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Letteratura Latina - Conte, Prove d'esame di Letteratura latina

Riassunti del manuale Livio Andronico, Nevio, Plauto, Ennio, Terenzio, Lucilio, Poetae Novi, Catullo, Lucrezio, Cicerone, Cesare, Sallustio, Virgilio, Orazio, Cornelio Gallo, Tibullo, Properzio, Ovidio, Livio, Seneca, Lucano, Petronio, Persio, Valerio Flacco, Silio Italico, Plinio il Vecchio, Marziale, Quintiliano, Plinio il Giovane, Tacito, Giovenale, Apuleio. Riferimenti ai vari periodi

Tipologia: Prove d'esame

2016/2017

Caricato il 04/01/2017

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4.6

(65)

3 documenti

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Scarica Letteratura Latina - Conte e più Prove d'esame in PDF di Letteratura latina solo su Docsity! 1 LETTERATURA LATINA ETÀ ARCAICA 241-78 a.C.  Livio Andronico  Nevio  Plauto  Ennio  Terenzio  Lucilio ETÀ DI CESARE 78-44 a.C.  Poetae Novi  Catullo  Lucrezio  Cicerone  Sallustio ETÀ AUGUSTEA 44 a.C. - 14 d.C  Virgilio  Orazio  Cornelio Gallo  Tibullo elegia  Properzio  Ovidio  Livio ETÀ DELLA DINASTIA GIULIO-CLAUDIA 14-68 d.C.  Seneca  Lucano  Petronio  Persio ETÀ DEI FLAVI E DI TRAIANO 69-117 d.C.  Stazio  Valerio Flacco epica flavia  Silio Italico  Plinio il Vecchio  Marziale  Quintiliano  Plinio il Giovane  Tacito  Giovenale ETÀ DI ADRIANO E DEGLI ANTONINI 117-192 d.C.  Apuleio 2 LE ORIGINI I romani tendevano a collocare l’inizio della loro storia letteraria nel 240 a.C., anno in cui Livio Andronico aveva fatto rappresentare per la prima volta un testo scenico in lingua latina. La produzione precedente questa data è sprofondata in un periodo di oscurità lungo diversi secoli. Non sappiamo pressoché nulla della produzione letteraria precedente a quella data. Il problema delle origini si poneva ai romani in una prospettiva di concorrenza rispetto alla tradizione greca, che poteva vantare quale iniziatore della letteratura il grande Omero. Alla tradizione greca, i romani cercarono sempre di contrapporne una propria, individuando poi in Ennio il sommo progenitore della poesia patria. Lo stretto confronto con i modelli greci impone alla letteratura romana una precoce maturazione, legata alla riflessione su complessi problemi stilistici e poetologici. Si può dire quindi che la letteratura latina nasca già ‘adulta’ e consapevole, essendosi così addestrata a processi sofisticati quali l’imitazione, l’allusione, la caratterizzazione degli stili. Per ricostruire le origini letterarie è necessario fare un passo indietro e analizzare le prime forme di comunicazione che testimoniano la diffusione della scrittura e l’alfabetizzazione nella Roma arcaica. Queste fonti non possono essere catalogate come letteratura, ma rappresentano i presupposti alla nascita di una cultura letteraria vera e propria. Iscrizioni su pietra o bronzo costituiscono i più antichi monumenti della lingua latina, il cui uso scritto è legato a momenti della vita quotidiana, ma anche alla registrazione di leggi, trattati o patti con altre città. Lo stile di questi antichi monumenti esercitò un forte influsso sulle origini della prosa latina. Il termine fasti in origine designava il calendario ufficiale romano, che ogni anno i pontefici - le massime autorità religiose - stabilivano e divulgavano con la distinzione dei giorni in fasti e nefasti, a seconda che fosse permesso o meno il disbrigo degli affari pubblici. Molto presto, però, i fasti cominciarono ad arricchirsi anche di altre informazioni, quali le liste dei magistrati nominati anno per anno (fasti consulares, fasti pontificales) e i trionfi militari ottenuti dal magistrato in carica (fasti triumphales). Un altro passo importante fu l’uso della tabula dealbata, una ‘tavola bianca’ che il pontefice massimo esponeva pubblicamente per dichiarare, oltre ai nomi dei magistrati dell’anno in corso, anche avvenimenti significativi per la collettività come date di trattati, dichiarazioni di 5 vari ludi, cioè le celebrazioni religiose in occasione delle quali avevano luogo gli spettacoli), alla nobiltà, al popolo minuto. La diffusione di questo tipo di comunicazione artistica è enorme e supera quella della letteratura ‘scritta’, che rimane un fenomeno più ristretto. Fioriscono corporazioni professionali, in cui si raccolgono autori ed attori, si sviluppano le prime polemiche che vedono i poeti dichiarare le proprie posizioni e difenderle dagli attacchi di avversari. I caratteri di questo teatro vanno esaminati alla luce della provenienza storico-culturale dei principali generi teatrali romani, in origine tutti importanti dalla Grecia, cui sono riconducibili i due più importanti tipi di spettacolo, la palliata e la cothurnata. La prima, di carattere conico, deriva il nome dal “pallio”, una tipicamente greca, più corta e semplice della toga, indossata dai personaggi; autori di palliate sono Plauto, Cecilio Stazio e Terenzio. La seconda, a carattere tragico, deve la sua definizione ai “coturni”, altissimi calzari indossati dagli attori tragici greci, che dovevano rendere i personaggi sulla scena più imponenti e visibili a tutti gli spettatori. Entrambe sono ambientate in Grecia, i personaggi hanno un nome greco, lo sfondo degli avvenimenti della trama è anch’esso greco. Tutti i drammi hanno precisi corrispettivi in opere teatrali greche, la cui funzione di modelli non è nascosta dagli autori latini. Presto si svilupperanno anche una commedia e una tragedia di ambientazione romana: la togata (da toga, la veste della vita quotidiana romana) e praetexta (la “pretesta” era la veste bordata di porpora tipica del magistrato romano). Entrambe sono caratterizzate dalla fusione di modi tradizionali ellenici e elementi indigeni. Le preteste sono ispirate alla storia o alle leggende relative alla fondazione e ai primi secoli di vita di Roma, ma la messinscena mantiene comunque i caratteri tipici della tragedia greca sia nello stile in cui parlano e si atteggiano i personaggi che nel modo di raccontare i fatti del mito, nella rappresentazione del rapporti tra uomini e dei e dello stesso dolore umano. I termini tecnici della drammaturgia, in buona parte di origine greca, presentano talvolta una derivazione etrusca; Tito Livio afferma l’origine etrusca degli spettacoli romani (lo stesso termine “histrio”, attore, deriva dall’etrusco), ma riferendosi probabilmente agli spettacoli pubblici piuttosto che al teatro vero e proprio. Si riconosce una mediazione etrusca nella diffusione a Roma di spettacoli di musica, mimica, danza, ma rimane incerta l’esistenza in Etruria di effettive rappresentazioni teatrali. Livio conferma comunque l’antichità della spettacoli organizzati dallo Stato romano e pubbliche cerimonie in occasione di feste e solennità religiose. Abbiamo così un parallelo con la tragedia di Atene, anch’essa collegata a festività cicliche e pubbliche, sebbene a Roma il legame fosse più superficiale: in occasione 6 delle feste si davano anche rappresentazioni teatrali, ma il teatro latino non sembra mostrare una presenza forte di tematiche attinenti alla sensibilità religiosa o al contenuto delle celebrazioni festive. La più antica ricorrenza teatrale è quella legata alla celebrazione dei ludi Romani in onore di Giove Ottimo Massimo, in occasione dei quali pare che Livio Andronico abbia messo in scena, nel 240 a.C., il primo testo drammatico, una tragedia ispirata al modello greco. Nell’età di Plauto e Terenzio abbiamo informazioni di quattro ricorrenze annuali deputate alla rappresentazione di ludi scaenici: oltre ai ludi Romani, che cadevano in settembre; in aprile cadevano i ludi Megalenses, in onore della Magna Mater; a luglio si celebravano ludi Apollinares, a novembre i ludi plebeii. L’organizzazione dei ludi era sempre a carico degli edili o dei pretori urbani. Il carattere statale e ufficiale dell’organizzazione ha importanti conseguenze sia sulla tragedia che sulla commedia. La prima è fortemente condizionata dagli interessi dei committenti, ovvero le autorità, in un’epoca in cui le principali cariche pubbliche sono rette dall’aristocrazia, essa influenzava la scelta dei temi e degli argomenti della tragedia, spesso i clan nobiliari hanno interesse ad esaltare degli antenati illustri, quasi a mitizzare le origini della propria superiore posizione sociale e guardano con favore a letterari e drammaturghi che accettino di celebrare gli antichi eroi dello Stato. La commedia, nonostante il suo realismo, sembra rimanere lontana dall’attualità politica e non esercita vere forme di critica sociale o di costume, tanto meno sono consentiti attacchi personali ed espliciti o prese di posizione politiche. Va comunque precisato che la nostra conoscenza della commedia latina è incompleta: Nevio è famoso per i suoi attacchi al clan nobiliare dei Metelli e pare che per cause politiche venisse anche incarcerato, ma del teatro comico di questo poeta non possediamo più nulla e non possiamo nemmeno farci un’idea schematica. Un’altra data importante per il teatro latino è il 207 a.C., quando fu fondato il collegium scribarum histrionumque, una confraternita di attori e autori. è un fatto significativo che queste attività fossero socialmente riconosciute, sebbene in modo ancora limitato, come si evince dall’assimilazione degli scrittori con gli attori. La successiva adozione del termine greco “poeta” è indice di maggior autocoscienza e della valorizzazione sociale del fare letteratura. Si delinea un’altra figura importante, ovvero il capocomico (dominus gregis), che dirigeva la compagnia e in alcuni casi recitava in prima persona. Prima del 55 a.C., anno in cui venne edificato il primo teatro di pietra, le strutture teatrali 7 erano solo provvisorie e in legno, tuttavia la sistemazione del pubblico e l’impianto scenico non dovevano essere rudimentali: le rappresentazioni della palliata, impostata su modelli greci del IV-III secolo, erano in grado di riprodurre sulla scena gli allestimenti tipici del teatro greco. L’azione si svolgeva sempre all’esterno, su una strada che portava alla piazza (agorà) e verso la campagna. Un aspetto fondamentale della messinscena era costituito dall’uso delle maschere, che erano fisse per determinati tipi di personaggi e ricorrenti nelle varie trame comiche: il vecchio, il giovane, la cortigiana. La loro funzione era quella di far riconoscere, sin dall’inizio della rappresentazione, quale fosse il ‘tipo’ del singolo personaggio. I prologhi di Plauto, che forniscono al pubblico informazioni sulla trama, citano i personaggi a seconda del loro ‘tipo’ generale e non insistono sui nomi, che il pubblico faticava a ricordare e ed individuare. L’uso di questi ‘tipi’ ebbe un forte influsso sulla poetica dei commediografi latini, com’è evidente in Plauto, che, utilizzando tipi psicologici stereotipati, poteva così rivolgere tutta la sua attenzione alla comicità delle singole situazioni e all’inventiva verbale. Viceversa, Terenzio lottò contro questa tendenza, cercando di approfondire la psicologia dei suoi personaggi senza troppo appoggiarsi al repertorio delle figure tradizionali. L’uso delle maschere doveva avere anche un’implicazione pratica: cambiando maschera un attore poteva recitare più di una parte, in questo modo anche quando erano necessari più personaggi, più attori potevano comparire due volte solo cambiando la maschera stessa. L’autore di palliate che meglio conosciamo, Plauto, scrive commedie non divise in atti e composte da parti cantate e recitate. Il verso proprio delle parti recitate era il senario giambico, corrispondente al trimetro giambico usato nelle parti dialogiche della commedia greca. Si noti che la commedia latina presenta versi più liberi e vari rispetto ai corrispondenti greci e che i modelli principali dei poeti comici romani, come le opere di Menandro, appaiono composte di sole parti recitate, queste restrizioni attribuivano il suo tipico effetto misurato di ‘realismo borghese’ alla Commedia Nuova greca, in cui l’esecuzione di brani musicali marcava la divisione tra i vari atti. La palliata, lasciando cadere quest’uso della musica valorizza proprio le parti cantate. Perciò, quando i latini ‘riscrivono’ e traducono gli originali greci, trasformano profondamente l’aspetto dei propri modelli. Accade che molti dei pacati monologhi dei personaggi greci diventino cantica, delle arie cantate in metri spesso molto complicati. La poetica realistica della Commedia Nuova comincia così ad essere intaccata. Pare, tuttavia, che la principale differenza tra tragedie romanae ed i loro modelli greci riguardi l’assenza del coro, ovvero di quel gruppo di attori che partecipavano come soggetto collettivo 10 NEVIO Vita Gneo Nevio, cittadino romano di origine campana, sembra che fosse di origine plebea: pochi nella Roma arcaica i letterati di tale origine. Combatté contro i cartaginesi nel corso della prima guerra punica (264-241 a.C.) e pare sia stato incarcerato in seguito ad aspri scontri con l’aristocrazia. Nevio infatti è il solo letterato romano che partecipa autonomamente alle contese politiche ed il solo privo di protettori autorevoli nel mondo nobiliare. Morì, forse in esilio, nel 204 o nel 201, lasciando un diffusa fama letteraria. Opere Numerose tragedie (fra cui almeno due praetextate, il Romulus e il Clastidium) e commedie. La sua opera principale è il Bellum Poenicum, in saturni: il poema doveva contenere 4000/5000 versi, ne restano appena una sessantina. Il poema narrava la storia di Enea che da Troia giunge nel Lazio e, nella sua parte principale, la storia della guerra punica, che Nevio aveva vissuto. Il poema aveva un contenuto di grande attualità politica per il pubblico romano. Fonti Notizie occasionali ci vengono da Cicerone e da San Girolamo. Un indizio ci viene fornita da Plauto: nel Miles Gloriosus si parla di un poeta incarcerato e costretto al silenzio: Nevio?! Tra mito e storia Nevio è il primo letterato latino di cittadinanza romana, e ci appare come letterato vivacemente inserito nelle vicende contemporanee. Il forte impegno di Nevio della vita politica di Roma traspare dai caratteri originali della sua opera: il Bellum Poenicum è il primo testo epico latino che abbia un tema romano: ha caratteri di originalità molto marcati, non solo la scelta di un tema storico quasi contemporaneo. Il suo racconto con un salto temporale, affondava nella preistoria di Roma: la fondazione di Roma si ricollegava alla caduta di Troia, e i viaggi per mare di Enea erano in qualche modo paralleli alle peregrinazioni di Odisseo. In questa fase Nevio doveva dare notevole spazio all’intervento divino: gli dei dell’Olimpo erano importantissimi nell’epica omerica, ma ora – nel nuovo poema nazionale romano – il tradizionale apparato divino assumeva anche una missione storica, e sanzionava la fondazione di Roma. Questa saldatura tra mito e storia innestava l’ascesa di Roma in una specie di visuale cosmica, nutrita di cultura greca. 11 Non conviene staccare troppo Nevio dalla tradizione letteraria greca: il Bellum Poenicum presuppone Omero, e presuppone anche la tradizione ellenistica del poema storico- celebrativo. L’idea di intrecciare una storia di viaggi e una storia di guerra (il viaggio di Enea, la guerra romano-cartaginese) sembra indicare un “incrocio” fra Iliade (la guerra di Troia) e Odissea (i viaggi di un eroe). Certi aspetti di stile rivelano un’originale mescolanza di cultura poetica ellenistica e ispirazione nazionale. L’importanza delle figure di suono: ripetizioni, allitterazioni, assonanze tendono a formare la struttura portante del verso, in particolare il saturnio trovava una sua armatura formale proprio nelle ripetizioni foniche. La sperimentazione si sviluppò in due direzioni principali: 1. la sezione “mitica” del poema imponeva a Nevio una sfida del linguaggio poetico greco, con la sua inesauribile riserva di epiteti preziosi, Nevio sperimenta nuovi composti e nuove combinazioni sintattiche; 2. la sezione “storica” imponeva altri problemi. Nevio adatta lo stile poetico a una lunga narrazione continua. Nel complesso, il Bellum Poenicum appare come un’opera di forte sperimentalismo, in cui forse le diverse componenti stilistiche non trovano uno stabile equilibrio. Dopo il tramonto del saturnio, la fama del poema sarà sempre oscurata dagli Annales di Ennio. Quell’ideologia eroica che nella storia di Roma verrà spesso rievocata, anche in forma distorta o insincera, trova nell’opera di Nevio una delle espressioni più autentiche. La produzione teatrale di Nevio, a giudicare dalle testimonianze degli antichi che lo annoveravano tra i maggiori, appare cospicua. Romulus e Clastidium sono i primi titoli a noi noti di preteste, le tragedie di argomento romano, la prima trattava la drammatica storia della fondazione di Roma; la seconda, che doveva essere una celebrazione della vittoria di Casteggio ottenuta nel 222 a.C. contro i Galli dal console Marco Claudio Marcello, costituisce una grande novità poiché ha come tema una vicenda molto vicina nel tempo. Tra le tragedie mitologiche - di cui parecchie, come l’Hector proficisciens, legate al ciclo troiano - si segnala per il suo legame con questioni sociali e politiche di grande attualità, il Lycurgus, dal nome del re trace che volle reprimere il culto di Dioniso, il cui argomento sembra connettersi alla diffusione a Roma del culto dionisiaco fino alla soppressione nel 186 a.C., con il senatus consultum de Bacchanalibus. Di gran lunga più importante appare la produzione comica, di cui restano titoli sia greci che latini: Colax (“l’adulatore”), Guminàsticus 12 (“Il maestro di ginnastica”), Dolus (“L’inganno”), Corollaria (“La commedia delle ghirlande”), tra le quali si distingue un vivace frammento della Tarentilla (“La ragazza di Taranto”). Sembra che Nevio si ispirasse a modelli greci, combinandone diversi in una stessa commedia: è la pratica della “contaminazione”, alla quale faranno ricorso anche gli autori comici più tardi. è sicuro che il teatro di Nevio fosse più ‘impegnato’ di quello del secolo successivo, la sua opera conteneva attacchi personali contro avversari politici e scandiva a più riprese il suo amore per la libertà. Questa passione civile ed il suo anticonformismo valsero al poeta l’esilio ad Utica, dove morì nel 204 o nel 201 a.C. Di gran lunga più importante la produzione comica, che fa di Nevio il più autorevole predecessore di Plauto, e che suggerisce un talento letterario molto versatile. PLAUTO Vita Plauto, come del resto quasi tutti i letterati latini di età repubblicana, non era di origine romana: certamente cittadino libero. Molte incertezze gravano sulla sua vita, sembra comunque sicuro che il poeta sia nato a Sarsina tra il 255 e il 250 a.C., è il primo autore latino che non proviene da una zona di cultura greca. La data di morte sarebbe da porsi nel 184 a.C.. Opere e fonti Plauto fu autore di enorme successo, immediato e postumo. Di Plauto furono condotte vere “edizioni” ispirate ai criteri di filologia alessandrina. I filologi antichi e in particolare Marco Terenzio Varrone, si dedicarono a un lavoro di identificazione e sistemazione delle commedie originali. Le commedie furono dotate di didascalie, cioè brevi introduzioni e di sigle che distinguessero le battute dei diversi personaggi, inoltre i versi furono impaginati in modo che ne fosse riconoscibile la natura metrica. Verrone, nel De comoedis Plautinis, indicò ventuno commedie che a suo parere erano le uniche sicuramente autentiche e genuine, che sono le stesse giunte fino a noi: Amphitruo, Asinaria (“Commedia degli asini”), Aulularia (“Commedia della pentola”), Captivi (“I prigionieri”), Curculio, Casina, Cistellaria (“Commedia della cassetta”), Epidicus, Bacchides, Mostellaria (“Commedia del fantasma”), Menaechmi, Miles gloriosus (“Il soldato fanfarone”), Mercator (“Il mercante”), Pseudolus, Poenulus (“Il cartaginese”), Persa (“Il persiano”), Rudens (“La gomena”), Stichus, Trinummus (“Le tre monete”), Truculentus, Vidularia (“Commedia del baule”). 