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LA SETE GENERATIVA. ERMENEUTICHE PEDAGOGICHE E PERCORSI FORMATIVI, Sintesi del corso di Pedagogia

RIASSUNTO COMPLETO E DETTAGLIATO DEL LIBRO

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

Caricato il 17/04/2020

oigres9
oigres9 🇮🇹

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Scarica LA SETE GENERATIVA. ERMENEUTICHE PEDAGOGICHE E PERCORSI FORMATIVI e più Sintesi del corso in PDF di Pedagogia solo su Docsity! RIASSUNTO LA SETE GENERATIVA ERMENEUTICHE PEDAGOGICHE E PERCORSI FORMATIVI CAPITOLO PRIMO La sete come “postura esistenziale e atteggiamento di ricerca” 1. “L’acqua è insegnata dalla sete” Nell’accezione comune la sete indica la sensazione del “bisogno di acqua”, che si manifesta con arsura e secchezza della bocca o della gola. Essa è un esempio di comportamento “appetitivo” che, cioè, rimane attivo finché non è soddisfatto. Tutti sanno cosa vuol dire “sete” e cosa significa essere assetati eppure essa possieda molte sfaccettature: c’è una sete personale, una sete sociale di giustizia delle periferie del mondo e dei nuovi potere, una sete che è dolore dell’anima, fragilità, una sete che è malattia di cercare e avere sempre di più perché perennemente insoddisfatti e prigionieri del desiderio e infine c’è una sete di successo, vendetta e potere. Esiste anche una sete generativa che fa muovere e diventa spinta per un nuovo viaggio interiore ed esistenziale, per un nuovo inizio a qualsiasi età. Affermare che “l’acqua è insegnata dalla sete” vuol dire che è necessario ritrovare il coraggio di prendere la sete e assegnarle il ruolo di guida. Da qui nascono una serie di domande spontanee: sappiamo accorgerci che abbiamo sete? Quello che beviamo, oltre ad attenuare la nostra sete, ci fa bene? Diamo ascolto all’inquietudine che sentiamo o la mettiamo subito a tacere? Assumere l’inquietudine come possibile chiave di comprensione della sete e ci apre le porte alla crisi, intesa non come impedimento ma come momento di riflettere su ciò che stiamo vivendo e quindi comprendere noi stessi. Nessuno può essere esentato da questa analisi, riflessione e ricerca delle proprie seti. Ma, non è affatto facile riconoscere di avere sete, capire di quali acque abbiamo bisogno e ancora più importante è capire cosa vuole dirci la nostra sete e vuole/può insegnarci. Non è facile fare i conti con la propria sete e spesso preferiamo rinunciare a vivere nella sete e porci domande su noi stessi. È fondamentale ricordare come la nostra sete non sia solo di acqua, infatti spesso, non beviamo per necessità ma per piacere, per stare in compagnia (come ad esempio a tavola) e nutrirci di un elemento per noi fondamentale: la relazione. Dare un bicchiere d’acqua o bere insieme all’altro indica il nostro desiderio di andare incontro a quella sete di relazione, di accettazione, di amore e riconoscimento. 2. Homo sitiens e homo satur: “la sete e la povertà dei consumi” Nella nostra vita ci sono sorgenti di acque limpide e benefiche e sorgenti di acque torbide e nocive. È indispensabile che ciascun uomo impari a distinguere ciò per cui vale la pena combattere e quindi ciò per cui vale la pena operare scelte per la vita e ciò per cui non solo non vale la pena combattere ma che bisogna rifiutare perché portatore di infelicità e di morte. La sete che oggi sperimentiamo è il frutto di contesti sociali e culturali che impongono determinati stili di vita incentrati su consumo, successo e potere. Ciò che oggi l'uomo sente dentro è una sete che non sa riconoscere, non sa identificare, veicolata e condizionata da troppi fattori, economici, finanziari, sociali, culturali e di status. L'uomo è quindi dominato dalle mode, dalla popolarità, dal materialismo e dalla cultura dello spreco. La società di oggi è quindi caratterizzata da quella che René Girard ha definito "rivalità mimetica", il volere qualcosa perché lo hanno gli altri. Imitiamo gli altri perché il vedere l'altro felice di possedere un oggetto suscita in noi il desiderio di fare come lui e di essere come lui. È questa la peggiore forma di povertà quella che ci rende schiavi di essere come gli altri, come gli altri ci vogliono ed essere consumatori di qualunque tipo di acqua. si diventa poveri perché sempre più incapaci di riconoscere le nostre fragilità e di metterci in ascolto dei nostri veri bisogni. I nuovi poveri sono i consumatori pantofagi coloro che, succubi delle logiche del mercato, spendono letteralmente la loro vita Inseguendo la soddisfazione di falsi bisogni. L' homo consumens è condannato quindi un'inguaribile infelicità. Tutti questi beni, tecnologie e piaceri divengono una trappola per l'uomo contemporaneo che pensa di essere libero di scegliere tutto ma in realtà è imprigionato nelle logiche del mercato più di quanto crede di esserlo. L'essere schiavi del consumo è stato un argomento trattato soprattutto da due studiosi: Herbert Marcuse e Gunther Anders. Marcuse apre la sua opera più famosa “l'uomo a una dimensione” sostenendo che la vita dell'individuo si riduce al bisogno di produrre e consumare. La società industriale, infatti, appiattisce l'uomo ad una dimensione cioè a quella di consumatore euforico, la cui libertà consiste solo nello scegliere tra i diversi prodotti che il mercato propone. Sulla stessa linea di pensiero si trova Anders sostenendo che il rapidissimo sviluppo della tecnologia ha reso l'uomo antiquato, l'idea centrale della società facile dei consumi è la creazione la manipolazione dei bisogni, di cui la pubblicità è un'arma potente per diversi motivi (pensiamo di essere liberi ma in realtà sottostiamo al consumo e all'uso dei prodotti). Come sostiene Alain Ehrenberg la sofferenza di oggi non è frutto della mancanza di beni e di mezzi o dell'eccesso di divieti quanto piuttosto della sovrabbondanza di possibilità. È l’impero dell'homo satur che, pieno e anche saturo di possibilità e di beni, ha rinunciato a riconoscersi assetato e ad assumere la postura esistenziale dell'homo sitiens ossia dell'uomo che ricerca e che è sempre in cammino. Il consumatore è quindi posseduto da ciò che possiede o vorrebbe possedere e si illude che possedere qualcosa equivalga ad essere felici. Ci illudiamo che il possedere l'oggetto desiderato ci doni la libertà e ci appaghi ma in realtà ci pone soltanto in uno stato di schiavitù. Il punto chiave è comprendere che l'acquisto attutisce solo temporaneamente i nostri desideri in quanto ci sarà sempre qualche sete da dissetare, qualcosa da desiderare o da inseguire. Fatto ancora più inquietante è che oggi l'individuo applica la stessa dinamica consumistica delle cose alle persone, per cui così come i beni di consumo vanno comprati, usati e buttati via, anche le persone vanno sedotte, consumate e lasciate (asfissia dell’etica). L'uomo di oggi, animato dalla ricerca ossessiva del consumo e del piacere, si dirige verso l'abisso della crisi. Quest'ultima però può diventare un'occasione di inversione di rotta e a partire da essa iniziare a riflettere su cosa conti veramente nella vita. Occorre avere il coraggio di ripartire da sé stessi, cammino che deve essere intrapreso individualmente e collettivamente e che riguarda sia gli adulti che gli educatori, spesso fragili e disorientati, e anche le nuove generazioni. 3. La fragilità umana negata Il percorso di rilettura della crisi che stiamo vivendo e delle seti che proviamo inizia proprio dall'esplorazione della fragilità umana. la fragilità è un elemento determinante nella vita di una persona è nella costruzione della sua personalità, poiché ne influenza l'intera vita, le scelte, il modo di pensare e di relazionarsi sia con se stessi che con gli altri. oggi, Nelle società postmoderne, si esalta a tutto campo la capacità di combattere, e il rialzarsi più aggressivi di prima è diventata la regola per sopravvivere in un mondo di (falsi) forti. Ad esempio, l'atteggiamento di chi adotta la resilienza (capacità di un individuo di affrontare e CAPITOLO SECONDO La sete come ricerca del progetto e del senso della vita 1. Il progetto e la comprensione nell’attribuzione di senso Per comprendere meglio la sete e capirne il significato e direzione, è necessario passare attraverso alcuni concetti essenziali per l'esistenza di un essere umano, che sono, da una parte, il progetto e la comprensione e, dall'altra, il senso della vita. Il senso è un’appropriazione della comprensione e quindi quando qualcosa viene compreso è possibile dire che ha un senso. Come sosteneva Martin Heidegger ciò che è compreso non è il senso ma l’ente o l'essere e forte di questa comprensione l'individuo diviene capace di personalizzare la sua esistenza. La comprensione riguarda sempre l'essere nel mondo nella sua totalità. In ogni comprensione del mondo vi è compresa sia l'esistenza (la nostra esistenza) sia l'interpretazione, che è promotrice di nuova comprensione. L’ente (l’uomo) ha senso solo se ha compreso il progetto della sua esistenza, il cosiddetto ad-venire, in cui perviene in quelle che sono le possibilità di poter essere. la comprensione di sé è un prendere sé stessi con sé, nel senso di un possibile modo di conoscersi. comprendersi è accettarsi nel tentativo di portare ogni giorno a compimento quel progetto di perfettibilità a cui siamo chiamati abitando questa terra (comprendere noi stessi e i problemi che ci riguardano). La mancanza di comprensione, pertanto, va Intesa come un modo sbagliato del poter essere. Secondo Heidegger il non comprendere e il non comprendersi non consentono all’Esserci di poter essere nella sua pienezza e nella sua capacità progettuale, ma semmai di accontentarsi di spiegare alcuni problemi vissuti nel quotidiano senza per questo avere la certezza di risolverli. L’Essere, l’uomo, comprendendosi vive una vita animata dal poter essere e quindi nella sua forma potenzialmente più alta; Ecco perché diviene così importante comprendere sé stessi, i propri bisogni, i propri desideri e la propria sete. così come all'essere (l’uomo) e data la possibilità della comprensione, allo stesso modo e data anche quella della “comprensione inautentica” o “non-comprensione”. Tante volte le scelte più inautentiche scaturiscono da mancate comprensioni (di sé), da presunte comprensioni ho da comprensioni inautentiche. Questo porta l’uomo a non comprendere il suo progetto (ad-venire) e quindi il suo poter essere altro. Bisogna ricordare che non vi sono comprensioni che prescindono dal nostro stato emotivo e quindi entrare in contatto con le emozioni che proviamo e riuscire a dare loro un nome e un compito essenziale per comprendere la nostra sete. 2. Paura e angoscia come ostacoli per la comprensione di sé Spesso uno degli ostacoli maggiori dell’entrare in contatto con la nostra sete è la paura. La caratteristica delle emozioni, e della paura quindi, è il fatto che esse si rivolgono ad un oggetto che la persona ritiene esistente. Se poi l'oggetto al quale l'emozione si riferisce esiste realmente è cosa di poco conto punto. Lo indica il fatto che la paura può insorgere anche in assenza di un oggetto reale, nel senso che, pur non verificandosi nulla di pauroso, possiamo provare paura perché, minacciati da qualcosa di interiore, ci sentiamo impauriti nell'anima e nel corpo. Si comprende bene come, ad esempio, la paura di scoprire cose di sé poco piacevoli, che possono causare danno o sofferenza, possa bloccare il processo di comprensione e di conoscenza di sé. La paura si può riferire sia qualcosa che deve ancora venire sia a qualcosa che già avvenuto il cui ricordo porta confusione. Anche L'angoscia è una situazione emotiva fondamentale che può ostacolare il processo di comprensione