Scarica Le storie di Erodoto (riassunto) e più Appunti in PDF di Greco solo su Docsity! LE STORIE (ERODOTO) LIBRO 1 PROEMIO Questa è l'esposizione della ricerca di Erodoto di Alicarnasso, perché né le imprese degli uomini siano dimenticate a causa del tempo, né le gesta grandi e meravigliose dei Greci e dei Barbari giacciano senza fama, ed inoltre per quali ragioni essi vennero alle armi gli uni contro gli altri. I saggi ritengono che colpevoli delle ostilità furono i Fenici di Persia. Costoro, infatti, dopo essere giunti dal mare che ha il nome di Eritreo ed essere emigrati in quella regione che oggi ancora occupano, subito intrapresero grandi viaggi e, trasportando prodotti egiziani ed assiri, giunsero – fra le altre città – anche ad Argo, che allora si trovava ad essere la più fiorente fra le città di quella regione che ora è definita Grecia. Dopo essere dunque giunti ad Argo, mettevano in vendita le proprie mercanzie. Dopo che essi ebbero venduto quasi tutto, molte donne vennero alle spiagge, e tra di loro anche la figlia del re, che, come anche i Greci raccontano, si chiamava Io, figlia di Inaco. Le donne, stando presso la poppa della nave, compravano da loro i prodotti che apprezzavano di più. I Fenici, allora, incitandosi l’un l’altro, le assalirono. Per lo più riuscirono a fuggire, tuttavia Io fu rapita assieme ad alcune altre. Poi i Fenici, caricatele sulla nave, salpano per l’Egitto. I RAPIMENTI MITICI E LE ORIGINI DELLA GUERRA I Persiani, dunque, sostengono che fu questo il modo in cui Io giunse in Egitto – e non come invece pensano i Greci – e dicono che questo fu l’inizio della guerra. Raccontano anche che alcuni Greci, di cui non posso fare i nomi, dopo essere arrivati a Tiro, in Fenicia, abbiano in seguito rapito Europa, la figlia del re – questi tuttavia potrebbero essere stati dei Cretesi. I Greci, a dire il vero, furono responsabili del secondo gesto di offesa, dopo che si era già giunti al pareggio dei conti. Dopo essere infatti arrivati ad Eea in Colchide, infatti, completato l’incarico per il quale erano stati inviati, rapirono Medea, la figlia del re. Il re, tuttavia, inviò un messaggero in Grecia perchè recuperasse la figlia ed ottenesse la riparazione del torto subito. I Greci, tuttavia, rispondono dicendo che, come i Fenici non avevano saldato il debito per il rapimento dell’argiva Io, anch’essi si sarebbero rifiutati di riparare al torto commesso. [3] Affermano alcuni che il figlio di Priamo, Alessandro, avuto notizia di queste imprese, abbia voluto rapire una donna greca per averla in moglie, ben sapendo che non avrebbe dovuto riparare al proprio torto, perchè (i Greci) non l’avevano fatto. Così rapì Elena e subito i Greci inviarono messaggeri perchè la donna fosse restituita ed il torto riparato. IL RAPIMENTO DI ELENA Raccontano poi che alla generazione seguente Alessandro, figlio di Priamo, volle procurarsi mediante un rapimento una donna greca – avendo egli avuto notizia di questi accadimenti – ben consapevole che non avrebbe dovuto risponderne, dal momento che neppure coloro ne avevano dovuto rispondere. Così, dunque, quando egli rapì Elena, i Greci per prima cosa decisero di inviare degli ambasciatori per chiedere che Elena venisse restituita e che il rapimento venisse risarcito. Tuttavia, a queste richieste quelli che l’avevano rapita risposero rinfacciando il rapimento per parte loro di Medea ed il fatto che costoro chiedessero dagli altri soddisfazione senza averla essi stessi data e senza aver restituito quello che a loro veniva richiesto. DAI RAPIMENTI ALLA GUERRA TRA EUROPA E ASIA Fino a quel momento, dunque, vi erano stati tra di loro solo rapimenti, ma da allora i Greci si macchiarono di una grave colpa. Infatti, essi per primi iniziarono a portare la guerra in Asia, prima che gli altri la portassero in Europa. Ora, il fatto di rapire le donne è considerato un’azione da uomini disonesti, tuttavia il fatto di darsi pena di vendicare le donne rapite è un’azione da folli, mentre è da persone sagge non darsi pensiero delle rapite. E’ lampante, infatti, che – se solo avessero voluto – non sarebbero state rapite. Dunque, i Persiani affermano che loro, originari dell’Asia, non si diedero alcuna pena per le donne rapite, mentre i Greci per una singola donna spartana radunarono una vasta flotta e – giunti in Asia – ebbero la meglio della potenza di Priamo. Da quel momento, considerarono sempre come nemico ciò che era greco. I Persiani, infatti, considerano una loro proprietà l’Asia e le popolazioni barbare che vi abitano, mentre ritengono altro da sé l’Europa e la Grecia. L’ALTERNANZA DELLE VICENDE UMANE I Persiani, dunque, così ritengono che si svolsero le cose, e ritengono che dalla presa di Troia trovi origine la loro ostilità nei confronti dei Greci. Per quanto riguarda invece Io, i Fenici dissentono dai Persiani: affermano infatti di non essere stati loro – ricorrendo al rapimento – a condurla in Egitto, ma che ella ad Argo ebbe una relazione con il capitano della nave. Quando poi si accorse di essere incinta, provando vergogna per i propri genitori, allora essa stessa di sua volontà si imbarcò con i Fenici, per non venire scoperta. Queste dunque sono le versioni di Fenici e Persiani. Io tuttavia non andrò a discutere se i fatti si siano svolti nell’uno o nell’altro modo, ma, dopo aver ricordato colui che so personalmente essere stato il primo a compiere azioni offensive contro i Greci [Creso], proseguirò nel mio racconto, trattando allo stesso modo delle città piccole e grandi degli uomini. Infatti, quelle che in passato erano grandi sono divenute per la maggior parte minuscole, mentre quelle che ai miei tempi erano grandi in precedenza erano piccole. Perfettamente consapevole che la felicità umana non resta mai ferma nello stesso luogo, ricorderò entrambe allo stesso modo. CRESO, RE DEI LIDI Creso era della stirpe dei Lidi, figlio di Aliatte e sovrano delle genti che stavano al di qua del fiume Halys, che, scorrendo da meridione attraverso Siria e Paflagonia, sfocia a settentrione nel mare detto Eusino [il Mar Nero]. Questo Creso, primo tra i barbari che conosciamo, costrinse alcuni Greci al pagamento di un tributo ed altri li trasformò in alleati. Assoggettò Ioni, Eoli e Dori d’Asia e prese invece per alleati i Lacedemoni. Prima del regno di Creso, tutti i Greci prodigio enorme: Arione di Metimna – che era un citaredo, secondo a nessuno tra quelli della sua epoca e primo tra quelli di cui abbiamo conoscenza a comporre un ditirambo, dargli un nome e farlo rappresentare a Corinto – fu trasportato da un delfino a riva fino al Tenaro. SALVATO DA UN DELFINO Quelli fecero rotta verso Corinto, ma si racconta che un delfino abbia portato Arione a riva al Tanaro dopo esserselo caricato sul dorso. Sceso a terra, si recò a Corinto con il suo abito di scena e – arrivato – raccontò tutto quanto era accaduto. Periandro, tuttavia, che non gli credeva, lo fece tenere in custodia, non permettendogli di andare in alcun luogo. Contemporaneamente, però, attendeva l’arrivo dei marinai. Appena giunsero, dunque, dopo averli fatti chiamare chiese loro se gli potessero dare notizie di Arione. Mentre quelli affermavano che era sano e salvo in Italia e che lo avevano lascito in perfetta salute a Taranto, comparve loro Arione, vestito come quando era saltato in mare. Quelli allora, stupefatti e scoperti, non poterono più negare. Questi sono i fatti che raccontano sia i Corinzi che i Lesbii, e a Tenaro c’è una statua votiva di bronzo di Arione, non grande, che raffigura un uomo su un delfino. IL SOGNO DI CRESO Dopo che, poi, Solone partì, una feroce vendetta da parte del dio colpì Creso - per quanto si può pensare - perchè aveva creduto di essere proprio il più felice di tutti gli uomini; dunque subito, mentre egli dormiva, gli apparve un sogno, che gli rivelava la verità delle sciagure che stavano per capitare a suo figlio. Creso, infatti, aveva due figli, dei quali il primo soffriva di un male, infatti era sordomuto, il secondo, invece, si distingueva di gran lunga fra tutti i suoi coetanei, ed il suo nome era Atis. Dunque il sogno rivela a Creso che gli sarebbe morto, colpito da una punta di ferro, questo Atis. Allora egli, quando si svegliò e ragionò fra sé, spaventatosi per il sogno, fece prendere moglie al figlio e, benchè egli fosse solito esercitare il comando militare sui Lidi, non lo inviava più in nessun luogo per azioni di questo genere, anzi, portati via dalle stanze maschili giavellotti, dardi ed ogni altra cosa di quel genere, di cui gli uomini si servono per la guerra, li fece accatastare nella parte della casa riservata alle donne, perchè nessuna di quelle armi che stavano appese cadesse addosso al figlio. ADRASTO, UN OSPITE PORTATORE DI SVENTURA Mentre egli si occupava del matrimonio del figlio, giunge a Sardi un uomo posseduto dalla sventura e dalle mani impure, che era frigio di origine e di stirpe regale. Costui, giunto alla reggia di Creso, secondo le leggi locali chiedeva di ricevere l'espiazione: Creso allora lo purificò. L'atto della purificazione è pressoché identico per i Lidi e per i Greci. Quando dunque Creso compì i riti, gli chiese da dove provenisse e chi fosse, dicendo così: "uomo, chi sei e da quale parte della Frigia sei giunto a me come ospite? Quale uomo o donna uccidesti?". Allora egli rispose: "re, io sono figlio di Gordio e nipote di Mida, e mi chiamo Adrasto ( Nota: alcuni ritengono che Adrasto sia un nome parlante, cioè “l’inevitabile”): dopo aver ucciso per errore mio fratello, eccomi giunto, scacciato da mio padre e privato di tutto". Creso allora rispondeva così: "sei per caso figlio di persone care e sei giunto presso amici, dove, rimanendo presso la nostra reggia, non mancherai di nulla e, sopportando questa disgrazia senza darle eccessivo peso, ci