15 mosse e contromosse, il giovane sconfiggerà le mire del vecchio, che ha fra l'altro una moglie battagliera, e si terrà la cortigiana che ama. Miles gloriosus (Il soldato fanfarone) - La commedia, considerata uno dei capolavori di Plauto, mette in scena un servo arguto, Palestrione, e un comicissimo soldato fanfarone, Pirgopolinice. Lo schema di fondo è quello abituale - un giovane si affida al servo per sottrarre a qualcuno la disponibilità della ragazza amata - ma l'esecuzione prevede un gran numero di brillanti variazioni. Mostellaria (La commedia del fantasma) - C'è un fantasma nella casa del vecchio Teopropide? Lo fa credere il diabolico servo Tranione, per coprire in qualche modo gli amorazzi del giovane padrone. L'inganno è divertente ma non può reggere a lungo: grazie all'intercessione di un amico, la vicenda si chiude su un perdono generale al giovane debosciato e al servo. Persa (Il persiano) - Ancora una beffa ai danni di un lenone, solo che questa volta l'innamorato è lui stesso un servo: non manca però un altro servo con funzione di aiutante. L'inganno, che ha successo, prevede una buffa mascherata, in cui il servo-coadiuvante impersona un improbabile Persiano. Poenulus (Il Cartaginese) - Qui il personaggio del titolo è sul serio uno straniero, un Cartaginese: l'azione, come al solito, è in Grecia. Assistiamo alle complicate vicende di una famiglia di origine cartaginese, con riconoscimento finale e riunione degli innamorati (i quali risultano essere fra loro cugini): il tutto a spese di un lenone. Pseudolus (Pseudolo) - Insieme al Miles, è tra i culmini del teatro plautino. Lo schiavo del titolo è veramente una miniera di inganni, il campione dei servi furbi di Plauto. Pseudolo riesce a spennare il suo avversario Ballione - un lenone di eccezionale efficacia scenica - portandogli via la ragazza amata dal padroncino e anche dei soldi in più: la beffa è così ben riuscita che Ballione, senza sapere di aver già perso la donna, si gioca una bella somma che Pseudolo non potrà mai riuscire nel suo intento! Rudens (La gomena) - Una rudens è un gòmena, attrezzo che è naturale trovare in una commedia ambientata sulla spiaggia. In un curioso prologo, la stella Arturo preannuncia il naufragio di un cattivo soggetto, il lenone Labrace. Labrace porta con sé indebitamente una fanciulla di liberi natali. Il Caso vuole che la tempesta scarichi i naufraghi su una spiaggia in cui si trovano il padre della fanciulla rapita e il suo innamorato. Tutto si accomoda con danno del malvagio, e una cassetta (ripescata grazie alla gòmena del titolo) risulta decisiva nel riconoscimento finale. Stichus (Stico) - Questa trama ha uno sviluppo insolitamente modesto, e debole tensione. Un uomo ha due figlie, sposate con due giovani da tempo in viaggio per affari: vorrebbe spingerle al divorzio, ma l'arrivo dei mariti risolve la questione, tra prolungati festeggiamenti. 16 Trinummus (Le tre monete) - Un giovane scialacquatore, che in assenza del padre s'è quasi rovinato, viene salvato, tramite un benevolo raggiro, da un vecchio amico di suo padre. L'intreccio e la tonalità sono molto più edificanti del solito, con punte che, per una volta, fanno pensare all'umanità terenziana. Truculentus (Lo zoticone) - Una volta tanto, abbiamo qui una cortigiana che non è elemento passivo e posta in palio nell'azione: Fronesio è una creatrice d'inganni, che sfrutta e raggira i suoi tre amanti. Lo spostamento dei ruoli tradizionali fa sì che la protagonista sia tratteggiata in modo più fosco che la media dei "cattivi" plautini: quasi che ci sia della malizia in più, a fare i cattivi "fuori ruolo". È certamente un esperimento isolato, che tenta di allargare il già lungo repertorio di successi: non a caso viene datata al periodo più tardo. Vidularia (La commedia del baule) - I pochi frammenti della commedia (poco più di 100 versi) parlano di un baule (in latino vidulus) che contiene oggetti atti a far riconoscere (agnitio) il giovane Nicodemo. Non mancano punti di contatto con la trama della Rudens. Per unanime riconoscimento, la grande forza di Plauto sta nel comico che nasce dalle singole situazioni, prese a sé una dopo l’altra, e dalla creatività verbale che ogni nuova situazione fa sprigionare. Una costante, come dato di fondo, la fortissima prevedibilità degli intrecci e dei “tipi umani” incarnati dai personaggi. Plauto desidera proprio questa prevedibilità: non vuole porre interrogativi problematici sul carattere dei suoi personaggi. I personaggi si possono ridurre a un numero limitato di “tipi”: il servo astuto, il vecchio, il giovane amatore, il lenone, il parassita, il soldato vantone. Questi tipi sono inquadrati fin dai prologhi e il pubblico ha così fin dall’inizio una traccia su cui far scorrere la propria comprensione degli eventi scenici. Ma ancora più caratterizzante in Plauto è la prevedibilità degli intrecci. Praticamente tutte le pieces si possono ridurre a una lotta fra due antagonisti per il possesso di “bene”: generalmente una donna e/o una somma di denaro necessaria per accaparrarsela. La lotta si decide, naturalmente, con il successo di una parte e il danneggiamento di un‟altra. E’ buona norma che il vincitore sia il giovane, e che il perdente abbia in sé le giustificazioni della sconfitta (è un vecchio, un uomo sposato, un ricco trafficante di schiave...): così la vittoria finale trova piena corrispondenza nei codici culturali che il pubblico già possiede, confermandone le aspettative. 17 Adottando questo schema generativo dalle convenzioni della Commedia Nuova, Plauto può puntare il suo prevalente interesse su certe particolari forme di intreccio. Quella di gran lunga preferita è quella definita “commedia del servo”, la cui ricetta: l’azione di conquista del bene messo in gioco è relegata dal giovane ad un servo ingegnoso; progressivamente, però, i suoi servi crescono di statura intellettuale e di libertà fantastica: creano inganni e persino li teorizzano. Al centro dell’azione sta nelle opere più mature un vero e proprio demiurgo: un artista della frode, un poeta che sotto gli occhi di tutti sceneggia la vicenda. La coppia “giovane-desiderante servo-raggiratore” è quindi la più solida costante tematica del teatro di Plauto. Per completare il quadro, manca un elemento: una forza onnipresente, la Fortuna, la Tyche, che è regina incontrastata del teatro ellenistico. La sua presenza ha un grande valore stabilizzante. Il servo ha spesso bisogno di un’antagonista alla sua altezza; e la trama ha bisogno di uno scatto irrazionale, di un quoziente imprevedibile. Ma non è solo questo il valore della Fortuna. Plauto afferma un’altra preferenza: commedie che ruotano su un riconoscimento, un’identità nascosta, mentita o perduta e poi rivelata. Si parla di “commedia degli equivoci”: tutte hanno in comune la scatto furioso dell’agnizione conclusiva, del riconoscimento che scioglie le difficoltà. Il contrasto fra messinscena e realtà non può durare per sempre, anche se è divertente: e qui entra in gioco la Fortuna. Così scopriamo che esiste una realtà per così dire autentica e sincera della realtà iniziale, quella su cui lo schiavo operava i suoi trucchi. I modelli greci La grandezza sta anche in altro aspetto: la maestria ritmica, i numeri innumeri (gli infiniti metri) di Plauto, sono parte integrante della sua arte. È questo un aspetto in cui Plauto si distacca nettamente dai suoi modelli greci: anzi, proprio la predilezione per le forme “cantate” – estranee alla struttura del teatro menandreo – è proprio uno dei fattori che regolano il vertere, la ricreazione in latino dei modelli greci. Plauto si preoccupa molto poco di comunicare il nome ed eventualmente la paternità, della commedia greca su cui via via si è orientato. Alcuni modelli sono le commedie Menandro, Difilo, Demofilo, ma Plauto non ha nessuna preferenza, e ne deriva una conseguenza: lo stile è intrinsecamente vario e polifonico, ma varia piuttosto poco da commedia a commedia, e accostando le varie sue opere la coerenza in stile e maniera è pronunciata. D’altra parte, i tratti costanti e dominanti dello stile plautino non riguardano l’intreccio delle 20 in cui meno il pubblico può riconoscere un fondamento realistico; il personaggio, infine, che più spesso marca il distacco di Plauto dalla traccia dei suoi modelli. Orientata alla riconferma di un ordine e di una normalità sociale, la commedia plautina ha ben poco di sovversivo, e anche il protagonismo dello schiavo non vuole in nessun modo discutere e corrodere i dogmi della vita sociale; per converso, l’azione imprevedibile e amorale del servo ingegnoso porta nella trama un quoziente di disordine che arriva quanto meno a sospendere la normalità irreggimentata dalla vita quotidiana. Plauto non propone, non lo vuole, una chiara scelta tra realismo e finzione. I suoi personaggi sono così propensi a giocare con se stessi, da proibire al pubblico qualsiasi identificazione. Proprio in questo genere letterario che ha fondamenti quotidiani e realistici i Romani imparano da Plauto a riconoscere le inesauribili ambiguità della finzione poetica. Fortuna del teatro plautino Le “venti commedie” che risalivano alla scelta canonica di Varrone continuarono ad essere ricopiate per tutto il Medioevo, ma la lettura diretta di Plauto rimase per tutto questo periodo un fatto eccezionale. A partire dalla generazione di Petrarca una parte delle commedie cominciarono ad avere una buona diffusione. A partire dal 1429 tornano in circolazione tutte la commedie “varroniane”: rinasce la passione per questo autore intesa come fatto puramente teatrale. La commedia umanistica vive appunto di adattamenti e libere interpretazioni dei modelli plautini: si sviluppo un teatro in latino e poi, nel Cinquecento, un teatro italiano che vuole liberamente inserirsi nel codice scenico costituito dalla palliata romana: non solo il teatro comico dell’Ariosto, ma anche un’opera come la Mandragola vanno comprese in questa tendenza, e devono molto all‟assimilazione del teatro plautino. Tra Cinquecento e Settecento la fortuna di Plauto è sempre intrecciata con lo sviluppo del teatro comico europeo: Ariosto, Shakespeare, Moliere, Ruzante, Goldoni, sono tutti collegati dalla traccia della tradizione plautina. È certamente, anche oggi, il più rappresentato di tutti i poeti latini. A differenza di Terenzio, Plauto rimase lungamente estraneo alla tradizione dell’insegnamento. Le ragioni: lingua, stile, metrica, risultano troppo difficili; inoltre l’insegnamento normativo della grammatica si basava su altri autori; per di più, i temi e le trame delle commedie si prestavano male a un insegnamento rivolto a fornire esempi di moralità e di serietà. 21 ENNIO Vita Quinto Ennio nacque nel 239 a.C. a Rudiae (presso Lecce), quindi non era latino ma, come molti altri poeti e letterati dell’età arcaica, proveniva da un’area di cultura italica fortemente grecizzata. Si formò forse a Taranto per poi giungere a Roma soltanto in età adulta, intorno al 204 a.C. Svetonio definisce Ennio semigraecus, il poeta stesso amava sottolineare la sua natura “trilngue”, divisa tra il Latino, il Greco, e l’Osco. A Roma svolge l’attività di insegnante e scrittore per il teatro sopratutto delle tragedie. Nel 189 accompagna il generale Marco Fulvio Nobiliore in Grecia, con l‟incombenza di illustrare con i suoi versi la campagna militare. Diventa un protetto della grande famiglia aristocratica di Marco Fulvio Nobiliore, successivamente entrerà anche nella cerchia degli Scipioni; riceverà tra l’atro la cittadinanza romana, come ricompensa e consacrazione puibblica dei suoi meriti. Nell’ultima parte della sua vita si dedicò alla fatica degli Annales, il poema epico che gli darà fama perpetua a Roma. Opere Di tutti i suoi testi abbiamo solo frammenti di tradizione indiretta. Delle sue tragedie ci restano 200 frammenti, circa 400 versi. È attestata una larga varietà di opere minori, di cui rimane ben poco, benché molte di esse abbiano avuto un seguito importante nella letteratura latina.  Gli Hedyphagetica (“Il mangiar bene”), erano un’opera didascalica sulla gastronomia, ispirata ad un poemetto di Orchestrato di Gela. Se effettivamente, come si pensa, vennero composti prima degli Annales, si tratta della prima opera latina attestata in esametri. Era un testo di carattere sperimentale e parodico, lo dimostra già la scelta del verso utilizzato da Omero e, in generale, dalla poesia narrativa in stile elevato. Ciò lascia immaginare un’affinità con un’altra opera enniana, le Saturae, primo esempio di un genere che godrà di ampia fortuna nella poesia latina, in esse Ennio probabilmente raccontava episodi autobiografici. Altri testi di Ennio di minore rilevanza si possono raggruppare per il loro sfondo filosofeggiante.  L’Euhemerus, scritto forse in prosa, era una narrazione che divulgava il pensiero di Evemero da Messina, autore della Scrittura Sacra, opera che narrava di un favoloso viaggio nell’Oceano Indiano e sosteneva che la credenza negli dei derivasse da tradizioni sulle gesta di antichissimi eroi, poi onorati e promossi al rango di dei. L’Epicharmus, invece, scritto in settenari trocaici, si richiamava alle riflessioni del 22 commediografo greco Epicarmo. Ma il capolavoro di Ennio sono gli Annales, poema epico in esametri che, in 18 libri, narrava la storia di Roma: ce ne restano 437 frammenti per un totale di 600 versi. Fonti Per gran parte della storia letteraria romana Ennio è il più citato, ammirato, criticato e riesumato. Il dato più interessante è la probabilità che molte notizie riprese da autori più tardi siano autobiografiche. È significativo che di lui esista una tradizione figurativa: statue e pitture che lo effigiavano; ritratti di un poeta, sono ndella Roma arcaica, una novità di assoluto rilievo. Il teatro Ennio fu, nella produzione drammatica, essenzialmente poeta tragico: non a caso il modello preferito è Euripide, il più moderno dei grandi tragici ateniesi, il più aperto all’introspezione psicologica e alle situazioni di maggiore passionalità. Da Euripide, Ennio tradusse molte tragedie, soprattutto del ciclo troiano. Il rapporto con i modelli greci non sembra puramente emulativo: il poeta non cerca il confronto con gli originali per mostrare la sua bravura, piuttosto il progetto stesso della traduzione, così come Ennio la pratica (ampliamento e intensificazione patetica, libera contaminazione di modelli diversi) è l’impegno di un teatro “vivo”. Gli originali più famosi e più spesso rappresentati vennero così in gran parte riscritti, contaminati con nuovi brani o tratti da altre tragedie. La stessa nozione di “autentico” ancora non esisteva. Quell’intensificazione patetica che sembra propria del vertere enniano non va attribuita al passionale gusto latino. Una retorica della commozione grandiosa che, e spesso non è nelle parole del modello, entra insistente nel testo enniano almeno come tratto di una langue drammatica greca: che riconosciamo soprattutto in espressioni ridondanti – più esternazione stilizzata di sentimenti che vero contenuto informativo - . Tutto un vocabolario della teatralità greca di cui la scena enniana si appropria. Tale scelta risponde ad un’esigenza teatrale ben precisa: quella di produrre interesse nel pubblico, di coinvolgerlo emotivamente, di suscitare processi psicologici di identificazione. Per questo in Ennio poteva comparire ancora il coro: la ricerca di un’identificazione tra 25 dicti studiosus, cioè il primo poeta filologo, cultore della parola; il primo che può stare alla pari con la raffinata cultura alessandrina e con la poesia contemporanea di lingua greca. Sicuramente Ennio poteva riferirsi all’importanza di essere stato il primo ad adottare l’esametro dattilico, il verso regolare della grande poesia greca. Lo sperimentalismo enniano: lingua, stile e metrica I frammenti che abbiamo documentano la fisionomia di un poeta profondamente e audacemente “sperimentale”: accolse nel suo testo numerosi grecismi, non solo parole, ma persino desinenze greche. Scrisse esametri con pause sintattiche praticamente in qualsiasi punto del verso. Ideò versi tutti allitteranti, e tutti allitteranti nello stesso fonema: o Tite, tute, Tati, tibi tanta, tyranne, tulisti (“o Tito Tazio, tiranno, tu ti attirasti <disgrazie> tanto grandi!”). L’allitterazione e la distribuzione dei suoni nel verso è di particolare interesse. Lo stile allitterante era istituzionale, tipico dei carmina più antichi, nei proverbi, nelle leggi, nelle formule sacrali... Ennio lo importò nell’esametro, sottoponendo così un verso greco agli effetti di uno stile tipicamente romano. Molte innovazioni dello sperimentatore Ennio ebbero grande futuro nella letteratura romana. La ripresa dell’esametro greco fece storia, ma non fu l’unica conquista di Ennio. Egli lavorò per adattare la lingua latina all’esametro e l’esametro alla lingua latina. Sicuramente elaborò regole precise per la collocazione delle parole nel verso, per lincotro di fonemi vocalici e per l’uso delle cesure. L’aspetto più arcaico dello stile enniano – quello che i poeti successici sentiranno più estrneo e superato – sta proprio nell’incotro fra esametro e stile allitterante. Questo stile ripetitivo era per così dire connaturato a versi come il senario