stesso componimento lo scrittore volga da uno stile petrarchesco e sublime a uno stile realistico. Come corrispettivo metrico di questa mescolanza di linguaggi e di modelli si può ricordare per tutti la situazione di Simone Serdini, detto il Saviozzo. I lirici di cui si è discorso precedentemente tendono nell’insieme, come il poeta, a ricorrere a metri esclusi dal Petrarca, come i sonetti caudati, i capitoli ternari, i serventesi. La relazione tra metri e linguaggi non petrarcheschi è da intendersi biunivoca: tanto che, al rientro di un petrarchismo ortodosso, nel Cinquecento, corrisponderà la nuova predilezione per il sonetto nella sua forma originaria. Plurilinguismo centro-meridionale Un plurilinguismo dunque non mimetico, ma espressivo, esito di una consapevole scelta stilistica, che trova riscontri in altri scrittori di altre aree geografiche. Vi sono ad esempio i poeti perugini: Neri Moscoli, Marino Ceccoli, Cecco Nuccoli, tramandati dal ms. Barberiniano latino 4036, tutti attivi tra il 1320 e il 1350. Poeti coltissimi, notai e appartenenti agli strati sociali più privilegiati, che dimostrano una notevole disponibilità a forme locali sia a livello fonomorfologico che lessicale, dando luogo ad un IBRIDISMO CONSAPEVOLE. Da cui dunque una latitudine lessicale che spazia dal latino al volgare perugino più irsuto, senza escludere le più specifiche e connotate terminologie tecniche. Così si possono trovare anche in rima forme metafonetiche e fenomeni come la prostesi prefissale perugina –ar per ri-, e dialettismi lessicali. E a serie lessicali e sintagmatiche di tradizione squisitamente stilnovistica è mescolato un certo lessico giocoso e realistico o filosofico: nell’uso di parole e nessi che piegano verso il latino scolastico, fino a veri e propri calchi del Dante lirico più dottrinale. Questa varietà linguistica fa da pendant ad un’ampia apertura tematica: dai motivi stilnovistici, campagnoli e naturalistici, a quelli in zona comica, filosofica, per arrivare infine alla novità – eterodosso stilnovismo – della poesia sull’amore omosessuale. Giovanni Quirini e la linea aristocratica La poesia di un altro veneto, il patrizio Giovanni Quirini sembra, al contrario dei casi sopra esaminati, tendere verso un modello compatto di lingua poetica, e tracciare così la linea di una lirica aristocratica e selettiva da contrapporre a quella che potremmo definire “eclettica” descritta fin qui. Il profilo linguistico del poeta dimostra un avanzato stato di toscanizzazione, in considerazione della cronologia ancora molto alta di quei testi. I tratti veneti sono pochi e residuali: l’esito –aro dal latino –arius; la lenizione e caduta della –d; le sonorizzazioni; mancanza di anafonesi. Questi fenomeni non sono sufficienti a sottrarre l’evidente risultato di un colorito toscano bene accentuato, la cui patina ricopre con una certa uniformità la lingua delle rime. Verso un modello linguistico analogamente compatto tende la poesia dei lirici di corte angioini di datazione assai più bassa (dal 1350-1360 fino alla fine del secolo): Guglielmo Maramauro (che fu corrispondente di Petrarca e commentatore dell’Inferno dantesco), Bartolomeo di Capua Conte di Altavilla, Paolo dell’Aquila, Landulfo di Lamberto. La tendenza generale è una spiccata emulazione della poesia petrarchesca. Nel caso del Conte di Altavilla, tale istanza si tradusse nel gesto, su iniziativa della moglie fiorentina Andreina Acciaiuoli, di fare correggere da propri parenti fiorentini alcune delle rime scritte dal Conte in gioventù. Le tracce della lingua locale sono tenui e a tratti quasi assenti: rime imperfette, dovute alla vocale finale indistinta del napoletano, sporadici tratti fonologici come l’assimilazione progressiva, altrettanto rari casi morfologici come “soi” napoletano per “suoi”, “ca” relativo, e semmai forme ipercorrette nella fonetica o nella grafia (ipertoscanismo). Mentre viceversa si osservano evidenti resistenze alla lingua locale a favore del fiorentino nel rifiuto degli esiti metafonetici del napoletano, nell’uso frequente dell’apocope toscana, nell’adozione delle forme di articolo determinativo e delle preposizioni toscane. • Poesia dunque colta, del tutto separata dalla poesia coeva popolare. La poesia lirica tende a farsi, dall’inizio alla fine del secolo, più strettamente petrarchesca, e si consuma la separazione tra aulico e popolare, la cui compresenza caratterizza tipicamente la lirica del secolo. Le due linee così messe a fuoco trovano un riscontro nella sintassi del sonetto. Dall’osservazione di un corpus significativo di poeti del Trecento, Soldani ha isolato due tendenze definite “aulica” e “cortigiana”. • Aulica: ha come capostipite Giovanni Quirini e comprende il Boccaccio lirico e Franco Sacchetti; si muovono nella direzione di una maggiore selettività, o quantomeno della separazione netta dei generi e delle forme, destinando i metri allotri verso i generi non lirici. • Cortigiana: allinea Nicolò de’ Rossi, Antonia Beccari e Simone Serdini; dimostrano una indifferenza sostanziale nei confronti della forma, che viene