guadagnerai moltissimo. STORIA DI CRESO Questi [Adrasto] dunque prese a vivere presso Creso, e proprio in quel tempo apparve sull’Olimpo di Misia un grosso cinghiale. Partendo da questa montagna, esso devastava i campi dei Misi, e spesso i misi, usciti all’attacco, non riuscirono a fargli alcun male e ne subirono invece da parte sua. Alla fine, alcuni messi dei Misi, giunti da Creso, gli dissero: “Re, un enorme cinghiale è comparso nella nostra regione, e ci devasta i campi. Vogliamo catturarlo, ma non siamo capaci. Ora ti preghiamo di inviare con noi tuo figlio, ragazzi scelti e cani, per poterlo scacciare dalla regione”. Essi dunque chiedevano così, ma Creso, che si ricordava del sogno, rispose loro nel modo seguente: “Non menzionate più mio figlio, non lo manderei con voi: è fresco sposo e queste sono ora le sue preoccupazioni. Manderò invece con voi le truppe scelte dei Lidi e l’intero serraglio dei cani da caccia, e comanderò a quanti andranno di impegnarsi il più possibile perché facciate fuggire la belva dalla regione. E così Adrasto soggiornava presso Creso quando comparve sul monte Olimpo di Misia un grosso esemplare di cinghiale che muovendo dalla montagna distruggeva le coltivazioni dei Misi; più di una volta i Misi avevano organizzato battute di caccia, senza però riuscire ad arrecargli alcun danno, subendone anzi da lui. Infine dei messaggeri Misi si recarono da Creso e gli dissero: "O re, nella nostra regione è comparso un gigantesco cinghiale che ci distrugge le coltivazioni; e noi, con tutto l'impegno che ci mettiamo, non riusciamo ad abbatterlo. Perciò ora ti preghiamo di mandare tuo figlio insieme con giovani scelti e cani, così potremo allontanarlo dai nostri territori". Queste erano le loro richieste, ma Creso, memore del sogno, rispose: "Quanto a mio figlio non se ne parla nemmeno: non lo posso mandare con voi perché si è appena sposato e ora ha da pensare a ben altro. Manderò invece uomini scelti e ogni sorta di equipaggiamento utile alla caccia, e ordinerò agli uomini della spedizione di garantire tutto il loro impegno nell'aiutarvi a scacciare il cinghiale dal vostro paese". Ma mentre i Misi erano soddisfatti della risposta ricevuta, si fece avanti il figlio di Creso, che aveva udito le richieste dei Misi; visto che suo padre si era rifiutato di inviarlo con loro, il giovane gli disse: "Padre, una volta per noi l'aspirazione più bella e più nobile consisteva nel meritarsi gloria in guerra o nella caccia, ma ora tu mi vieti entrambe le attività; eppure non hai certamente scorto in me qualche segno di vigliaccheria o di paura. Con quale faccia ora devo mostrarmi fra la gente andando e venendo attraverso la città? Che opinione avranno di me i cittadini, e mia moglie, che mi ha appena sposato? Con quale marito crederà di convivere? Adesso perciò o tu mi lasci partecipare alla caccia, oppure mi dai una spiegazione sufficiente a convincermi che è meglio non farlo".E Creso rispose: "Figlio mio, io non agisco così perché abbia scorto in te vigliaccheria o qualche altra cosa spiacevole; ma una visione apparsami nel sonno mi disse che tu avresti avuto una vita breve, che saresti morto colpito da una punta di ferro. Perciò dopo il sogno affrettai le tue nozze e perciò ora non invio te per l'impresa che ho accettato: agisco con cautela per vedere se in qualche modo, finché sono vivo, riesco a sottrarti alla morte. Il destino vuole che tu sia il mio unico figlio: l'altro infatti, che è menomato, non lo considero tale". E il giovane gli rispose: "Ti capisco, padre, e capisco le precauzioni che hai nei miei riguardi dopo un simile sogno. Ma di questo sogno ti è sfuggito un particolare ed è giusto che io te lo faccia notare. Dal tuo racconto risulta che il sogno ti annunciava la mia morte come causata da una punta di ferro: e quali mani possiede un cinghiale? Quale punta di ferro di cui tu possa avere paura? Se ti avesse annunciato la mia morte come provocata da una zanna o da qualcosa del genere, allora sarebbe stato tuo dovere agire come agisci, ma ha parlato di una punta. E allora, visto che non si tratta di andare a combattere contro dei guerrieri, lasciami partire". E Creso concluse: "Figlio mio, si può dire che nell'interpretare il mio sogno tu batti le mie capacità di giudizio: e io, in quanto sconfitto da te, cambio parere e ti lascio partecipare alla caccia". Detto ciò, Creso fece chiamare il frigio Adrasto al quale, quando lo ebbe davanti, pronunciò il seguente discorso: "Adrasto, - disse - tu eri stato colpito da una dolorosa disgrazia, che non ti rimprovero, e io ti ho purificato e accolto nella mia casa dove ora ti ospito offrendoti ogni mezzo di sussistenza; adesso dunque, visto che per primo ti ho concesso enormi favori, tu sei in debito verso di me di favori uguali; io desidero che tu vegli su mio figlio che sta partendo per una battuta di caccia, che lungo la strada non vi si parino davanti pericolosi ladroni armati di cattive intenzioni. Oltre tutto non puoi esimerti dal recarti là dove tu possa segnalarti con qualche bella impresa: così facevano i tuoi antenati, senza contare che le tue forze te lo consentono ampiamente". E Adrasto gli rispose: "Sovrano, se non me lo chiedessi tu, io non parteciperei a una simile impresa, perché non è decoroso per me, con la disgrazia che ho avuto, accompagnarmi a giovani della mia età dalla vita felice: non è quanto io voglio, anzi ne farei volentieri a meno. Ma ora, poiché sei tu a spingermi e verso di te io devo mostrarmi cortese, in debito come sono di enormi favori, ora sono disposto a farlo; tuo figlio, che affidi alla mia sorveglianza, per quanto dipende da me fai pure conto di vederlo tornare sano e salvo". Quando Adrasto ebbe dato a Creso la sua risposta, la spedizione partì, con ampio seguito di giovani scelti e di cani da caccia. Giunsero al monte Olimpo e cominciarono a cercare il cinghiale; trovatolo lo circondarono e presero a scagliargli addosso i loro giavellotti: a questo punto l'ospite, proprio quello purificato da Creso, Adrasto, nel tentativo di centrare il cinghiale finì per sbagliarlo colpendo invece il figlio di Creso. Questi, trafitto dalla punta, dimostrò l'esattezza profetica del sogno. Qualcuno corse ad annunciare a Creso l'accaduto: come giunse a Sardi gli raccontò della battuta di caccia e della disgrazia del figlio. Creso, sconvolto dalla morte del figlio, fu ancora più dispiaciuto per il fatto che a ucciderlo era stato l'uomo da lui purificato da un omicidio. Prostrato dalla sciagura, invocava con rabbia Zeus Purificatore, chiamandolo a testimone di ciò che aveva sofferto per mano del suo ospite, e lo invocava come protettore del focolare e dell'amicizia, sempre lo stesso dio ma con attributi diversi: in quanto protettore del focolare perché, avendo accolto nella propria casa lo straniero, senza saperlo aveva dato da mangiare all'uccisore di suo figlio, in quanto protettore dell'amicizia perché lo aveva inviato come difensore e se lo ritrovava ora All'epoca della mia visita entrambi gli oggetti si trovavano ancora a Tebe, e esattamente nel tempio di Apollo Ismenio. Ai Lidi incaricati di portare i doni ai santuari Creso ordinò di chiedere agli oracoli se convenisse muovere guerra ai Persiani e se fosse il caso di aggregarsi qualche esercito amico. I Lidi, giunti a destinazione, consacrarono le offerte e interrogarono gli oracoli: "Creso, re dei Lidi e di altre popolazioni, convinto che questi sono gli unici veri oracoli al mondo, vi destina questi doni degni dei vostri vaticini, e vi chiede se gli conviene muovere guerra contro i Persiani e se è il caso di aggregarsi qualche esercito alleato". Alle loro domande entrambi gli oracoli diedero identica risposta, preannunciando a Creso che, se avesse mosso guerra ai Persiani, avrebbe rovesciato un grande regno; e gli consigliarono di trovare quali fossero i Greci più potenti e di assicurarsene l'amicizia. Venuto a conoscenza dei responsi, Creso se ne compiacque molto: tutto preso dalla speranza di abbattere il regno di Ciro, inviò a Pito una ulteriore delegazione: si informò quanti fossero i Delfi di numero e a ciascuno di loro donò due stateri d'oro. In cambio i Delfi concedettero a Creso e ai Lidi il diritto di precedenza nella consultazione dell'oracolo, l'esenzione dai tributi, il diritto di seggio privilegiato negli spettacoli e la possibilità, per sempre, a ogni Lido che lo desiderasse di diventare cittadino di Delfi. Dopo quei doni Creso si rivolse al santuario per la terza volta: da quando ne aveva riconosciuto la veridicità abusava dell'oracolo. Questa volta chiese se il suo regno sarebbe durato a lungo e la Pizia gli diede il seguente responso: ….”Quando dei Medi re un mulo divenga, tu allor lungo l’Ermo, Ricco di ciottoli, fuggi, re Lidio dai piè delicati; non rimaner, per vergogna di agire da vile fuggendo”….