o il saturnio. In questi versi l’allitterazione dava una specie di regolarità, di “armatua” ritmica. Ma l’esametro era per sua natura e struttura un verso molto uniforme e regolare; applicato all’esametro lo stile allitterante suonava monotono e cadenzato. I poeti successivi faranno un uso più selettivo e misurato delle figure di suono nei loro esametri, cercando di motivarle, cioè di usarle solo con particolari finalità espressive. Virgilio ne farà un uso per far sentire nei suoi versi il codice di una poesia antica e tradizionale, ma ormai lontana. Ennio e l’età delle conquiste Sul piano dei contenuti morali e ideali, gli Annales accentuno una tendenza che già doveva 26 essere operante in Nevio: fissare nel testo epico non solo racconti di gesta, ma anche valori, esempi di comportamento, modelli culturali. La visione del mondo che Ennio comunica nel suo poema è, per quanto possiamo capire, il trionfo dell’ideologia aristocratica. Gli Annales celebravano la storia di Roma come somma di imprese eroiche, dettate dalle virtus degli individui: individui eccellenti, i grandi nobili, i grandi magistrati che hanno guidato disciplinati eserciti alla vittoria. Dai frammenti che abbiamo emergono ritratti di grandi condottieri e grandi uomini di stato. Ennio è dunque il più grande poeta di una cerchia aristocratica che “rilegge” la storia d Roma in funzione dei propri valori ed interessi. Tipica del periodo è la ricerca di una concezione colta e umanistica della virtus: Ennio non elogia solo, omericamente, le virtù guerriere, ma anche, soprattutto, le virtù di pace: saggezza, moderazione, saper pensare e saper parlare. Il grande ruolo che Ennio tributava alla letteratura è del tutto coerente con questa tendenza umanistica e grecizzante: è la poesia che deve portare incivilimento. Resta per molti secoli il poeta nazionale romano, raggiunto solo da Virgilio. Gli Annales non potevano già contenere una sintesi compiuta dell’imperialismo romano, perché Ennio non visse abbastanza: morì un anno prima della tappa più importante di questo processo, la battaglia di Pidna (168 a.C.). Il primo vero bilancio dell’imperialismo romano sarà tracciato da Polibio. TERENZIO Vita Originario di Cartagine, sarebbe nato nel 185/184; più probabile una data di circa 10 anni anteriore. Sarebbe giunto a Roma come schiavo. Tutte le fonti antiche sottolineano i suoi stretti legami con Scipione Emiliano e Lelio, sicuramente suoi protettori. Terenzio sarebbe morto nel 159, o comunque ben prima della III guerra punica, nel corso di un viaggio in Grecia intrapreso con scopi culturali. Il dato, se genuino, è interessante perché questi tour cultarali della Grecia diventarono in seguito caratteristici nella formazione dei Romani colti. Un episodio de genere è riferito anche a proposito della morte di Virgilio. Opere La cronologia delle opere è attestata con precisione nelle didascalie anteposte nei manoscritti alle singole commedie. Si tratta di sei commedie, integralmente tramandateci: Andria, rappresentata nel 166, Hecyra (“La suocera”) nel 165, Heautontimorùmenos (“Il punitore di se 27 stesso”) nel 163, Eunuchus, rappresentata nel 161, Phormio nel 161 e infine Adelphoe (“I fratelli”) nel 160. I modelli greci utilizzati e dichiarati nei prologhi appartengono alla Commedia Nuova attica: soprattutto Menandro e Difilo. Fonti Il riferimento principale è la Vita Terenti contenuta nel De viribus illustribus di Svetonio (100 d.C. ca.), che utilizza ampiamente eruditi di età repubblicana. Il commento di Elio Donato (IV sec. d. C.) è una delle migliori opere del genere giunte fino a noi, e ha buone informazioni su questioni di tecnica teatrale e messa in scena delle commedie. Lo sfondo storico Le pur controversie notizie biografiche antiche inseriscono Terenzio al centro di quella che gli stoirci moderni usano chiamare “l’età degli Scipioni”. Il debutto teatrale di Terenzio risulta collocarsi due anni dopo la battaglia di Pidna che, con la definitiva vittoria sui Macedoni, costituì un momento cruciale nell’evoluzione della potenza romana e nei rapporti di Roma con l’oriente greco. Di qui in avanti per circa 20 anni, si ha un lungo periodo di pace, in cui Roma consolida la sua posizione di potenza imperiale. La data di Pidna, il 168 a. C., è uno spartiacque. In seguito alla vittoria di Emilio Paolo furono deportati mille ostaggi Achei, tra cui intellettuali quali lo storico Polibio, fu quasi simbolo dell’appropiazione di un mondo. L’appropriazione del mondo greco si sviluppò dunque su più livelli distinti: modificazioni nel gusto e nella mentalità, crescita dei consumi di lusso e dei consumi di arte, interessi per nuovi modelli culturali e ideologici; quest’ultimo aspetto prese forza attraverso nuovi tipi di contatto culturale. Un grande clan nobiliare, la casata degli Scipioni, diventò un centro di elaborazione di cultura greicizzante, non più passivamente importata, o mediata ad un livello popolare, ma ricondotta alla più alta dignità teorica. La commedia era stata, con Plauto, un grande momento di intrattenimento popolare, che non richiedeva da parte del pubblico un grande sforzo di comprensione e di meditazione, né proponeva introspezioni nella psicologia dei personaggi, offriva anzi un intreccio convenzionale puntellato da continue e sorprendenti invenzioni comiche. Il nuovo indirizzo portò, proprio con Terenzio, a innovazioni anche nella poesia scenica. Il teatro di Terenzio accetta l’inquadramento convenzionale e ripetitivo delle trame, ma la dominante è l’interesse per i significati: per la sostanza umana che è messa in gioco dagli intrecci della commedia. Il difficile tentativo di Terenzio è usare un genere fondamentalmente 30 In realtà, lo stile medio e pacato di Terenzio è più vicino alla realtà di quello plautino, i personaggi non si abbandonano a tirate imprevedibili in cui si mescolano parodie letterarie, doppi sensi, metafore e allusioni di ogni tipo, l’impressione è più vicina a quella di una conversazione quotidiana. Questa restrizione o censura del linguaggio serve ad assicurare il predominio di certi contenuti. Ma l’elemento che più distingue Terenzio nel quadro della commedia latina è la sua costante e controllata preoccupazione per il verosimile. Ciò non significa, assolutamente, che Terenzio, per essere “verosimile”, riproduca realisticamente la parlata quotidiana. Si adegua in qualche modo ad una lingua realmente parlata, ma è una lingua settoriale: quella parlata dalle classi urbane di buona educazione e cultura. La restrizione e selezione del lessico ha il suo corrispettivo nella forte riduzione della varietà metrica rispetto a Plauto e ai suoi infiniti metri: sono scarse le parti propriamente liriche, mentre molto contenuta è l’estensione dei cantica (parti cantante o declamate con accompagnamento musicale) in rapporto ai deverbia (parti recitate). I prologhi di Terenzio: poetica e rapporti con i modelli Tuttavia sarebbe sbagliato pensare a Terenzio come a una sorta di predicatore o autore educativo, il suo interesse per i contenuti morale e culturali non va a scapito della tecnica drammaturgica, al contrario, Terenzio è uno dei letterati latini più professionali, più consapevoli degli aspetti tecnici del proprio lavoro. L’interesse per la Commedia Nuova attica, e per Menandro, mostra bene questa la coesistenza di questi due aspetti: Menandro offriva sia un modello culturale – collegato all’interesse di Terenzio per valori quali l’humanitas – sia un modello letterario: un raffinato esempio di stile e di tecnica drammatica. Lavorando a fondo sui modelli greci (Menandro, Difilo, Apollodoro di Caristo), Terenzio riesce a esprimere sia la propria impostazione ideale che la propria vocazione letteraria. Menandro era stato modello anche per Plauto. Ma per Plauto la verosimiglianza non era un valore assoluto: nella palliata plautina il gioco scenico finisce facilmente per rispecchiare se stesso, mettendo in crisi l’effetto di realtà dell’intreccio scenico (metateatro plautino). Terenzio cura molto di più la coerenza e l’impermeabilità dell’illusione scenica. Lo sviluppo dell’azione non prevede mai esiti metateatrali, vengono rigorosamente eliminate quelle battute dei personaggi che si rivolgono liberamente al pubblico interrompendo l’illusione scenica e così rivelando qual è il meccanismo drammatico. La palliata di Terenzio non apre 31 mai al suo interno alcuno spazio di autocoscienza, i momenti di riflessione vengono tutti concentrati nello spazio del prologo. L’importanza data al prologo come istituzione letteraria è la principale innovazione tecnica di Terenzio rispetto alla tradizione plautina. Nella tradizione risalente alla Commedia Nuova, il prologo era generalmente concepito come spazio espositivo, di informazione preliminare alla comprensione della trama (antefatti, anticipi dello sviluppo dello scioglimento della scena). Questo metteva il pubblico in una posizione panoramica, più attenta allo sviluppo dell’azione e capace di apprezzare quegli effetti di ironia che sorgevano dalla situazione scenica. Terenzio rifiuta questa funzione informativa dei prologhi, anche a costo di qualche oscurità nella conduzione dell’intreccio. Adopera, invece, i suoi prologhi come personali prese di posizione dell’autore: chiarisce il rapporto con i modelli greci utilizzati, e risponde alle critiche dei suoi avversari su questioni di poetica. È evidente che questo presuppone un pubblico più avanzato, attento a problemi di gusto e dei tecnica: senz’altro più ristretto e selezionato. Quest’uso dei prologhi avvicina Terenzio a Ennio e Lucilio che nella loro pratica letteraria danno ampio spazio a momenti di riflessione critica e poetica, accostandosi così all’ideale alessandrino del “poeta-filologo”. Non a caso, Terenzio tende a sottolineare il suo distacco dalla vecchia generazione letteraria che comprende i poeti comici intorno a Plauto e Cecilio Stazio. Nel prologo dell’Andria ribatte l’accisa di contaminare fabulas, cioè di creare inopportune mescolanze dei suoi modelli greci (da qui gli studiosi moderni hanno adottato il termine “contaminazione” per indicare, in genere, la tecnica di “incrociare” modelli letterari divervi per un unico testo) e sottolinea come questa fosse una pratica già presente nei rispettati Nevio, Plauto, Ennio. Così, la prima scena dell’Andria è tratta da una commedia di Menandro, la Perinthia, dove Terenzio avrebbe però sostituito a un dialogo tra marito e moglie un dialogo tra padrone e servo. Si vede qui come la contaminatio non fosse un processo di trasposizione meccanica. Nel prologo dell’Heautontimorùmenos, Terenzio contrappone a una commedia statica (stataria) una piena di effettacci e con azione assai movimentata (motoria). Viene quindi rifiutata la farsa popolare di tipo plautino, con le sue scene movimentate da inseguimenti e litigi e i suoi personaggi caricaturali. è chiaro che Terenzio opponeva a questo stile sanguigno un ideale di arte più riflessiva e attenta alle sfumature, più verosimile, capace di fondare l’azione drammatica sul dialogo piuttosto che sul movimento scenico e sul clamore. 32 Le affermazioni programmatiche di Terenzio sull’uso dei modelli (adattamenti, contaminazioni…) sono per noi difficili da riscontrare, perché dei suoi originali non ci sono pervenuti che scarsi e casuali frammenti. Ciò che si riesce a distinguere, è che Terenzio se attiene piuttosto fedelmente alla linee degli intrecci menandrei, senza mai rinunciare ad approfondire gli interessi che più lo toccano: cioè, ci riporta ai contenuti della sua arte: caratteri e problemi di un’umanità borghese. Temi e fortuna dalle commedie di Terenzio Abbiamo visto che i difetti principali rimproverati all’arte di Terenzio dai suoi detrattori, ad esempio la mancanza di energia, dipendono da una scelta consapevole del poeta, infatti Terenzio sacrifica la ricchezza dell’inventiva verbale e delle trovate comiche estemporanee per l’approfondimento del carattere dei personaggi. L’Hècyra, ad esempio, mette in scena una cortigiana insolitamente generosa e disposta al sacrificio, l’Heautontimorùmenos parla di un uomo che si punisce e si emargina per le incomprensioni nate dal rapporto con il figlio, gli Adelphoe approfondiscono il rapporto padre-figlio attraverso il contrasto tra due educatori, il liberale Micione e il rigorista Demea. La palliata latina era sempre stata, per sua natura, fortemente ancorata alle situazioni familiari: i suoi tipi fissi erano il giovane innamorato, e il vecchio padre ingannato; ma in Terenzio questi rapporti diventano veramente rapporti umani, sentiti con maggiore serietà problematica. Questo approfondimento risente di una sincera adesione al modello di Menandro, e della circolazione di ideali “umanistici” di origine greca. A questo si deve l’apparizione di un concetto-chiave come humanitas – influenzato dal greco philantropìa – che è in piena sintonia con la cultura dell’età scipionica. Nel concetto (“riconoscere e rispettare l’uomo in ogni uomo”) confluiscono vari filoni di pensieri greci, ma tipicamente romana è la sintesi, ispirato da pragmatismo attivo. Non è certamente un caso che la commedia terenziana di maggior successo immediato (l’Eunuchus) sia quella in cui meno si affacciano temi psicologici e umanistici. Si tratta del più riuscito tentativo di Terenzio in direzione della comicità plautina: la commedia inscena un romanzesca travestimento (un giovane si traveste da eunuco per avere in consegna l’amata) e un burlesco personaggio di soldato fanfarone. La notevole qualità di questo testo dimostra in Terenzio anche delle attitudini puramente comiche e drammaturgiche. Sono poche le commedie di Terenzio che ebbero successo di 35 Tale impulso si può riconoscere come la ricerca di un genere letterario che consenta di esprimere la voce personale del poeta, che racconta in versi momenti ed esperienze della sua vita. Questo genere rappresenta una novità nel panorama letterario, perché nessuno dei generi canonici quali epica, tragedia e commedia prevedeva uno spazio di espressione diretta in cui il poeta potesse parlare di se stesso e del suo rapporto con la realtà contemporanea. Varietà, espressione personale del poeta e impulso al realismo sono caratteri che possiamo riconoscere anche nelle satire enniane. Ennio aveva scritto forse quattro o sei libri di satire in metri giambici o trocaici trattando argomenti disparati: un dibattito tra Vita e Morte, la favoletta di un contadine e di un’allodola, il ritratto caricaturale di un parassita, ma soprattutto interventi in prima persona del poeta e accenni di autoritratto. È verosimile che vari punti della tradizione biografica relativa a Ennio derivino dalle sue satire. La grande importanza storica di Lucilio consiste nell’essersi concentrato esclusivamente sul genere satirico, accogliendo come proprio ideale mezzo espressivo questa forma di poesia varia e personale. Lo sviluppo della satira nell’età di Lucilio significa anche lo sviluppo di un nuovo pubblico, interessato alla poesia scritta e desideroso di una letteratura più aderente alla realtà contemporanea. Lucilio affrontò uno spettro molto ampio di argomenti. Il libro I conteneva una vasta composizione nota come Concilium deorum, attraverso una parodia dei concili divini, scena tipica dell’epica, Lucilio prendeva di mira un certo Lentulo Lupo, personaggio inviso agli Scipioni, affermando che gli dei avevano deciso di farlo morire per indigestione. La parodia, proprio perché gioco costruito a spese di altri testi letterari molto noti, anzi spesso esemplari, comportava anche implicazioni critico-letterarie. Nel momento in cui il poeta faceva in modo che gli dei, riuniti in concilio per discutere di povere cose umane, si comportassero secondo il protocollo e le procedure del senato romano, la scena letteraria del Concilium deorum veniva mostrata per ciò che era, cioè nient’altro che un motivo convenzionale della poesia epica ormai privo di credibilità. La poetica realistica di Lucilio voleva reagire con ironia proprio contro la concezione della letteratura come vuota convenzionalità e ricorso a scene e motivi stereotipi. Il libro III conteneva la colorita narrazione di un viaggio in Sicilia, il tema del viaggio tornerà più volte nella storia del genere, ad esempio nella satira oraziana e, forse proprio per ispirazione luciliana, nel Satyricon di Petronio. In più di una satira si fornivano precetti culinari, anche tale spunto sarà raccolto da Orazio e non si dimentichi che Ennio, il primo autore ad avere certamente scritto alcune satire, era anche l’autore degli Hedyphagetica, il poemetto “sul mangiar bene”. 36 Nel libro XXX Lucilio descrive un sordido banchetto, ma accenni alla gastronomia, connessi con il tema polemico del lusso a tavola, ricorrono in più libri, in particolare, nel libro XX era narrato un banchetto organizzato da un parvenu, tale Granio, l’antenato dell’oraziano Nasidieno e del Trimalchione di Petronio. Il libro XVI pare fosse dedicato alla donna amata, se ne potrebbe concludere che Lucilio è l’antesignano della poesia personale d’amore, tendenza che diverrà centrale nei carmi catulliani e nell’elegia augustea. Sono inoltre ampiamente attestate disquisizioni su problemi letterari: giudizi su questioni di retorica e poetica, oltre che vere e proprie analisi critico- letterarie e grammaticali. Già nelle satire di Lucilio doveva avvertirsi quello spirito moralistico destinato ad affermarsi come caratteristica dominante della successiva tradizione satirica. La critica del poeta batte con vivo umorismo sui più diversi aspetti della vita quotidiana, rappresentati nella loro concretezza fisica e linguistica, sono spesso presenti spunti critici nei confronti dei costumi contemporanei, in particolare contro gli eccessi del luxus e le manie grecizzanti. Non sappiamo quanto le satire luciliane fossero collegate da un programma unitario ed è pericoloso immaginare questo poeta come una sorta di riformatore, infatti anche l’impegno politico di Lucilio può essere stato discontinuo ed oscillante. Ciò che emerge dai frammenti è il rifiuto di un unico livello di stile e l’elaborazione di un amalgama fatto del linguaggio elevato dell’epica, rivissuto come parodia, e dei linguaggi specialistici che finora restavano esclusi dalla poesia latina (scienza, medicina, gastronomia, diritto), insieme ad un linguaggio di tutti i giorni, attinto ai diversi strati sociali, perciò ricchissimo di grecismi. In questa prospettiva, Lucilio è quanto di più vicino al realismo moderno offra la letteratura latina. In questo contesto si colloca la tendenza a simulare l’improvvisazione dei propri versi, la disarmonia dello stile di Lucilio è certamente una scelta meditata, rivolta ad un preciso programma espressivo. Come voce personale del genere satirico, Lucilio resterà un modello per tutti i poeti satirici latini da Varrone in poi; Orazio, pur criticandolo per la vena torrenziale e la scarsa finitura formale, lo consacra quale inventor della forma satirica. Un solo aspetto della satira luculliana andrà perduto: quel tono di polemica personale e anche politica era legato a precise condizioni sociali ed istituzionali e, nella Roma imperiale, la satira dovrà cercarsi altri bersagli. 