assunta dalla koinè dominante in modo acritico come un insieme di soluzioni grammaticali che permettono di costruire il sonetto secondo procedure collaudatissime. La sperimentazione dei primi agisce intensamente sul livello sintattico, ove spesso si realizzano soluzioni anche più ardimentose di quelle petrarchesche; i secondi viceversa giocano le proprie novità principalmente a livello contenutistico e lessicale. La lirica di corte Latino, koinè, fiorentino e la lingua dei Fragmenta Intorno alla metà del Trecento, a seguito di massici movimenti demografici, legati alle peste del 1348, ma anche in conseguenza a processi di evoluzione interna della lingua, il fiorentino incomincia a cambiare e conoscerà una significativa evoluzione lungo i decenni successivi, fino al Quattrocento inoltrato. In tale cambiamento si ravvisano le prime radici del destino classicistico della lirica italiana, poiché esso nel corso del secolo apriva una divaricazione tra la lingua fiorentina e il modello che veniva costituendosi, in ragione al prestigio europeo presto acquisito da Petrarca. Sicché, nel giro di qualche decennio, imitare da vicino la lingua di Petrarca doveva portare a rifiutare la lingua letteraria della Toscana quattrocentesca. Il processo sarà relativamente lungo, e quando sarà il momento di fissare una grammatica della lingua poetica e più in generale letteraria, essa dovrà omettere la letteratura fiorentina quattrocentesca e orientarsi alla lingua di centocinquant’anni prima. Non per caso quella grammatica sarà scritta da un veneziano, Fortunio. Rispetto al secolo precedente si può cominciare a ridurre l’articolazione della distinzione geolinguistica verso l’opposizione frontale tra toscani e lirici di altrove. Il che naturalmente non significa che altrove sia omogeneo nella lingua: è piuttosto omogeneo il processo, il coinvolgimento cioè nel movimento del conguaglio che porterà al panorama lirico linguisticamente uniforme del Cinquecento. Nel Quattrocento il rapporto tra koinè e lingua petrarchesca e genericamente toscana tende a rovesciarsi: se tra i poeti del Trecento, come ha scritto Brugnolo, è il toscano a sovrapporsi alle lingue locali, le quali spesso vengono assunte positivamente come elemento espressivo, ora a rovescio la koinè screzia il fondo toscano, o almeno il tentativo di toscaneggiare e anzi petrarcheggiare. Un momento di svolta si verifica intorno al 1460, mentre nei primi decenni del secolo il panorama lirico italiano non differisce sostanzialmente da quello trecentesco. Questa prima fase è cioè caratterizzata da una produzione poetica estremamente variegata linguisticamente. Dopo quella data, per la poesia lirica delle corti secondo-quattrocentesche possiamo tranquillamente parlare di petrarchismo. Tende così a compiersi il il toscano. Viceversa, in Sannazzaro lirico sembra che la lingua poetica trovi lucidamente il proprio modello forte in Petrarca anche nelle zone in cui i Fragmenta si allontanano dal toscano letterario. Sannazzaro sembra viceversa più fedele al monottongo poetico. Questa discrasia si coglie bene nella morfologia, notando ad esempio lo spostamento di Cariteo verso –ar protonico. E ancora, Cariteo arriva a contaminare la morfologia toscana con fenomeni allotri, probabilmente settentrionali. L’approssimazione alla lingua di Petrarca va di conserva con la limpida identificazione delle sue più tipiche strutture stilistiche. Cariteo, ad esempio, nella rielaborazione, sembra ritrovare strutture versali dicotomiche per antitesi o parallelismo dallo spiccato sapore petrarchesco. Sannazzaro abbandona le strutture lineari tipiche della poesia del ‘400 per la formazione di strutture a spirale, ondulanti, potenzialmente aperte, con centri di gravità ritmica variamente spostabili -> testimonianza di un’idea di petrarchismo assai evoluta che si ritroverà nella linea grave della lirica cinquecentesca. Gravità che trova un’espressione molto precoce nell’asincronismo nel rapporto tra sintassi-partitura musicale e schema metrico. Insomma, un Petrarca riscoperto nella sua intera gamma di articolazioni e reso oggetto primo e tendenzialmente esclusivo di una imitazione petrarchesca assolutamente intesa. Boiardo lirico Per quanto riguarda la lirica dell’Italia settentrionale e il suo maggior esponente, Matteo Maria Boiardo, nell’esame della lingua bisogna tener conto del suo rapporto da una parte con Petrarca, dal’altra con il toscano contemporaneo e infine, come terzo polo della disamina, della lingua della koinè, rappresentata letterariamente da “L’innamoramento di Orlando” (cioè l’Orlando innamorato secondo la titolazione dell’ultima edizione critici), che si conformava ad un diverso canone per sua natura aperto al dialetto e alla lingua popolare. Per quanto riguarda il vocalismo tonico, Boiardo converge con mano ferma, nell’ambito del dittonga mento, verso poetismi ormai affermati. Le non sporadiche eccezioni nell’Innamoramento di “nuovo” e “fuoco” ne segnalano la persistente connotazione lirica, mentre forme come “loco” e simili nelle “Lettere” saranno da ricondurre alla koinè. La