(Quando un mulo sarà divenuto re dei Medi, allora, o Lidio dal piede delicato, lungo l'Ermo ghiaioso fuggi e non fermarti, e non avere vergogna di essere vile). Quando gli giunsero tali parole Creso ne gioì molto più che di tutte le precedenti: non si aspettava certo che un mulo venisse mai a regnare sui Medi al posto di un uomo e quindi né la sua, né la sovranità dei suoi discendenti avrebbero avuto mai fine. Poi si preoccupò di scoprire quali erano i Greci da farsi amici in quanto più potenti, e a forza di indagini risultò che Spartani e Ateniesi prevalevano nettamente all'interno dei loro gruppi etnici, rispettivamente il dorico e lo ionico. Erano in effetti i due popoli preminenti: l'uno di antica origine pelasgica, l'altro di origine ellenica; gli Ateniesi non si erano mai mossi dai territori che occupavano, gli altri avevano compiuto numerosi spostamenti: al tempo del re Deucalione abitavano la Ftiotide, al tempo di Doro figlio di Elleno la regione detta Estiotide alle falde dell'Ossa e dell'Olimpo; cacciati dalla Estiotide ad opera dei Cadmei si erano stanziati a Pindo con il nome di Macedni. Da lì ancora si trasferirono nella Driopide e infine dalla Driopide passarono nel Peloponneso, dove assunsero il nome di Dori. Di quelle due genti Creso venne a sapere che una, la attica, era retta e tenuta divisa dal figlio di Ippocrate, Pisistrato, allora tiranno di Atene. A Ippocrate era capitato un evento assolutamente prodigioso: si trovava ad Olimpia, come privato cittadino, per assistere ai Giochi e aveva appena terminato un sacrificio quando i lebeti, che erano lì pronti, pieni di acqua e di carni, presero improvvisamente a bollire senza fuoco e a traboccare. Lì accanto per caso c'era Chilone di Sparta; egli, osservato il prodigio, rivolse a Ippocrate i seguenti consigli: per prima cosa non sposare una donna in grado di procreare, se invece aveva già moglie ripudiarla e rinnegare il proprio figlio se era già venuto al mondo. Ma non pare proprio che Ippocrate abbia voluto seguire le indicazioni di Chilone: e così più tardi nacque Pisistrato. Gli Ateniesi della costa e gli Ateniesi dell'interno, i primi capitanati da Megacle figlio di Alcmeone, i secondi da Licurgo figlio di Aristolaide, erano in conflitto fra di loro: Pisistrato mirando al potere assoluto diede vita a una terza fazione: riunì un certo numero di sediziosi, si autodichiarò fittiziamente capo degli Ateniesi delle montagne ed escogitò il seguente stratagemma. Ferì se stesso e le proprie mule e poi spinse il carro nella piazza centrale fingendo di essere sfuggito a un agguato di nemici che, a sentire lui, avrebbero avuto la chiara intenzione di ucciderlo mentre si recava in un suo campo; chiese pertanto che il popolo gli assegnasse un corpo di guardia, anche in considerazione dei suoi meriti precedenti, quando, stratega all'epoca della guerra contro i Megaresi, aveva conquistato il porto di Nisea e realizzato altre grandi imprese. Il popolo ateniese si lasciò ingannare e gli concedette di scegliere fra i cittadini un certo numero di uomini, i quali diventarono i lancieri privati di Pisistrato, o meglio i suoi "mazzieri", visto che lo scortavano armati di mazze di legno. Questo corpo di guardia contribuì al colpo di stato di Pisistrato occupando l'acropoli. Da allora Pisistrato governò su Atene senza riformare le cariche dello stato esistenti e senza modificare le leggi: resse la città amministrandola con oculatezza sulla base degli ordinamenti già in vigore. Non molto tempo dopo i partigiani di Megacle e quelli di Licurgo si misero d'accordo e lo cacciarono dalla città. Così andarono le cose la prima volta che Pisistrato ebbe in mano sua Atene: perse il potere prima che si radicasse saldamente. Ma tra coloro che lo avevano scacciato rinacquero i contrasti e Megacle, messo in difficoltà dai tumulti, finì col mandare un messaggero a Pisistrato offrendogli il potere assoluto a patto che sposasse sua figlia. Pisistrato accettò la proposta e fu d'accordo sulle condizioni; per il suo rientro in Atene ricorsero a un espediente che io trovo assolutamente ridicolo, visto che i Greci fin dall'antichità sono sempre stati ritenuti più accorti dei barbari e meno inclini alla stoltezza e alla dabbenaggine, e tanto più se in quella circostanza attuarono effettivamente un simile disegno in barba agli Ateniesi, che fra i Greci passano per essere i più intelligenti. Nel demo di Peania viveva una donna, di nome Fia, alta quattro cubiti meno tre dita e per il resto piuttosto bella. Vestirono questa donna di una armatura completa, la fecero salire su di un carro, le insegnarono come atteggiarsi per ottenere il più nobile effetto e la guidarono in città facendosi precedere da alcuni araldi, i quali, giunti in Atene, secondo le istruzioni ricevute andavano ripetendo il seguente proclama: "Ateniesi, accogliete di buon grado Pisistrato: Atena in persona, onorandolo sopra tutti gli uomini, lo riconduce sulla acropoli a lei dedicata". Facevano questo annuncio percorrendo la città e ben presto la voce si sparse fino ai demi: "Atena riconduce Pisistrato"; e in città, credendo che Fia fosse la dea in persona, a lei, che era una semplice donna, si rivolsero con devozione; e accolsero Pisistrato. Riavuto il potere nel modo ora esposto, Pisistrato rispettò l'accordo preso con Megacle e ne sposò la figlia; ma poiché aveva già dei figli adulti e correva fama che sugli Alcmeonidi pesasse la maledizione divina, non volendo avere prole dalla nuova moglie, non si univa con lei come vuole natura. La donna, lì per lì, tenne nascosta la cosa, ma poi, che glielo avessero chiesto o meno, ne parlò alla madre; e questa lo riferì al marito. Il fatto fu considerato un terribile affronto da parte di Pisistrato: in preda all'ira com'era, Megacle si riconciliò con quelli della sua fazione. Pisistrato, informato di quanto si stava concretizzando ai suoi danni, non esitò ad allontanarsi dal paese: si rifugiò a Eretria e lì studiò la situazione insieme coi figli. Prevalse il parere di Ippia, di tentare la riconquista del potere, e allora cominciarono a sollecitare doni dalle città che in qualche modo erano obbligate nei loro confronti. E fra le tante città che fornirono ingenti somme di denaro i Tebani superarono tutti con il loro contributo. Insomma, per farla breve, venne il momento in cui tutto era pronto per il rientro in Atene: dal Peloponneso erano arrivati dei mercenari argivi, e un uomo di Nasso, di nome Ligdami, giunse di sua iniziativa, ben fornito di uomini e mezzi, e offrì i suoi servigi. Muovendo da Eretria fecero ritorno in Attica, a distanza di oltre dieci anni dalla loro fuga. In Attica il primo luogo che occuparono fu Maratona; mentre stavano lì accampati si unirono a loro dei ribelli provenienti dalla città, e altri ne affluivano dai demi: tutta gente che abbracciava la tirannide preferendola alla libertà. Costoro quindi si andavano radunando: gli Ateniesi rimasti in città, finché Pisistrato raccoglieva finanziamenti e poi per tutto il tempo che si trattenne a Maratona, non si preoccuparono minimamente; ma quando seppero che stava marciando da Maratona su Atene allora finalmente scesero in campo contro di lui. Mentre l'esercito cittadino marciava incontro agli assalitori, Pisistrato e i suoi si erano mossi da Maratona e avanzavano verso la città; convergendo finirono perciò per incontrarsi nel demo di Pallene, all'altezza del tempio di Atena Pallenide, e lì i due eserciti si schierarono uno di fronte all'altro. In quel momento, spinto da ispirazione divina, si presentò a Pisistrato l'indovino Anfilito di Acarnania, gli si avvicinò e pronunciò la seguente profezia in esametri:…”Ecco, la rete è gettata, distesa è la rete nel mare. Vi si precipiteranno ora i tonni al chiaror della luna”… (La rete è stata lanciata, le sue maglie si sono distese, i tonni vi irromperanno dentro in una notte di luna). Così vaticinava sotto l'ispirazione del dio e Pisistrato comprendendo la profezia dichiarò di accoglierla e guidò in campo l'esercito. Nel frattempo gli Ateniesi della città avevano pensato bene di mangiare e, dopo, si erano messi chi a giocare a dadi, chi a dormire. Pisistrato e i suoi piombarono su di loro e li volsero in fuga. Mentre essi fuggivano Pisistrato trovò la maniera più saggia per impedire che gli Ateniesi si raccogliessero ancora, e anzi per tenerli dispersi. Fece montare a cavallo i suoi figli e li mandò avanti: essi, raggiungendo i fuggitivi, parlavano loro secondo le disposizioni di Pisistrato, esortandoli uno per uno a non avere paura e a tornare ciascuno alle proprie occupazioni. Gli Ateniesi si lasciarono persuadere e così Pisistrato per la terza volta fu padrone di Atene; questa volta rese più saldo il proprio potere grazie alle molte guardie e agli ingenti contributi in denaro, che gli provenivano tanto dall'Attica come dal fiume Strimone. Inoltre prese in ostaggio i figli degli Ateniesi che erano rimasti a combattere senza darsi subito alla fuga e li tenne sequestrati a Nasso (perché Pisistrato aveva sottomesso anche Nasso e l'aveva affidata a Ligdami). Poi obbedendo agli oracoli purificò l'isola di Delo, in questo modo: fece disseppellire e trasportare in un'altra parte Creso era un uomo giusto e caro agli dei, lo fece scendere dal rogo e gli chiese: "Creso, quale uomo ti convinse a marciare contro le mie terre, a essermi nemico invece che amico?" E Creso rispose: "Sovrano, ho agito così per la tua felicità e per la mia rovina: di tutto questo il colpevole fu il dio dei Greci, che mi esortò alla guerra. Perché nessuno è così folle da preferire la guerra alla pace: in pace i figli seppelliscono i padri, in guerra sono i padri a seppellire i figli. Ma piaceva forse a un dio che le cose andassero come sono andate". Così Creso rispose. Ciro lo liberò dalle catene e lo fece sedere al suo fianco trattandolo con molti riguardi: Ciro lo guardava con una sorta di ammirazione e così quelli del suo seguito. Dal canto suo Creso rifletteva in silenzio, ma a un certo punto si sollevò e, vedendo che i Persiani stavano devastando la città dei Lidi, disse: "Signore, nella situazione in cui mi trovo posso dirti quello che penso o devo tacere?" Ciro lo invitò a dire senza timori ciò che voleva e allora Creso gli domandò: "Che cosa sta facendo tutta questa gente con tanto ardore?" Ciro rispose: "Saccheggia la tua città, si spartisce le tue ricchezze". Ma Creso ribatté: "No, non sta saccheggiando la mia città né le mie ricchezze, perché queste cose non appartengono più a me; quelli si stanno portando via la roba tua". Ciro fu molto colpito dalle parole di Creso; allontanò i presenti e gli chiese come interpretasse quanto stava succedendo; e Creso rispose: "Visto che gli dei mi hanno dato a te come schiavo, mi pare giusto, se vedo più