di sé e della propria sete. Nell'angoscia si sperimenta il nulla del mondo ed esso sprofonda nell'insignificatività. Secondo Eugenio Borgna, l'angoscia nasce al di là delle nostre esperienze, del nostro dolore e delle nostre vicende umane e prende forma durante il corso delle grandi svolte della vita. L'angoscia, quindi, sembrerebbe il tratto distintivo della crescita, delle decisioni, delle svolte, dei passaggi da una fase del ciclo di vita ad un'altra. La paura, invece, si manifesta in ogni età della vita come conseguenza di determinati avvenimenti; Non c'è una sola paura, ma infinite paure, legate alla presenza di determinate situazioni, di determinati avvenimenti e di determinate cause. Zygmunt Bauman in Paura liquida mette in evidenza come oggi la cosa che suscita più sgomento è la possibilità che le nostre paure e le nostre angosce possano venir fuori, senza il nostro controllo, esponendo la nostra fragilità al mondo. L’'accettazione dell'imperfezione umana diventa quindi una porta spalancata sulla felicità, un segno di maturità interiore che conduce ad accettare sé stessi, gli altri e il senso della vita. 3. Il senso della vita è dare senso alla propria vita Nel contesto socio-culturale in cui viviamo siamo ancora capaci di chiederci il perché è il senso dell'esistenza? Sembra che questa società insinui nelle menti, soprattutto dei più deboli, la convinzione che siano dei perdenti, dei falliti e dei non adatti alla vita. Sballottati da una teoria all'altra, da pseudo-convinzioni religiose e da movimenti di pensiero, gli uomini, e soprattutto le nuove generazioni, lamentano una mancanza di significato della propria esistenza. La risposta a questa mancanza, da una parte, innesca un’indifferenza che conduce all’impulso irrefrenabile a consumare e godere di tutto ciò che è possibile consumare e godere subito (perché del domani non si ha certezza); ma spesso queste vite sono le più infelici e le più fragili. Dall'altra parte, invece, nasce una domanda da parte dell'umanità insoddisfatta (principalmente dai giovani) di nuovi valori, di ricerca, di responsabilità. Oggi giovani vogliono esserci, vogliono partecipare, vogliono impegnarsi, vogliono più giustizia e vogliono assumere responsabilità nei confronti dei più bisognosi; tutto ciò alimenta in loro una forza combattiva che fa superare la banalizzazione della vita. Dare un senso alla vita può diventare un compito veramente difficile, altre volte persino una follia, ma certamente la vita senza senso è una tortura. Il punto di partenza di una nuova educazione potrebbe diventare il bisogno di senso, di felicità, di realizzazione autenticano non sganciata dagli altri. Il soggetto, quindi, deve trovare il suo senso e dare un significato alla sua esistenza per creare il progetto del suo divenire (da dove vengo e verso dove vado). Provare il senso e diventare felici è fondamentale per costruire un progetto che ci permetta di personalizzare la nostra esistenza, di trovare cioè direzioni e destinazioni verso le quali muoversi con coraggio e audacia. Il senso più vero della vita è dare senso alla propria vita. Quante volte ci sembra di non riuscire a dare più senso alle cose che facciamo e ci buttiamo a capofitto nel lavoro, nelle occupazioni, nella conoscenza di nuove persone, nei divertimenti che però non fanno altro che aumentare la nostra sete? Così, il presente, i divertimenti e le occupazioni materiali diventano un assoluto da vivere con tutto noi stessi, non perché questo ci procuri gioia e sollievo ma perché promette di seppellire la nostra angoscia. Infatti, la mancanza di senso è la più grande crisi che gli uomini e le donne dell’occidente postmoderno stanno attraversando e, quindi, se manca il senso è la direzione verso cui ci stiamo muovendo qualunque acqua berremo non potrà mai dissetarci e non ci sentiremo mai appagati. A tal proposito Anna Frank Ci dà un vivido esempio nel suo diario quando, all'età di 14 anni, nascosta con tutta la famiglia nella soffitta di una casa per sfuggire ai nazisti, scrive cosa sia per lei la felicità è il senso del suo esistere: “Finché un uomo ha la felicità dentro, al di là dei suoi dolori, non potrà che essere felice.” È ancora, durante alcuni momenti in cui la giovane ragazza ricorda il brusco cambiamento di vita dopo l'arresto (l'interrogatorio, le accuse, la solitudine) riusciva a provare grande gioia e ringraziare per tutte le cose buone, care e belle che aveva avuto. Il suo grande insegnamento sta nel riuscire a trovare la felicità nella bellezza dentro e attorno a ciascuno di noi, in qualunque situazione ci troviamo, persino in un campo di concentramento. Anche Etty Hillesum, giovane donna ebrea, che si è trovata a vivere all'età di 27 anni l'orrore della Shoah. Ma in quegli anni, più diventano insopportabili le condizioni di vita degli ebrei in Olanda, più lei si impegna a non smettere di amare la vita, a ricordarsi e a ricordarci la bellezza del mondo e della natura, a programmare la necessità di non odiare. Anche Viktor Frankl, che ha vissuto in prima persona l'olocausto e ha visto la sua famiglia i suoi amici annientati nelle camere a gas, nonostante questa immane e disumana tragedia, è riuscito a sopravvivere credendo fermamente nella capacità dell'uomo di fronteggiare qualunque situazione di dolore e di elevarsi al di sopra di tutto ciò che lo circonda. Ma nelle società di oggi, l'uomo e la donna sono sempre più affitti dal senso di frustrazione esistenziale e non riescono a sapere neanche ciò che vogliono. In tal modo desiderano solo ciò che gli altri fanno (conformismo) o ciò che gli altri vogliono che essi facciano: accade soprattutto a coloro che non hanno sviluppato personalità forti da essere in grado di contrastare quello che viene propinato dalle pubblicità e presentato dall'elité di potere come modello culturale di successo (idealtipi). Invece, ogni uomo deve trovare un significato nella e della sua vita e realizzarlo, percorrere la vita con dignità alla ricerca di ciò che veramente conta. In ambito educativo, quindi, il dovere e l'impegno si dirige verso la valorizzazione dell'essere nel mondo dell'uomo, la sua creatività, seguire la sua crescita e accompagnare giovani adulti nei momenti di difficoltà. La cura educativa consiste, infatti, nel riuscire a far comprendere all'uomo di oggi che il suo destino è alzare lo sguardo, aspirare a cose grandi e non accontentarsi di piccole mete. 4. Le grandi sfide del senso: cambiare noi stessi e scegliere quale atteggiamento assumere Nella famosa piramide contenuta in motivazione e personalità Abraham H. Maslow espose la teoria dei bisogni umani, cioè una gerarchia di motivazioni che muove dai bisogni inferiori o primari ai bisogni superiori. Il passaggio da uno stadio inferiore a quello superiore può avvenire solo dopo la soddisfazione dei bisogni di grado Inferiore. Maslow ritiene che saper riconoscere i bisogni dell'uomo sia una competenza fondamentale. Ma, mentre ogni individuo è unico e irripetibile, i bisogni sono comuni a tutti e, se soddisfatti, consentono una qualità della vita migliore. Tra i bisogni superiori dell'essere umano egli pone anche il desiderio dell'uomo di dare un senso alla propria vita e ciò accade solo se riesci a soddisfare tutti i bisogni sottostanti (mangiare, bere, dormire, ecc e poi sicurezza, appartenenza, stima e autorizzazione). Questo secondo Frankl, va in contraddizione con quanto riscontrato nella pratica da lui e dei suoi colleghi psichiatri e psicologi, poiché il bisogno di dare un senso alla vita irrompe più prepotentemente proprio quando le cose vanno peggio. CAPITOLO TERZO La sete come categoria fondamentale della relazione educativa 1. Stare in relazione allevia la sete Sperimentare la propria fragilità significa avvertire il bisogno di certezze, di sicurezze tangibili, di consolazioni che possono riempire il vuoto della solitudine. Cercare la forza e la sicurezza nel denaro, nel potere, nel successo, non basta a dissetare la sete di certezze. Ci sono momenti in cui l'inquietudine diventa incomprimibile e l'unico ristoro sembra essere volgere lo sguardo per cercare altri occhi che abbiano la stessa inquietudine e condividono la stessa sofferenza. È questa una condizione abbastanza frequente nel nostro tempo in cui la cresciuta mobilità e le rivoluzioni tecnologiche stanno sfaldando le comunità, rendendo precari tutti i rapporti. Possiamo parlare, parafrasando una celebre espressione di Jacques Lacan, di evaporazione delle relazioni ossia di soggetti sempre più afflitti dalla solitudine ed egocentrici. Di fronte a queste dimensioni del dolore non basta prescrivere medicine perché la prima cosa di cui l'individuo avrebbe bisogno è l'umanità ossia essere sostenuto nel dolore con comprensione, solidarietà e generosità. Un sorriso invece di una ricetta e una presenza invece di un antidepressivo. Ciò che dovremmo imparare è anche capire le false speranze e le seduzioni che il mondo presenta, smascherando l'inutilità e comprendendo quali sono i veri desideri che possono riempire il senso della nostra vita. Per fare ciò dovremmo avere il coraggio di conoscere la verità della nostra vita emozionale, razionale, affettiva e quindi confrontarci con noi stessi. Ma dobbiamo anche accorgerci di richieste di aiuto più o meno esplicite della cui importanza spesso non ci si rende conto; a volte sono grida silenziose di persone che non hanno neppure la forza di chiedere aiuto. Chi è educatore dovrebbe essere consapevole che le ferite del cuore si dischiudono solo davanti ad occhi che le sanno vedere ed accogliere. Le seti che ciascuno educatore dovrebbe imparare a scorgere sono proprio quelle che si nascondono nei luoghi del nostro quotidiano ma che non è facile riconoscere perché spesso si travestono di arroganza, di presunzione, di violenza o semplicemente di silenzio. Se ognuno diventasse più attento all'altro diverremo tutti donne e uomini in grado di curare le ferite. Ci sono parole, così come sorrisi, abbracci, certezze che possono persino salvare la vita e divenire portatori di speranza. Ognuno di noi è responsabile di ciò che dice e persino di ciò che non dice, come aveva già affermato Paul Watzlawick. All'uomo, infatti, non è data la possibilità di non comunicare perché tutto comunica, persino i gesti che non si compiono, le parole che non si dicono, la telefonata a cui non si risponde o che non si fa. Il generare e prendersi cura dell'altro consente alla persona di comprendere anche se stessa. Come precisava Heidegger, l’aver cura si configura come forma più alta dell'incontro con l'altro e, insieme, di conoscenza di se stesso. Ma solo nella misura in cui ogni essere umano comprende il senso del proprio essere nel mondo e rende se stesso autentico diverrà in grado di comprendere l'altro. Il vedere l'altro e lo sguardo cordiale diventano elementi imprescindibili dell'interesse, della cura e delle relazioni con l'altro. 