preoccupazione antidialettale affiora qua e là in forme ipercorrette. Laddove Petrarca tende al monottongo, Boiardo oscilla: da Ŏ sempre la riduzione: “prova”, “trova”. Nell’ambito del vocalismo condizionato si registra una notevole affermazione dell’anafonesi, con poche eccezioni quasi sempre per esigenza di rima. Le forme non anafonetiche hanno invece una larga presenza nelle “Lettere” e nell’ “Innamoramento”. Dunque, sempre –i davanti a laterale palatale: “vermiglio”, “consiglio”, “meraviglia”, “assomiglia”, ma nelle Lettere “maravigliomi”, “maravelgia” e nell’Innamoramento “conseglio”. • Assetto più dialettale presentano le Lettere, il poema e le Egloghe. Quanto alla metafonesi, il fenomeno è relativamente raro e sono ben visibili i fenomeni di reazione. La metafonesi della vocale labiale è dichiarata anche più rara da Mengaldo, e spesso le forme che vi sono riconducibili hanno l’appoggio della tradizione poetica (“nui”, “vui”). Nell’Innamoramento viceversa risalta la consistenza del fenomeno della metafonesi, anche se limitato alle uscite verbali. Tra i fenomeni del vocalismo atono merita di essere menzionata la resistenza lirica al mantenimento dialettale di –ar protonico, mentre nelle Lettere il fenomeno dialettale ha largo corso. Ne è una rilevante implicazione morfologica il contenimento delle forme del futuro e del condizionale di prima coniugazione in –ar, che invece prevalgono nelle Lettere. Restano da segnalare le due zone linguistiche più permeabili alla koinè: da una parte il trattamento delle vocali geminate, dall’altra quello delle vocali protoniche: il primo caso è da ascriversi alla categorica opposizione del dialetto al sistema toscano, il secondo all’appoggio concorrente del latino e di forme petrarchesche e in generale poetiche. Ancora nel consonantismo si osserva la scelta sistematica per le forme palatalizzate, uno dei tratti più letterari dagli Amorum libri e proprio per questo assente dalle Lettere; asenza confermata nei generi letterari non lirici e più aperti alla koinè, cioè le Egloghe e l’Innamoramento. Nella morfologia va segnalata la presenza di alcuni tratti ormai affermati nel toscano letterario e tuttavia ancora contenuti se non assenti nella lingua delle Lettere, dove sono viceversa largamente presenti ad esempio i pronomi soggetto dialettali “mi”, “ti”, attestati anche nel poema, o le desinenze etimologiche di prima persona plurale del presente indicativo –emo. La lirica toscana A Firenze l’evoluzione del fiorentino finisce per differenziare la lingua colta contemporanea da quella dei modelli trecenteschi. Da un certo momento in poi questo iato è percepito e anzi fatto agire nella letteratura. Per buona parte del secolo sembra dunque di essere in presenza di un dia sistema fluido, nel quale gli scrittori e gli intellettuali non distinguono forme colte e popolari, letterarie e parlate. Ne è un primo segnale il criterio con cui Leon Battista Alberti redige la sua “Grammatichetta”, che è semplicemente una grammatica della sincronia. Le forme grammaticali sono pertanto corredate esclusivamente da exempla ficta tratti dall’uso, a testimonianza di una lingua che trova egualmente nel latino e nel fiorentino parlato i propri modelli non contrapposti. Come nella Grammatichetta la lingua non è differenziata diastraticamente e la componente colta e letteraria convive con quella popolare, così nella Raccolta l’intera tradizione lirica italiana è presentata indiscriminatamente, mescolando generi e livelli di lingua. Nell’ “Epistola aragonese” premessa all’antologia, e di mano di Poliziano, se viene abbozzata una gerarchia in cui primeggiano i due mirabili soli (Dante e Petrarca), rimane tuttavia l’indicazione iniziale che tende a comprenderli tutti entro un unico paniere. Nella serie si mescolano poeti diversi per generi frequentati e conseguenti livelli di lingua. Si può tracciare un sommario profilo linguistico della lirica fiorentina del secondo Quattrocento partendo da questa idea di mescolanza. Si tratta infatti di un amalgama che riguarda i livelli d’uso sociale della lingua, non la sua variazione geografica. Ad esempio, la poesia lirica di Lorenzo il Magnifico, che si divide tra il Canzoniere, di ispirazione petrarchesca, e poesia di generi svariati, il percorso comico convive con quello lirico e non è più in generale che parte di un’esperienza linguistico-letteraria estremamente variegata. È notevole che tale varietà entri nella Raccolta aragonese e sia dunque avanzata come tratto esemplare della poesia toscana: Lorenzo colloca infatti cinque canzoni a ballo a chiusura della silloge. L’immagine di poesia lirica sagomata nella Raccolta non viene dunque ancora contenuta entro i confini petrarcheschi: la lingua dei Fragmenta è qui ancora un modello settoriale. Già dentro qui confini, la libertà di movimento linguistico è sensibilmente maggiore che, ad esempio, negli ultimi napoletano. Scorriamo le liriche del Canzoniere: vi si troverà una discreta messe di fenomeni del fiorentino quattrocentesco non autorizzati dai Fragmenta. Fenomeni fonetici e soprattutto