in là di te, informartene. I Persiani, oltre a essere tracotanti per natura, sono poveri; se tu dunque permetti loro di rapinare e ammassare grandi ricchezze, attenditi pure che uno di loro, quello divenuto più ricco, si ribelli contro di te. Ecco dunque, se convieni con me su quello che ti dico, come dovresti agire: disponi a guardia di tutte le porte della città degli uomini fidati i quali, sequestrando il bottino a chi esce, dichiarino che è assolutamente indispensabile offrirne a Zeus la decima parte. Così non se la prenderanno con te se gli sottrai con la forza la preda di guerra e anzi, riconoscendo che ti comporti giustamente, vi rinunceranno volentieri". Ciro fu quanto mai lieto di udire questo consiglio, che gli parve ottimo; lo approvò senz'altro e quando ebbe dato alle sue guardie le istruzioni suggerite da Creso, si rivolse ancora a lui e gli disse: "Creso, visto che sei disposto ad agire e a parlare con la nobiltà di un re, chiedimi pure un dono, quello che vuoi, subito". Creso replicò: "Signore, mi farai un grandissimo favore se mi permetti di mandare queste catene al dio dei Greci, il dio da me più onorato, e di chiedergli se è sua abitudine ingannare chi si comporta bene verso di lui". Ciro gli domandò il motivo di questa preghiera, che rimproveri avesse da muovere al dio, e Creso gli raccontò ogni cosa, risalendo al suo antico progetto e alle risposte degli oracoli: narrò in particolare delle proprie offerte votive e di come avesse mosso guerra ai Persiani spintovi dall'oracolo. Concluse il discorso pregando nuovamente che gli fosse concesso di rivolgere al dio il suo biasimo. Ciro scoppiò a ridere e disse: "Non solo questo tu otterrai da me, ma qualunque altra cosa di cui tu senta la necessità, in qualunque occasione". Udito ciò, Creso mandò a Delfi dei Lidi con l'ordine di posare le catene sulla soglia del tempio e di chiedere al dio se non si vergognasse di aver spinto Creso con i suoi responsi a muovere guerra ai Persiani con la promessa che avrebbe abbattuto l'impero di Ciro; dovevano poi mostrare le catene e dichiarare che erano le primizie ricavate da tale impero; e inoltre dovevano chiedere se è abitudine degli dei Greci essere ingrati. Ai Lidi che, giunti a Delfi, la interrogavano secondo le istruzioni ricevute, si dice che la Pizia abbia risposto così: "Neppure un dio può sfuggire al destino stabilito. Creso ha scontato la colpa del suo quinto ascendente, che era una semplice guardia del corpo degli Eraclidi e che, rendendosi complice della macchinazione di una donna, uccise il proprio padrone e si appropriò della sua autorità, senza averne alcun diritto. Il Lossia ha fatto il possibile perché la caduta di Sardi avvenisse sotto i figli di Creso e non durante il suo regno, ma non è stato in grado di stornare le Moire; quanto esse gli hanno concesso, il Lossia lo ha compiuto come un dono per Creso: per tre anni ha differito la presa di Sardi; lo sappia, Creso, di essere stato imprigionato con tre anni di ritardo sul tempo stabilito; e un'altra volta lo ha soccorso quando già si trovava sul rogo. Quanto all'oracolo, Creso muove rimproveri ingiusti. Perché il Lossia gli aveva predetto che, se avesse marciato contro i Persiani, avrebbe distrutto un grande dominio. Di fronte a questo responso se voleva prendere una decisione saggia doveva mandare a chiedere ancora se il dio intendeva il dominio suo o quello di Ciro. Non ha afferrato le parole del dio né chiesto ulteriori spiegazioni; dunque, consideri se stesso responsabile di quanto è accaduto. E infine consultando l'oracolo non comprese neppure le parole del dio sul mulo: questo mulo era proprio Ciro. Ciro è nato, infatti, da due persone di diversa nazionalità, di più nobile origine la madre, di condizioni più modeste il padre; lei della Media e figlia di Astiage, re dei Medi, lui Persiano, suddito dei Medi: benché le fosse in tutto inferiore, sposò la sua padrona". Questa fu la risposta della Pizia ai Lidi; essi la riportarono a Sardi e la riferirono a Creso, il quale, quando l'ebbe appresa, riconobbe che la colpa era sua e non del dio. 107-130. Più tardi Ciassare morì, dopo quaranta anni di regno, compresi quelli del predominio scita. Nel regno gli succedette il figlio Astiage. Astiage ebbe una figlia che chiamò Mandane; e una volta sognò che Mandane orinava con tanta abbondanza da sommergere la sua città e inondare l'Asia intera. Sottopose questa visione all'attenzione di quei Magi che interpretano i sogni e si spaventò molto quando essi gli spiegarono ogni particolare. Più avanti, quando Mandane fu in età da marito, non volle concederla in moglie a nessun pretendente medo, per degno che fosse: per la paura, sempre viva in lui, di quel sogno, la diede a un Persiano, che si chiamava Cambise: lo trovava di buona casata, di carattere tranquillo e lo giudicava molto al di sotto di un Medo di normale condizione. Durante il primo anno di matrimonio di Cambise e Mandane, Astiage ebbe una seconda visione: sognò che dal sesso della figlia nasceva una vite e che la vite copriva l'Asia intera. Dopo questa visione e consultati gli interpreti, fece venire dalla Persia sua figlia, che era vicina al momento del parto, e quando arrivò la mise sotto sorveglianza, intenzionato a eliminare il bambino che lei avrebbe partorito. Perché i Magi interpreti dei sogni gli avevano spiegato, in base alla visione, che il figlio di Mandane avrebbe regnato al posto suo. Perciò Astiage prese tutte le precauzioni e quando Ciro nacque chiamò Arpago, un parente, il più fedele dei Medi e suo uomo di fiducia in ogni circostanza, e gli disse: "Arpago, bada di eseguire con grande attenzione l'incarico che ora ti affido e di non ingannarmi; se abbracci la causa di altri col tempo te ne dovrai pentire. Prendi il bambino partorito da Mandane, portalo a casa tua e uccidilo; poi fa sparire il cadavere come preferisci". E Arpago rispose: "Mio re, tu non vedesti mai nulla in me, io credo, che non ti fosse gradito e anche in avvenire starò bene attento a non commettere mai alcuna mancanza nei tuoi confronti. E se ora vuoi che questo sia fatto, è mio dovere per quanto dipende da me, servirti pienamente". Dopo questa risposta gli fu consegnato il bambino, già avvolto nei panni funebri; Arpago si avviò verso casa piangendo. Quando vi giunse riferì a sua moglie tutte le parole di Astiage, ed essa gli chiese: "E tu ora che cosa hai intenzione di fare?" Le rispose: "Non certo di obbedire agli ordini di Astiage, neppure se sragionerà o se impazzirà peggio di quanto già ora deliri: non mi associerò al suo disegno e non eseguirò per lui un simile delitto. Non ucciderò il bambino per molte ragioni, perché è mio parente e perché Astiage è vecchio e non ha figli maschi; se dopo la morte di questo bambino il potere passerà a Mandane, di cui ora lui fa uccidere il figlio servendosi di me, cos'altro dovrò aspettarmi se non il più grave dei pericoli? Per la mia incolumità è necessario che questo bambino muoia, ma a ucciderlo dovrà essere uno di Astiage e non uno dei miei". Disse così e immediatamente inviò un messo a un mandriano di Astiage che a quanto sapeva si trovava nei pascoli più adatti al suo disegno, su montagne popolate da numerose bestie feroci: si chiamava Mitradate e viveva con una donna, sua compagna di schiavitù, che si chiamava Spaco e il cui nome in greco suonerebbe Cino, dato che i Medi chiamano "spaco" appunto il cane. Le falde dei monti su cui questo mandriano pascolava il suo bestiame si trovano a nord di Ecbatana in direzione del Ponto Eusino; infatti la Media in questa direzione, verso i Saspiri, è assai montuosa, elevata e coperta di boscaglie, mentre il resto del paese è tutto pianeggiante. Il bovaro, dunque, convocato, si presentò con sollecitudine e Arpago gli disse: "Astiage ti ordina di prendere questo bambino e di andarlo a esporre sul più solitario dei monti affinché muoia al più presto. E mi ha ordinato di avvisarti che se non lo uccidi e in qualche maniera lo risparmi ti farà morire tra i più terribili supplizi. Io ho il compito di controllare che il bambino venga esposto". Udito ciò il mandriano prese il bambino, se ne tornò indietro per la stessa strada e giunse al suo casolare. Per l'appunto anche sua moglie era in attesa di partorire un figlio da un giorno all'altro e, forse per opera di un dio, lo diede alla luce durante il viaggio in città del marito. Erano preoccupati entrambi, l'uno per l'altro, lui in apprensione per il parto della moglie, e lei perché non era cosa abituale che Arpago mandasse a chiamare suo marito. Quando lui ritornò, fu la moglie, come se avesse disperato di rivederlo, a chiedergli per prima per quale ragione Arpago lo avesse chiamato con tanta fretta. E lui rispose: "Moglie mia, sono andato in città e ho visto e udito cose che vorrei non aver visto e che non fossero mai accadute ai nostri padroni: tutta la casa di Arpago era in preda al pianto e io vi entrai sconvolto. Appena dentro ti vedo un neonato, lì in terra, che si agita e piange con indosso un vestitino ricamato e ornamenti d'oro. Arpago come mi vede mi ordina di prendere il bambino, di portarlo via con me e di andarlo poi a esporre sulle montagne più infestate dalle fiere, dicendo che questi sono ordini di Astiage e aggiungendo molte minacce nel caso io non li pensiero di ciò che avevo fatto a questo bambino e mi pesava il rancore di mia figlia. Ora visto che tutto è andato per il meglio, manda qui tuo figlio presso il ragazzo appena arrivato e poi, visto che ho intenzione di offrire un sacrificio di ringraziamento per l'avvenuta salvezza agli dei cui spetta questo onore, vieni a cena da me". Udito ciò Arpago si prosternò e si avviò verso casa contento che la sua colpa avesse avuto un esito positivo e di essere stato invitato a cena con tanti buoni auspici. Appena entrò