2. La sete condizione e contenuto della relazione educativa L'educare, che non può esistere al di fuori della relazione interpersonale, trova in questa la sua condizione necessaria e allo stesso tempo il suo contenuto. Nessuno può crescere e diventare persona se non incontra un altro. L'incontro è possibile solo se due soggetti hanno sete di incontrarsi perché se il bisogno fosse solo di uno dei due la relazione non accadrebbe. La sete, pertanto, è la vera condizione della relazione educativa perché solo la sete proietta verso l'esterno il soggetto alla ricerca della soddisfazione dei propri desideri. Ma la sete è anche il vero contenuto della relazione educativa perché soltanto chi è in atteggiamento di ricerca ed aspira a cogliere il senso della propria vita può mantenere viva in se l'apertura alla relazione e all'altro. L'essere umano, non essendo soddisfatto ma assetato, si accosta all'altro e con lui abita i luoghi dove spera di trovare risposte vere. La relazione consente di scongiurare ad ogni essere umano la chiusura e lo apre invece alla prospettiva del confronto e del dialogo. Negli scritti storici a noi pervenuti così come nella Bibbia, ad esempio, la sete e l'acqua appaiono con frequenza sia per l'importanza che assumevano i pozzi, un tesoro vitale per i Pastori, occasioni di incontro e di scambi ma anche causa di sanguinose, sia perché sete ed acqua erano usate in guerra come armi efficaci per far arrendere nemici negli assedi sia perché erano temute come punizione divina per coloro che violano la legge di Jahvé. Particolarmente interessante risulta che, in senso figurato, nelle scritture la sete è anche simbolo di un desiderio ardente, di amore e di speranza che possono essere dissetate non con acque torbide ma limpide e fresche. Ma l'uomo invece di farsi guidare e condurre a sorgenti di acqua viva preferisce scavarsi da sé cisterne piene di crepe che non trattengono l'acqua; segno della poca ragionevolezza dell'uomo e della sua incapacità di affrontare le sofferenze e della pretesa di aver tutto e subito. Ma c'è anche un altro modo di leggere la sete cioè quello proposto da Gesù di Nazaret, che addirittura proclamò beati gli assetati, dichiarando che diventeranno felici proprio coloro che nel quotidiano vivere sono considerati sventurati. Essere assetati di verità, di giustizia, di pace, di relazione e di pianezza significa non avere perso la propria umanità e non accontentarsi di vivere in maniera randagi: cioè senza appartenere a nessuno, senza avere un luogo in cui abitare dominare rimanendo indifferenti ed estranei a tutto e a tutti. Infine, Gesù decanta il tempo ultimo che certamente verrà in cui la felicità, la sazietà e la giustizia regneranno e quindi la beatitudine della sete diverrà un esercizio di speranza. 3. Una relazione educativa a partire dalla sete: Gesù e la samaritana Per capire la funzione centrale che nella relazione educativa ha la sete ci sembra utile analizzare qui il brano del Vangelo di Giovanni. In questo passo l'importanza che Gesù dà l'acqua, alla sete e al suo simbolismo, così come le modalità di approccio che egli adotta nell'incontro, inducono a riflettere sul valore educativo da dare alla relazione dialogica (attraverso il dialogo) al rispetto dovuto all’educando come persona, alla gratuità del dono, al tempo giusto per avere le scelte e a tanti altri elementi formativi che risultano essenziali. 3.1. L’educatore che ha sete di relazione “Gesù dunque affaticato per il viaggio, sedeva presso il pozzo. Era circa mezzogiorno. Giunge una donna samaritana ad attingere acqua. Le dice Gesù: dammi da bere” Il fatto che Gesù si rivolga ad una donna samaritana, chiedendole da bere, facendole una richiesta inimmaginabile per quei tempi (sfondo storico culturale e religioso di tipo patriarcale e maschilista del suo tempo). Gesù è una persona che non si lascia condizionare dagli schemi culturali pregiudiziali che impongono una visione ingiusta e mortificante per la donna, ma instaura con essa, in quanto donna e pure straniera appartenente ad un popolo nemico, un rapporto di libertà, rispetto alle usanze e alle leggi del tempo. La sua richiesta di acqua non è da considerare come un ordine e un'imposizione ma svela una condizione di bisogno su cui entrambi si trovano accomunati. Il “Dammi da bere” significa “condivido con te la sete, condividi con me l'acqua che hai, ciò che abita dentro di te”. In ciò è da ricercare anche la figura del vero educatore che sa sfruttare ogni condizione per comprendere meglio la sete e il bisogno dell'altro e sa utilizzare ogni situazione come occasione di incontro e di relazione. Lo sa fare quando non impone d'autorità il suo volere ma sa chiedere e valorizzare, così come Gesù, ciò che l'altro ha quando lo invita a scoprire le sue potenzialità e le sue fragilità. Che Gesù da maestro chieda da bere la Samaritana, da tutti considerata soggetto marginale, è una richiesta che sta più di provocazione, poiché presuppone che anche l'educando apparentemente destinato all'insuccesso al fallimento abbia sempre qualcosa da dare. se nella tradizione pedagogica è sempre l'educanda chiedere aiuto e consiglio, a domandare di essere dissetato dall'educatore, con un insolito sovvertimento delle parti, Gesù si presenta invece come educatore dialogante e mendicante, perché si siede sul bordo del pozzo e a chiedere da bere. Soltanto gli “educatori mendicanti” assetati di relazione sono capaci di chiedere all’educando di dare quello che ha è quello che è. questo capovolgimento non è casuale ma è piuttosto una scelta pedagogica ben precisa che dà vita alla consapevolezza che tra la realtà che si vuole conoscere e il soggetto conoscente si va costruendo intenzionalmente una storia di avvicinamento reciproco. Ogni individuo fa della realtà un'esperienza soggettiva e quindi diversa dall'altro, tale esperienza avrà un'influenza fondamentale sulla comprensione della stessa realtà che il soggetto vive. Ecco perché, per capire ciò che il soggetto ha dentro di sé e le sue esperienze, l'unica forma e modalità pienamente educativa è quella basata sul processo dialogante e dialogico. 3.2. Il “mezzogiorno”: l’ora della scelta e del kairos Anche i tempi degli eventi sono importanti ed emblematici per l'educare. Il racconto dell'incontro con la Samaritana ci sottolinea che era circa mezzogiorno. Mezzogiorno è il momento che segna il passaggio da una parte all'altra della giornata. È un tempo preciso, un kairos, un tempo opportuno che non si può lasciar correre via. Anche se l'orologio può segnare altre ore, spesso nella nostra vita è mezzogiorno. Ogni volta che accogliamo l'invito ad intraprendere un viaggio interiore è mezzogiorno. Ogni volta che ci mettiamo in ascolto della nostra sete è mezzogiorno. I nomi greci con cui nell'antico Occidente veniva indicato il tempo erano Kronos e kairos. Quest'ultimo indica propriamente l'occasione o ancora il tempo opportuno, il tempo debito. Secondo i greci tutto va fatto a tempo determinato, a tempo debito; ed è proprio questa occasione colta che ci rende perfetti e rende perfetto il nostro agire. Ma come comprendere quando il tempo è favorevole/debito? Il tempo nella vita personale e nella vita relazionale è un fattore determinante. Il kairos va sempre focalizzato e trovato all'interno della relazione e della propria storia di vita. Relazione ed educazione si avere delle risposte alle domande esistenziali. Quindi, l'idolo Diventa ciò che noi Ci costruiamo per riposarci per fermarci e non sentire quel peso e quell’angoscia esistenziali. Il tema dell'idolatria è di grande attualità ed ha un’intima connessione con la sete, la ricerca di senso, la fragilità ed il consumismo. L'idolo è certamente accomunato ad un io tanto fragile quanto insicuro, ad un neo che aspira ad avere sicurezze, ristoro e al pagamento. Infatti, Tra gli idoli più presenti nel nostro tempo c'è la ricerca del piacere che dà gratificazione immediata. La ricerca spasmodica del piacere per amore del piacere, che si traduce anche in uno sfrenato consumismo, è un chiaro segno di inquietudine interiore e di malessere. Il mercato, che sta intercettare il malessere di bisogni dell'uomo, e soprattutto dei giovani, offre al mondo il supermarket degli idoli: oggetti, immagini, idee e, ruoli, sesso, potere, divertimento, tecnologie e consumo sfrenato di tutto. Prevale la strategia del mercato, che non consiste nel colmare la mancanza ma nell’alimentarla continuamente offrendo sempre nuovi idoli, in grado di rendere quelli precedenti antichi e obsoleti. Si diffonde cosi quell’'idolatria a basso costo adatta per tutte le fasce di consumatori, estesa ormai a tutti i campi, che propone idoli sempre nuovi e spesso anche più pericolosi e costosi sul piano della dignità e dell'umanità (ad esempio: uteri in affitto, traffico di organi, sfruttamento sessuale infantile, droghe sintetiche ecc). La grande illusione dell'uomo è quella di potersi impadronire di tutto per saturare la mancanza il vuole attraverso il possesso e il godimento di oggetti. Il bisogno, quindi, è sempre bisogno di qualcosa, spesso gli oggetti e trova la propria verità nel godimento. Ma se riuscissimo a spostare la nostra attenzione dalla figura che emerge (il bisogno l'oggetto il godimento a tutti i costi) allo sfondo (ciò che sta dietro) ci renderemo conto che l'oggetto è solo una mistificazione del bisogno profondo che ci abita. L’idolo diventa il tutto della nostra vita capace di far dimenticare le nostre tristezze, i nostri problemi e le nostre vere seti. la logica del l'idolo, come abbiamo detto, si compone di una caratteristica fondamentale, che è il desiderio di fermezza di stabilità. Si giunge così non a possedere l'oggetto ma ad essere posseduti da quest'ultimo e tutto ciò, nella società di oggi soprattutto, rappresenta il tentativo disperato di trovare risposte a bisogni non identificati. Non identificare i propri bisogni significa non aver compreso le proprie fragilità e le proprie inquietudini. Compito dell'educazione, quindi virgola e quello di far comprendere ognuno il vivere la propria inquietudine senza scappare via e senza consegnarsi a degli idoli perdendo la propria valorizzazione e dissolvendosi come soggetti. CAPITOLO QUARTO Prerequisiti ed ermeneutiche per riconoscere ed “incontrare” i nemici della sete 1. Prerequisiti per riconoscere i nemici della sete Per entrare in contatto con la propria sete è necessario dare un nome a tutto ciò di cui abbiamo sete, fa tutto ciò che arde e grida dentro di noi (e che spesso ci fa soffrire), sia esso desiderio, bisogno, ferita e dolore dell'anima. Può succedere di essere completamente assetati e di non accorgersene. sembra che tutto proceda bene e che si riesca ad andare avanti, ma in profondità non è così perché ci sono delle sedi a cui non diamo ascolto per paura di soffrire ancora di più. Perciò, la prima cosa da fare è combattere e mettere a tacere i nemici interiori che provano a convincerci che tutto va bene. Il primo vero nemico da affrontare è la paura di riconoscere la propria sete. Spesso infatti, ammettere di essere assetati è talmente difficile che si arriva a negare i segnali della propria sete. La lotta che la persona decide di intraprendere, oltre ad esigere grande lealtà con se stessi, richiede: - vigilanza su di sé, - ascolto di se stessi, - fare silenzio dentro e attorno a sé, - povertà come libertà da sé stessi, - saper digiunare. 1.1. La vigilanza come lucidità interiore La vigilanza è un concetto molto vicino alla realtà con se stessi perché è lucidità interiore, intelligenza e capacità critica. La difficoltà della vigilanza consiste nel fatto che bisogna essere attenti primariamente a se. Il vigilante è colui che resiste, colui che combatte per difendere la propria vita (Soprattutto quella interiore) per non farsi travolgere dagli eventi e dalle cose e per mantenere una certa armonia. La vigilanza è dunque alla radice della qualità della vita e delle relazioni. 