morfologici. Ecco poi l’estensione toscana del dittonga mento arginare il fenomeno ben attestato del monottongo poetico: il fiorentino coevo sembra cioè far premio a Petrarca. Nei casi di oscillazione petrarchesca, prevale la forma toscana coeva. Tutto ciò è compresente come in uno stesso impasto linguistico con forme della tradizione siculo-toscana e petrarchesca. Spesso i sonetti sono dell’allure vocativa ed enumerativa di chiara marca petrarchesca. Petrarca, se viene linguisticamente allontanato, dunque, non per questo cessa di essere un modello forte. il che significa che l’imitazione dei Fragmenta non ha nella lingua un limite esclusivo, potendo visi scompaginare il fiorentino coevo senza disarmonie. La lingua del Poliziano lirico porta a conclusioni analoghe; tuttavia l’Angelo Ambrogini delle Rime opta organicamente per metri di tradizione debole o anonima, come il rispetto e gli schemi più elementari di ballata, e di conseguenza per una lingua programmaticamente antiaulica. Orientamento che non va interpretato come scelta opolaresca, stante la genesi nonché la distinzione raffinata e colta di quelle poesie, ma come precisa e programmatica scelta di campo “altra” rispetto alle prevalenti correnti di gusto della tradizione e del secolo. Rimane tuttavia in comune con Lorenzo de’ Medici quella compresenza linguistica di tradizione e contemporaneità: il fatto cioè di una lirica colta che non separa e anzi accoglie e convoglia nella propria lingua elementi del fiorentino coevo. Il progretto mediceo di rifondazione di una grande letteratura toscana che potesse costituire il pilastro della politica culturale dello stato doveva fondarsi sulla poesia e sulla lingua contemporanea; non potendo per ragioni di opportunità politica e di orgoglio municipale preterire il presente a favore del passato. I modelli dei due secoli precedenti sono esempi di alta esperienza linguistica e poetica, piuttosto che fonti di regole e paradigmi e la lingua della poesia lirica può aprirsi ad una morfologia pluridimensionale nella quale componenti differenti convivono pacificamente. Il petrarchismo e i suoi dintorni La fondazione del classicismo Nel Proemio al “Comento de’ miei sonetti”, Lorenzo de’ Medici, dopo aver tessuto l’elogio della lingua fiorentina, scrive che trovandosi al momento nella sua adolescenza, poiché “ogni ora più si fa elegante e gentile”, il fiorentino potrebbe “facilmente nella ioventù e adulta età sua, venire ancora in maggiore perfezione”. Basterà qualche decennio perché la prospettiva muti radicalmente: da questa idea di perfettibilità della lingua si transita verso un classicismo nel quale la storia, e dunque il senso del divenire e della trasformazione, sono del tutto scomparsi. Ecco infatti Bembo subito all’inizio delle Prose: “E si ancora per questo, che della vostra città di Firenze e de’ suoi scrittori più che d’altro, si fa memoria di questo ragionamento, dalla quale e da’ quali hanno le leggi della lingua che si cerca, e principio e accrescimento e perfezione avuta”. Gli scrittori cui si allude sono Petrarca e Boccaccio, e la Firenze a cui si fa riferimento è quella trecentesca. Non per caso il Quattrocento lirico e più generalmente letterario, di là da qualche riconoscimento transitorio, nelle Prose viene quasi interamente omesso. Tale classicismo ha proprio nella lingua il suo più urgente fronte di fondazione, e il terzo libro delle Prose ne rappresenta la risposta più organica, fissando fonomorfologia e lessico del fiorentino letterario trecentesco e scavando così uno iato incolmabile rispetto alla prima grammatica volgare dell’Alberti: l’antica separatezza della lingua poetica dall’uso riceve ora un fondamento grammaticale. La lingua che ne viene così stabilita rappresenta un modello acronico, fermo e uguale a se stesso nei tempi a venire. Una LINGUA SENZA EPOCHE, che resterà fino all’Ottocento uguale a se stessa. Negli anni di questa fondazione, i Fragmenta del Petrarca, tracimando dagli argini del genere lirico, finiscono per porsi come modello di lingua letteraria e non più solo poetica. Il processo è già in corso nello scorcio del Quattrocento, come dimostra l’elaborazione sannazariana dell’Arcadia. Si sempre più verso una convergenza tra petrarchismo linguistico anche nelle parti non liriche e la progressiva eliminazione del dialetto nel quadro di un genere letterario che prevedeva statutariamente mescolanza linguistica e pluristilismo. Il punto di arrivo di questo processo è testimoniato dall’Orlando furioso, che vira decisamente, Sussiste nella lirica di Tasso una disponibilità a nominare referenti concreti, oggetti e situazioni estranei al canone petrarchesco. Il profilo lessicale che ne esce testimonia di un petrarchismo APERTO , non più irrigidito nell’imitazione fedele e pedissequa, disposto a contaminare tradizioni differenti e fonti eterogenee e a tematizzare situazioni e gesti precedentemente taciuti. Sono questi i primi sengali della liberazione lessicale che caratterizzerà la lirica del secolo successivo. Metrica, sintassi e retorica Quanto alla metrica, si può trovare