in casa si affrettò a inviare a corte il proprio unico figlio, che aveva circa tredici anni, ordinandogli di andare da Astiage e di fare tutto quello che lui comandasse. Poi, tutto lieto, andò a raccontare alla moglie quanto era accaduto. Ma Astiage, quando il figlio di Arpago fu da lui, lo uccise, lo squartò in tanti pezzi e ne fece cucinare le carni una parte lessate e una parte arrosto e le tenne pronte. Venne l'ora della cena: si presentarono tutti i convitati fra i quali Arpago. Davanti agli altri e allo stesso Astiage furono imbandite mense ricolme di carne di montone, invece ad Arpago furono servite tutte le carni del figlio, tranne la testa e le mani e i piedi, che stavano a parte celate in un canestro. Quando Arpago si sentì sazio di cibo, Astiage gli domandò se le portate erano state di suo gusto e Arpago rispose che gli erano piaciute molto; allora dei servi, precedentemente istruiti, gli misero davanti la testa, le mani e i piedi del ragazzo ancora coperte e standogli di fronte lo invitarono a scoperchiare il piatto e a servirsi liberamente. Arpago obbedì, scoperchiò il piatto, vide i resti del figlio: li vide, ma rimase impassibile e riuscì a dominarsi. Astiage gli chiese se riconosceva l'animale delle cui carni si era cibato e lui rispose che lo riconosceva e che per lui andava bene ogni cosa che il re facesse. Dopo aver così risposto, raccolse i resti delle carni e se ne tornò a casa. E lì, credo, li ricompose e seppellì. E questa fu la punizione che Astiage inflisse ad Arpago. Nei confronti di Ciro, rifletté un po' e poi mandò a chiamare gli stessi Magi che a suo tempo gli avevano interpretato il sogno; quando furono davanti a lui, Astiage chiese loro di ripetergli la spiegazione della visione, ed essi ribadirono che il bambino era destinato a regnare se fosse rimasto in vita e non fosse morto prima. Il re ribatté: "Il bambino c'è ed è vivo e mentre viveva in campagna i bambini del suo villaggio lo hanno eletto re: lui si è comportato esattamente come un vero sovrano: ha creato guardie del corpo, custodi delle porte, messaggeri e tutto il resto, e ha regnato. E ora tutto questo, secondo voi, a che cosa porta?" I Magi risposero: "Se il ragazzo è vivo e ha regnato senza un disegno predisposto, allora per quanto lo riguarda puoi stare tranquillo e rallegrarti: non regnerà una seconda volta. Infatti è già successo che alcuni dei nostri vaticinii si siano risolti in poca cosa e che il contenuto dei sogni abbia perso ogni sua consistenza". E Astiage concluse: "Anch'io, Magi, sono quasi del tutto convinto che il sogno si è già realizzato: questo bambino ha già ricevuto il titolo di re, e dunque non rappresenta più per me un pericolo. Tuttavia esaminate per bene la questione e aiutatemi a prendere una decisione che garantisca la massima sicurezza per la mia casa e per voi stessi". Al che i Magi risposero: "Sovrano, anche per noi è molto importante che il potere rimanga ben saldo nelle tue mani, perché se passa a questo ragazzo, che è Persiano, cade nelle mani di un'altra nazione e noi che, siamo Medi, diventeremo schiavi e non godremo del minimo prestigio presso i Persiani, essendo stranieri. Se invece rimani re tu, che sei nostro concittadino, abbiamo anche noi la nostra parte di potere e riceviamo da te grandi onori. Perciò è assolutamente nostro interesse vegliare su di te e sul tuo regno; e ora, se vedessimo qualche motivo per avere paura, te ne avviseremmo senz'altro. Ma ora, poiché il sogno si è risolto in una cosa da nulla, da parte nostra abbiamo fiducia e ti consigliamo di fare altrettanto. Questo ragazzo mandalo lontano dai tuoi occhi, fra i Persiani, dai suoi genitori". Astiage fu lieto di udire questo consiglio, fece chiamare Ciro e gli disse: "Ragazzo, io sono stato ingiusto con te a causa di un sogno risultato vano, e tu sei vivo perché così ha voluto il tuo destino. Ora sii contento di andare fra i Persiani; io ti farò scortare fino là. Là troverai un padre e una madre ben diversi da Mitradate, il bovaro, e da sua moglie".Così disse e congedò Ciro. Ad accogliere Ciro di ritorno nella casa di Cambise c'erano i suoi genitori i quali, quando seppero chi era, lo salutarono con grande affetto, perché lo credevano morto subito a suo tempo; e continuavano a chiedergli come fosse riuscito a salvarsi. E lui raccontò che fino a poco prima era vissuto nell'errore ignorando ogni cosa e che solo lungo il viaggio era venuto a conoscenza di tutte le sue vicissitudini; si era sempre creduto figlio di un mandriano di Astiage, invece, dopo la partenza da Ecbatana, aveva appreso tutta la verità dai suoi accompagnatori. Raccontò di essere stato allevato dalla moglie del mandriano e non smetteva di profondersi in lodi nei suoi confronti: e in tutti i suoi discorsi non parlava che di Cino. I genitori tennero a mente questo nome e, per dare agli occhi dei Persiani una coloritura miracolosa alla avvenuta salvezza del fanciullo, misero in giro la voce che Ciro, esposto, era stato allevato da una cagna. Di qui ebbe origine questa leggenda. Poi Ciro si fece adulto ed era il più coraggioso fra i suoi coetanei e il più benvoluto. Arpago faceva di tutto per ingraziarselo mandandogli doni, desideroso com'era di vendicarsi di Astiage: non vedeva come da solo, essendo un comune cittadino, avrebbe potuto vendicarsi, ma vedeva Ciro crescere e cercava di farselo alleato, paragonando i gravi torti da entrambi subiti. Già prima si era dato da fare in questo senso: sfruttando il comportamento odioso di Astiage nei confronti dei Medi, Arpago, avvicinando ciascuno dei maggiorenti medi, tentava di convincerli che occorreva deporre Astiage e offrire il regno a Ciro. Compiute queste manovre, quando si sentì pronto, Arpago volle esporre il suo piano a Ciro, il quale però viveva in Persia; le strade erano sotto controllo e perciò, in mancanza di altre soluzioni, ricorse a un espediente. Si servì di una lepre alla quale aprì il ventre senza rovinarne il pelo, ma lasciandolo intatto; nel ventre nascose un messaggio in cui descriveva il suo piano; ricucì il ventre della lepre che consegnò, insieme con una rete, come se fosse un cacciatore, al più fidato dei suoi servitori; lo inviò in Persia con l'ordine di consegnare la lepre a Ciro personalmente e di invitarlo a sventrare la bestia di sua mano e quando nessuno fosse presente. Così dunque fu fatto e Ciro, avuta la lepre, la squarciò; vi trovò dentro la lettera, la prese e la lesse. Il contenuto del messaggio suonava così: "Figlio di Cambise, gli dei ti guardano con favore, altrimenti non saresti mai giunto a tanta fortuna; e allora vendicati di Astiage, il tuo assassino: se fosse dipeso dai suoi desideri tu saresti morto, se sei vivo lo devi agli dei e a me. Credo che tu sia a conoscenza ormai da un pezzo di quello che hanno fatto a te e di quello che ho subito io da parte di Astiage, per non averti ucciso ma consegnato al mandriano. Tu dunque, se mi darai ascolto, potrai regnare su tutta la terra su cui ora regna Astiage. Convinci i Persiani a ribellarsi e marcia contro la Media. E se io sarò nominato da Astiage generale in capo contro di te, tutto ciò che vorrai è già tuo. E così sarà pure se viene designato un altro dei Medi più illustri. Essi saranno i primi a ribellarsi ad Astiage e a passare dalla tua parte e faranno di tutto per abbatterlo. Considera che tutto qui è pronto e agisci, ma agisci in fretta". Apprese queste notizie, Ciro pensò al modo più accorto per convincere i Persiani alla rivolta e riflettendo trovò il più opportuno e lo mise in opera: scrisse quanto serviva al suo scopo in una lettera e convocò una assemblea dei Persiani. Quindi aprì la lettera e scorrendola dichiarò che Astiage lo nominava capo dei Persiani: "Ora, Persiani, - disse - vi invito a presentarvi qui ciascuno con una falce". Proprio questo fu l'ordine di Ciro. Le tribù persiane sono numerose; Ciro convocò e indusse a ribellarsi ai Medi solo quelle a cui fanno capo poi tutti i Persiani: Pasargadi, Marafi e Maspi. Fra questi i più nobili sono i Pasargadi, ai quali appartiene anche la famiglia degli Achemenidi, da dove provengono i re discendenti di Perseo. Altri Persiani sono i Pantialei, i Derusiei, i Germani; si tratta di tribù tutte dedite all'agricoltura, le rimanenti invece sono nomadi: i Dai, i Mardi, i Dropici, i Sagarti. Quando furono tutti presenti con in mano la falce, allora Ciro ordinò loro di andare a falciare prima di sera un terreno che si trovava lì in Persia, tutto coperto di sterpi ed esteso per un quadrato di 18 o 20 stadi di lato. I Persiani compirono la fatica ordinata e Ciro diede loro una seconda disposizione: dovevano presentarsi la mattina seguente dopo aver fatto il bagno. Nel frattempo Ciro radunò tutte le greggi di capre e di pecore e tutte le mandrie di suo padre, le fece macellare e cucinare, pronto ad ospitare la massa di Persiani, e vi aggiunse vino e cibarie, tra i più squisiti. La mattina dopo Ciro sistemò su di un prato i Persiani venuti e offrì loro un grande banchetto. Quando ebbero finito di mangiare Ciro domandò se preferivano il trattamento attuale o quello del giorno prima. Ed essi risposero che c'era una gran bella differenza: il giorno prima gli erano toccati solo guai, al presente invece solo cose belle. Ciro colse al volo queste parole e, manifestando la sua intenzione, disse: "Persiani, dipende proprio da voi: se volete darmi ascolto vi attendono questi e molti altri piaceri e non conoscerete più fatiche da schiavi; se invece non volete obbedirmi vi attendono innumerevoli fatiche pari a quella di ieri. Seguite me, dunque, e sarete liberi. Io credo di essere nato col divino soccorso della sorte per condurre con le mie mani questa impresa e ritengo che voi siate uomini per nulla inferiori ai Medi, né in guerra né in nessun altro campo. Questa è la