37 ETÀ DI CESARE 78-44 a.C. LA POESIA NEOTERICA Per indicare i protagonisti delle tendenze poetiche innovatrici che, accomunate da un rifiuto della tradizione nazionale personificata da Ennio, si affermarono nel I secolo a.C., Cicerone usa la sprezzante definizione di poetae novi o neòteroi. Il processo di rinnovamento del gusto letterario promosso dai neòteroi è un aspetto della generale ellenizzazione dei costumi, fenomeno che è conseguenza delle grandi conquiste del II secolo a.C. che, aprendo alla potenza romana lo scenario dell’area orientale del Mediterraneo, aveva messo a contatto l’arcaica società di contadini-soldati con popolazioni abituate a forme di vita più raffinate. Nel campo letterario si assiste a un lento ma progressivo indebolimento dei valori e delle forme della tradizione, specie di generi politicamente e moralmente ‘impegnati’, e all’emergere di esigenze nuove, dettate dall’affinarsi del gusto e della sensibilità. Una delle novità di questi poeti rispetto ai predecessori consiste non tanto nella semplice predilezione per la letteratura greca recente, quanto nella decisa imitazione dei suoi aspetti eruditi e preziosi. I neòteroi prendono dai poeti ellenistici il gusto per la contaminazione tra i generi, l’interesse per la sperimentazione metrica, la ricerca di un lessico e di uno stile sofisticati, e il carattere disimpegnato della loro poesia. Preludio della rivoluzione neoterica è la comparsa, negli ultimi decenni del II secolo a.C., di una poesia scherzosa e disimpegnata, frutto dell’otium, cioè lo spazio sottratto alle occupazioni civili e dedicato alla lettura e alla conversazione dotta. La rivendicazione delle esigenze individuali accanto agli obblighi sociali si manifesta anche nell’interesse per i sentimenti privati, come l’amore e, sopratutto, nell’elaborazione formale, che rivela un gusto educato dal contatto con la cultura e la poesia alessandrine. Nonostante gli elementi di continuità con la poesia nugatoria (dal latino che signific “bagatelle” per indicarne appun to la natura disimpegnata, di semplice intrattenimaneto, e la mancanza di pretese) e quella propriamente neoterica, ben maggiore è la consapevolezza che quest’ultima possiede e assai più netto è lo scarto che introduce rispetto alla tradizione latina. L’eleganza spesso manierata, l’artificioso sperimentalismo applicato sui modelli greci dai poeti preneoterici lasciano il posto, con i neoterici propriamente detti, a un tipo di poesia che non relega l’otium e i suoi piaceri in uno spazio ristretto ai margini di un sistema, ma li colloca al centro dell’esistenza, segnando così il culmine, sul piano letterario, di una tendenza da 40 dell’indirizzo atticista, quello che, perseguendo un ideale di nitida asciuttezza, era contrario all’enfasi e alle prolissità e dunque meglio si conciliava con il gusto neoterico. Di lui ci restano pochissimi versi, tra i quali un dolente epicedio (canto funebre) per la moglie Quintilia. La Io, invece, era un epillio sulla storia dell’eroina amata da Giove e perseguitata da Giunone, che la trasformò in giovenca. Il tema stesso della metamorfosi era molto caro ai poeti alessandrini, perché soddisfaceva il loro gusto per il paradossale e permetteva di cimentarsi in descrizioni di grande virtuosismo. CATULLO Vita Gaio Valerio Catullo nasce a Verona da un famiglia agiata. La data di nascita, secondo Svetonio, è nell’87 a. C.. Una volta giunto a Roma conobbe e frequentò personaggi di spicco nell’ambiente politico e letterario ed ebbe una relazione d’amore con Clodia (la Lesbia dei suoi versi), quasi certamente sorella del tribuno P. Clodio Pulcro e moglie di Q. Cecilio Metello, console nel 60. Secondo Girolamo, morì a trent’anni, di certo sappiamo che era ancora vivo nel 55 a.C. Opere Di Catullo abbiamo 116 carmi raccolti in un liber che si suole dividere, su base metrica, in tre sezioni. Il primo gruppo (1-60) è costituito da componimenti generalmente brevi e di carattere leggero (nugae “bagattelle”), di metro vario, sopratutto endecasillabi faleci ma anche trimetri gambici, scanzonti, saffici. Il secondo gruppo (61-68), assai eterogeneo, abbraccia un numero di carmi limitato ma di maggiore estensione e impegno stilistico (i metri sono vari: gallambo, gliconei, ferecratei, esametri, pentametri), sono i cosiddetti carmina docta. La terza sezione (69-116) comprende carmi generalmente brevi in distici elegiaci, i cosiddetti “epigrammi”. È controversa questione relativa alla composizione del liber catulliano: benché qualcuno lo riconduca al poeta stesso, l’ordinamento della raccolta (secondo un criterio, non cronologico, ma metrico: un criterio da filologi) è più spesso attribuito all’edizione postuma dei carmi, dalla quale alcuni dovettero restare esclusi. Quindi, forse, il libellus dedicato a Catullo da Cornelio Nepote non corrisponde esattamente al liber rimastoci, ma ne costituisce solo una parte. 41 Fonti Le notizie biografiche ci vengono soprattutto dai suoi carmi; sulle relazioni della famiglia con Cesare ci informa Svetonio. Che Lesbia fosse uno pseudonimo per Clodia lo sappiamo da Apulieo; e sulla Clodia con cui abitualmente la si identifica molto ci dice Cicerone, che ne traccia un ritratto nella Pro Caelio, l’orazione in difesa di Celio Rufo, ex amante della donna e da lei tardi tratto in giudizio per veneficio. I carmi brevi Il nome e la poesia di Catullo sono tradizionalmente associati alla rivoluzione neoterica, di cui costituiscono il documento più importante. Rivoluzione del gusto letterario, ma anche rivolta dei carattere etico: mentre si sgretolano, nell’età di crisi più acuta della repubblica, gli antichi valori morali e politici della civitas, l’otium individuale diventa l’alternativa seducente alla vita collettiva, lo spazio in cui dedicarsi alla cultura, alla poesia, alle amicizie e all’amore. Il piccolo universo privato, con le sue gioie e i suoi drammi, si identifica con l’orizzonte stesso dell’esistenza e l’attività letteraria non si rivolge più all’epos o alla tragedia, generi portavoce della civitas e dei valori, bensì alla lirica, alla poesia individuale, introversa, adatta ad accogliere ed esprimere le piccole vicende della vita personale. A questo progetto di recupero della dimensione intima rispondono in modo più evidente i “carmi brevi”, cioè l’insieme dei polimetri e degli epigrammi, in cui l’esiguità dell’estensione rivela la modestia dei contenuti e favorisce la ricerca della perfezione formale. L’oggetto di questa poesia sono affetti, amicizie, odi, passioni, aspetti minori o minimi dell’esistenza (come uno scherzoso invito a cena, il benvenuto ad un amico che torna dalla Spagna, le proteste per un dono malizioso ricevuto). Ne risulta un’impressione di immediatezza, che ha favorito l’equivoco di una poesia ingenua e spontanea di un poeta ‘fanciullo’ che dà libero sfogo ai suoi sentimenti. In realtà, la celebrata spontaneità catulliana è solo un’apparenza ricercata e ottenuta grazie a un ricco patrimonio di dottrina: anche i componimenti che sembrano più occasionali e riflesso immediato della realtà hanno i loro precedenti letterari. Bisogna quindi sottrarsi ai rischi del biografico e verificare di volta in molta la genesi complessa di questa coltissima poesia, non per negare l’importanza davvero insolita della vita vissuta, ma per vedere come essa si atteggia secondo movenze letterarie, come si è deposta nelle forme della tradizione. Non si dovrebbe dimenticare che il destinatario di ogni carme è per lo più rappresentante di una cerchia raffinata e colta: lui si attende un prodotto letterario che abbia veste stilistica e fattura formale di livello adeguato. Solide strutture formali costituiscono l’“ordito” su cui s’inscrive il gioco apparentemente tutto libero del poeta. 42 Lo sfondo della poesia di Catullo è costituito dall’ambiente letterario e mondano della capitale, di cui fa parte la cerchia degli amici neoterici, accomunati dagli stessi gusti, dallo stesso linguaggio, da un ideale di grazia, raffinatezza e brillantezza di spirito: lepos, venustas, urbanitas (grazia, eleganza, cortesia) sono i principi che fondano questo codice etico e insieme estetico, che governa comportamenti e rapporti reciproci ma ispira anche il gusto letterario. Su questo sfondo campeggia la figura di Lesbia, incarnazione della devastante potenza dell’eros, protagonista indiscussa della poesia catulliana. Il suo stesso pseudonimo rievoca Saffo, poetessa di Lesbo, è sufficiente a creare attorno alla donna un alone idealizzante: oltre alla grazia e a una bellezza non comune, sono soprattutto intelligenza, cultura, spirito brillante, modi raffinati a farne il fascino e ad alimentare la passione del poeta. Gioie, sofferenza, tradimenti, abbandoni, rimpianti, speranze, disinganni scandiscono le vicende di questo amore che è vissuto da Catullo come l’esperienza capitale della propria vita, capace di riempirla e di darle un senso. L’eros, cui non è più riservato lo spazio marginale accordatogli dalla morale tradizionale, diventa un centro dell’esistenza e valore primario, il sole in grado di risarcire la fugacità della vita umana. All’amore e alla vita sentimentale Catullo trasferisce tutto il suo impegno, sottraendosi ai doveri e agli interessi propri del civis, resta estraneo alla politico e alle vicende della vita pubblica, ai conflitti di potere che hanno lacerano la società tardo-repubblicana, limitandosi a esternare un generico sprezzante disgusto per i nuovi protagonisti della scena politica. Il rapporto con Lesbia, nato come adulterio, nel farsi oggetto esclusivo dell’impegno morale del poeta tende paradossalmente a configurarsi come un tenace vincolo matrimoniale. Un motivo insistente, oltre al tema delle nuptiae, cioè della fedeltà matrimoniale, sono le recriminazioni per la violazione, da parte della donna, del foedus d’amore, il cui carattere sacrale è accentuato dal richiamo a due valori cardinali dell’ideologia e dell’ordinamento sociale romano: la fides, che garantisce il patto stipulato vincolando moralmente i contraenti e la pietas, virtù propria di chi assolve ai suoi doveri nei confronti degli altri, specie dei consanguinei, nonché della divinità. Catullo cerca di fare di quella relazione irregolare “un aeternum sanctae foedus amicitiae” (un patto eterno di amicizia), nobilitandola con la tenerezza degli affetti familiari, ma l’offesa ripetuta del tradimento produce in lui un dolore dissidio tra la componente sensuale (amore) e quella affettiva (bene belle). Alla speranza sempre frustrata di un amore fedelmente ricambiato si accompagna nel poeta la consapevolezza di non avere mai mancato al foedus d’amore con la Lesbia, la gratificante 45 Una stile composito, con un’ampia gamma di modalità espressive. La vitalità del linguaggio espressivo e l’intensità del pathos non sono meno nei carmina docta; ma i vari elementi, come ad esempio la selezione di un lessico generalmente più ricercato e la presenza di stilemi e movenze della poesia “alta”, della tradizione enniana concorrano a dare ai carmina docta un carattere più spiccatamente letterario. La fortuna Catullo ebbe un successo vasto ed immediato: esercitò un influsso profondo sui più grandi poeti dell‟età augustea e di quella imperiale (Marziale). Fu invece pochissimo noto in Medioevo: nel secolo XI a Verona, il vescovo Raterio recuperò un codice contenente i carmi di Catullo. Dal secolo XII la sua fama fu sempre altissima: Petrarca, gli umanisti; più tardi Foscolo e il poemetto latino Catullo calvos con cui Pascoli gli rendeva omaggio. LUCREZIO Vita e Testimonianze La notizia biografica più ampia su Lucrezio compare nella traduzione del Chronicon di Eusebio fatta da S. Girolamo: Titus Lucretius poeta nascitur: qui postea amatorio poculo in furorem versus, cum aliquot libros per intervalla insaniae conscripsisset, quos postea Cicero emendavit, propria se manu interfecit anno aetatis XLIV («Nasce il poeta Tito Lucrezio: il quale, diventato pazzo a causa di un filtro d'amore, dopo avere scritto alcuni libri nei momenti di lucidità, che in seguito Cicerone pubblicò, si suicidò all'età di 43 anni».) Non è facile datare questa notizia, e neppure accordarla con quella fornita da Donato: si può affermare con certezza solo che il poeta nacque negli anni 90, morì verso la metà degli anni 50. Va respinta la notizia geronimiana sulla follia di Lucrezio: l’accusa dovrebbe essere nata in ambiente cristiano nel IV secolo al fine di screditare la polemica di Lucrezio. L’unico riferimento a Lucrezio nell’opera di Cicerone è una lettera al fratello Quinto del 54. Sulla provenienza di Lucrezio non si può affermare alcunché di concreto, si è ipotizzata un’origine campana basandosi sulla presenza, a Napoli, di una fiorente scuola epicurea e sul culto, a Pompei, di una Venus fisica dai tratti simili a quelli della dea cantata nel proemio del De rerum natura. Incerta è anche la classe sociale di appartenenza, non individuabile dalle parole che Lucrezio rivolge a Memmio, cui la sua opera è dedicata. La biografia scritta dall’umanista Girolamo Borgia sostiene che il poeta visse in “stretta 46 intimità” com Cicerone, Bruto e Cassio, cioè le personalità di maggior rilievo della prima metà del I secolo a.C., ma difficilmente queste notizie risalgono a fonti antiche. L’unico riferimento ciceroniano a Lucrezio è in una lettera del 54 al fratello Quinto in cui afferma che nelle poesie di Lucrezio vi sono le meraviglie del talento ma anche i segni di una grande arte letteraria, su questa base alcuni deducono che Cicerone desse il suo giudizio su un manoscritto affidatogli per la pubblicazione. Opere Il poema in esametri De rerum natura, in 6 libri (un totale di 7415 esametri); dedicato a Memmio, verosimilmente Caio Memmio, amico e patrono di Cinna e Catullo. Il testo del De rerum natura è conservato integralmente da due codici del secolo IX (ora conservati a Leida). La prima edizione a stampa fu eseguita nel 1473 da Ferrando da Brescia. Lucrezio e l’epicureismo romano La via scelta dalla classe dirigente romana nei confronti della cultura greca era stata quella di un filtraggio attento: fu la via battuta dall’elìte scipionica e poi da Cicerone. Proprio quest’ultimo erigerà un muro insormontabile nei confronti dell’epicureismo; visto come dissolutore della morale tradizionale soprattutto perché, predicando il piacere come sommo bene e suggerendo la ricerca della tranquillità, tende a distogliere i cittadini dall’impegno politico in difesa delle istituzioni. Non minori pericoli presentava la posizione epicurea sulle divinità: negando il loro intervento negli affari umani, tendeva a creare impicci a una classe dirigente che usava la religione ufficiale come strumento di potere. Nel I secolo l’epicureismo era riuscito a effettuare una discreta diffusione negli strati elevati della società romana: un personaggio di rango consolare come Calpurnio Pisone Cesonino si presentava come protettore dei filosofi epicurei. Meno sappiamo della penetrazione delle dottrine epicuree nelle classi inferiori. In effetti, lo stesso Epicureo raccomandava l’estrema chiarezza e semplicità dell’espressione: senza cedere ad antistoriche forzature in senso “democratico”, va ricordato l’universalismo del messaggio epicureo, che intendeva rivolgersi a persone di ogni rango sociale, e anche – cosa inaudita nell’antichità – alle donne. Lucrezio per divulgare la dottrina epicurea in Roma scelse la forma del poema didascalico. Nella sua scelta fu probabilmente guidato dal desiderio di raggiungere gli strati superiori della società con un messaggio che non avesse nulla da invidiare alla “bella forma” di cui talora si ammantavano le altre filosofie. Quasi all’inizio del poema, Lucrezio afferma che suo proposito 47 è “cospargere col miele delle muse” una dottrina apparentemente amara. L’eccezionalità della forma poetica, che faceva della sua opera un unicum nella letteratura epicurea, spingeva Cicerone a non tenere conto di Lucrezio (preferiva rifarsi direttamente alle fonti greche dell’epicureismo), ma il motivo determinante di tale silenzio si dovrà riconoscere nella volontà di non concedere spazio e credibilità di interlocutore a chi aveva scritto un’opera con forti valenze disgregatrici per la società aristocratica cui Cicerone si rivolgeva. Il poema didascalico Il titolo del poema lucreziano, De rerum natura (la natura delle cose), traduce fedelmente quella dell’opera più importante di Epicuro, il perduto Perì physeos (sulla natura). La data di composizione non è sicura. Il De rerum natura è articolato in 3 gruppi di 2 libri (diadi). Nel I libro, dopo l’ouverture con l’inno a Venere, personificazione della forza generatrice della Natura, sono esposti i principi della fisica epicurea: gli atomi (parti minime della materia, indistruttibili, immutabili) movendosi nel vuoto infinito si aggregano modi diversi e danno origine a tutte le realtà esistenti; successivamente avviene la disgregazione. Nascita e morte sono costituite da questo processo di continua aggregazione e disgregazione. Nel II libro è illustrata la teoria del clinamen: nel moto degli atomi interviene una “inclinazione” minima che permette una grande varietà di aggregazioni (e rende ragione della libertà del volere umano). I mondi possibili sono molti, e sono oggetti al ciclo della vita e della morte. Il libro III e IV costituiscono una seconda coppia, che espone l’antropologia epicurea. Il libro III spiega come il corpo e l’anima siano entrambi costituiti da atomi aggregati, ma di forma diversa; l’anima non può perciò sottrarsi al processo di disgregazione, di conseguenza essa muore con il corpo e non c’è da attendersi un destino ultraterreno di premio o di punizione. Il libro IV prende in esame il procedimento della conoscenza, trattando la teoria dei simulacra: una specie di membrane, composte dagli atomi, che si staccano dai corpi di cui mantengono la forma e arrivano agli organi di senso. La testimonianza dei sensi è sempre veritiera, e l’errore può derivare solo da una sua errata