un atteggiamento sperimentale più o meno spiccato già nei primi fondatori e teorici del petrarchismo. Il suo stesso iniziatore, ad esempio, si muove con relativa libertà nell’ambito degli schemi di sonetto, ed è autore di metri non petrarcheschi come l’ottava lirica, che avranno una notevole fortuna nel secolo. Più in generale gli schemi di sonetto petrarcheschi hanno una fortuna limitata in tutto il primo Cinquecento. Così è anche per la canzone, che già in Bembo viene trattata con grande libertà. Il petrarchismo metrico non è mai stato un programma rigido, né un imperativo categorico, per la pratica cinquecentesca. Si aggiunga che, gi nei primi decenni del secolo, vengono sperimentate e in qualche caso letteralmente inventate forme metriche nuove, di gusto classicistico, come la canzone-ode. Valga il caso del Libro primo de gli Amori di Bernardo Tasso, che già dal titolo ovidiano palesa il riferimento classico. In questo filone va collocata anche parte dell’opera poetica di Renato Trivulzio, autore, nonché di sonetti e liriche petrarchesche, di odi e di egloghe piscatorie di ispirazione classica, e tale tendenza classicheggiante ed extrapetrarchesca riguarda almeno Marcantonio Flaminio, Giangiorgio Trissino, Matteo Bandello, l’Ariosto lirico, Luigi Alamanni. Un tentativo teorico di applicazione della metrica quantitativa alla lingua italiana è rappresentato dai Versi e regole della nuova poesia toscana di Claudio Tolomei. Vi è poi una sperimentazione che agisce sul piano della sintassi. È anche a questo livello che si può individuare la linea della gravitas lirica cinquecentesca, il cui massimo esponente è Giovanni Della Casa. Si crea uno stato di conflitto permanente della sintassi con il metro: la linea melodica crea insomma continue frizioni con le attese presupposte dal metro, con il risultato di una lettura ansimante e sincopata. In secondo luogo, il Casa dilata la grande sintassi, sospendendola lungo l’interno arco del sonetto o per la sua parte maggiore, con l’aggravante di una distribuzione ineguale delle pause e di una movimentazione dell’ordine dei costituenti ai limiti dell’astrazione. Figure di interruzione, sospensione e differimento rappresentano la cifra dello stile casiano e anche la punta della sua personalità stilistica, notevolmente stacca dalla media del petrarchismo coevo. Analoghe spirali di complessità si ritroveranno solo nella poesia neoclassica. Sul versante della retorica, si potrà osservare che nel secolo e tardo Cinquecento prendono piede artifici che sembrano dare il la alla stagione del marinismo poetico e del barocco. Lo sperimentalismo formale di gusto manieristico caratterizza largamente il petrarchismo veneto dopo Bembo, ed è rappresentato principalmente da Domenico Venier e Luigi Groto. Quest’ultimo si cimenta poi in altri artifici: il tautogramma (sonetto interamente contesto di parole inizianti sempre con la stessa lettera), il sonetto a rime interne plurime, a schema additivo (ricollezione finale di tutte le parole chiave e disseminate nel testo) e retrogrado. Il definitivo assestamento della lingua della poesia lirica e la sua compiuta grammaticalizzazione implicavano la ricerca della novità e dell’invenzione su altri piani dell’espressione: la retorica appunto dell’artificio, la metrica delle nuove forme, il lessico dei nuovi temi. Tra Sei e Settecento Metamorfosi del petrarchismo Già nelle sue premesse manieristiche, la lirica aveva conosciuto nuovi temi e un senso differente della forma: che tendeva a porsi nei più sperimentali tra i manieristi (Groto, Venier, i napoletani) come luogo primario del testo. La ricca proposta petrarchesca viene in quei casi fatta a brani e fruita per partes, ne vengono cioè esasperati i singoli aspetti tecnici e trascurato o proprio ignorato il senso d’insieme. L’esasperazione della tecnica finisce così per presentarsi, paradossalmente, come uno sviluppo del petrarchismo. È cioè nel manierismo la premessa del cosiddetto concettismo. Ma la storia non procede che raramente per strappi e scissure, specie la storia della lingua della letteratura italiana. E nei primissimi anni del Seicento si impone una lirica, quella di Marino, che contempera tradizione e rinnovamento e rappresenta un primo momento del processo di metamorfosi dello svolgimento e di allargamento cui viene sottoposta l’eredità della tradizione. Il suo esordio infatti è all’insegna di un petrarchismo riformato progressivamente dall’interno, secondo quanto avevano già incominciato in realtà a fare poeti a lui precedenti: a fronte di una stretta imitazione di Petrarca, impersonata dai massimi interpreti della lirica cinquecentesca, quel modello rappresenta in Marino un idolo non tanto da emulare, ma da infrangere. Ne viene immediatamente l’apertura tematica e lessicale della sua lirica, che si riflette ad esempio nel fatto che una parte significativa del suo lessico (almeno il 20%) non trova riscontro nei Fragmenta. E anche viceversa: una quota notevole di parole petrarchesche non viene utilizzata, o viene drasticamente ridotta. L’occultamento concerne