1.2. L’ascolto e l’empatia Per poter divenire capaci di ascolto è necessario prima di tutto porsi in ascolto di se, mettersi in relazione con se stessi diventando benevoli e, al contempo, rimanendo esigenti con se stessi. Essere esigenti vuol dire avere il coraggio di chiedere a se stessi di fare un passo in avanti, di avanzare nel cammino, il che comporta credere in se stessi nelle proprie potenzialità. L'ascolto è ciò che mette l'uomo nella relazione, nella reciproca appartenenza. Ovviamente occorre fare attenzione a ciò che si ascolta, a chi si ascolta e a come si ascolta. Una forma particolare di ascolto è l'ascolto empatico, che significa decodificare la comunicazione dell'altro cogliendone gli aspetti rappresentativi e descrittivi. L'empatia è una qualità preziosa perché consente di accogliere, comprendere e condividere non solo quanto sentito, vissuto e comunicato dall'altro, ma soprattutto di accogliere l'altro per il suo essere persona, per quello che è nella sua vita, prima ancora che per le sue qualità o proprietà. L'empatia diviene, così, capace di portare a compimento quel processo di rinnovamento del pensiero, del modo di essere e degli stili assistenziali ed educativi. Il fine dell'empatia è riuscire a vedere le cose e il mondo come le vede l'altro, dal suo punto di vista, provando ad entrare nei suoi schemi mentali e nelle sue esperienze. L'ascolto che tenti di raggiungere questo scopo richiede all'ascoltatore di essere aperto nei confronti dei messaggi di chi parla e di impegnarsi a comprendere colui che parla ed i suoi messaggi dal tuo punto di vista, soprattutto se diverso dal proprio. La potenza dell'empatia sta nel fatto che permette a chi parla di sentirsi accolto e capito, riconosciuto nel suo essere persona. Empatia, nella pratica educativa, è ridare all'altro le cose che ha detto restituendogli il suo vissuto senza aggiungere niente di nostro. Durante l'ascolto quando colui che parla sperimenta delle emozioni, l'ascoltatore più che capire deve cercare di sentire con lui. Diventa possibile conoscere il significato dell'esperienza del partner non ragionando ma sentendo con lui e comunicando gli stati d'animo del narrante nel significato personale che hanno per lui. 1.3. Il silenzio Per ascoltare è necessario il silenzio ma imparare a fare silenzio dentro se non è cosa facile oggi. è come se l'individuo oggi rivivesse quell'orrore del vuoto e quel senso di sgomento procurato da assenza di suoni, immagini e disegni. L'urgenza di silenzio è dimostrata dalla quantità di rumore e di rumori della società dello spettacolo, degli schermi dei social network e degli smartphone che ci stordiscono e intorpidiscono: il confronto con se stessi, sempre più arduo, è divenuto troppo pericoloso e spaventoso. Siamo nell'epoca della tirannia del rumore. Se il silenzio è spesso causa di angoscia ai giorni nostri è perché a spaventare è qualsiasi forma di pausa e di inferiorità, In opposizione ad una logica di mercato che vede lo stare con se stessi come una cosa inutile, infruttuosa ed improduttiva. Solo il silenzio rende possibile l'ascolto, cioè l'accoglienza in se non solo della parola ma anche della presenza dell'altro. Blaise Pascal scrive che: “c'è un’eloquenza del silenzio che commuove più di quanto il linguaggio non saprebbe fare”. Il silenzio può diventare imbarazzo, tempo morto e sprecato, ma può esserci un silenzio che diventa comunicazione, empatia e contemplazione. Heidegger scrive: “uno può parlare, parlare senza fine, e tutto quel parlare non dice nulla. Un altro Invece tace, non parla e può, col suo non parlare, dire molto. Sappiamo tutti che esistono vari tipi di silenzio, differenti modalità di metterlo in atto e diverse motivazioni da cui esso può nascere. Anche in educazione, vi è un silenzio che può essere di condanna, di chiusura, di umiliazione e di minaccia. Ma può esserci anche un silenzio rispettoso, di approvazione, di incoraggiamento, di stima, di fiducia e di libertà. Qui il silenzio si riveste nel suo vero significato educativo e rabbia e incapacità sia di accettare ciò che l'altro vuole donarci secondo le sue possibilità sia di togliere la logica dell'amore. L'aspettativa della ricompensa, ad esempio, è la negazione della gratuità con cui si esprime l'amore. L’attesa di una ricompensa per aver compreso qualcosa, per aver svolto un compito, per aver dato un bicchiere d'acqua inquina il gesto e lo avvolge nella fitta nebbia del lucrativo e redditizio. Dentro di noi combattiamo molte logiche, ma ciò che supera e trascende ogni logica umana e la gratuità che diventa l'arte necessaria per vivere appieno la vita, è il cammino che tutti dovremmo imparare a percorrere. Amare è dare un di più inatteso e un credere nell'altro e nel suo oltre. 2.4. L’invidia come non accettazione del proprio limite Il termine invidia deriva dal latino in (avversativo) e videre che significa: “guardare contro, in maniera ostile, di traverso”. L’invidia presenta caratteristiche precise e si riferisce ad uno stato d'animo o ad Un'emozione per cui colui che invidia desidera possedere un bene, un oggetto o una qualità posseduta da un altro, l'invidiato. L’invidia genera non solo dolore ma anche tristezza per il bene altrui. Ma perché l'invidia è nemica della sete? Proprio perché l'invidioso (e il suo desiderio di acqua, di possesso) non trova soddisfazione piena in se stesso, nella sua vita, in ciò che è e in ciò che possiede. L’invidia, infatti, e quel sentimento nei riguardi di un altro che possiede e gode di qualcosa di desiderabile che però l'invidioso vuole eliminare o distruggere. L’altro, da amico, si trasforma in Rivale e la relazione diventa inquinata. Se finora abbiamo sostenuto che la sete è il riconoscere i propri bisogni e anche apertura verso l’altro, l’invidia è la negazione di questa apertura in quanto colui che invidia piuttosto che aprirsi ed entrare in relazione con l'altro, si chiude in se stesso e, accecato dalla sua rabbia, desidera sopprimere l'altro in quanto felice di possedere quel bene o semplicemente perché possessori di quel bene che lui non ha. L’invidia è stata analizzata sotto un duplice punto di vista: - secondo la Gestal Therapy lo sguardo dell’invidioso non è il frutto di un confronto negativo con l’altro e con la sua felicità. - secondo una concezione eziologica, scienza che studia le cause di un fenomeno, L'invidia si presenta fin dalle prime esperienze di contatto, quando la mancata soddisfazione da parte dell'ambiente e non aver ricevuto ciò che il bambino si aspettava da chi doveva prendersi cura di lui diventano ferite non elaborate, pronte a riattivarsi di fronte all'altro e di fronte ai pari (fratelli e sorelle sono i prototipi( che sono più fortunati perché non respinti, non delusi dal contatto con il medesimo ambiente vitale. In quest’ottica, l'invidia è uno dei modi con cui il soggetto reagisce al non possedere qualcosa che gli manca e che vede che l'altro possiede. ma Invidia diventa patologica quando l'incapacità di raggiungere la distanza dall'oggetto Amato non viene assimilata e accettata. L’invidia è uno star male senza ricompensa e senza tornaconto. È necessario, a questo punto, Mettere in evidenza una distinzione tra: - invidia fisiologica, qui c’è il desiderare legittimamente qualcosa che il soggetto non possiede, come, ad esempio, desiderare un bicchiere d'acqua fresca quando si è assetati mentre lo si vede bere a qualcun’altro accanto a noi. - invidia patologica, qui il confronto tra la mancanza che si vive e la fortuna che si trova nell'altro suscita rabbia, furia, rancore e risentimento fino alla cattiveria e all'odio. In questa situazione grave, l'invidioso pensa che non potrà mai essere se stesso a causa di una situazione esterna, che è la felicità dell'altro. si tratta, In sostanza, di un’invidia esistenziale, come la definisce Max Scheler, un’invidia assoluta che si prova per il fatto stesso che l'altro c'è e per ciò che è e per ciò che ha, l’invidia è vissuta come un disagio ed un ostacolo alla propria realizzazione. Quali sono le ragioni dell’invidia? L'invidia è un modo per affrontare due dadi della condizione umana: il limite è la relazione, e quindi l'essere limitati e l'essere dell'azione. Scrive Giovanni Salonia che l'essere limitati ci espone inevitabilmente alla mancanza ma contestualmente l'essere relazione provoca l'esperienza del confronto. L’esperienza del confronto dettato da invidia, Se portata all'estremo, è segno che il soggetto non hanno maturato un'autostima vera, capace di poter accogliere l'altro edonica e possiede. Chi ha un vissuto di sé come essere realizzato e appagato non invidia ciò che l'altro ha ma anzi tenta di valorizzarlo ancor di più e di incoraggiare l'altro a sviluppare ulteriori abilità, senza concentrarsi solo su ciò che possiede. Un’altra Sottile distinzione va fatta tra: - l'invidia per una persona precisa (il chi invidiamo), qualunque cosa di positivo accada una persona precisa perché la viviamo come se fosse tolta a noi: noi non lo abbiamo in quanto lo ha lui. In questa situazione tendiamo a sopravvalutare le qualità della persona che invitiamo e a vedere solo ciò che di positivo o di invidiabile possiede, senza vedere Invece tutte le altre cose e gli altri aspetti del suo carattere, non sempre così belli e da invidiare. - l'invidia per ciò che l'altro possiede (il cosa invidiamo), tralascia chi sia l'altro e le sue qualità, per cui si arriva ad invidiare anche persone molto vicine a noi. Ciò che conta è avere ciò che l'altro ha indipendentemente da chi egli sia e questa può diventare una forma di invidia perfida e silente. 2.4.1. Invidia e felicità. Un ossimoro inconciliabile Secondo Bertrand Russell, l'invidia tra tutte le caratteristiche della natura umana è la più deprecabile perché l'invidioso, oltre a volere l'infelicità dell'altro, rende infelice anche se stesso, e ciò perché, invece di provare piacere in ciò che ha, soffre per quello che gli altri hanno. Un altro elemento che rende la felicità inaccessibile all'invidioso è il confronto continuo con l'altro, la competizione e il paragone. A conferma dell'infelicità dell'invidioso, Salvatore Natoli scrive che l'invidia: “a differenza di ogni altro vizio è un vizio che non dà piacere. Nell'invidia l'individuo logora sé stesso senza alcun beneficio e si consuma nel desiderio della distruzione dell'altro. Anche quando l’altro fosse distrutto, la soddisfazione non sarebbe ugualmente raggiunta poiché la fine dell'altro non procurerebbe in alcun modo l'accrescimento di sé. Per questo invidia e felicità sono un ossimoro inconciliabile, due realtà non sovrapponibili perché l’una rappresenta il contrario dell'altra. L'invidioso si abitua così tanto ad essere infelice per il bene altrui che finisce per esserlo anche quando il bene dovesse arrivare a lui perché non lo vede neppure. L'invidia è una passione che non potrà mai trasformarsi in felicità. 