interpretazione. Poi Lucrezio introduce una celebre digressione sulla passione d’amore e in versi carichi di sarcasmo indica la causa di questa passione nella attrazione fisica. La terza coppia ha per oggetto la cosmologia: il libro V dimostra la mortalità del nostro mondo – uno degli innumerevoli mondi esistenti - ; viene quindi trattato il problema del moto 50 Studio della natura e serenità dell’uomo Lucrezio si rivolge al lettore invitandolo a riflettere su quanto crudele e veramente empia fosse la religio tradizionale. La religione è in grado di opprimere sotto il suo peso la vita degli uomini, turbare ogni loro gioia con la paura: ma se gli uomini sapessero che dopo la morte non c’è che il nulla, se diventassero perciò insensibili alle minacce di pene eterne, smetterebbero di essere succubi della superstizione religiosa. A tal fine è necessaria una conoscenza sicura delle leggi che regolano l’universo, e rivelano la natura materiale e mortale del mondo, dell’uomo e dell’anima stessa. Superstizione religiosa, timore della morte e necessità di speculazione scientifica: il suo messaggio sarà di fatto ignorato non solo per l’intrinseca difficoltà dell’opera, ma anche perché potenzialmente in grado di mettere in discussione i fondamenti culturali – e, indirettamente sociali e politici – dello stato romano, che della religio aveva fatto un essenziale elemento di coesione. Lucrezio resta fedele alle teorie di Epicuro in materia di religione. Il filosofo greco era stato il primo uomo che “osò levare gli occhi contro la religione che incombeva minacciosa dal cielo” (I 66); per questo egli può essere venerato quasi come un dio: tranne il II e il IV tutti libri si aprono con una appassionata celebrazione dei meriti di Epicuro. Esclusa l’ipotesi che l’uomo fosse soggetto agli dei in un rapporto di dipendenza, che da essi, suoi padroni, egli potesse attendersi benefici o punizioni. Anche Lucrezio recupera questo senso intimo della religiosità, intesa come capacità di vivere serenamente e contemplare ogni cosa con mente sgombra da pregiudizi. Nell’ambito del V libro una sezione è dedicata alla nascita del timore religioso, che sorge spontaneo per ignoranza delle leggi meccaniche che governano l’universo. Il corso della storia Lo sforzo di Lucrezio è di evitare che su argomenti di grande rilievo la mancanza di spiegazioni razionali in termini epicurei, riconduca il lettore ad accettare le spiegazioni tradizionali della mitologia e della superstizione. Lucrezio dedica un’ampia parte dell’opera alla storia del mondo, del quale era stata anzitutto chiarita la natura mortale, atomica. Tutta la seconda metà del libro V tratta invece dell’origine della vita sulla terra e della storia dell’uomo. Né gli animali né l’uomo sono stati creati da un dio, ma si sono formati grazie a particolare circostanze: il terreno umido e il calore, hanno spontaneamente generato i primi essere viventi. I primi uomini conducevano una vita agreste, al di fuori di ogni vincolo sociale: la natura forniva il poco di cui c’era davvero bisogno. 51 Fra le tappe del progresso umano che Lucrezio tratta in seguito, quelle positive – la scoperta del linguaggio, quella del fuoco e dei metalli, della tessitura e dell’agricoltura – sono alternate ad altre di segno negativo come l’inizio dell’attività bellica o il sorgere del timore religioso. Comunque, caso e bisogno materiale sono i fattori di avanzamento della civiltà. È evidente in tutta la trattazione il desiderio del poeta di contrapporsi alle visioni teleologiche del progresso umano diffuse nella cultura del tempo. Il progresso materiale, fin quando ispirato al soddisfacimento dei bisogni primari, è valutato positivamente, mentre le riserve si concentrano sull’aspetto di decadenza morale che il progresso ha portato con sé: il sorgere della guerra, delle ambizioni e cupidigie personali ha corrotto la vita dell’uomo. A questi problemi l’epicureismo è in grado di fornire una risposta invitando a riscoprire che “di poche cose ha davvero bisogno la natura del corpo.” Epicuro aveva prescritto di evitare i desideri non naturali non necessari e di badare solo al soddisfacimento di quelli naturali e necessari: “Grida la carne: non aver fame non aver sete non aver freddo; che abbia queste cose e speri di averle in futuro, anche con Zeus può gareggiare in felicità”. Si comprende come l’epicureismo sia stato spesso considerato già in antico, una forma di edonismo sfrenato, non cogliendo lo spirito dei suoi precetti fondamentali, tutti volti alla limitazione dei bisogni e alla ricerca di piaceri naturali e semplici. Il “progetto sociale” di Epicuro e Lucrezio è coerente con queste premesse: il saggio abbandoni le inutili ricercatezze, si allontani dalle tensioni della vita politica, si dedichi a coltivare lo studio della natura con gli amici più fidati, somma ricchezza della vita umana. L’interpretazione dell’opera La confusione tra la figura storica dell’autore e l’immagine del “narratore” che prende la parola all’interno del poema continua a nuocere alla lettura critica del De rerum natura: le due figure non devono essere sovrapposte meccanicamente. Anche solo per questo motivo non possono essere accettate le tesi di quanti hanno affannosamente cercato nell’opera tracce di uno squilibrio mentale di Lucrezio, ora nella forma di crisi maniaco-depressive, ora come generica angoscia di vivere. Una lettura preconcetta induce a constatare che la tensione dell’autore è sempre rivolta a conseguire il convincimento razionale del suo lettore, a trasmettergli i precetti di una dottrina di liberazione morale nella quale egli stesso profondamente crede. L’accesa confutazione della tesi stoica di una natura provvidenziale, ad esempio, spiega perché Lucrezio insiste a lungo sull’idea che la natura è del tutto incurante delle esigenze dell’uomo. 52 Quando, nel finale del IV libro, si scaglia contro le insensatezze della passione amorosa, è probabilmente mosso dalla volontà di ribadire che il saggio epicureo deve tenersi lontano da una passione irrazionale che non ha alcuna giustificazione nei dettami della natura. In questo caso avranno agito anche stimoli culturali diversi, quali la volontà di contrapporsi all’ideologia erotica dei neoterici. Il problema del pessimismo di Lucrezio non manca di occupare tuttavia un ruolo centrale in una buona parte della critica, e si deve ammettere che non è facile giungere ad una valutazione equilibrata. Lucrezio ripete spesso che la ratio da lui esposta è foriera di serenità e libertà interiori, che traggono origine dalla comprensione dei meccanismi di vita e di morte. Offre al lettore la possibilità di guardare tutt’intorno con occhio indifeso e invita all’accettazione consapevole di ogni cosa in quanto esistente. Ma questo razionalismo, a tratti, mostra i suoi limiti. Sull’angoscia dell’uomo di fronte all’idea che la sua vita deve avere un termine Lucrezio si irrigidisce: se la vita trascorsa è stata piacevole, nulla di diverso può essere esperito in futuro, conviene semmai allontanarsi come un convitato sazio; in caso contrario, meglio comunque concludere un’esperienza ricca solo di dolore. Proprio questa rigidità, il supporre che il non essere mai nati non sarebbe stato un male per l’uomo, l’insistere sull’idea che la prolungare la vita non sottrae neppure un giorno alla morte che ci attende, l’invito epicureo al carpe diem (V 957), contrastano con la precisa descrizione dell’uomo in preda all’angoscia irrazionale che Lucrezio stesso ci offre verso la fine del libro. Lingua e stile di Lucrezio Cicerone (vedi la vita) ammirava in Lucrezio non solo l’acutezza del pensatore, ma anche grandi capacità di elaborazione artistica. La critica moderna ha lungo esitato a sottoscrivere la seconda delle affermazioni, giudicando lo stile del poeta troppo rude e legato all’uso arcaico, a tratti prosaico e ripetitivo, ma da qualche tempo gli studiosi hanno modificato questa prospettiva, ricollocando Lucrezio e Virgilio nella loro giusta dimensione storica. Anche lo stile, come l’organizzazione complessiva della materia, doveva piegarsi al fine di persuadere il lettore. Si spiegano in questa luce le frequenti ripetizioni. Anche l’invito all’attenzione del lettore doveva essere reiterato spesso; e alcuni termini tecnici della fisica epicurea, nonché i nessi logici di grande uso (le formule di transizione tra argomenti diversi: quod, paeterea, denique) dovevano restare il più possibile fissi per consentire la lettore di familiarizzare con un linguaggio non certo facile. Alla lingua latina mancava la possibilità di 55 di Antonio nel dicembre del 43. Fonti Per la conoscenza della vita e delle opere, le fonti principali sono rappresentate dalle sue stesse opere, soprattutto l’epistolario, dal Brutus, da diverse orazioni. Importante anche la biografia di Cicerone scritta da Plutarco. Tradizione e innovazione nella cultura romana Cicerone è protagonista e testimone della crisi che porta al tramonto della repubblica; egli elabora un progetto nel vano tentativo di porvi rimedio. La sua rimane un’ottica di parte, legata al progetto di egemonia di un blocco sociale (sostanzialmente i ceti possidenti): un’ottica che, per rendersi accetta, deve saper profittare anche degli artifici che possono offrire le tecniche di comunicazione. Cicerone mette a frutto tali artifici nelle orazioni e li teorizza nei trattati retorici: ricollocata nel proprio tempo la sua ars dicendi (arte di parlare) si spoglia dei tratti di vana ampollosità di cui l’ha rivestita il ciceronianesimo scolastico, per rivelarsi una tecnica produttiva e sapiente, funzionale al dominio dell’uditorio e alla regìa delle sue passioni. Procedendo negli anni ha progressivamente sentito sempre più forte la necessità di riflettere, rifacendosi al pensiero ellenistico sui fondamenti della politica e della morale. Il fine delle sue opere filosofiche è lo stesso che ispira alcune delle orazioni più significative: - dare una solida base ideale, etica, politica ad una classe dominante il cui bisogno di ordine non si traduca in ottuse chiusure, il cui rispetto per il mos maiorum (costume dei nostri antenati) non impedisca l’assorbimento della cultura greca; - una classe dominante che l’assolvimento dei doveri verso lo stato non renda insensibile ai piaceri di un otium nutrito di arti e letteratura, né, in generale, di quello stile di vita garbatamente raffinato che si riassume nel termine humanitas. L’egemonia della parola: carriera politica e pratica oratoria L’attività oratoria di Cicerone si intreccia indissolubilmente con le vicende politiche di Roma nell’ultimo cinquantennio della repubblica. Rientrato a Roma dopo la morte di Silla, Cicerone inizia la sua carriera politica come questore in Sicilia, nel 75. Si conquistò fama di governatore onesto e scrupoloso, tanto che, nel 70, i siciliani gli proposero di sostenere l’accusa nel processo da essi intentato contro l’ex governatore Verre, un corrotto propretore contro il quale Cicerone scrisse le Verrine, di cui però pronunciò solo la prima perché Verre, schiacciato dalle accuse, fuggì in esilio volontario 56 prima della sentenza. Cicerone successivamente pubblicò la cosiddetta Actio secunda in Verrem (Nella seconda azione contro Verre) , che rappresenta fra l’altro un documento storico di grande importanza per conoscere i metodi di cui si serviva l’amministrazione romana nelle province. Gli aristocratici romani avevano bisogno di ingenti quantità di denaro per finanziare le forme di “liberalità” (cioè corruzione) necessarie a promuovere la loro carriera politica. Lo stile delle Verriane è già pienamente maturo, con il loro periodare chiaro ma estremamente complesso ed evidenziano la bravura dell’autore anche nella descrizione sarcastica e nel ritratto satirico degli avversari. Cicerone ha eliminato alcune esuberanze e ridondanze. La gamma dei registri è dominata con piena sicurezza, dalla narrazione semplice e piana al racconto ricco di colore, dall’ironia arguta al pathos tragico. Entrato in senato dopo la questura, Cicerone nel 66, si avvicina ai populares, il partito contrario all’oligarchia aristocratica, che cercava l’uomo forte da contrapporre al senato, l’organo di potere della nobiltà. In questo contesto nasce l’orazione Pro lege Manilia o De imperio Gnaei Pompei (dell’anno 66 a.C.), che difende la proposta del tribuno Manilio di affidare a Pompeo poteri eccezionali per combattere Mitridate, il re ribelle del Ponto. La rivolta di quella regione dell’Asia Minore minacciava i cospicui interessi dei cavalieri, che avevano in appalto la riscossione delle imposte nel province e di cui avevano bisogno per il loro avvenire politico sia Pompeo che Cicerone, che però fu contrario alle proposte di redistribuzione delle terre e sgravio dei debiti avanzate dai populares. In realtà più che gli interessi del popolo, Cicerone difendeva tuttavia quelli dei pubblicani, i titolari delle compagnie di appalto delle imposte. I pubblicani costituivano un gruppo laeder all’interno dell’ordine equestre, dal quale proveniva Cicerone. Ma è vero piuttosto che egli aveva bisogno del loro sostegno per cementare quella concordia dei ceti abbiente nella quale incominciava a scorgere la via d’uscita dalla crisi che minacciava la repubblica. Grazie alla sua fama di moderato, Cicerone, un homo novus, venne sostenuto anche dagli aristocratici, che lo proposero al consolato per l’anno 63, contro la candidatura di Lucio Sergio Catilina, appoggiato invece da popolari e italici. Tutta la crisi e i disagi sociali degli ultimi anni della repubblica si rivelarono nei tumulti e poi nel tentativo di eversione seguiti alla sconfitta di Catilina, la cui congiura venne sventata dallo stesso Cicerone, anche con metodi illegali quali la condanna a morte senza processo di molti congiurati, fatto che gli procurerà un breve 57 periodo di esilio. Dell’episodio rimane una viva testimonianza nelle quattro orazioni Catilinarie scritte da Cicerone per denunciare la cospirazione in atto. Sul piano letterario, spicca la I Catilinaria, nella quale Cicerone attacca Catilina di fronte al senato; fece ricorso a un artificio retorico che in precedenza non aveva mai impiegato: l’introduzione di una “prosopopea” (“personificazione”) della Patria, che è immaginata rivolgersi a Catilina con parole di aspro biasimo. Da allora in poi, sarebbe stato il teorizzatore di quella concordia ordinum che lo aveva portato al potere. Negli anni successivi Cicerone non cessò di esaltare la funzione storica del proprio consolato e della lotta contro Catilina. Il I triumvirato segnò tuttavia un declino delle sue fortune politiche. Un tribuno Clodio, presentò nel 58 una legge in base alla quale doveva essere condannato all’esilio chi avesse fatto mettere a morte dei civis romani senza processo. La legge mirava a colpire l’operato di Cicerone. Non più sostenuto dalla nobiltà e da Pompeo, Cicerone dovette abbandonare Roma. Richiamato dall’esilio nel 57, trovò la città in preda all’anarchia: si fronteggiavano, in continui scontri di strada, le opposte bande di Clodio e di Milone (difensore della causa degli ottimati e amico di Cicerone). In questo contesto elaborò una nuova versione della propria teoria sulla concordia dei ceti abbienti. In quanto la semplice intesa fra il ceto senatorio ed equestre, la concordia ordinum, (armonia reciproca) si era rivelata fallimentare: Cicerone ne dilata ora il concetto in quello di consensus omnuim bonorum, (il consenso di tutti i beni), cioè la concordia attiva di tutte le persone agiate e possidenti (boni), amanti dell’ordine politico e sociale, pronte all’adempimento dei propri dei doveri nei confronti della patria e della famiglia. Dovere dei boni sarà non rifugiarsi egoisticamente nel perseguimento dei proprio interessi provati, ma fornire sostegno attivo agli uomini politici che rappresentano la loro causa. L’esigenza largamente avvertita in Roma di un governo più autorevole, spinge tuttavia Cicerone a desiderare che il senato e i boni, per superare le loro discordie si affidino alla guida di personaggi eminenti, di grande autorevolezza: una teoria che verrà approfondita nel De re publica. In quest’ottica si spiega probabilmente l’avvicinamento ai triumviri che Cicerone compie in 60 letteratura specialistica greca, si nutre dell’esperienza romana e conserva uno stretto rapporto con la pratica forense. A sintetizzare le tesi principale dell’opera potrebbe valere un’espressione di Sulpicio, uno dei partecipanti al dialogo: “non l’eloquenza è nata dalla teoria retorica, ma la teoria retorica dalla eloquenza” (I. 146). Cicerone ha saputo creare un’opera viva e interessante che, basata sulla letteratura greca, si nutre dell’esperienza forense romana, da cui provengono quasi tutti gli esempi destinati a illustrare le teorie greche. Il talento, la tecnica della parola e del gesto e la conoscenza delle regole retoriche non possono ritenersi sufficienti per la formazione dell’oratore, si richiede invece una vasta formazione culturale; questa è la tesi di Crasso, il quale lega strettamente la formazione culturale e soprattutto filosofica dell’oratore alla sua affidabilità etico-politica. Crasso insiste perché probitas (integrità) e prudentia (saggezza) siano saldamente radicate all’animo di chi dovrà apprendere l’arte della parola: consegnarla a chi mancasse di queste virtù equivarrebbe a mettere delle armi nelle mani di forsennati. La formazione dell’oratore viene quindi a coincidere con quella dell’uomo politico della classe dirigente, un uomo di cultura non specialistica, ma di vasta cultura generale, capace di padroneggiare l’arte della parola e di persuadere i propri ascoltatori. Nel 46 Cicerone riprese le tematiche del De Oratore in un trattato più esile, l’Orator; disegnando il ritratto dell’oratore ideale, l’autore sottolinea i tre fini ai quali l’arte deve indirizzarsi: probare (prospettare la tesi con argomenti validi), delectare (produrre con le parole una piacevole impressione estetica), flectere (muovere le emozioni attraverso il pathos). Ai tre fini corrispondo i tre registri stilistici che l’oratore dovrà sapere alternare: umile, medio e elevato o “patetico” quest’ultimo oppurtuno nella peroratio (epilogo) finale. La rivendicazione della capacità di muovere gli affetti come compito sommo dell’oratore nasceva dalla polemica contro l’atticismo, i cui sostenitori, rifacendosi agli oratori attici e soprattutto a Lisia, adottavano uno stile semplice e scarno e rimproveravano a Cicerone forme di asianesimo quali ridondanze, frequente uso di figure, accentuazione dell’elemento ritmico. Sul contrasto