principalmente i termini disforici dell’esperienza amorosa frustrata, o del tutto assenti o notevolmente diminuiti. Il divorzio dal modello si consuma senza troppi dolori, e a secolo inoltrato Petrarca veniva indicato non già più come il traguardo inarrivabile dell’imitazione, quanto come il punto di partenza di una lunga evoluzione della poesia lirica, che avrebbe raggiunto la sua acme proprio nel Seicento. Il primo passo di questo processo consiste nella sostanziale abolizione dell’io dal seminario tematico. La principale implicazione di questo spostamento è di ordine lessicale, e si può descrivere come un processo di de sublimazione del lessico petrarchesco, nel duplice senso dello svuotamento della sua funzione simbolica e del suo orientamento a significazioni concrete. Il secondo passo è rappresentato dalla perdita di centralità del tema amoroso, che nel contempo si allarga a sua volta e comprende nel proprio catalogo la bella zoppa, la bella balba, la donna lentigginosa, la bella nana, la bella dai pidocchi, ecc. Da tutto ciò consegue l’arricchimento del vocabolario concreto. Vi è ad esempio il rinnovamento del lessico paesaggistico che, generico nei Fragmenta proprio in ragione del suo valore simbolico può diventare ora addirittura realistico. Qui ciascuno degli oggetti naturali che entrano nella rappresentazione è segno di se stesso e di nient’altro -> vocabolario più nuovo e più ricco. Le innovazioni lessicali della lirica marinistica raccolte per famiglie semantiche si suddividono in: • Ambito botanico (gli esempi provengono anche dall’Adone) • Nomi di animali • Direzione metafisico-astratta • Lessico di matrice scientifica e tecnica • Teologia (Campanella e Giacomo Lubrano, che rappresenta uno sviluppo tardo seicentesco di questo filone) • Filosofia (Campanella -> autore originale e anche polemico verso le mode coeve e la tradizione della lirica amorosa). Numerosi anche i neologismi: parole e procedimenti che avrebbero trovato un sostegno teorico nel Cannocchiale aristotelico di Emanuele Tesauro ed un largo seguito in tutte la tradizione seicentesca del concettismo. Questa dell’’invenzione lessicale è una delle caratteristiche fatte oggetto di parodia da Tommaso Stigliani, il cui Canzoniero presenta proprio per questo una sorta di campionario rovesciato dei più tipici tratti del concettismo. Tra i principali processi formativi attivati nella parodia, gli aggettivi in –aico, -ale, -ante, -ato, -oso. Il paesaggio o le sue componenti, e più in generale tutta la collezione dei nuovi temi, divengono semmai il pretesto dell’esibizione retorica, vere e proprie occasioni metaforiche. E proprio nella retorica vanno cercati i tratti peculiari del cosiddetto marinismo, e dunque la linea di demarcazione tra i poeti che vi sono stati affiliati e la lirica di gusto classicistico che fa capo alla figura di Gabriello Chiabrera. Gli oggetti nominati sono pretestuosamente convocati a servizio dell’invenzione metaforica. La caratteristica fondamentale della retorica seicentesca sta nel duplice processo dell’INTESIFICAZIONE (metafore nelle quali il figurante appartiene ad un campo nozionale molto lontano dal figurato) e della DILATAZIONE dell’artificio verbale. Su questo terreno, la lirica barocca cerca i propri figuranti anche nel mondo della tecnica, negli ordigni meccanici, osservati con curiosità analitica: Angelo Grillo ad esempio paragona il cuore ad un orologio, applicando in ciò il precetto tesauriano dell’accostamento tra oggetti concreti e realtà morale. Il potenziamento extensive dell’artificio consiste nella costruzione di RETICOLI di figure. Viceversa una stessa voce viene reiterata ogni volta con valore differente, sia sul piano semantico che su quello retorico e grammaticale. La METAFORA PEREGRINA e la METAFORA CONTINUANATA finiranno per caratterizzare largamente la letteratura del concettismo, passando attraverso il vaglio del Cannocchiale aristotelico. La dilatazione del procedimento riguarda però anche altre figure, di ordine non analogico ma distributivo. I versus rapportati già sperimentati nel Cinquecento nell’area del manierismo vengono dilatati in misura abnorme da Guido Casoni con esiti ai limiti della leggibilità. La linea della Levitas da Chiabrera all’Arcadia La linea del classicismo seicentesco fa capo a Chiabrera. Il poeta di Savona palesa, negli scritti teorici (soprattutto i due dialoghi Il Geri e Il Bamberini) un’indiscussa ammirazione per l’autorità grandissima di Dante e Petrarca. Ma si tratta di un classicismo impoverito o “dimesso”, se quei modelli sono infine dichiarati inadeguati perché élitari. Questa nuova prospettiva implica la riforma metrica introdotta dal savonese. Ad essa si può far risalire la tradizione dell’ODE-CANZONETTA, che avrebbe avuto una fortuna plurisecolare -> rigetto degli endecasillabi solenni di Dante e Petrarca a favore del verso e della strofa brevi, ritmicamente cadenzati e senza complessità. Tale posizione implica la scelta di una lingua senza punte di sottigliezza e semplificata sotto il profilo artificioso. • Rigetto della retorica del manierismo, che avrebbe trovato sviluppo in quegli anni con il concettismo • Apertura verso registri e modi estranei ai Fragmenta e alla sua tradizione più rigorosa Ma i poeti neoclassici possono addirittura per una sorta di eccesso di zelo, inventarsi nuovi arcaismi. Questa prassi del FALSO ARCAISMO è documentata in due fenomeni: 1. Estensione dei plurali in –ai –ei –oi a casi estranei all’italiano antico, con gli esempi di Manzoni, Monti e Pindemonte non lirico. 