realtà dei fatti e ora voi ribellatevi contro Astiage al più presto". I Persiani, avendo trovato un capo, furono ben lieti di lottare per la libertà: già da tempo non tolleravano più di essere comandati dai Medi. Astiage, come seppe dei preparativi di Ciro, mandò un messaggero a convocarlo, ma Ciro ordinò al messaggero di riferire ad Astiage che sarebbe arrivato da lui prima di quando Astiage stesso avrebbe desiderato. Udita tale risposta, Astiage mise in armi tutti i Medi e nominò loro comandante Arpago, dimenticando, quasi fosse accecato da un dio, tutto il male che gli aveva fatto. Quando i Medi scesero in campo e si scontrarono con i passa pure nel nostro territorio, le nostre truppe si ritireranno a tre giorni di cammino dal fiume. Se invece preferisci essere tu ad accogliere noi nel vostro paese, allora fai tu le stesse cose". Sentita questa proposta, Ciro convocò i Persiani più autorevoli e quando li ebbe radunati espose i termini della questione, chiedendo consiglio sul da farsi. E i pareri di tutti concordemente lo esortarono a ricevere Tomiri e il suo esercito sul suolo persiano. Ma Creso il Lido, presente alla discussione, criticò questo parere ed espose la sua opinione, che era esattamente opposta: "Signore, - disse - già altre volte ti ho promesso, poiché Zeus mi ha dato nelle tue mani, che mi sarei impegnato a fondo per scongiurare qualunque sciagura io vedessi incombere sulla tua casa. Le mie sventure personali, così spiacevoli, mi hanno insegnato molto. Ora, se tu credi di essere immortale e di comandare a un esercito immortale, non ha senso che io ti esponga il mio parere; ma se riconosci di essere un uomo anche tu e di comandare ad altri uomini, sappi prima di tutto che le vicende umane sono una ruota, che gira e non permette che siano sempre gli stessi a godere di buona fortuna. Circa la presente questione io la penso al contrario di costoro: se decideremo di ricevere i nemici in territorio persiano tu corri un bel rischio: se rimani sconfitto perdi tutto il tuo regno perché è chiaro che i Massageti, vincendo, non torneranno più indietro ma avanzeranno contro i tuoi domini. Invece se li batti, non vinci tanto quanto vinceresti se trovandoti già in casa loro potessi inseguire i Massageti in fuga. La conseguenza infatti sarebbe uguale ma contraria alla precedente: se sconfiggi tu i nemici, sarai tu a puntare dritto sul dominio di Tomiri. Inoltre, indipendentemente da quanto ti ho già esposto, mi pare vergognoso e intollerabile che Ciro, il figlio di Cambise, ceda a una donna e si ritiri. Pertanto il mio parere è di passare il fiume e avanzare di quanto i nemici arretreranno; e là tentare di sconfiggerli con la seguente tattica. A quanto mi risulta i Massageti non hanno mai gustato i piaceri persiani e non hanno mai provato grandi delizie. Per uomini così dunque facciamo a pezzi bestiame in abbondanza, cuciniamolo e prepariamo un banchetto nel nostro campo: e aggiungiamo generosamente grandi orci di vino puro e cibarie d'ogni sorta; dopo di che si lascino sul posto i contingenti meno validi e gli altri si ritirino nuovamente verso il fiume. E vedrai, se non mi inganno, che i Massageti a vedere tutto quel ben di dio vi si getteranno sopra e a quel punto a noi non resterà che compiere notevoli gesta". Questi furono gli opposti pareri; Ciro trascurò il primo e accettò il suggerimento di Creso: avvisò la regina Tomiri di ritirare le sue truppe, perché sarebbe stato lui ad attraversare il fiume. Ed essa si ritirò come aveva promesso. Ciro affidò Creso nelle mani di suo figlio Cambise, erede designato del regno, con molte esortazioni a onorarlo e a trattarlo degnamente, nel caso la spedizione contro i Massageti non avesse buon esito. Con queste raccomandazioni li rimandò in Persia, poi passò il fiume con il suo esercito. La notte successiva al passaggio dell'Arasse, mentre dormiva nella terra dei Massageti, ebbe un sogno: nel sonno gli parve che il figlio maggiore di Istaspe avesse due ali sulle spalle: con una gettava ombra sull'Asia, con l'altra sull'Europa. Il maggiore dei figli di Istaspe, figlio di Arsame, della famiglia degli Achemenidi, era Dario, che allora aveva circa vent'anni e per questo, non avendo l'età per combattere, era stato lasciato in Persia. Ciro si svegliò, e rifletteva sul sogno; e poiché gli sembrava una visione importante, mandò a chiamare Istaspe, lo prese da parte e gli disse: "Istaspe, tuo figlio è stato sorpreso a complottare contro di me e il mio potere. Come mai lo so con certezza, ora te lo spiego. Gli dei hanno cura di me e mi preannunciano tutto ciò che mi minaccia; ebbene la notte scorsa dormendo ho visto in sogno il maggiore dei tuoi figli avere sulle spalle due ali e con una gettare ombra sull'Asia, con l'altra sull'Europa. Non c'è altra spiegazione per questo sogno, se non che tuo figlio sta tramando contro di me. Pertanto ti ordino di rientrare immediatamente in Persia; e bada di sottoporre tuo figlio al mio giudizio, quando avrò assoggettata questa terra e sarò di ritorno in Persia".Ciro parlò così convinto che Dario stesse cospirando contro di lui, mentre il dio voleva soltanto rivelargli che doveva morire lì, in quel paese, e che il suo potere sarebbe finito nelle mani di Dario. Istaspe gli rispose: "O re, io mi auguro che non sia nato un Persiano che complotta contro di te, ma se esiste, allora muoia al più presto! Tu, da schiavi che eravamo, ci hai resi liberi, tu ci hai reso da servi signori. Se un sogno ti annuncia che mio figlio sta preparando una ribellione contro di te, sarò io stesso a consegnarlo nelle tue mani, perché tu ne faccia quello che vorrai". Dopo questa risposta Istaspe riattraversò l'Arasse e tornò in Persia per tenere suo figlio Dario a disposizione di Ciro. Ciro avanzò oltre il fiume per circa una giornata di cammino e mise in pratica i suggerimenti di Creso. Poi indietreggiò verso l'Arasse con le truppe più valide lasciando sul posto i meno adatti a combattere. Allora un terzo dell'esercito massageta sopraggiunse e sterminò, nonostante la loro resistenza, i soldati lasciati sul posto da Ciro; ma, come videro le mense imbandite, appena spazzati via i nemici, si sdraiarono a banchettare: infine, rimpinzati di cibo e di vino si addormentarono. Sopraggiunsero i Persiani e uccisero molti di loro, e ancor più ne presero prigionieri incluso il figlio della regina Tomiri, che comandava l'esercito dei Massageti e si chiamava Spargapise. Quando la regina seppe quanto era accaduto all'esercito e a suo figlio, mandò un araldo a Ciro col seguente messaggio: "Ciro, insaziabile di sangue, non esaltarti per ciò che è avvenuto, se col frutto della vite, riempiendovi del quale anche voi impazzite, fino al punto che il vino scendendo nel vostro corpo vi fa salire alla bocca sconce parole, non esaltarti se con l'inganno di questo veleno hai sconfitto mio figlio, e non in battaglia misurando le vostre forze. Io ora ti do un buon consiglio e tu seguilo: restituiscimi mio figlio e potrai andartene dal mio paese senza pagare per l'oltraggio inflitto a un terzo del mio esercito; altrimenti, lo giuro sul sole, signore dei Massageti, benché tu ne sia avido, ti sazierò di sangue!” Queste parole furono riferite a Ciro, ma lui non le prese in considerazione. Il figlio della regina Tomiri, Spargapise, quando svanirono i fumi del vino e si rese conto della sua sciagurata situazione, pregò Ciro di essere liberato dalle catene e l'ottenne, ma come fu sciolto e padrone delle sue mani si suicidò. Così morì Spargapise E Tomiri, poiché Ciro non le aveva prestato ascolto, raccolse tutte le sue truppe e lo attaccò. Io ritengo questa battaglia la più dura di quante i barbari abbiano mai combattuto fra loro. Ed ecco come si svolse secondo le mie informazioni. In un primo momento si tennero a distanza e si lanciarono frecce, poi, terminate le frecce, si gettarono gli uni contro gli altri brandendo lance e spade. Per lungo tempo si protrasse lo scontro senza che una delle due parti accennasse a fuggire; infine prevalsero i Massageti. La maggior parte dell'esercito persiano fu distrutto e sul campo cadde Ciro stesso. Aveva regnato complessivamente per 29 anni. Tomiri riempì un otre di sangue umano e fece cercare fra i cadaveri dei Persiani il cadavere di Ciro; quando lo trovò immerse la sua testa nell'otre e mentre così infieriva su di lui, disse: "Tu hai ucciso me, anche se sono viva e ti ho sconfitto, sopprimendo con l'inganno mio figlio; ora io ti sazierò di sangue, esattamente come ti avevo minacciato". Fra le tante versioni correnti sulla morte di Ciro questa che ho raccontato mi pare la più degna di fede. LIBRO II 121. I sacerdoti mi dissero che a Proteo succedette nel regno Rampsinito, il quale lasciò a ricordo di sé i propilei occidentali del tempio di Efesto; davanti ai propilei eresse due statue, alte 25 cubiti: gli Egiziani chiamano "estate" quella posta più a nord e "inverno" quella più a sud; adorano e colmano di onori la statua "estate" , mentre fanno tutto il contrario nei confronti della statua "inverno". Rampsinito dispose di una enorme quantità di denaro, quale nessuno dei re venuto dopo di lui riuscì mai a superare e anzi neppure a uguagliare. Volendo conservare in un luogo sicuro tanta ricchezza, fece costruire una stanza di pietra che aveva una delle pareti confinante con l'esterno della reggia; ma il costruttore tramando insidie escogitò un suo piano: sistemò una delle pietre in modo che fosse facilmente estraibile dal muro, sia da due che da una sola persona. 