Cicerone prese posizione nel dialogo Brutus, dedicata Marca Bruto, uno dei principali esponenti delle tendenze atticistiche. Nel Brutus Cicerone, assumendosi il ruolo di principale interlocutore, disegna una storia dell’eloquenza greca e romana, dimostrando doti di storico della cultura e fine critico letterario. Dato il carattere fondamentalmente autoapologetico (che ha per fine la difesa o l'esaltazione di una fede, spec. Religiosa) del Brutus, si comprende come la storia dell’eloquenza culmini in 61 una rievocazione delle tappe della carriera oratoria di Cicerone. L’ottica ciceroniana rompe gli schemi tradizionali di generi e stili su cui si scontravano atticisti e asiani e afferma l’opportunità di selezionare e alternare diversi registri a seconda delle esigenze e delle situazioni. Gli atticisti sono criticati per il carattere troppo freddo e intellettualistico della loro eloquenza: essi ignorano l’arte di trascinare gli ascoltatori. La grande oratoria “senza schemi” ha il suo modello in Demostene: in lui si riconosce il più perfetto modello dell’eloquenza attica. Un progetto di stato Il modello del dialogo platonico ritorna con maggiore evidenza nel De re publica, al quale Cicerone lavorò tra il 54 e il 51 a.C. Non cercò di costruire a tavolino uno stato ideale, come Platone fece nella Repubblica: Cicerone si proiettò nel passato, per identificare la migliore forma di stato nella costituzione romana del tempo degli Scipioni. Il dialogo si svolge nel 129, presso la villa suburbana di Scipione Emiliano che, insieme all’amico Lelio, è uno dei principali interlocutori. La ricostruzione è ipotetica, perché l’opera ci è giunta piuttosto frammentata e la parte meglio conservata è quella finale, che venne ritrovata agli inizi dell’800 dal futuro cardinale Angelo Mai, e che contiene il cosiddetto Somnium Scipionis. Nel I libro Scipione parte dalla dottrina aristotelica delle tre forme fondamentali di governo (monarchia, aristocrazia, democrazia) e della loro necessaria degenerazione nelle forme estreme, rispettivamente tirannide, oligarchia e oclocrazia (governo della “feccia” del popolo). Riprendendo una tesi d Polibio, Scipione mostra come lo stato romano dei maiores si salvasse da quella necessaria degenerazione per il fatto di aver saputo contemperare le tre forme fondamentali: l’elemento monarchico si rispecchia nel consolato, l’elemento aristocratico nel senato, l’elemento democratico nell’istituzione dei comizi. La teoria del regime “misto” risaliva, attraverso Polibio allo stesso Aristotele. Nella versione di Scipione, il contemperamento delle tre forme fondamentali non avviene tuttavia in proporzioni paritetiche. All’elemento democratico Scipione guarda con evidente antipatia, la considera una “valvola di sicurezza” per scaricare e sfogare le passioni irrazionali del popolo. Il libro II si occupava dello svolgimento della costituzione romana. Il libro III, dedicato alla iustitia, confutava la critica mossa all’imperialismo romano dal filosofo accademico Caneade, che accusava i romani di usare il concetto di “guerra giusta”, quella fatta in soccorso dei propri alleati, come un pretesto per estendere il proprio dominio e la propria sfera d’influenza. 62 Nei libri IV e V:, la parte più lacunosa dell’opera, Cicerone introduceva la figura del rector et gubernator rei pblicae (rettore e governatore dello stato) o princeps. Nel libro VI Scipione Emiliano rievoca un sogno in cui gli era apparso l’avo Scipione Africano per mostrargli, dall’alto del cielo, quanto fossero insignificanti la gloria e tutte le cose umane e rivelargli che attende nell’aldilà le anime dei grandi uomini di Stato. Nella formulazione fatta da Scipione della teoria del regime misto, risalente al paripatetico Dicearco e allo stesso Aristotele, il rapporto tra le tre forme di governo fondamentali non è paripatetico: l’elemento democratico è considerato solo una sorta di valvola di sicurezza per lo sfogo delle passioni irrazionali del popolo. L’elogio del regime misto si risolve in un’esaltazione della repubblica aristocratica dell’età scipionica. Non è facile precisare in che modo veniva delineata la figura del princeps, ma alcuni punti sono assodati: il singolare si riferisce al “tipo” dell’uomo politico eminente, non alla sua unicità; Cicerone, rifacendosi al ruolo ricoperto nella repubblica romana da Scipione Emiliano, sembra pensare a una elìte di personaggi eminenti che si ponga alla guida del senato e dei boni. Ciò significa che Cicerone non prefigura esiti “augustei”, ma intende mantenere il ruolo del princeps all’interno dei limiti della forma statale repubblicana: pensa alla coagulazione del consenso politico intorno a leader prestigiosi. L’autorità del princeps non è alternativa a quello del senato, ma ne è il sostegno necessario per salvare la res publica. Perché la sua autorità non ecceda, il princeps armarsi contro tutte le passioni ‘egoistiche’ e soprattutto contro il desiderio di potere e ricchezza: è questo il senso del disprezzo delle cose umane che il Somnium Scipionis addita ai reggitori dello Stato. Cicerone disegna così l’immagine di un dominatore-asceta, rappresentante in terra della volontà divina, rinsaldato nella dedizione al servizio dello stato dalla sua despicientia verso le passioni umane. Ispirandosi a Platone, che alla Repubblica aveva fatto seguire le Leggi, Cicerone completò il dialogo sullo stato con De legibus, iniziato nel 52 e probabilmente non pubblicato in vita. Se ne sono conservati i primi tre libri e frammenti del IV e del V. L’azione, qui ambientata nel presente, ha per interlocutori Cicerone, il fratello Quinto e l’amico Attico. Nel I libro Cicerone espone la tesi storica secondo la quale la legge non è sorta per convenzione, ma si basa sulla ragione innata in tutti gli uomini ed è perciò data da dio. Nel II libro l’esposizione delle leggi che dovrebbero essere in vigore nel migliore degli Stati si basa – qui la differenza con Platone – non su una legislazione utopistica ma sulla tradizione legislativa romana, orientata sul diritto pontificio e sacrale. 65 amicizie oltre alla cerchia ristretta della nobilitas (nobiltà) attraverso il riconoscimento di valori quali la virtus (potere) e la probitas (onestà), attribuiti a vasti strati della popolazione, a fondamento dell’amicizia. Cicerone vede negli Scipioni e nel loro entourage la realizzazione perfetta di questi ideali di amicizia e humanitas. Il Cicerone filosofo, però, non ambisce probabilmente a formulazioni originali, ma piuttosto riassume posizioni e schemi teoretici, combatte argomenti, traduce testi e problemi filosofici difficili, ripensando tutto il corpus di metodi e dottrine cresciute entro le scuole ellenistiche. Del tutto originale è però l’interesse a cercare sempre, anche nei più raffinati problemi teoretici e gnoseologici, la conseguenza pratica, la ricaduta in termini di azione e partecipazione politica. A problemi di teoria della conoscenza sono dedicati gli Academica, di cui restano solo due libri intitolati Lucullus e Varro. Cicerone, che vi compariva come interlocutore, tratta le diverse dottrine ellenistiche, discutendo sulla possibilità o meno di concepire nozioni vere e attendibili. Cicerone, aderendo al probabilismo degli Accademici di Platone, ritiene che la conoscenza, anche solo su basi di probabilità, sia sufficiente a orientare l’azione. La scrittura dei dialoghi è assai raffinata, Cicerone dà spazio anche a una certa invenzione narrativa nella scelta delle scenografie e nell’elaborazione dell’incontro tra i vari personaggi. Fanno eccezione, da questo punto di vista, solo le Tusculanae disputationes (discorsi) che hanno per interlocutori un maestro e un discepolo anonimi e sono quasi un lungo monologo interiore sul male, la morte, il dolore, la noia (animi degritudo). Nell’aspirazione alla ricercatezza dell’elaborazione stilistica, Cicerone emula Platone, finendo col sostituirlo fino al Rinascimento come modello del dialogo. Anche quando mette in scena se stesso come personaggio, Cicerone si astiene dal formulare un’opinione precisa per lasciare spazio ad un confronto libero e aperto, in cui prevalgono le regole di una conversazione educata, priva di veri scontri. L’unica dottrina cui Cicerone riserva una notevole ostilità è l’epicureismo, aggredito con forza sia nel De natura deorum (Natura degli Dei) che nel De finibus (il confine): l’invito epicureo al disimpegno civile e l’affermazione del disinteresse degli dei verso le vicende umane erano elementi ritenuti eversivi per i principi della tradizione politica e religiosa romana. Di argomento religioso è anche il De divinatione (divinazione), un dialogo sui segni che proverrebbero dagli dei. 66 Il De officiis (gli uffici), la cui stesura venne iniziata forse nel 44 a.C., è un trattato dedicato al figlio Marco, allora studente di filosofia ad Atene. L’opera è il prodotto di un’elaborazione rapidissima, contemporanea alla composizione di alcune delle Filippiche. In quest’opera Cicerone riflette sui fondamenti di una morale della vita quotidiana che permetta all’aristocrazia romana di riacquistare il controllo sulla società. La base filosofica è lo stoicismo moderato di Panezio che, fondato sul rifiuto dell’edonismo epicureo e rispettoso dell’ordine politico-sociale tradizionale, fornisce la minuziosa casistica necessaria a regolare i comportamenti quotidiani dei membri dei gruppi dirigenti. Rispetto alla Stoà antica, la dottrina di Panezio attribuiva un valore positivo agli istinti, che non devono essere oppressi dalla ragione, bensì disciplinati. Le tradizionali virtù cardinali stoiche (giustizia, sapienza, fortezza, temperanza) venivano reinterpretate come organico sviluppo degli istinti fondamentali. La sottomissione degli istinti alla ragione e dunque un saldo autocontrollo definiscono il ‘gentiluomo’ ciceroniano che, nel De officiis, attraverso il senso del “conveniente” (decorum), ricerca l’approvazione degli altri con l’ordine, la coerenza, la giusta misura nelle parole e nelle azioni. La costante attenzione ai pensieri e alla suscettibilità degli altri sono un portato necessario della fitta rete di obblighi sociali che a Roma competono ai membri delle classi superiori. Cicerone non rinuncia a una minuta precettistica relativa ai comportamenti da tenere nella vita quotidiana e nell’abituale commercio con le persone. Questi precetti rappresentano solo una delle articolazioni interne di un trattato che si propone di costruire, su solide basi filosofiche, un modello complessivo del vi bonus (buona forza) e non vanno considerati come legati ad un galateo quale genere letterario autonomo. Cicerone, tuttavia, dava così inizio a una tradizione destinata ad avere grande fortuna nella cultura occidentale. Cicerone prosatore: lingua e stile Come quella di Lucrezio, l’opzione di Cicerone era fondamentalmente “puristica”: evitare il grecismo. Di qui una costante e accanita sperimentazione lessicale nella traduzione dei termini greci. Il suo sforzo di evitare i grecismi, di selezionare attentamente le parole per ottenere la massima chiarezza, di costruirsi un lessico astratto è all’origine di molti neologismi poi entrati nell’uso, il risultato fu quindi l’introduzione di molte nuove parole; Cicerone gettò in tal modo le basi di quel lessico astratto destinato a divenire patrimonio della tradizione culturale europea: per esempio qualitas, essentia e così via. Il contributo più notevole all’evoluzione della prosa europea fu nella creazione di un tipo di 67 periodo complesso e armonioso, fondato sul perfetto equilibrio e rispondenza delle parti, il cui modello egli trovò in Demostene. La creazione di un simile periodo comportava l’eliminazione delle incoerenze nella costruzione, degli anacoluti ("privo di un seguito", detto anche tema sospeso, è un costrutto retorico in cui non è rispettata la coesione tra le varie parti della frase. È una rottura della regolarità sintattica della frase presente soprattutto nella lingua parlata), delle “costruzioni a senso” e delle altre forme di incongruenze che la prosa arcaica latina aveva ereditato dal linguaggio colloquiale. Veniva poi l’organizzazione delle frasi in ampie unità che manifestassero un’accurata ed esplicita subordinazione delle varie parti rispetto al concetto principale: Cicerone sostituì la paratassi (coordinazione) con l’ipotassi (subordinazione), sceglie quindi di rendere evidente l’articolazione e la connessione logica dei pensieri attraverso legami di dipendenza sintattica tra le proposizioni: si tratti dei famosi ‘periodi lunghi’. L’aspetto che più colpisce il lettore è sicuramente la varietà dei toni e dei registri stilistici che entrano in gioco con grande mobilità di effetti. Lo stile di Cicerone si caratterizza anche per una grande varietà di toni e registri stilistici Ciascuna delle tre gradazioni di stile (semplice, temperato, sublime) è impiegata a seconda delle esigenze del probare, delectare, movere, (dimostrare, gioia, muoversi) in modo che a ogni livello di stile corrisponda un’adeguata collocazione delle parole. Va detto che la disposizione verbale è sempre accuratamente tale da realizzare il numerus, un sistema di regole ritmiche adatte alla prosa. Nella pratica, il numerus agisce da sistema di regole metriche adatte alla prosa, in modo che i pensieri gravi trovino un andamento solenne e sostenuto e invece il discorso piano un’intonazione famigliare. La sede specializzata per questi effetti metrico-ritmici è la clausola, parte finale del periodo in cui l’orecchio dell’ascoltatore deve sentirsi impressionato dagli effetti suggeriti dalla successione di piedi. A questa cura per lo stile della prosa, Cicerone accompagnava un analogo interesse per la poesia, la sua produzione in versi fu però giudicata molto negativamente sia dai contemporanei che dai posteri, nonostante l’orgoglio spesso mostrato dall’autore. Le opere poetiche Tra le prime prove poetiche ciceroniane, che rivelano interessi di erudizione mitologica, di critica letteraria, di sperimentazione metrica, ricordiamo i poemetti Glaucus, Alcyones e il Limon. L’opera poetica più fortunata di Cicerone furono gli Aratea, una traduzione in esametri dei 70 L’Umanesimo e il Rinascimento conoscono una lunga polemica di stile fra ciceroniani e anti-ciceroniani; fra quest’ultimi si annoverano intellettuali come Poliziano ed Erasmo. Il ciceronianesimo fanatico morì abbastanza presto, dopo aver trovato un autorevole campione in Pietro Bembo; la successiva cultura europea erediterà l’idea del primato dell’eloquenza e della retorica, il culto e l’imitazione dei classici: anche di qui le difficoltà della formazione di una vera prosa storica e scientifica. Nell’epoca moderna egli ha contribuita soprattutto ad alimentare il moderatismo politico: l’odio per la tirannia unito al disprezzo per il volgo, il culto della libertà unito al rifiuto dell’eguaglianza e al disprezzo per la democrazia. CESARE Vita Nacque a Roma nel 100 a.C. da una famiglia di antichissima nobiltà, in gioventù venne perseguitato dai silliani e fu costretto ad abbandonare la città, nella quale tornerà dopo la morte di Silla per intraprendere la carriera politica: fu questore, edile, pontefice massimo e pretore. Nel 60 a.C. stipulò con Pompeo e Crasso l’accordo segreto del primo triumvirato, in vista della spartizione del potere. Nel 59 a.C. rivestì il consolato e l’anno successivo gli fu affidato il proconsolato in Illiria e nella Gallia Narbonense (la parte romanizzata). Cesare intraprese quindi l’opera di sottomissione di tutta la Gallia, con una conquista durata sette anni che gli procurò un vastissimo potere personale. Nel corso delle lunghe campagne, Cesare composte sette libri di Commentarii de bello Gallico, nei quali annotava anno per anno gli eventi della guerra, mischiati con osservazioni di carattere etnografico e geografico sui popoli e le regioni attraversate. Un ottavo libri fu poi aggiunto da un luogotenente di Cesare, Aulo Irzio. Quando i suoi avversari a Roma cercarono di impedirgli di passare dal proconsolato in Gallia a un secondo consolato, Cesare varcò in armi il fiume Rubicone, segnando così l’inizio della guerra civile tra Cesare e il senato romano (10 gennaio 49). L’esercito senatorio venne sconfitto a Farsalo, in Tessaglia, nel 48 a.C., Cesare insegue Pompeo in Egitto per volgersi poi a soffocare gli altri focolai di resistenza in Africa e Spagna. Anche per la guerra civile compone dei Commentarii in tre libri (Commentarii de bello Civili), altri tre sono opera di continuatori anonimi e registrano gli avvenimenti fino alla battaglia di Munda del 45 a.C.: Bellum Alexandrinum, Bellum Hispaniense, Bellum Africum. Cesare è ora padrone di Roma e ricopre più volte dittatura e consolato. Un gruppo di aristocratici di salda fede repubblicana, però, organizzano una congiura contro di lui: Cesare viene assassinato il 15 71 marzo del 44 a.C. Opere Opere conservate: - Commentarii de bello Gallico, in 7 libri; - Commentarii de bello civili, in 3 libri; - De analogia, frammenti. Opere spurie: oltre al libro ottavo del De bello Gallico; le ultime 3 opere del cosiddetto Corpus Caesarianum, e cioè - Bellum Alexandrinum; - Bellum Africanum, - Bellum Hispaniense. Fonti Le opere autentiche e spurie dello stesso Cesare; la Vita di Cesare di Svetonio e quella di Plutarco; orazioni e lettere di Cicerone; Appiano Bellum Civile; Cassio Dione. Il commentarius come genere storiografico Il termine commentarius, che ricalca il greco, indicava un tipo di narrazione a mezzo fra la raccolta dei materiali grezzi (appunti personali, rapporti al senato sull’andamento delle campagne, e così via) e la loro rielaborazione nella forma artistica - cioè arricchita degli ornamenti stilistici e retorici - tipica della vera e propria storiografia. Uomini politici importanti, come Scauro o Silla composero commentarii. Anche Cicerone aveva composto vari commentarii sul proprio consolato, nell’intento di offrire a un qualche storico il materiale da plasmare e organizzare in una narrazione propriamente storiografica. Cesare intendeva senza dubbio inserirsi in questa tradizione: sia Cicerone sia Irzio, nella prefazione del libro VIII del De bello Gallico, parlano dei Commentarii di Cesare come di opere composte per offrire ad altri storici il materiale sul quale impiantare la propria narrazione. L’atteggiamento di Cesare, in realtà, celava una certa ‘civetteria’, in quanto, sotto la veste dismessa, il commentarius, come Cesare lo concepiva e praticava, andava avvicinandosi alla historia, lo dimostrano la drammatizzazione di certe scene collettive, in cui vengono evocati i sentimenti di entrambi gli eserciti e il ricorso, in alcuni passi, al discorso diretto. Cesare comunque usa un’ammirabile sobrietà nel conferire al proprio racconto efficacia drammatica evitando effetti grossolani e plateali e sopratutto pesanti fronzoli retorici: in questa direzione 72 va anche l’uso della terza persona che distacca il protagonista dall’emozionalità dell’ego e lo pone come personaggio autonomo nel teatro della storia. Le campagne in Gallia nella narrazione di Cesare. Questo atteggiamento antiretorico è ben visibile già nell’apertura del De bello Gallico, che manca di un proemio, invece di consuetudine nell’historia. In questa direzione va anche la rinuncia alla prima persona e la scelta di parlare di se stesso in terza persona, che distacca il protagonista, come abbiamo già detto, dall’emozionalità dell’ego e lo pone come personaggio autonomo nel teatro della storia. I sette libri del De bello Gallico coprono il periodo dal 58 al 52 a.C., in cui Cesare procedette alla sottomissione della Gallia, la conquista si svolse secondo fasi alterne di vittorie e di sconfitte, che il racconto di Cesare attenua o giustifica ma non nasconde. Il libro I, relativo agli avvenimenti del 58 a.C., tratta della campagna contro gli elvezi, che con i loro movimenti migratori avevano offerto a Cesare il pretesto per iniziare una guerra, e contro il capo germanico Ariovisto; il libro II racconta la rivolta delle tribù galliche e il libro III la campagna contro le popolazioni della costa atlantica; il libro IV registra le operazioni contro le infiltrazioni dei popoli germanici che avevano passato il Reno e contro i capi gallici ribelli, Induziomaro e Ambiorige, sempre nel libro IV e poi nel libro V, Cesare fornisce un resoconto delle sue due spedizioni contro i britanni, accusati di fornire aiuti ai galli ribelli; tra il libro V e il libro VI si narra della sanguinosa campagna contro le popolazioni della Gallia Belgica; il libro VII descrive la fine della resistenza gallica con l’espugnazione di Alesia e la cattura di Vercingetorige, il re degli averni che aveva guidato l’estremo tentativo di insurrezione. I tempi di composizione sono incerti, alcuni ritengono che Cesare abbia scritto l’opera di getto, subito dopo la campagna, altri pensano ad una composizione anno per anno, durante gli inverni, periodo in cui le operazioni militari erano sospese. Queste seconda ipotesi potrebbe appoggiarsi ad alcune contraddizioni dell’opera difficilmente spiegabili con la redazione entro un breve lasso di tempo, inoltre così si darebbe meglio ragione della sensibile evoluzione stilistica riscontrabile nell’opera, dallo stile scarno e disadorno del commentario vero e proprio a concessioni sempre maggiori verso certi ornamenti tipici della historia. 