2. Espansione dei verbi difettivi “angere”, “arrogere”. Del primo è attestata nella tradizione quasi solo la terza pers. sing. (“ange” in Petrarca), e qualche volta l’infinito: ma ora si documenta “ango”, “anga” nel Pindemonte non lirico. Nella poesia lirica di Alfieri, l’arcaismo sembra acquisire una funzione stilistica marcata, poiché esprime linguisticamente il desiderio di scartare da una contemporaneità rifiutata. Questo atteggiamento si manifesta anche nel recupero di un petrarchismo e di una dantismo di una stretta osservanza, e anzi assunti come modelli generali della lingua, e non solo della lirica. La moda canzonettistica e metastasiana è relegata, all’opposto, alla pratica delle signorine destinate al convento. Nella rielaborazione delle proprie liriche, Alfieri dimostra la ricerca attiva di forme e modi distanti dall’uso medio. Insomma, una scelta antimoderna che portò l’Alfieri, nel sonetto “L’idioma gentil sonante e puro”, a polemizzare addirittura con la chiusura dell’Accademia della Crusca, ribadendo il valore non solo letterario, ma persino politico e morale di quel purismo. Sul piano lessicale e nella zona più strettamente neoclassica di questa fase, si accompagnano al rinnovato e potenziato interesse per la mitologia un incremento di latinismi e l’esibizione di onomastica classicheggiante. La patina colta è resa più densa e compatta nella sistematica predilezione per i doppioni rari. Nel Parini: • Ascoso, non nascosto • Riede, non ritorna • Guardo, non sguardo • Mirare, non guardare • Gire, non andare • Crine, non capelli • Desio, non desiderio • Lumi/luci, non occhi • Ove, non dove. Ma in linea con il nuovo clima illuministico, si fa largo uso nella lirica anche un lessico di provenienza politica, storica, civile e scientifica. Parini scrive odi di denuncia sociale e politica sul degrado dell’ambiente cittadino, sulla pratica dell’evirazione per fini artistici. E lo spirito sensistico dell’osservazione e della descrizione minuta introduce nella lirica un’inusitata propensione all’esattezza. Si osserva dall’uso metonimico del nome proprio alla sua nobilitazione mediante il ricorso a corrispettivi classici, alla trasposizione del nome straniero senza alterazioni o tema di dissonare con la sintassi classicheggiante. Questo incrocio fra l’irrigidimento arcaizzante della lingua e l’apertura tematica sulla contemporaneità riesce talora arduo. La poesia engagée doveva riflettere la pratica socialmente diffusa della discussione sui problemi politici e sugli avvenimenti internazionali. Il lessico dell’Illuminismo è divenuto l’ingrediente metalinguistico di una poesia che ne canzona i risultati snobistici e salottieri. Non c’è indizio più sicuro dell’avvenuta apertura della lirica e del suo linguaggio alla contemporaneità. Il primo Ottocento e Leopardi La rifondazione classicista della lingua poetica Nel 1823 Leopardi consegna allo Zibaldone alcune annotazioni sulla lingua poetica contemporanea, nella quali Parini, Alfieri, Monti e Foscolo sono convocati a testimoniare l’esistenza, in Italia, di “una lingua poetica a parte, e distinta affatto dalla prosaica, una doppia lingua”. L’arroccamento entro un orizzonte formale aristocratico e separato rappresenta il punto di arrivo del processo evolutivo della lingua poetica durante il neoclassicismo. Essa vede rinnovarsi, in un certo senso, la necessità della propria separatezza, e la va cercando sia nella fono morfologia che nella sintassi e nel lessico. In proposito è significativo il caso della coppia lessicale “nessuno” – “niuno”: la prima forma è in origine poetica, e come tale prescritta da Bembo nella Prose. In seguito alla sua diffusione nella prosa fiorentina del Cinquecento, ha perduto anche nella percezione severa dei grammatici tale specificazione, e nella lingua letteraria diviene perfettamente intercambiabile con “niuno”. Tuttavia, proprio tra Sette e Ottocento si riaffaccia una distinzione distributiva, ma con uno scambio di ruoli, e “niuno” diviene forma specifica della poesia proprio in ragione della larga diffusione di “nessuno”. La vicenda di questo poetismo reattivo e dell’ultima ora dimostra esemplarmente la tendenza della lingua poetica della poesia lirica in questo periodo a rifondare la propria differenza. Lo si può vedere nella persistenza dei tratti più caratteristici della lingua poetica della tradizione: il monottongo poetico, sicilianismi, forme non apocopate nei femminili in –ate, - ade, -ute, -ude, spostamenti di accento dovuti a ragioni metriche (sistoli e diastoli) che spesso rilanciano forme dell’italiano antico o latinismi. E nella morfologia, relitti di