2) Quando la camera fu pronta, il re vi depositò le sue ricchezze. Tempo dopo il costruttore, ormai in punto di morte, chiamò i suoi figli (erano due) e raccontò come, pensando al loro futuro, a procurar loro un'esistenza agiata, fosse ricorso a un'astuzia nel costruire la stanza del tesoro reale. Spiegò con chiarezza il sistema per rimuovere la pietra e ne diede le esatte misure, aggiungendo che se avessero seguito esattamente le sue istruzioni sarebbero diventati custodi dei beni del re. 3) Quindi morì e i suoi figli non rimandarono a lungo l'impresa: una notte si avvicinarono alla reggia, individuarono la pietra nell'edificio, la spostarono facilmente e fecero man bassa delle ricchezze. Il re, quando gli capitò di aprire il tesoro, si stupì di vedere gli orci non più colmi di tesori; né sapeva chi incolpare dato che i sigilli erano intatti e la stanza ben chiusa. Ma quando due o tre volte ancora a entrare nella stanza le ricchezze apparivano sempre di meno (infatti i ladri non smettevano di venire a rubare), ecco come agì: ordinò di preparare delle trappole e di disporle fra gli orci contenenti i suoi averi. 2) Vennero di nuovo i ladri, come le altre volte, e uno di loro si introdusse nel tesoro; ma non appena si accostò ad un orcio subito rimase preso nella trappola; si rese conto del guaio in cui si trovava, chiamò il fratello, gli spiegò la situazione e lo esortò a entrare al più presto e a tagliargli la testa: non voleva, una volta visto e riconosciuto, coinvolgere nella rovina anche il fratello. Questi comprese la bontà della proposta, si convinse e la mise in opera. Poi ricollocò al suo posto la pietra e tornò a casa, portando con sé la testa del fratello. Quando fu giorno, il re entrò nella stanza e rimase sbalordito a vedere il cadavere decapitato del ladro bloccato nella trappola e la camera intatta, senza alcuna via di entrata o di uscita. Incapace di trovare una spiegazione, agì come segue: fece appendere al muro del palazzo il corpo del ladro e vi mise a guardia degli uomini con durante una battuta di caccia, secondo altri portandolo sul mare Eritreo e lì facendolo annegare. E questo, a quanto si racconta, fu il primo di una lunga catena di delitti. Il secondo crimine fu l'uccisione della sorella che lo aveva seguito in Egitto e a cui, benché fosse sua sorella per parte di padre e di madre, si era congiunto in nozze; ed ecco come, dato che prima non c'era mai stata consuetudine, fra i Persiani, di matrimoni tra fratelli. Cambise si innamorò di sua sorella e desiderava sposarla, ma si rendeva conto che si trattava di una cosa insolita. Convocò allora i cosiddetti "giudici del re" e chiese loro se esisteva qualche legge che permettesse, a chi lo voleva, di sposare la propria sorella. I "giudici del re" sono uomini scelti fra i Persiani, rimangono in carica a vita o fino a quando non li si scopra autori di qualche grave colpa; pronunciano le sentenze per i Persiani, interpretano il patrio giure: tutto è rimesso nelle loro mani. Alla domanda di Cambise diedero una risposta basata sul diritto e sulla prudenza: dichiararono di non aver trovato alcuna legge che autorizzava un fratello a sposare la propria sorella, ma di averne trovata un'altra che consentiva al re dei Persiani di agire a propria totale discrezione. In questo modo non violarono la legge per paura di Cambise, e nello stesso tempo, per non morire a causa di un atteggiamento intransigente, reperirono una norma favorevole al re che desiderava sposare sorelle. Allora dunque Cambise sposò la sua amata; poi, non molto tempo dopo, si prese anche un'altra sorella. Fece uccidere la più giovane delle due, quella che lo aveva seguito in Egitto. Sulla sua morte, come sulla fine di Smerdi, esistono due diverse versioni. I Greci raccontano che Cambise fece un giorno combattere tra loro un cucciolo di cane e un cucciolo di leone; al combattimento assisteva anche la donna; quando il cagnolino stava per essere vinto, un cucciolo suo fratello ruppe il guinzaglio per corrergli in aiuto, sicché in due ebbero la meglio sul leoncino. Cambise osservava la scena con molto piacere, lei invece, che gli stava accanto, piangeva. Cambise se ne accorse e le chiese il motivo delle lacrime; rispose che le era venuto da piangere vedendo il cucciolo di cane vendicare il proprio fratello: il pensiero le era corso a Smerdi, sapendo che non c'era chi lo avrebbe vendicato. Per queste parole, raccontano i Greci, Cambise la mandò a morte. Invece secondo gli Egiziani essa una volta, mentre erano seduti a tavola, tolse le foglie a una lattuga e chiese al marito se a suo parere la lattuga era più bella così o intera; quando il marito le rispose intera essa soggiunse: "Eppure quello che ho fatto io a questa lattuga, tu l'hai fatto alla casa di Ciro, strappandone le fronde". Cambise, in uno scoppio d'ira, si gettò su di lei: ma lei era incinta e, dopo aver abortito, morì. Tali dunque furono le follie commesse da Cambise nei confronti dei propri parenti più prossimi, vuoi a causa di Api, vuoi per qualche altra ragione: sono sempre molti i guai che affliggono gli uomini; e infatti si dice anche che Cambise soffrisse fin dalla nascita di un morbo grave, quello che alcuni chiamano "sacro"; e quando un fisico è gravemente ammalato, neppure la mente, è naturale, è troppo sana. Da folle si comportò anche nei confronti di altri Persiani. Una volta, si racconta, si rivolse a Pressaspe, da lui tenuto in grande considerazione (era Pressaspe a trasmettergli le notizie e un suo figlio era coppiere del re, onore anche questo non piccolo) e gli disse: "Pressaspe, che tipo di uomo mi giudicano i Persiani, che discorsi fanno su di me?". E quello rispose: "Signore, lodano molto tutte le tue qualità; dicono solo che ti piace un po' troppo il vino". Riferiva le voci dei Persiani, ma il re si adirò e gli disse: "Ah è così, i Persiani dicono che sono dedito al vino e quindi che sono pazzo, non padrone del mio senno? Allora prima non parlavano in modo sincero". In precedenza infatti, mentre i Persiani e Creso erano riuniti in assemblea, Cambise aveva chiesto loro come lo considerassero in confronto a suo padre Ciro; ed essi lo avevano proclamato migliore del padre, perché aveva conservato tutte le conquiste paterne aggiungendovi per di più l'Egitto e il dominio sul mare. Quella fu la risposta dei Persiani, ma Creso, che era presente all'assemblea, non soddisfatto di tale giudizio, aveva detto a Cambise: "Figlio di Ciro, a me non sembra che tu sia pari a tuo padre: tu non hai ancora un figlio come aveva lui, che ha lasciato te". E Cambise, assai lieto della risposta, aveva approvato il giudizio di Creso. Memore dei discorsi di allora Cambise si rivolse con rabbia a Pressaspe: "E tu adesso impara se i Persiani dicono il vero o se sono loro fuori di senno, quando parlano così. Ora io scaglio una freccia contro tuo figlio, là in piedi sulla soglia, e se lo centro in mezzo al cuore sarà chiaro che i Persiani parlano a vanvera; se invece lo sbaglio vorrà dire che i Persiani hanno ragione e che io non sono sano di cervello". Disse così, tese l'arco e colpì il ragazzo, che cadde a terra; quindi ordinò che gli si aprisse il petto e si osservasse il punto colpito; stabilito che la punta era penetrata nel cuore, si rivolse ancora al padre del ragazzo e ridendo gli disse pieno di buon umore: "Pressaspe, ora hai la prova che non sono pazzo, che sono i Persiani a sragionare. Dimmi, hai mai visto nessuno al mondo così preciso nel tiro con l'arco?". Allora Pressaspe, vedendo Cambise del tutto fuori di senno e temendo per la propria incolumità, gli rispose: "Signore, credo che neppure il dio in persona potrebbe tirare con l'arco così bene". Tanto fece Cambise quella volta; in un'altra occasione fece imprigionare e poi seppellire vivi a testa in giù dodici Persiani fra i più ragguardevoli senza una ragione valida. Creso il Lido, visto il comportamento di Cambise, pensò fosse il caso di metterlo in guardia: "O re", gli disse, "non abbandonarti sempre alla foga della tua giovinezza, ma cerca di trattenerti, di dominarti. Faresti bene a essere più cauto, la previdenza è segno di saggezza; tu invece uccidi persone che sono tuoi compatrioti, senza una ragione valida, uccidi i loro figli. Ora, se continuerai ad agire così, bada che i Persiani non ti si ribellino. Tuo padre Ciro spesso mi raccomandava di metterti in guardia, di indirizzarti per il meglio". Creso dava a Cambise questi consigli dimostrando tutto il proprio affetto per lui, ma Cambise gli rispose: "E tu hai il coraggio di darmi dei consigli, tu che hai governato così bene la tua patria, tu che hai consigliato così bene mio padre invitandolo ad attraversare il fiume Arasse per marciare contro i Massageti, quando loro stessi erano disposti a passare nel nostro territorio, tu che hai rovinato te stesso governando malamente il tuo paese, e che hai rovinato anche mio padre, che si è lasciato convincere da te? Ah, ma non potrai rallegrartene più: già da tempo cercavo un pretesto contro di te!". Detto ciò, afferrò l'arco per scagliargli una freccia, ma Creso balzò in piedi e corse via dalla stanza; Cambise, non essendo riuscito a colpirlo, ordinò ai suoi uomini di catturarlo e ammazzarlo. Ma essi, conoscendo il carattere del re, tennero nascosto Creso, considerando che, se Cambise avesse cambiato parere e avesse chiesto di Creso, essi portandoglielo davanti avrebbero ottenuto una ricompensa per averlo salvato; se invece non avesse cambiato parere e non ne avesse sentito la mancanza, allora lo avrebbero eliminato. In effetti Cambise sentì la mancanza di Creso, non molto tempo dopo; i servi se ne accorsero e subito gli annunciarono che Creso era ancora vivo. Cambise dichiarò di essere molto contento per la salvezza di Creso, ma che i servi gli avevano disobbedito e che quindi non l'avrebbero fatta franca, non sarebbero sfuggiti alla morte; come poi avvenne. Cambise compì molte folli azioni del genere contro i Persiani e gli alleati: durante il suo soggiorno a Menfi fece anche aprire delle antiche tombe per esaminare i cadaveri; entrò pure nel tempio di Efesto, dove