75 barbari e in particolare dei loro capi: tanto più grande è la pericolosità e il valore del nemico, tanto più necessaria appare la guerra e grande la gloria del vincitore. C’è poi da tenere conto che Cesare si rivolge, oltre che ai romani, all’aristocrazia gallica per assicurarle la sua protezione contro i facinorosi che, sotto gli ideali di indipendenza, celano l’aspirazione alla tirannia. In entrambe le opere Cesare mette in luce le proprie capacità di azione militare ma - diversamente da quanto faceva forse nelle propaganda di forma non scritta, rivolte ad un pubblico popolare - non alimenta l’alone carismatico intorno alla propria figura. La fortuna è un elemento largamente presente nella sua narrazione, ma non viene presentata come una divinità protettrice, è piuttosto un concetto che serve a spiegare cambiamenti repentini di situazione, un fattore imponderabile che talora aiuta anche i nemici di Cesare, rappresenta soprattutto ciò che sfugge alle capacità di previsione e di controllo razionale dell’uomo. Cesare cerca infatti di spiegare gli avvenimenti secondo cause umane e naturali, di coglierne la logica interna; e non fa praticamente mai ricorso all’intervento divino. I continuatori di Cesare Il luogotenente di Cesare, Aulo Irzio, composte il libro VIII del De bello Gallico per congiungere la narrazione di quest’ultimo con quella del De bello civili tramite il racconto degli avvenimenti degli anni 50 e 51 a.C. Sempre a Irzio si deve il Bellum Alexandrinum. Si può presumere che queste opere dall’andamento sobrio e scarno rispettino la tradizione stilistica del commentario in modo più adeguato di quelle di Cesare: la maniera di scrivere cesariana si spingeva verso l’historia, senza però rinunciare all’esigenza di sobrietà e attingendo livelli di grande eleganza e suggestione che restarono ignoti a Irzio e agli altri continuatori. Il genere del commentarius non era molto stabile e nei continuatori di Cesare si apre a diverse sollecitazioni: il Bellum Africum si riveste con una certa frequenza di una patina arcaicizzante, mentre il Bellum Hispaniense, generando squilibri e discrepanze di tono, dissemina sporadiche ricercatezze di stile su un fondo linguistico popolareggiante e colloquiale, non scevro di tratti volgari. A ragione si è indicato il suo anonimo autore in un homo militari non privo di un rudimentale tirocinio retorico che ne alimenta le vane velleità letterarie. Teorie linguistiche di Cesare La perdita delle orazioni di Cesare è uno dei più gravi danni subiti dalla letteratura latina, così 76 dai giudizi di quelli che poterono leggerle, come Quintilliano, Tacito, ecc. Probabilmente lo stile oratorio di Cesare avrà evitato i “gonfiori” (livores) e in colori troppo sgargianti, ma l’uso accorto degli ornamenta lo avrà salvato degli estremismi di uno stile scarno caro agli atticisti più spinti. Lo stesso Cicerone comunque è pronto a riconoscere che Cesare agì da purificatore della lingua latina correggendo un uso difettoso e corrotto con un uso puro e irreprensibile. Cesare espose le proprie teorie linguistiche nei 3 libri De analogia composti nel 54 a.C. e dedicati a Cicerone, che certo non condivideva quelle posizioni. I pochi frammenti rimasti mostrano come Cesare ponesse a base dell‟eloquenza l‟accorta scelta delle parole, per la quale il criterio fondamentale è la “analogia”, la selezione razionale e sistematica, contrapposta all‟ “anomalia”, l‟accettazione di ciò che diviene man mano consueto nel sermo cotidianus. La selezione deve limitarsi ai verba usitata, le parole già nell’uso; Cesare consigliava di fuggire le parole strane e inusitate. È evidente la coerenza di queste prescrizioni con lo stile asciutto e preciso dei Commentarii. L’analogismo di Cesare è cura della semplicità, dell’ordine, soprattutto della chiarezza alla quale talora egli arriva a sacrificare la grazia. Fortuna di Cesare scrittore Cicerone (Brutus 262): “Ha scritto dei commentari veramente degni di elogio…”. Lo scrittore più asciutto della latinità, lo stilista cui l’economia espressiva e l’essenzialità della scrittura parevano gli unici mezzi di parlare oggettivamente. Già Quintilliano lodava il Cesare oratore, non lo scrittore di storia. Cartesio, Manzoni daranno un giudizio di elogio. SALLUSTIO Vita Gaio Sallustio Crispo nacque in Sabina, nell’86 a. C. da una famiglia facoltosa. Studiò a Roma, orientandosi presto verso la politica, inizialmente legato ai populares, Sallustio fu tribuno della plebe nel 52 e, per aver condotto una violenta campagna contro Milione e Cicerone, subì la vendetta degli aristocratici che ne provocarono l’espulsione dal senato con l’accusa di indegnità morale. La vittoria di Cesare, per il quale parteggiò nella guerra civile, ridiede slancio alla sua carriera: fu pretore e poi governatore della provincia detta Africa nova, che comprendeva il regno di Numidia, tolto al re Giuba che aveva appoggiato i pompeiani. Accusato però di malversazioni e corruzione, per evitare la condanna si ritirò a vita privata, dietro consiglio dello stesso Cesare. 77 Fu da questo momento in poi che si dedicò alla storiografia. Morì nel 35 o nel 34, facendo sì che restasse incompiuta la sua opera maggiore, le Historiae. Opere Due monografie storiche: il Bellum Catilinae (o De Catilinae coniuratione) e il Bellum Iugurthinum, composte e pubblicate negli anni tra il 43 e il 40 a.C. Restano diversi frammenti di un’opera di più vasto respiro che doveva coprire il periodo tra 78 e 67 a.C., (dalla morte di Silla alla guerra di Pompeo contro i pirati) le Historie, che, iniziata intorno al 39 a.C., rimase incompiuta al libro V per la morte dell’autore, avvenuta nel 35 o nel 34 a.C. Sicuramente spurie e composte in età posteriore come esercizio retorico sono le due Epistulae ad Caesarem senem ad re pubblica e l’Invectiva in Ciceronem. Fonti La nascita si basa sulla Cronaca di Girolamo. Cenni sparsi sulla vita politica in Cassio Dione. Per il ritiro dalla vita politica lo stesso Sallustio in Bellum Catilinae. La monografia come genere letterario A entrambe le sue monografie, Sallustio antepone proemi di una certa estensione, in cui spiega le ragioni del ritiro della vita politica e della scelta di dedicarsi alla storiografia con la crisi che ha irrimediabilmente corrotto le istituzioni e la società. Come Cicerone, Sallustio sente l’esigenza di giustificarsi davanti ad un pubblico come quello romano, fedele alla tradizione per cui fare storia è compito più importante che scriverne. Sallustio attribuisce alla storiografia una precisa funzione nell’ambito della formazione dell’uomo di Stato e, negandole un significato autonomo, la considera in stretto rapporto con la prassi politica. Sallustio - e in ciò è evidente il contrasto fra la pagina scritta e quanto sappiamo della sua vita - denuncia l’avidità di ricchezza e di potere come i mali che avvelenano la vita politica romana. La cosa più importante è che la stessa storiografia sallustiana tende a configurarsi come indagine sulla crisi, e in ciò risiede la motivazione della scelta innovativa di un impianto monografico per le sue opere storiche. Quest’impostazione serviva a delimitare e mettere a fuoco un singolo problema storico sullo sfondo di una visione organica della storia di Roma. Così il Bellum Catilinae illumina il punto più acuto della crisi, il delinearsi di un pericolo sovversivo di tipo finora ignoto allo stato romano, eccezionale; mentre il Bellum Iugurthinum affronta direttamente, attraverso una vicenda paradigmatica, il nodo costituito dall’incapacità 80 arriva a una sorta di ideale “conciliazione”. Il ritratto di Cesare si sofferma da un lato sulla sua liberalità, munificentia (generosità), misericordia, e dall’altro sull’infaticabile energia che sorregge la sua brama di gloria. Le virtù tipiche di Catone sono invece quelle, radicate nella tradizione, di integritas, severitas, innocentia (l'integrità degli dei, la gravità, l'innocenza), ecc. Differenziando i mores (comportamenti) dei due personaggi, Sallustio voleva affermare che entrambi erano positivi per lo stato romano, per la complementarietà delle loro virtù. Con tale scelta Sallustio non perseguiva certo l’intento di denigrare Cicerone; ma è un fatto che dalla narrazione del Bellum Catilinae, la figura del console appare alquanto ridimensionata. Attinge invece una sua grandezza, sia pur malefica, il personaggio di Catilina, del quale Sallustio delinea un ritratto a tinte forti e contrastanti, ma dominato dall’esigenza moralistica: mentre tratteggia il suo personaggio, lo giudica. Il Bellum Iugurthinum: Sallustio e l’opposizione antinobiliare All’inizio, Sallustio spiega che la guerra contro Giugurta (111-105), fu la prima occasione in cui “osò andare contro l’insolenza della nobiltà”. Il Bellum Iugurthinum è largamente indirizzato a mettere in luce le responsabilità della classe dirigente aristocratica nella crisi dello stato. Giugurta, dopo essersi impadronito col crimine del regno di Numidia, aveva corrotto col denaro gli esponenti dell’aristocrazia romana inviati a combatterlo in Africa. Mario eletto console nel 107 , riceve l’incarico di portare a termine la guerra in Africa; Mario modifica la composizione dell’esercito arruolando i capite censi (cioè dei proletari non soggetti a tassazione perché privi di averi). La guerra riprende per concludersi solo quando il re di Mauritania, Bocco, tradisce Giugurta, suo precedente alleato, e lo consegna ai Romani. Nella sua narrazione sallustiana, la guerra contro Giugurta acquista rilievo sullo sfondo della degenerazione della vita politica: l’opposizione antinobiliare, cui Sallustio si riallaccia, rivendicava, contro la nobiltà corrotta, il merito della politica di espansione e della difesa del prestigio di Roma. Come nella precedente monografia Sallustio introduce al centro dell’opera un excursus che indica nel “regime dei partiti” la causa prima della dilacerazione e della rovina della repubblica. Il bersaglio principale di Sallustio è la nobiltà: non a caso traspare la preoccupazione di non condannare la politica dei Gracchi in maniera globale ma solo nei suoi eccessi. Il quadro che emerge da quest’opera è piuttosto deformante, al fine di rappresentare la nobiltà come un 81 blocco unico guidato da un gruppo corrotto, Sallustio trascura di parlare dell’ala aristocratica favorevole a un impegno attivo nella guerra, la parte più legata al mondo degli affari e più incline alla politica di imperialismo espansionistico. Le linee direttive della politica dei populares sono esemplificate nei discorsi che Sallustio fa tenere dal tribuno Memmio per protestare contro la politica inconcludente del senato e successivamente da Mario, quando questi convince la plebe ad arruolarsi in massa. Per Sallustio i due discorsi sono rappresentativi dei migliori valori etico-politici espressi dalla democrazia romana nella sua lotta contro la nobiltà. Memmio invita il popolo alla riscossa contro l’arroganza dell’oligarchia dominante (pauci), enumera i mali del regime aristocratico, tra cui il tradimento degli interessi della repubblica, la dilapidazione del denaro pubblico, la monopolizzazione delle ricchezze e delle cariche. Nel discorso di Mario il motivo centrale è l’affermazione di una nuova aristocrazia, l’aristocrazia della virtus, fondata non sulla nascita ma sui talenti naturali di ciascuno e sul tenace impegno a svilupparli. Mario si richiama ai valori antichi che hanno fatto la grandezza di Roma e che in un’epoca remota caratterizzarono i capostipiti delle casate aristocratiche, ormai inette. Il discorso esprime soprattutto le aspirazioni dell’élite italica a una maggiore partecipazione al potere. Il giudizio complessivo di Sallustio di Mario, però, rimane segnato da ambiguità: l’ammirazione per l’uomo che seppe opporsi all’arroganza nobiliare è limitata dalla consapevolezza delle responsabilità che in futuro Mario si sarebbe assunto nelle guerre civili. Già l’arruolamento dei capite censi getta ombre inquietanti sulla suo figura, Sallustio non sembra approvare questo provvedimento, che dà origine agli eserciti personali, pare anzi che veda nell’affermarsi del proletariato militare un inquinamento di quell’aristocrazia della virtus che Mario esalta nel proprio discorso. Nel ritratto di Giugurta, Sallustio, come in quello di Catilina, non nasconde la propria perplessa ammirazione per l’energia indomabile che è sicuro segno di virtus, seppure corrotta. Una differenza importante rispetto al ritratto di Catilina è che la personalità del re barbaro è rappresentata in evoluzione, la sua natura non è corrotta sin dall’inizio ma lo diviene progressivamente. Il seme del degrado viene gettato in Giugurta durante l’assedio di Numanzia da nobili e homines novi romani. Per il personaggio Sallustio non mostra comunque attenuanti, Giugurta, una volta corrotto, è solo un piccolo tiranno perfido, ambizioso e privo di scrupoli, non è certo l’eroe dell’indipendenza numidica che alcuni interpreti hanno creduto di vedere in lui. 82 Le Historiae e la crisi della res publica La maggior opera storica rimase incompiuta per la morte dell’autore sono le Historiae. Le Historiae iniziavano col 78 a.C., riallacciandosi alla narrazione di Sisenna, ma non sappiamo fino a che punto si spingesse il racconto. Dopo gli esperimenti monografici, Sallustio si cimentava in un’impresa di vasto respiro, tornando alla forma annalistica. L’opera influenzò molto la cultura di età augustea. Alcuni frammenti sono particolarmente ampi, si tratta di quattro discorsi e di un paio di lettere, una di Pompeo e una di Mitridate, quest’ultima la più importante: dalle parole del sovrano orientale che combatté a lungo contro i romani affiorano chiaramente i motivi delle lagnanze dei popoli soggiogati e dominati da Roma. Il solo motivo che i romani hanno di portare guerra a tutte le altre nazioni, scrive Mitridate, è la loro inestinguibile sete di ricchezze e potere. Possediamo anche molti frammenti di carattere geografico e etnografico, a conferma di un interesse già presente nella monografia maggiore. è da ricordare anche un brano proveniente dal proemio dell’opera, in cui Sallustio riconosce nell’esaurirsi del metus hostilis, succeduto alla fine delle guerre puniche, la ragione della decadenza romana, in quanto solo il timore per Cartagine poteva mantenere la coesione della società romana, impedendo che si liberassero forze centrifughe distruttive come l’ambizione personale e i vizi morali. Le Historiae dipingono un quadro in cui dominano le tinte cupe, la corruzione dei costui dilaga senza rimedio, a parte poche nobili eccezioni (tra le quali Sallustio ammira particolarmente Sertorio che, ribelle a Silla, aveva fondato in Spagna) sulla scena politica si affacciano sopratutto avventurieri, demagoghi e nobili corrotti. In generale, il pessimismo sallustiano sembra acuirsi nell’ultima opera, dopo l’uccisione di Cesare e la frustrazione delle aspettative riposte nel dittatore, lo storico non ha più una parte dalla quale schierarsi né aspetta ormai alcun salvatore. Lo stile di Sallustio L’epoca che aveva visto da un lato il rinnovamento dell’oratoria e della prosa artistica a opera di Cicerone e, dall’altro, il travaglio dei poetae novi, aspettava anche la nascita di un nuovo stile storico. Cicerone, che pensava a una scrittura storiografica dallo stile armonioso, fluido e dunque a un opportuno adattamento del modello dell’oratoria concepiva la storia come opus oratorium maxime. 