2.4.2. Sviluppo delle proprie qualità come antidoto all’invidia Secondo l'approccio della Gestalt Therapy, l'invidia è l'evitamento di un percorso di consapevolezza di sé e di incontro con l'altro. La persona, invece di diventare consapevole dei propri limiti e di assumerli, fugge da loro, li evita accuratamente e si concentra sul dato visivo della felicità altrui. Solo l'accettazione del proprio limite o dei propri limiti può far scoprire potenzialità inesplorate. Evitare di vedere i propri limiti significa confinare e comprimere anche le proprie potenzialità e questa situazione porta ad un senso di vuoto e di mancanza che l'invidioso cerca inutilmente di placare provando appunto invidia. L’invidia diventa quindi un sostituto di un sano incontro, diviene cioè un modo insano di incontrare l'altro con rabbia e risentimento. Il punto è capire che è fondamentale sviluppare percorsi di crescita di consapevolezza di ciò che noi siamo, delle nostre potenzialità, delle nostre capacità e della possibilità di sviluppare quelle doti che pensiamo di non avere e che invidiamo all'altro. Attraverso questo percorso di autoconsapevolezza diventa chiaro che non è necessario invidiare e odiare l'altro o augurargli infelicità ma basta valorizzare un po' di più e meglio se stessi, portare fuori le qualità che si hanno o svilupparle ex novo. Scrive saggiamente Salonia: “l'invidioso non comprende che la mancanza che cerca di riparare invidiando l'altro non deriva dal non avere ciò che l'altro possiede ma dal non appropriarsi di ciò che egli stesso ha e non sviluppa”. Qui il riflettore è puntato non più sull'altro ma su me stesso, non più sulla felicità dell'altro e sulla mia infelicità, non più su ciò che l'altro possiede e che io non ho ma su me stesso, su quanto vorrei essere felice e su ciò che vorrei sviluppare in me. Diventa fondamentale, quindi, costruire dei percorsi formativi che trasformino l'energia dell'invidia in crescita personale e sviluppo delle proprie potenzialità. Secondo la Pulcini il miglior antidoto all'invidia eh rilevare la nostra unicità, valorizzare gli aspetti, persino quelli più scomodi e in accettati, della nostra personalità in quanto nostri e soltanto nostri. Il segreto di tutto il discorso sull'invidia sta, quindi, nel porla sotto questa nuova luce: cioè impegnarsi per far fiorire tutte le qualità che possediamo e per scoprire quello che ancora c'è di inesplorato in noi; senza concentrarci sull'altro ed invidiarlo. CAPITOLO QUINTO Entrare in contatto con la propria sete 1. La consapevolezza di sé come prerequisito per entrare in contatto con i propri bisogni e la propria sete Quando il soggetto non riesce ad individuare con esattezza i propri bisogni e ad usare gli strumenti adeguati per soddisfarli, perde il contatto con sé stesso e nel peggiore dei casi può arrivare ad ammalarsi fisicamente e psicologicamente. Raggiungere la consapevolezza, come sottolinea la psicoterapia della Gestalt, significa proprio entrare in contatto nel qui e ora con l'esperienza che il soggetto sente dentro di te, Il che comporta fare riferimento sia al sapere ciò che un individuo vuole e di cui ha bisogno sia al conoscere gli strumenti per soddisfare il bisogno in modo adeguato. L’essere in contatto con sé stessi significa percepire in modo accurato le esperienze interiori personali che si vivono nell'ambiente. I fattori che condizionano l'organizzazione della perfezione sono sia ciò che sta attorno all’Io sia gli apprendimenti frutto delle esperienze soggettive. L’organismo percepisce solo ciò che ha una relazione con l’io mentre non percepisce ciò che non è legato in alcun modo con i confini dell'Io (principio dell'economia percettiva). L’organismo, ad esempio, evita tutto ciò che avverte come minaccia. Il secondo fattore che condiziona la percezione sono gli apprendimenti, che sono il frutto della propria esperienza (personale, familiare, sociale ecc) e della propria storia di vita. Spesso dipende da attribuire a percezioni o ad emozioni dei nomi che si sono appresi in passato o che sono stati affibbiati senza che l'individuo comprenda che non hanno più aderenza con la realtà attuale. Ad esempio, il termine ansia viene usato sia per indicare una situazione di malessere interiore psicologico sia per riferirsi psichico, spesso accompagnato da sintomi che sono la voce del corpo che urla i propri bisogni inespressi. La Gestalt Therapy afferma che i vissuti hanno tre caratteristiche: - di essere corporei (visibili nel corpo) - di essere relazionali (direzionati verso l’altro) - di essere temporali (presenti nel qui e adesso) I vissuti corporei indicano al soggetto stesso come gli sta vivendo la situazione e cioè i significati più intimi del suo essere nel mondo in questo preciso momento. I significati intimi si possono comprendere principalmente a livello corporeo e non tanto a livello cognitivo. solo, Infatti, se facciamo lo sforzo di sentire pienamente un vissuto a livello corporeo, come ad esempio la rabbia, potremmo comprendere le ragioni ed apprendere ad autoregolarla. In altre parole, la svolta fondamentale sta nel reinserimento del corpo nell' esperienza conoscitiva della persona. Ciò che la persona sente, il suo vissuto, non può essere interpretato e decodificato da un soggetto esterno, ad esempio da un terapeuta, da un counselor (un professionista della relazione di aiuto) e da un educatore, che decreta e consegna i significati (magari anche sbagliati) del suo sentire alla persona che prova disagio. Quest’operazione non solo non può mai essere precisa, ma è anche soprattutto anche educativa, poiché rende il soggetto dipendente da l'interpretazione altrui il ciò che egli stesso sente e vive: portandolo a non capire ciò che sente e a dare un significato al suo vissuto. Ogni esperienza è sempre comunque l'esperienza relazionale, le cui radici sono inscritte nei corpi e nei vissuti corporei. Interessanti e recenti studi sull’intercorporeità (corpi come singoli e corpi come interazioni) provengono ancora dalla scuola della Gestalt Therapy Kairos. L’intercorporeità familiare è Quello sfondo di sensazioni prodotte dallo stare insieme dei corpi: corpi che si toccano, si baciano, si guardano, si parlano, Si avvicinano, ti abbracciano e a volte si scontrano. I corpi, prima ancora che con le parole, comunicano attraverso i sensi e le sensazioni che mi amano si formano. Le radici dell'ansia affondano, quindi, in un mancato adeguato sostegno nell'esperienza del contatto, che comporta l'interruzione e il blocco corporeo del ciclo respiratorio. Ma la patologia subentra solo e quando la situazione che genera ansia si prolunga e si cronicizza. Il sostegno adeguato è specifico delle figure genitoriali, o di chi si prende cura del bambino in modo continuativo di intimo, permetterà al bambino di sentire la sua propria forza per andare avanti e per raggiungere la meta desiderata. la presenza corporea della figura genitoriale è fondamentale perché il bambino sentendosi sostenuto, superi la paura, faccia prevalere il coraggio e raggiunga l'obiettivo desiderato. 2.4. Microanalisi delle interruzioni del contatto Le differenti interruzioni di contatto Poggiano su due assi: - l'angoscia di separarsi per poter essere se stessi (l’ansia di dire “Io”) che anche la fobia dell'autonomia. - l'angoscia di consegnarsi per appartenere (l’ansia del “noi”) che anche la fobia della confluenza. Quando il soggetto non si sente sostenuto, il rompe la paura che interrompe il percorso verso la meta desiderata. L’interruzione del contatto avviene quando l'energia che spinge il soggetto a sentire e ad agire viene bloccata. L’energia che doveva sollecitare al contatto diviene energia trattenuta che si trasforma in ansia e angoscia, e che blocca il processo ed evita il contatto. Il blocco del contatto determinerà, sua volta, dei blocchi psicologici, che proveranno ulteriori blocchi relazionali e cioè incapacità di interagire in maniera strana con gli altri. Pertanto, a seconda del momento in cui l'energia viene bloccata, quindi vivo mettere in atto differenti modalità di resistenza al contatto, che diventeranno Poi demoliti dici di non entrare in contatto con gli altri. Se l’energia viene bloccata, è per mancanza di un auto ed etero sostegno, cioè, rispettivamente, il sostegno interiore che si reperisce da dentro di sé o di sostegno relazionale che si attinge dagli altri (dalle figure di riferimento). Vediamo nel dettaglio le diverse forme di interruzione del ciclo di contatto. a) Confluenza disfunzionale: l’ansia di avvertire il nuovo Nella prima fase dell'insorgenza del bisogno, l'individuo, se non riceve il sostegno adeguato, negherà le sensazioni che il suo corpo avverte, rimanendo aggrappato all'esperienza nella quale si trova anche se non gli dà più nutrimento, proprio perché non riesce a sostenere la “normale” angoscia della separazione. Quindi, non esistono confini di contatto ben definiti tra copro, casa e mondo e il soggetto non avverte nemmeno l’insorgenza di nuovi bisogni. È la fobia dell'autonomia, la paura del sentirsi solo in questo mondo, di separarsi da ciò che erroneamente pensa lo stia sostenendo. Il soggetto vive nell'incapacità di identificare ciò che sente e di identificare i bisogni primari, vive nel “non so”, nel “mi va bene tutto” e nel lasciar decidere gli altri per lui; pur di non farsi abbandonare e restare solo subisce ogni decisione e quindi ogni violenza psicologica e fisica. Siamo nella fobia della separazione, nell'impossibilità di identificarsi come persona autonoma e capace di vivere da sola. b) Introiezione (fase dell’orientamento): l’ansia di identificare le sensazioni Se l'individuo avverte l'emergere delle sensazioni del bisogno inizia la seconda fase, ossia l'identificazione del bisogno e l'orientamento sul da farsi. Se l'interruzione avviene in questo momento del processo, invece di fidarsi di se, il soggetto si attacca in modo inconsapevole ai cosiddetti “introietti” ingoiati, che sono gli apprendimenti avvenuti in precedenza, cioè tutto ciò che l'ambiente (genitori, nonni, parenti, fratelli, insegnanti) ha messo dentro l'individuo senza che gli abbia potuto “masticarlo”. Gli introietti possono impedire o falsificare la direzione da prendere per soddisfare il proprio bisogno. La persona, non riuscendo ad identificare il suo bisogno, va a cercare dentro di sé ciò che è stato detto da altri su questo bisogno, facendo confusione tra ciò che gli altri hanno detto e ciò che lei non riesce neppure a sentire ma che pensa sia il suo stesso bisogno. In questa fate, il blocco è costituito dalla paura di assumersi le responsabilità di identificare il bisogno. In questo caso l’Io è troppo piccolo per autodeterminarsi e far valere la sua autorità, la sua capacità decisionale, per cui preferisce non deludere l'altro e lasciare che l'altro scelga al posto della persona (prevale il Tu). La persona preferisce accontentare l'altro illudendosi che è lei stessa a scegliere ciò che le piace, mentre invece è la persona sofferente che accontenta inconsapevolmente l'altro e non accontenta se stessa. A livello corporeo, l'interruzione crea sorrisi forzati, desensibilizzazione del palato, nausea e incapacità di masticare il cibo fino in fondo. Molte dipendenze, tra cui l’alcolismo e disturbi alimentari, rientrano in questa fase. c) Proiezione (fase della manipolazione): l’ansia di avvertire l’eccitazione Nella fase del ciclo di contatto della manipolazione e dell'azione, il bisogno è emerso, il soggetto lo ha identificato e sente crescere l'energia sempre più per continuare il suo cammino verso l'ambiente. Questo crescendo di energia, da una parte, intensifica la paura del soggetto di non sapere come andrà a finire e, dall'altra, attiva il corpo che si sente sempre più pronto per il contatto. Ma, in mancanza di sostegno adeguato cioè del sentirsi contenuto da una presenza anche corporea rassicurante, l'individuo sentita quest'energia, questa eccitazione organismica troppo grande per lui che, invece si sente troppo piccolo. Se l'eccitazione avvertita diventa Insopportabile, la persona non la riconoscerà come sua e tenderà ad attribuirla all'ambiente, all'altro. Sicuramente non avendo la forza di sostenere la sua energia, il soggetto preferisce scaricare la sua tensione, rinunciando e raggiungere la meta. La persona pensando che l'energia che sente appartenga all'ambiente non sia sua, proietta sull'ambiente (sull'altro) ciò che egli stesso sente, le sue proprie emozioni. Questo lo renderà il provocatorio, confermando il fatto che l'emozione che prova non è sua ma proviene dall'ambiente. Nella proiezione, livello corporeo ciò che tipicamente si verifica è la contrazione oculare, cioè gli occhi offuscati, fissi e buoni nello stesso tempo. Un esempio che ci aiuta a chiarire meglio questa interruzione proiettiva consiste nel fatto che se una persona è arrabbiata (bisogno emerso) e non riesce a far venire fuori questa rabbia, sposterà sull'altro la propria rabbia, attribuendola a lui è incolpando del fatto che è sempre arrabbiato, quando invece la rabbia appartiene alla persona sofferente che non riesce a dar voce e corpo alla sua stessa rabbia. d) Retroflessione: l’ansia di consegnarsi Quando il bisogno è emerso ed è stato identificato, l'eccitazione ha raggiunto l'intensità necessaria e la persona sente come proprie emozioni ed energia, Allora il soggetto è pronto per l'azione decisiva del contatto: consegnarsi all'altro, per poco o tanto tempo. In questa fase la paura raggiunge il suo Massimo Livello. ma anche il coraggio è vivo e presente. Se il sostegno sarà adeguato, il coraggio sarà più forte della paura ed avvertirà finalmente il contatto pieno, la crescita della persona e la soddisfazione. Se, invece, il sostegno specifico (una presenza disponibile ma non oppressiva e non richiedente) verrà mancare, il soggetto, impaurendosi un incontro nel quale sente che gli viene richiesto troppo, sentirà la sfiducia nell'ambiente, che percepirà come piccolo e richiedente. Proprio mentre era in prossimità del contratto finale, in dirittura d'arrivo, l'individuo blocca l'azione appropriata e si ritira sfiduciato. Così, l'energia inverte la propria direzione e, invece di procedere verso l'ambiente, si ritorce verso l'individuo stesso; perché ha incontrato quello che allora costituiva per lui un’opposizione insuperabile. L’ambiente – per la maggior parte altre persone - si è mostrato ostile riguardo ai suoi tentativi volti al soddisfacimento dei propri bisogni, l’ha frustrato e punito In questo blocco del ciclo di contatto, l'individuo vive come fortemente distruttiva e intollerabile l'esperienza del rifiuto, dell'umiliazione, o della perdita di controllo della situazione. Dal punto di vista corporeo, l'ansia determinerà una contrazione inconsapevole di tutti i muscoli, e l'aggressività e la sessualità finiranno per essere rivolte contro e verso se stessi. Qui Il soggetto viene travolto dalla fobia del legame e dalla paura di ferire e soprattutto di essere ferito, al punto tale che il soggetto raggiunge livelli di sensibilità che rasentano la permalosità, li intoccabilità. Il soggetto è interamente talmente fragile, fragilità da lui non riconosciuta, che resta male e si sente umiliato per qualunque cosa gli venga detta o fatta che non sia sentita da lui come complimento o elogio. Questa situazione e ti dirà di chi nella vita si fa da sé, di chi è cresciuto senza aver potuto chiedere alle persone di riferimento, a coloro che avrebbero dovuto prendersi cura di lui e non l'hanno fatto o non l'hanno saputo fare in maniera appropriata. Questa è la situazione di chi ha provato a chiedere e non è stato ascoltato, o di chi semplicemente avrebbe dovuto ricevere ciò che è giusto che un bambino riceve riceva e invece non ha ricevuto o ha ricevuto l'opposto di ciò che chiedeva. Da adulto, questa persona continuerà a non chiedere mai, facendo tutto da sé, sbrigandosela in tutto da solo per paura di essere ancora una volta deluso e umiliato. sfugge spesso induce a tentare di ottenere quello che non si è riusciti ad avere prima, in modi alquanto discutibili. Si pensi ad esempio, ai tentativi di maternità e di paternità, quando il corpo biologico è strutturato in maniera tale da rigettare qualunque tentativo naturale. Lo stesso vale per l'ossessione di restare giovani e belli con diete, chirurgia di tutti i generi ed attività sportive non più proporzionate all'età biologica. Sono tutte attività animate dal tormento di recuperare un tempo perso e dal tormento di non accettare il tempo che passa. Remo Bodei richiama l’uso del metronomo per mostrare come nella nostra vita ci siano situazioni in cui è necessario conservare un ritmo di “adagio maestoso” (andare ad un tempo lento), o di “andante con brio” (andare più velocemente), oppure di “presto” (un tempo velocissimo). Da questa metafora danzante si comprende che, all'interno di quello che è il nostro tempo vissuto dobbiamo tener conto dei nostri ritmi vitali e delle circostanze. Ci sono volte in cui sembra che il caos, disordine, regni sovrano nella frenesia della nostra vita, sia sociale che personale. Ma, a volte, è proprio dal disordine e dal caos che può nascere un nuovo ordine, perché nella vita non tutto può essere chiaro e ordinato, sempre e subito. CAPITOLO SESTO La sete generativa di desiderio: alterità e pienezza di vita 1. Sete come desiderio e desiderio come sete di alterità Diventa indispensabile analizzare la sete intesa come desiderio e il desiderio come sete di pienezza di vita e di alterità. Il desiderio costituisce il motore primario dell'esistenza, infatti pur essendo sempre determinato non trova mai piena soddisfacimento e si ripropone quasi come rinascesse di continuo. Il desiderio è un'esperienza umana connessa sia con il piacere che col dolore, generativa di felicità ma anche di infelicità. In una società del consumo, come quella tipica del mondo occidentale, la sete è molto spesso ridotta a un gesto consumistico. Se la sete è sempre desiderio di, vi sono alcune domande che è necessario porsi: noi assetati cosa desideriamo veramente? Siamo capaci di distinguere un desiderio vero da uno camuffato, o da un bisogno? Nel cammino della sete chiedersi cosa desideriamo veramente finisce per coincidere con la domanda di senso più profonda che diviene: "chi sono io?", "Che senso ha la mia esistenza?", "perché vivo?". Ma essere per se stessi non è l'obiettivo della vita: in realtà è uno strumento attraverso cui raggiungere una certa sicurezza di sé. Ma non basta, perché se alla fine non ci si apre a nessuno non si è nessuno. Il desiderio è sempre associato a qualcosa che ci trascende, ci supera e ci apre all'alterità, il grande mistero della vita di ogni uomo. Infatti, Jacques Lacan associa il desiderio alla figura dell'altro, proprio perché non è un’esperienza autoreferenziale narcisistica dell'Io, ma è sempre esperienza di un'alterità che oltrepassa l'Io. Mentre Lacan considerava il credersi un Io la vera malattia mentale che affligge l'uomo forse è proprio quando l'essere umano riesce a dire con pienezza Io desidero, Io ho sete, Io ho bisogno, che subentra invece la condizione e la possibilità perché egli si faccia più mendicante, più aperto all'alterità e, quindi più pienamente umano. Accogliere ciò che trascende l’Io non vuol dire necessariamente ridurre la sua potenza o indebolire la sua soggettività, quanto piuttosto verificare i suoi limiti, le sue fragilità e di includere il mistero di qualcosa che lo sovrasta senza fargli perdere integrità. Rimane comunque interessante l'analisi di Lacan sul desiderio. Desiderare significa volersi sentire desiderati, voler essere riconosciuti dall'altro, voler avere un valore per l'altro, volersi sentire qualcuno per l'altro. Il desiderio come desiderio dell'alterità mostra che il desiderio umano ha una struttura relazionale, poiché è un processo che nasce dall’Io e si dirige verso l'altro, ma è anche vero che può nascere dall’Io solo se l'altro mostra interesse a venire verso di me o se l'io e l'altro si avvicinano reciprocamente. Bisogna sempre fare i conti non solo con L’Io desiderante bisognoso dell'altro ma anche con l'altro da me desideroso e bisognoso di me. Ciò che è in mio potere è il mio desiderio di qualcuno ma non è in alcun modo il mio potere il fatto che qualcuno possa desiderare me, realtà che può essere vissuta solo come dono gratuito. Il desiderio dell'alterità non si soddisfa con l'appropriazione dell'altro, dell'oggetto del desiderio, né dei suoi beni (desiderio invidioso). La soddisfazione del desiderio dell'altro, invece, si nutre del suo riconoscimento, della parola che viene dall'altro, della presenza. Il desiderio di essere riconosciuti dall'altro diventa l'esperienza di un incontro tra la singolarità dell'altro e la nostra singolarità più propria. Desiderare di avere sempre un posto nel desiderio dell'altro è il desiderio di ogni essere umano. 2. Desiderio come mancanza mai completamente soddisfatta Nel mercato capitalistico occidentale, il desiderio è il sollecitato, rappresentato ed orientato nei modi più vari. Così le nostre società ed i mercati impongono il consumo come criterio è fonte di felicità, trasformando il desiderio in una trappola. Ogni volta che pensiamo di appagare la nostra sete in una vetrina, in un acquisto, in un oggetto, in un continuo scambio di partner, ne usciamo sempre più assetati e con un vuoto interiore sempre più profondo. ci sono molti modi per ingannare i nostri desideri e illuderci di stare inseguendo quello giusto. Ma, se desiderare è inevitabile, sta a noi decidere cosa e come desiderare. Si può dire anzi che imparare a desiderare è una competenza necessaria nella vita, che ne decide probabilmente pure la qualità. Può accadere, infatti, che si faccia l'errore di desiderare qualcosa al posto di qualcos'altro perché non si riesce a capire ciò di cui si ha realmente bisogno e, in questo modo, si rischia di rimanere sempre insoddisfatti, perché si insegue un desiderio che non è quello reale. è questo il motivo per cui l'educazione al e del desiderio dovrebbe essere un momento fondamentale del processo educativo, un compito da non sottovalutare. Da qui l'invito a rallentare il nostro passo ed a diventare consapevoli dei nostri bisogni. Il tratto costitutivo del desiderio è la mancanza, infatti scrive Galimberti nessuno desidera ciò che ha ma solo ciò che non ha. desiderare è sempre desiderare qualcosa, Qualcosa che mi attrae, che muove la mia esistenza verso una direzione. ma nel momento in cui non riusciamo a soddisfare il nostro desiderio e rinunciamo sia ad esso che alla sete cominciamo a morire lentamente. Bisogna esaminare attentamente le motivazioni che spingono una persona a devitalizzare il desiderio e quindi la sete, poiché non sempre la causa è l'eccesso di beni quanto piuttosto la loro mancanza oppure la loro vuotezza. Proprio perché viviamo nella società dell’overdose, la felicità sembra essere usa e getta dove il desiderio è sempre mutevole, liquido e inafferrabile anche quando riguarda oggetti legami e persone; tutto si usa finché serve e poi si butta via. Ecco perché abbiamo bisogno di ritrovare il desiderio e per fare ciò è necessario che ciascuno di noi riconosca la sua vulnerabilità e le sue fragilità, accettando di poter chiedere all'altro di essere aiutato nell'intraprendere questo percorso. In questo quadro, una delle sfide più impegnative è diventata quella di distinguere cosa è da considerare positivo e cosa invece è pericoloso, inutile o falso e, quindi, da lasciare ed evitare. La prima competenza da apprendere, pertanto, è il riuscire ad essere consapevoli di cosa si desidera davvero, cioè interpretare il desiderio che è in noi. Saper desiderare significa anche saper attendere, essere capaci di dilazionare nel tempo il raggiungimento dell'obiettivo del desiderio, accettando le condizioni necessarie (scelte, rinunce, tattiche, sofferenze ecc) perché questo diventa possibile. Un'altra competenza che occorre maturare riguarda il modo in cui è opportuno rapportarsi con le proprie attese. ogni persona, partire dalle proprie esperienze, costruisce uno stile personale e adotta delle strategie che dovrebbero condurla alla realizzazione delle aspettative. se è vero che non esistono unico stile giusto Vincente, è pur vero che c'è una linea di demarcazione tra stili di attesa personali patologici e rigidi e stili di attesa sani e flessibili, che permettono alla persona di adattarsi alle circostanze e di individuare l'obiettivo da conseguire e la strada da percorrere. L’esperienza stessa del desiderio può diventare strategia vincente soltanto se non alimenta aspettative realistiche, in senso individualistico, e si trasforma invece in un percorso maturativo della persona e occasione di sviluppo delle sue potenzialità. La tensione alla realizzazione dell'obiettivo del desiderio, in questo caso, non rimane vincolata sempre e soltanto a se stessi (stile relazionale narcisistico), ne legata esclusivamente alla presenza di un'altra persona (stile relazionale dipendente), ma si apre all'alterità in senso più ampio, con percorsi di crescita comune (stile dialogico e cooperativo) basati sulla capacità di dare e chiedere aiuto. 