di fronte alla statua del dio si abbandonò a una lunga risata: in effetti l'immagine di Efesto è molto simile ai Pateci di Fenicia, quelle figure che i Fenici portano in giro sull'estremità prodiera delle navi; per chi non li abbia mai visti aggiungerò che raffigurano dei pigmei. Entrò anche nel tempio dei Cabiri, dove solo il sacerdote può entrare, e nessun altro; come se non bastasse, diede alle fiamme le statue che vi si trovavano, non senza averle a lungo schernite; tali statue sono molto simili a quelle di Efesto, da cui i Cabiri sostengono di discendere. Per me è del tutto evidente che Cambise divenne completamente pazzo, altrimenti non si sarebbe messo a dileggiare le cose sacre e le tradizioni religiose. Se si chiedesse a tutti gli uomini di scegliere fra tutte le usanze le migliori, ciascuno, dopo aver ben riflettuto, indicherebbe le proprie: tanto sarebbe convinto che i propri costumi siano i migliori in assoluto; perciò non è naturale deridere simili cose, a meno di essere in preda alla follia. Da molte prove si può valutare che tutti gli uomini la pensano così circa le tradizioni, ma da una in particolare. Una volta Dario, durante il suo regno, convocò i Greci del suo seguito e chiese loro per quale somma avrebbero accettato di cibarsi dei cadaveri dei loro padri morti; ed essi risposero che non lo avrebbero fatto mai, per nessuna somma. Subito dopo Dario chiamò degli Indiani, della tribù dei Callati, tribù in cui si usa cibarsi dei propri genitori, e domandò loro, in presenza dei Greci (che potevano seguire i discorsi grazie a un interprete), per quale somma avrebbero acconsentito a cremare sul rogo i loro padri; ed essi protestarono a gran voce invitando Dario a non dire empietà. Le usanze sono usanze, c'è poco da fare, e a me sembra che Pindaro l'abbia espresso molto bene dicendo: "La tradizione è regina del mondo". All'epoca in cui Cambise combatteva contro l'Egitto, gli Spartani erano in guerra pure loro, contro l'isola di Samo e Policrate figlio di Eace, che si era impadronito del potere grazie a una insurrezione. In un primo momento Policrate aveva diviso la città in tre parti e ne aveva assegnate due ai fratelli Pantagnoto e Silosonte; ma più tardi aveva soppresso Pantagnoto e mandato in esilio Silosonte, il più giovane, diventando padrone dell'intera Samo; poi aveva stretto vincoli di ospitalità con Amasi re dell'Egitto, mandandogli doni e ricevendone a sua volta. In breve tempo la fortuna di Policrate crebbe assai e divenne argomento di ammirati discorsi nella Ionia e in tutto il resto della Grecia: dovunque dirigesse il suo esercito, erano successi. Riuscì a mettere insieme una flotta di cento penteconteri e un corpo di mille arcieri. Rapinava e depredava chiunque senza distinzione; restituendo agli amici il maltolto sosteneva di far loro un favore più gradito che non togliendogli nulla del tutto. E si era impadronito di numerose isole e anche di molte città del continente. Tra l'altro sconfisse in una battaglia navale e catturò i Lesbi accorsi questa visione, si era adoperata in ogni modo per impedire a Policrate di recarsi da Orete; persino mentre già si stava imbarcando sulla pentecontere, pronunciò sinistri presagi; il padre la minacciò, nel caso fosse tornato sano e salvo, di lasciarla a lungo senza marito, ma la figlia gli rispose augurandosi che ciò accadesse: preferiva prolungare la sua verginità piuttosto che vedersi privata del padre. Policrate trascurò ogni consiglio e si recò presso Orete; condusse con sé molti dei suoi compagni, fra i quali anche Democede di Crotone, figlio di Callifonte, medico esperto nella sua professione più di ogni altro ai suoi tempi. Giunto che fu a Magnesia, Policrate perì malamente, in maniera davvero indegna di lui e della sua intelligenza: perché, se si escludono i tiranni di Siracusa, nessun altro principe greco merita di essere paragonato a Policrate e alla sua grandiosa magnificenza. Orete lo fece uccidere in modo indegno di essere raccontato e impalare; del seguito rilasciò i cittadini di Samo sollecitando la loro gratitudine per questa liberazione e trattenne con sé, come schiavi, gli stranieri e i servi. E così Policrate, appeso, avverò per intero la visione della figlia: era lavato da Zeus quando pioveva e unto dal sole nel senso che il sole dal suo corpo spremeva gli umori. A simile fine giunsero le grandi fortune di Policrate (proprio come il re egiziano Amasi gli aveva profetizzato). LIBRO VII 101-105. Passate in rassegna anche le navi, e sceso di nuovo a terra, Serse cercò di Demarato figlio di Aristone, che lo seguiva nella spedizione contro la Grecia, lo chiamò e gli disse: "Demarato, ora mi è gradito chiederti quanto desidero sapere; tu sei greco, e, come apprendo da te e dagli altri Greci venuti a parlare con me, di una città che non è né la più piccola né la meno forte. Pertanto spiegami un po' questo: i Greci opporranno resistenza levandosi in armi contro di me? In effetti, a mio parere, neppure se tutti i Greci e tutti i rimanenti abitanti dell'occidente si coalizzassero, sarebbero in grado di resistere al mio attacco, a meno che non agissero con autentica coesione. Voglio dunque sentire la tua opinione, qualunque sia, su di loro". Serse gli pose questa domanda e Demarato a sua volta gli chiese: "Devo rispondere sinceramente o in modo da farti piacere?". Serse gli ordinò di dire la verità, rassicurandolo che non avrebbe minimamente perso, per questo, il suo favore. Udito ciò, Demarato disse: "Sovrano, visto che mi ordini di rispondere con assoluta franchezza, parlando in modo che tu non possa più tardi scoprirmi mendace, sappi che ai Greci è sempre compagna la povertà, ma a essa si aggiunge la virtù, resa più salda dall'ingegno e da una legge severa; grazie alla sua virtù la Grecia si difende dalla povertà e dall'asservimento. La mia lode va dunque a tutti i Greci che abitano laggiù, nelle regioni doriche, però ora non mi riferirò a tutti loro, ma solo agli Spartani; primo: è impossibile che accettino mai i tuoi discorsi, che comportano schiavitù della Grecia; secondo: ti affronteranno in battaglia anche se tutti gli altri Greci passeranno dalla tua parte. Il loro numero? Non chiedere quanti siano per osare agire così; che siano mille sul campo di battaglia, o di più o di meno, altrettanti combatteranno contro di te". Al che Serse scoppiò a ridere ed esclamò: "Demarato, cosa blateri! Si batteranno in mille contro un esercito così grande? Spiegami un po': dichiari di essere stato loro re; quindi tu saresti disposto ad affrontare subito dieci uomini? Anzi, se la vostra comunità è tale quale la descrivi, a te che sei il loro re, spetta di battersi contro un numero doppio di uomini, conforme alle vostre leggi. E sì, se ciascuno di loro vale dieci soldati del mio esercito, allora tu, deduco, ne vali venti; così sì mi tornerebbe il discorso che mi hai fatto. Però se voi, tali e di tanta stazza quanto tu e i Greci che frequentano la mia corte, se voi vi vantate così, bada che le tue parole non risultino una inutile spacconata. Ma ragioniamo un po' secondo logica: mille, diecimila o cinquantamila uomini, tutti liberi e uguali, senza avere un unico capo, come riuscirebbero a opporsi a un esercito sterminato come il mio? Perché noi siamo più di mille per ciascuno di loro, se loro sono cinquemila. Se obbedissero a un'unica persona, alla nostra maniera, potrebbero avere paura di lui e diventare migliori di quanto siano per loro propria natura, e avanzare, costretti dalla frusta, anche essendo meno del nemico. Ma, lasciati liberi, non farebbero nulla di questo. Io, per me, credo che difficilmente i Greci, anche se fossero in numero a noi pari, potrebbero battersi contro i soli Persiani; ma poi, via, solo fra di noi c'è un po' di quello che tu dici, un po', non molto. Sì, fra i miei lancieri persiani ne esistono di disposti a battersi contro tre Greci assieme; tu non ne hai mai fatto la prova e parli a vanvera".Al che Demarato replicò: "Sovrano, già lo sapevo che dicendo la verità non ti avrei dato una risposta gradita; ma poiché mi hai costretto a parlare con la massima sincerità, ti ho detto come stanno le cose per gli Spartiati. Eppure sai bene quale affetto mi leghi a essi, che mi hanno privato dell'onore e delle dignità di mio padre e mi hanno reso un esule, un senza patria; e sai che fu tuo padre ad accogliermi, a darmi i mezzi per vivere e una casa. Non è plausibile che un uomo assennato respinga la benevolenza che gli mostrano, è naturale anzi il contrario, che l'accetti di buon cuore. Io non ti garantisco di essere in grado di affrontare né dieci uomini né due; dipendesse da me, non mi batterei nemmeno contro uno solo. Ma se vi fossi costretto o mi spingesse un grande cimento, fra tutti preferirei senz'altro combattere contro uno di questi uomini che pensano di valere ciascuno tre Greci. Così sono gli Spartani: individualmente non sono inferiori a nessuno, presi assieme sono i più forti di tutti. Sono liberi, sì, ma non completamente: hanno un padrone, la legge, che temono assai più di quanto i tuoi uomini temano te; e obbediscono ai suoi ordini, e gli ordini sono sempre gli stessi: non fuggire dal campo di battaglia, neppure di fronte a un numero soverchiante di nemici; restare al proprio posto e vincere, oppure morire. Se ti pare che queste mie siano tutte chiacchiere, d'ora in poi voglio tacere. Adesso ho parlato perché mi ci hai costretto. Comunque, sovrano, tutto accada secondo i tuoi desideri".Così rispose Demarato; Serse volse le sue parole in riso e non si arrabbiò per nulla: serenamente lo congedò. Dopo il colloquio avuto con lui, Serse nominò governatore di Dorisco, dove si trovavano, Mascame figlio di Megadoste, al posto del governatore insediatovi da Dario, e spinse l'esercito attraverso la Tracia, contro la Grecia.