nominativi latini, le desinenze –aro, -iro nella sesta pers. del perf. ind, in condizionale in –ia. Circa il lessico è confermata l’antica tendenza antirealistica e culta della lirica, che porta alla predilezione per varianti rare e perifrasi in luogo della diretta indicazione di un oggetto o di un concetto troppo legato alla realtà contingente. Per caratterizzare la sintassi, si può prendere come specimen ancora la poesia di Foscolo, che continua, specie nelle due odi, la lezione di Parini lirico. Secondo Isella, ne provoca anzi un’ulteriore elazione nel quale agisce più in profondo la sua cultura greca: per Foscolo infatti, come per tutta la componente classicistica dell’età napoleonica, la tradizione è tanto l’eredità italiana della letteratura dal Tre al Cinquecento, quanto il patrimonio greco-latino. Ecco allora un costrutto latineggiante come l’ablativo assoluto nel sonetto VII: “dal bel paese ove or meni sì rei / me sospirando , i tuoi giorni fiorenti” E la grande frequenza di inversioni marcate e di iperbati, già nei sonetti. Ed è interessante notare che tale patina classicheggiante sia, nell’elaborazione della prima ode, frutto di una conquista, dunque il risultato di una scelta maturata in progress verso la complicazione e l’artificio. La sintassi entra inoltre costantemente in conflitto con la versificazione: Foscolo fa un uso frequente ed intenso dell’enjambements, collocandolo spesso a cavallo delle partizioni metriche: • tra prima e seconda terzina nel sonetto • nel passaggio strofico nelle odi Con tutto ciò concomita la frequente cesurazione anomala e sincopata del verso. Anche dal punto di vista retorico, Foscolo continua il momento secondo e l’ultimo della lirica settecentesca, nella sua declinazione grave e pariniana. La repetitio che scandiva le strofette meliche, marcandone simmetricamente, e cioè prevedibilmente, le partizioni, così come la retorica della tradizione canzonettistica, vengono decostruite e complicate -> la linea del ritmo viene continuamente diversificata, e non un settenario è uguale all’altro, secondo la lezione pariniana e petrarchesca. • Nulla di più distante, ormai, dal melodismo facile della canzonetta settecentesca. Manzoni lirico Una linea differente da quella sopradescritta viene segnata da Manzoni. In un sonetto del 1802 alla Musa, Manzoni le chiede che, quand’anche lo scrittore cadesse nella strada della poesia non risulti solo un gregario di quei modelli. Il percorso lirico manzoniano, fino agli Inni sacri, può ben dirsi una strenua ricerca di questa differenza, con l’attraversamento di svariate esperienze lirico linguistico-stilistiche che per la loro varietà hanno fatto ricordare ad alcuni il percorso lirico di Dante. In questa varietà di forme, si fissano tuttavia già alcuni tratti linguistici che rimarranno tipici del Manzoni lirico. Sul piano generale, la sostanziale e costante estraneità al petrarchismo in tutte le sue forme: com’era in realtà un po’ nell’aria da Parini e Foscolo a Monti soprattutto, che è la sponda su cui rimbalza il pronunciato e dominante dantismo della poesia di questi anni. Un secondo tratto consiste nella spiccata valorizzazione del latinismo , soprattutto di quello di provenienza cristiano liturgica. Giunto dunque agli Inni sacri, Manzoni può dirsi già ben avviato alla ricerca di una lingua guidata da valori nuovi rispetto alla tradizione. • è già cominciato il lento ma continuo processo di allontanamento dai modelli e dai moduli offerti dalla tradizione, il cui esito ultimo sarà la prosa dei Promessi sposi. Questa ricerca si svolge negli Inni soprattutto nell’ambito lessicale. È notevole che quella lirica suonasse ai suoi detrattori come prosastica. È forte la volontà manzoniana di forzare il perimetro tradizionale della lingua poetica, sulla scorta dell’esempio prossimo e prestigioso di Monti. Da questo quadro si separa almeno parzialmente la Pentecoste, che sta un po’ a sé anche cronologicamente (composta nel 1822, a differenza degli altri quattro inni, usciti a stampa nel 1815), la cui lingua è più monocroma, e vi si trovano in misura ridotta dantismi e voci prosastiche. • Nel futuro autore dei Promessi sposi le istanze relative alla funzionalità della comunicazione letteraria avessero finalmente la meglio su quelle relative alla conformità alla tradizione prescelta. Ma osservando la grammatica, Manzoni lirico rimane nel tracciato della tradizione, anche se massiccia è la novità dei referenti letterari e una notevole messe di fonti bibliche, nonché il notevole incremento del tasso di latinismo negli Inni e nelle Odi. Dal latinismo, spesso, come già nella lirica giovanile, i prefissati negativi “irrevocati”, “incresciose”, “indomato”, ecc, e l’uso del participio passato in espressioni come “varcate nuvole”. Questo uso del participio è una delle espressioni del “demone della brevitas” manzoniano, e fa serie con la ricerca e anzi l’abuso dei costrutti impliciti. • Il linguaggio lirico manzoniano, che si nega ogni ridondanza e ornamento, va al centro e all’essenza dei suoi temi con la sua sintassi rapida e scandita.