3. Il tempo che stiamo disimparando Spesso la nostra insoddisfazione deriva dal volere tutto e subito e dalla nostra incapacità di attendere. Siamo diventati incapaci di vivere la gioia del presente perché viviamo sempre in attesa di qualcosa di migliore, il più forte, di più intenso: ma questa infinita a testa ci mette nelle condizioni di non vivere mai l'attimo presente, il qui e ora che ci è dato, che l'unico di cui abbiamo certezza. Invece, bisognerebbe capire che il momento presente conduce l'uomo alla valorizzazione delle piccole cose di ogni giorno. All'interno dell'esperienza, e soprattutto di quella educativa, è fondamentale porre attenzione ad alcune declinazioni del tempo che oggi stiamo perdendo, e che dovremmo recuperare, che sono:  saper attendere  saper dirigere-assimilare  saper sperare 3.1. Saper attendere L’essere umano è chiamato non solo a custodire ma anche a coltivare. Ma il coltivare non dovrebbe mai trascurare il coltivare. Il seme del desiderio, si semina in terreni preparati, di cui ci si è presi cura, cioè in una terra ben lavorata che consente di rivoltare le zolle e di rimuovere tutto ciò che è superfluo. Questo lavoro preparatorio e ciò a cui ogni educazione dovrebbe mirare, e cioè conoscere dapprima l'animo dell'educando e aiutarlo a sminuzzare le zolle della sua vita. Sminuzzare le zolle significa fare un lavoro di microanalisi interiore alla ricerca di alcuni fatti importanti della sua storia, intervenendo con strumenti idonei. Dopo aver ripulito il terreno, bisogna lavorarlo allo scopo di renderlo soffice E drenante, o sia facilmente permeabile all'acqua. È un lavoro Non facile, che richiede la pazienza, la costanza e la competenza tipica dell'agricoltore, il quale si prende cura della sua terra. Egli la esplora palmo a palmo, la conosce nella sua composizione e nelle sue potenzialità così come nelle sue carenze e soltanto dopo può intervenire in modo mirato per prepararla e farle generare frutti copiosi. Come non c'è terreno che non abbia bisogno di attenzione, lavoro, concimi e fertilizzanti, così non c'è persona che non necessiti di cure di sostegno personalizzati in relazione ai propri bisogni, problemi e risorse specifici. Analogamente, non c'è terreno che siano assoluta improduttivo né persona che possa essere considerata irrecuperabilmente perduta. Molto dipende dai contenuti, dalle modalità è dai tempi degli interventi di cura, ma soprattutto dal tipo di relazione interpersonale che si instaura tra gli interlocutori. Chi esercita funzioni educative, sia Esso genitore, l'insegnante, educatore a qualsiasi titolo, deve fare preliminarmente un serio lavoro di riflessione di consapevolezza su di sé per apprendere a comprendere e relazionarsi con sé stesso e con gli altri in modo adeguato. È questo lavoro che cerca di evitare di ferite, blocchi, danni personali ai soggetti più fragili. La sensibilità e la capacità empatica maturata dagli educatori/ formatori diventano spesso L'unico strumento efficace per incontrare l'altro nella sua sete e per motivarlo a scavare il pozzo di cui ha bisogno per dissetarsi. L’educatore Consapevole di sé sa bene che occorre avere sempre un'idea di progetto sul tempo opportuno in cui intervenire, su Come ridare problemi ed errori ecc. che la verifica dell'errore educativo, in genere, è visibile da risultato ovvero in ambito relazionale-educativo la demotivazione e la fuga dell'interlocutore. Un altro elemento da non sottovalutare è il tipo di contenitore nel quale sono pianta di semi di cui ci stiamo prendendo cura. Così, in ambito educativo è bene provvedere a dare Maggiore sostegno quando il terreno (il contesto) nel quale è cresciuta la persona è stato difficile ed aspro ed i semi (la persona con i suoi desideri) sono stati abusati, usurpati e maltrattati. Tante sono le potenzialità del Lavoro formativo per il quale occorre prepararsi adeguatamente. Ma è anche vero che gli strumenti educativi basilari stanno già dentro ogni persona, sono lì in attesa di essere perfezionate migliorati, mattutine siamo già in possesso che vengono dal buon senso e dall'esperienza di vita personale e dai propri dolori e dalle proprie ferite. Può accadere che siano le situazioni o le persone che ci chiedono aiuto a tirar fuori da noi delle energie e delle competenze che ritenevamo di non possedere. Non si nasce educatori, lo si diventa. Anzi, è proprio l'educando che ci fa diventare educatori, così come figli fanno diventare l'adulto un genitore. 5. Non lavorare durante la pioggia: il paese delle lacrime Vi sono alcune condizioni alle quali bisogna Prestare particolare attenzione, durante le quali è preferibile evitare di lavorare il terreno, come per esempio durante la pioggia o quando è appena piovuto. anche nella relazione educativa non è bene lavorare in quel momento e forzare il terreno già bagnato dall'acqua delle lacrime. Le lacrime raccontano la sete e le fragilità, le attese, i desideri non realizzati e le delusioni. Ma le lacrime manifestano e narrano anche la sete di vita e di relazione. Fin da bambini, infatti, il pianto indica la sete di relazione, quel richiamo fatto alla persona che si prende cura del piccolo. Le lacrime ci rendono più umani e la nostra storia può essere raccontata anche attraverso le nostre lacrime: di gioia, di tenerezza, e anche di buio, di abbandono. Chi non sa piangere autenticamente, non sa neppure ridere autenticamente, poiché solo colui che ha conosciuto il dolore può vivere più pienamente la gioia. Nessuno ci insegna a piangere da bambini poiché nasciamo con questa abilità innata. Ma se il pianto è un pianeta molto conosciuto dai bambini non si può dire lo stesso per gli adulti, che invece lo abitano con timore o non lo abitano ha fatto. Dobbiamo imparare ad aprirci al “senso delle lacrime”. Noi adulti abbiamo paura di conoscere il paese delle lacrime, che in genere rappresenta la parte spiacevole dell'esistenza, quella del dolore e della sofferenza. Il pianto è un linguaggio, una modalità di esprimere ciò che si prova e le lacrime sono parole non verbali e sono la calligrafia dell'anima. Potrà capitare che dimenticheremo le persone con cui abbiamo riso, ma mai dimenticheremo quelle con cui abbiamo pianto. Il pianto è un mezzo per restare in contatto, anche se chi assiste al pianto di un'altra persona può provare una certa difficoltà ed un certo imbarazzo nel cercare parole e gesti che siano adeguati. Inoltre, le lacrime sono più facili da piangere che da spiegare e talvolta vedere piangere è molto più doloroso che piangere. Le lacrime mettono a nudo la persona che si commuove e sono espressione di tutto il nostro corpo e della nostra anima, e non solo dei nostri occhi. Infine, le lacrime esprimono anche la gioia, la commozione, la sorpresa, l'arrivo del l'atteso e del senso. Sono il segno di un'indicibile che ci abita e che ha bisogno dei nostri occhi per potersi manifestare. CAPITOLO SETTIMO Sete di libertà generativa e “deponente” 1. La generatività come pienezza e misura nell’età di mezzo Se la sete rimanda ad una sensazione di carenza e di vuoto, la generatività, invece, suggerisce un'immagine di ricchezza e di pienezza. Ecco perché col termine generatività, solitamente, ci si riferisce a ciò che attiene alla fase adulta del ciclo di vita. In essa vengono a maturazione processi, potenzialità e capacità umane che qualificano il soggetto. Secondo Erikson, se ben vissuta, l'adultità è la stagione della vita in cui l'uomo, avendo strutturato la sua identità, sa chi è, cosa vuole, sperimenta il senso di appartenenza e di autonomia e assapora il pieno inserimento nella realtà che lo circonda (familiare, lavorativa e sociale). Inoltre, secondo le riflessioni di Erikson e di Kernberg, ciò che determina in maniera netta l'appartenenza all'età adulta è la capacità ed il desiderio di generare e, soprattutto, la capacità di prendersi cura di ciò che si è generato, con responsabilità. Tuttavia, se nel corso della propria infanzia l'adulto non ha potuto sperimentare in modo costruttivo la fiducia nel mondo esterno e nella comunità di appartenenza, nell'età di mezzo avrà più difficoltà, se non impossibilità, a generare e a prendersi cura di qualcuno. In questo caso la generatività farà posto alla sterilità (fisica e interiore). La piena adultità è l'età in cui si sperimenta la crisi del limite come ritiene Romano Guardini, l'età in cui si fanno i conti tra ciò che si vorrebbe essere e ciò che in realtà si è diventati (sé ideale e sé reale), che costringe l'individuo a rivedere se stesso e a chiedersi: "ma cosa sto facendo ora che sono diventato grande? E cosa avrei voluto fare che non ho fatto?" Qui l'adulto sviluppa la consapevolezza che le sue risorse non sono inesauribili e quindi compare la stanchezza, la voglia di riposare e di fermarsi. è la stagione in cui appare il senso del limite, in cui si provano delusioni, rimorsi e disincanto. L'adulto può reagire a questa crisi in vari modi: può scegliere di restare o di regredire nelle fasi precedenti del ciclo vitale e non avresti all’adultità, chiudersi in un insormontabile pessimismo, può rifugiarsi nel lavoro, può scegliere la via della trasgressione assumendo comportamenti prima impensabili (relazioni extraconiugali con persone molto più giovani, abbandono della famiglia, gioco d'azzardo ecc). Ma, a questa stessa crisi, l'adulto può reagire, anche, accettando il limite della mezza età; la sensazione di essere logorato dal lavoro e dalla famiglia può portare ad un rinnovato interesse per la vita, e può dar luogo ad opere che abbiano più valore esistenziale e che durano nel tempo. In questo consiste la capacità generativa, che non è solo la possibilità biologica di generare una nuova vita, ma è una generatività simbolica che punta verso desideri, bisogni, convinzioni e comportamenti nuovi. Generativo verso l’avvenire, verso l’altro (dimensione intersoggettiva), verso gli altri (dimensione sociale) e verso le altre generazioni (dimensione intergenerazionale). Generativo, ad esempio, può essere un educatore che aiuta interiormente una persona a venire alla luce, a rinascere e a credere nuovamente in sé stessa, nel porsi le domande che l'aiuto una compra Il passo successivo nell'ascoltare le domande che la vita le pone e quando la mette di fronte a dei bivi. 2. Sete e desiderio generativi: il grembo come luogo di interminabile bellezza L'idea della generatività riconduce una parola chiave, il grembo ossia il luogo dove si conseguisce la vita in senso biologico e spirituale. La prima caratteristica della generatività è quella di far incontrare le persone e di metterle in relazione poiché è solo nell'incontro da due persone, cioè nella relazione, che si può generare. Non si può degenerare da soli punto l'opposto della generatività Infatti è la sterilità e la stagnazione dell'io. La sete è il desiderio sono due elementi essenziali per la generatività la quale, per compiersi, necessità di entrare nella logica del “grembo”, del dono, che si coniuga nelle due forme del saper donare e del sapersi donare. La forma più espressiva del dono di sé è il donare il Ma, come fa notare opportunamente Enza Colicchi, non è immaginabile una libertà senza legami. Purtroppo, invece, nella società di oggi si continua ad aver paura di perdere la libertà, di non poter fare tutto ciò che si vuole, di legarsi ad una persona e ad un affetto. Come abbiamo già accennato, dalla sete si può riscoprire una sorgente di energia tale da farla diventare generativa, capace di aiutare a crescere la persona e di conseguenza una libertà generativa che rende possibile lo stare in relazione con se stessi, con gli altri e con il mondo. la libertà diviene generativa quando Consente all'individuo di uscire fuori dal suo narcisismo e che accetta di rendere conto anche agli altri della propria libertà e delle sue scelte politiche, economiche, sociali ed educative. generativa e quella libertà che impegna tutti nel costruire una umanità più solidale, più aperta e meno imprigionata nei confini delle proprie frontiere, in un'ottica interculturale. 5. La libertà come un agire per-dono La libertà è uno degli obiettivi educativi più importanti ed educare al per-dono è una questione che è sempre stata difficile da comprendere e da accettare, e lo è ancor di più oggi soprattutto per la mentalità dell’uomo e della donna del XXI secolo. Questi ultimi sono ormai abituati alla logica del commisurare le relazioni in proporzione ai favori che si possono ottenere. Non siamo più abituati al gesto gratuito perché va contro la concezione individualistica moderna. La gratuità, così come il perdono, è un gesto che può nascere solo da un cuore libero, capace di generare una relazione non mossa da utilitarismo. Donarsi gratuitamente significa dare la propria presenza, il proprio tempo, il proprio volto all’altro. Secondo Hanna Arendt, l’uomo è capace di azioni e a queste corrispondono delle reazioni e delle conseguenze espresse dagli individui verso cui si rivolgono, soprattutto quando si tratta di azioni violente. In quest’ultimo caso la facoltà che permette di uscire dalla spirale di una catena di, probabile, violenza (rivolta a tizio e ricevuta, come conseguenza, da lui) è quella del perdonare. Il perdono è un’etica iperbolica, un’etica al di là dell’etica. Sia che si tratti di perdonare qualcuno, sia che si perdoni qualcosa a qualcuno, il perdono resta una forma etica di educazione alla ricchezza della libertà, della comprensione e dell’accettazione del proprio e dell’altrui limite. Esistono dei crimini contro l’umanità, sia del passato che nel presente, che si fa davvero fatica pensare di poter perdonare e necessitano di una tale libertà e grandezza d’animo che pochi possiedono. Si pensi, ad esempio, ai crimini hitleriani contro innocenti in nome di una logica politica. Per crimini come questi come è possibile il perdono? Il perdono, perdonando ciò che non è scusabile e che è ingiustificabile, non muta il male commesso, che resta sempre tale, ma assume il male come passato, senza far dimenticare l’ingiustizia subita. Si può perdonare, infatti, solo ciò che non è stato dimenticato ed è il ricordo del male ricevuto che apre la strada al perdono. Il perdono è l’esatto opposto della vendetta, che consiste nel reagire ad un’offesa e nel creare reazioni a catena in un crescendo inarrestabile di violenza e di odio. Diversamente dalla vendetta, il perdono agisce in modo inatteso, inaspettato e gratuito. Infatti, il perdono è dato anche quando non è richiesto, anche quando è immeritato ed è un atto completamente gratuito. Concetta Sirna descrive il perdono come la capacità dell’uomo del compiere l’inatteso. Senza essere perdonati e senza perdonare non saremmo mai liberati dalle conseguenze di ciò che abbiamo fatto e di ciò che gli altri hanno fatto a noi. Ed è capace di perdono solo un cuore ricco di sete, di amore, di libertà, di capacità di superamento della logica razionale. La vera libertà è la possibilità di non restare ingabbiati nel calcolo del male ricevuto e di quello commesso, e di uscire dalla logica della ritorsione, della rivalsa e della rivincita. Il perdono non è mai un atto di debolezza ed una sconfitta ma è dimostrazione della grandezza dell’uomo. L’elemento fondamentale per perdonare è quello di non puntare il dito contro l’altro, di non pretendere che sia lui per primo a cambiare, ma di cominciare da sé stessi. La sete, quando è capace di aprirsi alla gratuità del dono e del perdono, diventa sete generativa, svincolando l’uomo dall’odio, dona la libertà a chi è perdonato e a chi perdona. 5.1. A piccoli passi verso il perdono Innanzitutto, bisogna ricordare sempre che noi non siamo responsabili dell'esistenza del male o del fatto di averlo subito ingiustamente, questo ci libera da ogni giusto senso di colpa. Piuttosto, noi siamo responsabili di come reagiamo al male che abbiamo subito. Ad esempio, non bisogna colpevolizzarsi o vergognarsi del fatto che si prova rabbia dopo aver subito un torto o un'ingiustizia, poiché siamo responsabili solo di ciò che decidiamo di fare di quella rabbia. E se ci dà fastidio qualcosa che sentiamo, il nostro compito è provare a capire cosa vuole dirci. Dare alle emozioni che troviamo (rabbia, collera, odio) il permesso di esistere in noi ci consentirà di comprendere sia cosa vogliamo fare di queste emozioni, sia cosa vogliono dirci, sia quanto siamo feriti. Il perdono ha il grande potere di liberare sia l’offensore che l'offeso: l’offensore da eventuali sensi di colpa, e l'offeso dall'odio e dal rancore che lo legano al offensore. Ma non solo. Il perdono realizza molto di più, perché libera l'offeso dal ripetere su altri il male che egli ha subito a suo tempo. il perdono, cioè, opera una specie di guarigione della memoria perché aiuta l'offeso a vedere le cose sotto altri aspetti, e diverse angolature realizzando una sorta di ammorbidimento del ricordo indurito dal dolore. Ai fini di un percorso maturativo di crescita, pertanto, occorre rinunciare alla volontà di vendicarsi e di punire colui che ha commesso il male. Cedere a questa tentazione significherebbe entrare nella spirale del male senza fine. La condizione per riuscire a perdonare e il riconoscere che soffriamo per il male subito, quella ferita che continua ad influenzare la nostra vita. è necessario riconoscere, cioè, che quel male ci ha privati di quello integrità che avremmo potuto avere e che non abbiamo più, che quella cattiveria subita ci ha resi diversi, forse più duri o magari più fragili e più vulnerabili. Infatti, il male può veramente uccidere una persona o una parte di essa. Nel cammino di guarigione e di crescita è fondamentale, dunque, poter condividere con qualcuno il proprio sentire, il proprio vissuto e il proprio dolore. raccontare la sofferenza a chi sa ascoltare con partecipazione, empatia e vicinanza ha un potere sanante straordinario, perché libera dalla sensazione di solitudine che vive chi ha subito il male e, allo stesso tempo, consente di uscire dalla paura di pensare che quanto accaduto sia inenarrabile e vergognoso. Nel momento in cui si condivide il proprio vissuto, bisognerà dare un nome a ciò che si è perso con il male subito e a ciò che si prova. questa operazione non è semplice né immediata: può correre tanto tempo perché l'offeso diventi consapevole è capace di dare un nome alle sue emozioni e alle sue ferite. Ma solo dando il nome, cioè facendo uscire dall'anonimato il dolore sofferto e, talvolta, guardando in faccia ciò che sta male si può elaborare il dolore. Un altro passo essenziale verso il perdono e dare il perdono a sé stessi. Solo quando ci si sarà perdonati diverrà più possibile comprendere il proprio offensore, non nel senso di discolparlo, di legittimare o difendere il suo gesto (che, in quanto ingiusto, resta sempre un gesto indifendibile), ma comprenderlo nel senso di prenderlo con sé, di guardarlo come un essere umano, forse inconsapevole del male che ha causato in noi, e comunque un essere fragile e limitato, proprio come noi. Questo passo ci consentirà di trovare un senso al male ricevuto, ammesso che sia possibile, il senso di ciò che è avvenuto si scopre pian piano col tempo arrivando a capire che ciascun essere umano può compiere del male e che può ferire l'altro. Pertanto, riscoprirsi sempre bisognosi di perdono ci consentirà di essere più benevoli con la persona che dobbiamo perdonare. Certamente, bisogna mettere in conto che perdonare non implica sempre una risposta grata e altrettanto generosa da parte di chi riceve il dono, perché il perdono può essere anche rifiutato, addirittura può essere donato senza che il perdonato lo venga a sapere. È possibile che il dono non susciti alcuna reazione, così come è possibile che l’offeso risponda al donatore con gratitudine e che, da questa risposta, si possa riaprire la relazione e possa nascere un rapporto nuovo. 6. La libertà “deponente” e il limite La libertà generativa, secondo l’idea di Mauro Magatti, è deponente. Nelle lingue moderne conosciamo solo due modi dei verbi: - attivo, il soggetto compie l’azione - passivo, il soggetto subisce l’azione Nelle lingue classiche esiste anche la forma deponente cioè quella in cui siamo soggetti che compiono azioni ma “deponiamo” un po' della nostra potenza perché ci rendiamo conto che non siamo mai del tutto padrone della situazione anche nel momento in cui agiamo. Nei volumi Prepotenza, impotenza, deponenza e Oltre l’infinito, Magatti articola il discorso attraverso l’analisti dei tre termini: - la prepotenza rappresenta la situazione prodotta dall’esasperazione del concetto di potenza. Quest’ultima è intesa come volontà di agire positivamente su sé stessi e sulle cose, ma quando diventa forma di dominio sulle cose e sulle persone diventa prepotenza. Il prepotente è colui che non accetta limiti alla sua volontà di potenza e tende ad imporsi sugli altri con la forza, facendo prevalere la sua volontà e il suo potere ad ogni costo. - L’impotenza è considerata solo come patologia del corpo e dell’animo ed invece è un luogo prezioso da non sottovalutare. Riconoscere la propria impotenza significa ammettere che non siamo solo volontà di potenza, che volere non sempre è potere e che oltre la mia potenza c’è anche la volontà di potenza dell’altro con cui sono chiamato a confrontarmi. - la deponenza è una potenza che riconosce l’esistenza di altre persone, di altri punti di vista, che accetta di farsi da parte e di restare in silenzio, che ammette i limiti della propria libertà e pone dei limiti ad essa. La de-potenza è ciò che salva dall’onnipotenza ed è l’unico modo di combattere la potenza che diventa prepotenza. Essere in relazione significa riconoscere e porre dei limiti sia alla propria potenza ma anche alla propria libertà, perché bisogna riconoscere che vi sono altri che abitano il mondo insieme a noi. Il concetto di limite cosi, da un lato, ci radica nel reale e, dall’altro, ci apre all’idea di tutto ciò che è possibile. Ogni limite non fa altro che circoscrivere l’orizzonte entro il quale muoversi ed entro il quale avere possibilità di movimento, di scelta e di opportunità. Una libertà ed una sete che non accettano limiti non saranno mai generative. Oggi, però, viviamo radicati in un’idea quantitativa della libertà, per cui riteniamo che quante più cose abbiamo o quante più scelte abbiamo a disposizione, tanto più saremo liberi. Ma la libertà non è quantità, infatti possiamo essere liberi pur avendo pochissimo e persino in condizioni e situazioni che non abbiamo scelto. Il difficile compito dell’uomo di oggi è proprio quello di imparare a vivere la libertà, come scrive la Arendt, in considerazione di