85 Opere Bucolica, dieci brevi componimenti in esametri (829), chiamati anche egloghe e composti fra il 42 e il 39; Georgica, poema didascalico in quattro libri di esametri (2188) completati nel 29; Aenèis, poema epico i 12 libri in esametri: in totale poco meno di 10.000 esametri. L’opera fu edita dagli esecutori del testamento. Fonti Oltre alle notizie ricavabili dai testi autentici, abbiamo una serie di Vitae, tardo antiche, il nucleo risale all’attività biografica di Svetonio: la più famosa di queste Vitae si deve a Elio Donato, il grammatico del IV secolo. Tutte le opere autentiche sono commentate sin dal secolo I d.C. Le Bucoliche Sino alla pubblicazione del libro della Bucoliche, Teocrito era stato l’autore greco meno frequentato dalla cultura romana, che così fortemente urbana si rivolgeva ad altri modelli. La poesia degli Idilli, è tutta rivolta alla ricostruzione nostalgica e dotta di un mondo pastorale tradizionale. Protagonisti dell’azione erano i pastori e insieme a loro un paesaggio ricco ma statico: tutto sospeso in una vita quotidiana rarefatta ma illuminata dalla poesia. L’incontro di Virgilio con questo genere, che è anche un mondo immaginario, fu straordinariamente felice. Imitare Teocrito significò, alla fine, una sorta di simbiosi che non ha precedenti nella letteratura romana, e neppure forse veri continuatori. Il risultato non si può ridurre ad un semplice processo imitativo. Non esiste, in pratica, una singola egloga che sta in rapporto “uno a uno” con un singolo idillio. La presenza di Teocrito è stata risolta in una trama di rapporti talmente complessa che la nuova opera sta alla pari con il modello. L’originalità delle Bucoliche, garantita dall’essere il primo libro interamente dedicato a questo genere letterario, viene rivendicata da Virgilio, all’inizio della VI ecloga, con un atteggiamento tipicamente callimacheo, in contrapposizione alle grandi imprese poetiche dell’epopea. Nell’opera il giovane poeta, che rileggeva attraverso Teocrito il mondo rurale della sua infanzia, mostra non già un semplice processo imitativo, quanto piuttosto uno studio ricercato dal poeta siracusano, dei suoi imitatori greci del II-I secolo a.C. e persino dei suoi commentatori. Tutto ciò porta Virgilio ad una vera interiorizzazione del genere bucolico, di cui assimila profondamente i codici, fino a realizzare nell’opera una trama di rapporto talmente complessa col suo modello da essergli realmente alla pari. In questo senso le Bucoliche – così neoteriche per dottrina, stilizzazione, culto della poesia – 86 sono davvero il primo testo della letteratura augustea, di cui riescono ad interpretare l’esigenza di fondo, ‘rifare’ i testi greci trattandoli come classici. Il titolo d‟insieme Bucolica, “canti dei bovari”, racchiude il tratto fondamentale di questo genere, che rievoca uno sfondo pastorale in cui i pastori stessi sono messi in scena come attori e anche creatori di poesia. Al singolare si preferisce il termine egloga (“poemetto scelto”). Nessun altro libro poetico a noi noto, prima di Virgilio, esibisce lo stesso livello di complessità architettonica e di unitarietà. Il piano dell’opera è il seguente:  I ecloga: dialogo tra due pastori, Melibeo è costretto ad abbandonare i campi confiscatigli, mentre Titiro può restare, grazie anche all’aiuto di un giovane di natura divina;  II ecloga: lamento d’amore del pastore Coridone, che si strugge per il giovane Alessi;  III ecloga: tenzone poetica tra due pastori, svolti in canti alternati a botta e risposta detti “amebei”;  IV ecloga: canto profetico per la nascita di un fanciullo che vedrà l’avvento di una nuova età dell’oro;  V ecloga: lamento per Dafni, eroe pastorale che, dopo essersi lascito morire per amore, viene assunto tra gli dei;  VI ecloga: dichiarazione di poetica ad introduzione della seconda metà del libro, dopo della quale il vecchio Sileno, catturato da due giovani, canta l’origine del mondo e una serie di miti;  VII ecloga: Melibeo racconta la gara di canto tra due pastori, gli arcadi Tirsi e Coridone;  VIII ecloga: dedicata all’amico Asinio Pollione, presenta ancora una gara di canto;  IX ecloga: è simile alla prima ecloga, contiene richiami alla realtà della campagna mantovana e alle espropriazioni seguite alle guerre civili;  X ecloga: il poeta bucolico Virgilio cerca di confortare le sofferenze d’amore del’amico poeta elegiaco Cornelio Gallo. In omaggio al principio alessandrino alla “varietà” (poikilìa), il carattere miscellaneo della raccolta di Teocrito si allargava a un repertorio relativamente ampio di temi, ambiente, situazioni, avventurandosi anche nel mondo delle città, capita così che le figure di Teocrito si trovino coinvolte in cerimonie pubbliche, feste, parate. Virgilio sfrutta queste aperture, le Bucoliche sono molto più monocordi, concentrate sullo 87 stilizzato mondo dei pastori e orientano così in senso più specifico la stessa parola “idillio”, che in greco significa soltanto “piccolo componimento”: da allora il termine denota uno scenario ben preciso e tutta un’atmosfera sentimentale malinconico-contemplativa. Virgilio trasforma quindi Teocrito, accentuando gli elementi di stilizzazione e idealizzazione. Quindi, da un lato, alcuni spunti permettono di acclimatare le egloghe al paesaggio italico, dall’altro vi sono accenni a un particolare paesaggio ideale, l’Arcadia. Vi sono molte allusioni a questo mondo beato di pastori nella cultura greca anteriore, ma il mito dell’Arcadia come terra delle poesia e terra beata dei pastori deve moltissimo a Virgilio. Questa operazione riduce sensibilmente il confini del genere idillico, i temi che possono essere affrontati da questa poesia ‘tenue’. Tutto quanto del reale entra nel mondo bucolico viene travestito nel linguaggio e nell’immaginazione dei pastori per apparire come se fosse visto da loro, ingenui primitivi della campagna. La città e gli eventi della storia rimangono solo sull’orizzonte come spaventose e incomprensibili. L’atmosfera è intensamente malinconica nel canto di questi pastori, alcuni di loro devono andare perché sono stati cacciati dai soldati. Si rivela così un libero riuso di spunti autobiografici, in cui sta un altro sostanzioso contributo di Virgilio alla tradizione bucolica. Il dramma dei pastori esuli nelle egloghe I e IX contiene certamente un nucleo di esperienza personale. Negli anni 42-41 confische di terre a favore di veterani colpirono Mantova e Cremona. Secondo la tradizione biografica antica, Virgilio era stato dapprima spossessato anche egli, poi reintegrato nella proprietà ad opera di personaggi influenti: Asinio Pollione. Intorno a questo nucleo, che sembra accettabile, si sviluppò poi tutta una ricostruzione storica, una sorta di romanzo allegorico: dietro a tutte le figure del mondo pastorale, interpreti antichi e moderni, hanno visto una ridda di allusioni storiche. Ma ciò che importa, è cogliere l’originalità di ispirazione con cui Virgilio “legge” attraverso il linguaggio bucolico l’epoca delle guerre civili. Come nella celebre IX egloga. Come annuncia l’esordio (paulo malora canamus - cantare un po’ male) il poeta si solleva oltre la sfera pastorale per cantare un grande evento. Chi è il puer (ragazzo) che con il suo avvento riporta l’età dell’oro sul mondo in crisi? L’identificazione tardoantica del puer con Gesù Cristo è solo la più coraggiosa delle tante congetture avanzate. L’egloga si inserisce nelle aspettative di rigenerazione tipiche dell’età di crisi fra Filippi e Azio, ed ha un chiaro parallelo nell’epodo (verso, periodo) XVI di Orazio. Due sono i filoni culturali che nutrono questa poesia visionaria: le poesie in onore di nozze e di nascite; Virgilio poi ha attinto anche da fonti non poetiche, dove si mescolano influssi filosofici e presenza di dottrine messianiche, aspettative di una salvatore. L’egloga è datata al consolato di Asinio Pollione, 40 a. C. L’ipotesi migliore è che il bambino 90 sforzo per trasformare in poesia dettegli fisici e realtà minute, in apparenza refrattarie alla dizione poetica. Le Georgiche, non a caso, devono parte del loro fascino a immagini come queste: il comportamento delle api ammalate, la consistenza della terra sbriciolata fra le dita. In tenui labor è un programma poetico che deve molto alla ricerca formale alessandrina e alla poetica di Callimaco. Tuttavia, l’impulso di fondo delle Georgiche è partito da un dialogo con Lucrezio. “…nulla sa delle leggi del ferro, dei deliri del foro, dei pubblici archivi” ( II 490-502). Un nuovo messaggio di salvazione e di saggezza: non coincide, né si oppone direttamente, con la dottrina di Lucrezio, ma si misura rispetto ad essa; vi sono chiare analogie: la saggezza del contadino, che media la fatica del lavoro e la spontaneità della terra, conduce ad una forma di autosufficienza, materiale e spirituale. Un’autarchia che risponde all’incombere della crisi sociale e culturale della repubblica. Vi sono delle nette differenze. Lo spazio georgico di Virgilio accoglie più largamente la religiosità tradizionale, fa corpo con essa. Si ha l’impressione che Lucrezio guardi alle cause naturali con retroscena della cultura umana; Virgilio sembra appigliarsi pazientemente a tutto ciò che incivilisce e umanizza la natura. Lo spazio georgico del poema ha una sua cintura protettiva. Il giovane Ottaviano si profila come l’unico che può salvare il mondo civilizzato dalla decadenza e dalla guerra civile (I 500 segg.): siamo prima di Azio, nell’incertezza che nasce dalla morte di Cesare e da Filippi. Altrove appare già come vincitore e portatore di pace. Il nuovo principe assicura le condizioni di sicurezza e prosperità entro cui il mondo dei contadini può ritrovare la sua continuità di vita. Per questo tipo di cornice ideologica, le Georgiche si possono considerare il primo vero documento della letteratura latina nell’età del principato. Il primo proemio ne è un chiaro esempio: vi compare, in netta frattura con la traditone politica romana, la figura del principe quale sovrano divinizzato, sviluppo esplicito di una tradizione ellenistica che tanto aveva faticato per affermarsi a Roma. Augusto e Mecenate sono accolti nell’opera non solo come illustri dedicatari ma anche veri e propri ‘ispiratori’. Il ruolo di destinatario della comunicazione didattica è assegnato invece alla figura collettiva dell’agricola che cela il destinatario ‘reale’ dell’opera: un pubblico che conosce la vita della città e le sue crisi. Rivolto formalmente alla vita dei campi, il poema finisce per affrontare di scorcio anche i problemi della vita urbana e i più generali problemi del vivere. è piuttosto difficile credere che le Georgiche siano direttamente ispirate da un ‘programma augusteo’ di risanamento del 91 mondo agricolo. L’immagine dell‟economia rurale che traspare dal poema è una idealizzata costruzione regressiva, inadeguata alla realtà dell‟epoca. L‟ “eroe” del poema è il piccolo proprietario agricolo, il coltivatore diretto: Virgilio fa al massimo pallidi cenni alle grandi trasformazioni in corso: l’estensione del latifondo, lo spopolamento delle campagne, le assegnazioni di terre ai veterani, il trasferimento di certe produzioni agricole dall’Italia alle province. Più notevole ancora è la mancanza di qualsiasi accenno al lavoro servile, vero cardine dell’economia agricola. L’idealizzazione del colonus che si incarna nella figura del senex Corycius ha un puro significato morale. Più facile è cogliere precise convergenze tra Virgilio e la propaganda ideologica augustea. L’esaltazione delle tradizioni dell’Italia contadina e guerriera, sentita come mondo unitario, ha come sfondo il clima della guerra contro Antonio: il partito di Ottaviano la presentava come uno scontro tra Occidente e Oriente, sostenuto dalla spontanea concordia dell’Italia che riconosceva in Ottaviano il proprio capo carismatico. Queste coordinate ideologiche producono un’esaltazione specificamente ‘georgica’ della penisola, di cui vengono incensate, oltre alle qualità morali degli abitanti, la fecondità, la salubrità climatico, la perfezione ambientale per la vita umana: si tratta della formulazione più memorabile della topica della Laus Italiae. Non va trascurata l’autonomia con cui Virgilio rielabora questo patrimonio di idee: il suo contributo personale al mito nazionale dell’unità italica deve essere stato molto sensibile. L’ideologia augustea non è solo un apparato ideologico preformato, che il poeta si limita a rispecchiare, ma anche il risultato di singoli apporti intellettuali. I temi de quattro libri sono, rispettivamente, il lavoro dei campi, l’arboricoltura, l’allevamento del bestiame, l’apicoltura: sono quattro delle attività fondamentali del contadino. L’ordine in cui questi lavori sono collocati nel testo prevede che l’apporto della fatica umana si faccia sempre meno accentuato e la natura sia sempre più protagonista. Allo sforzo incessante dell’aratore, nel libro I, corrisponde, nel libro IV, la terribile operosità delle api che si fanno quasi sostituti dell’impegno umano. La struttura del poema sembra orientata dal grande al piccolo, dalle leggi cosmiche del lavoro agricolo sino al microcosmo degli alveari, mondo che più riavvicina la natura alla cultura dell’uomo. L’opera è quindi impostata su una serie di libri dotati di chiara autonomia tematica e collegati da un piano complessivo, ciascuno introdotto da un proemio e dotato di sezioni digressive. è evidente anche in questo caso la lezione di Lucrezio ma con due importanti differenze: Virgilio tende a indebolire le costrizioni logiche del pensiero, i forti nessi argomentativi, i collegamenti tra un tema e l’altro, al contrario, l’architettura formale del poema si fa più regolata e simmetrica. 92 Nasce così una nuova struttura poetica, il discorso fluisce naturale e talora capriccioso, nascondendo i passaggi logici, muovendo per associazioni di idee o contrapposizioni, nello stesso tempo, il suo dinamismo finisce per trovare equilibrio in una studiatissima architettura d’insieme che si fa trasparente nelle simmetrie tra libro e libro. Ogni libro delle Georgiche è dotato di una “digressione” conclusiva, di estensione piuttosto regolare: le guerre civili per il libro I, la lode della vita agreste per il libro II, la peste degli animali di Norico per il libro III e la storia di Aristeo e delle sue api per il libro IV. Hanno chiaro valore di cerniera i proemi: due volte lunghi ed esorbitanti rispetto al tema dei libri (I,III); due volte brevi e strettamente introduttivi (II, IV). Queste somiglianze formali hanno anche una funzione più profonda: I e III libro risultano accoppiati e lo sono anche nelle grandi digressioni finali: guerre civili e pestilenza degli animali si richiamano quasi a specchio, gli orrori della storia corrispondono ai disastri della natura. Rispetto a questi finali oscuri, rasserenante è l’effetto delle altre digressioni: l’elogio della vita campestre si oppone alla minaccia della guerra e la rinascita delle api replica allo sterminio della pestilenza. Queste grandi polarità tra temi di morte e temi di vita danno un senso all’architettura formale, tramutandola in un chiaro-scuro di pensieri che suscita riflessione nel lettore. La digressione finale del IV libro, a differenza delle altre, ha carattere narrativo. È introdotta come àition alla maniera alessandrina: “origine”, e spiegazione, di un fatto mirabolante, la bugonia: proprietà delle api che possono nascere dalla corruzione di una carcassa bovina. Aristeo – personaggio mitico, grande civilizzatore e scopritore di tecniche – ha perso la sue api per una epidemia. Senza volerlo aveva causato la morte di Euridice, la sposa di Orfeo. Con un sacrificio di buoi viene placata la maledizione; e dalle vittime del sacrificio, miracolosamente, si sviluppa la vita di nuove api. Virgilio ha collegato due miti abbastanza diversi tra loro, ripensandoli entrambi e disponendoli in una struttura a cornice. In questo pesa molto la tradizione della poesia alessandrina e neoterica, quella dei racconti ad incastro. Alcuni temi fondamentali del poema si ritrovano ora sotto mutata veste, cioè sotto specie non più didattica ma narrativa. La figura di Orfeo fonde insieme le grandi possibilità dell’uomo, che col suo canto arriva persino a dominare la natura, e il suo sacco, l’impossibilità di vincere le leggi naturale della morte. Aristeo, invece, indica una diversa strada: la paziente lotta contro la natura è sostenuta da una tenace obbedienza ai precetti divini e conduce fino alla rigenerazione delle api. 95 sono trattati come “storici”, ma non si tratta, tecnicamente parlando di storia romana. Questo spostamento permette a Virgilio di guardare il mondo di Augusto da lontano; l’Eneide è attraversata da scorci profetici che conferiscono alla storia un orientamento “augusteo”, ma non cessa di essere omerica. Infatti sono omeriche le tecniche narrativa che permettono Virgilio di guardare da lontano la Roma augustea. Nell’Iliade Zeus profetizza il destino degli eroi e la distruzione di Troia; nell’Eneide Giove profetizza non solo il destino di Enea ma anche la futura grandezza di Augusto che riporterà finalmente l’età dell’oro. Nell’Odissea Odisseo scende verso l’Ade e ottiene uno scorcio sul suo destino, nell’Eneide Enea impara dal regno dei morti non solo il suo personale futura, ma anche i grandi momenti critici dello sviluppo di Roma. Si sperimenta così un difficile equilibrio fra la tradizione dell’epos eroico e il bisogno di un’epica storico-celebrativa. Il momento di sintesi fra dimensione omerica e dimensione augustea fu dato da Virgilio da una vecchia leggenda. L’Italia conosceva una serie di “leggende di fondazione” collegate alla guerra di Troia; fra queste storie acquistò particolare peso la leggenda di Enea. Da scoperte archeologiche recenti, il culto di Enea è attestato a Lavinium, a sud di Roma, sin dal IV secolo a. C. Tra il II e il I secolo la sua figura acquistò crescente fortuna, e per ragioni politiche. Il mito dell’origine troiana dei Romani ne traeva sostegno: il più nobile eroe troiano sopravvissuto sarebbe stato connesso, per via genealogica, a Romolo il fondatore della città. Questo permetteva alla cultura romane di rivendicare una sorta di autonoma parità con i Greci, nel tempo i cui Roma egemonizzava il Mediterraneo greco. I Troiani erano consacrati dal mito omerico come grandi antagonisti dei Greci; da Roma sarebbe nata la loro rivincita (anche Cartagine venne opportunamente ricollegata alla leggenda di Enea tramite la regina Didone). Così Roma legittimava il suo nuovo potere attraverso uno sfondo storico profondissimo. Inoltre, attraverso la figura del figlio di Enea Ascanio/Iulio, una nobile casata romana, la gens Iulia, rivendicava per sé nobilissime origini. Qui venne a saldarsi il cerchio tra Virgilio Augusto e l’epica eroica. L’Eneide svolge la leggenda di Enea dall’ultimo giorno di Troia sino alla vittoria di Enea e alla fusione di Troiani e Latini in un unico popolo. Ecco il piano dell’opera:  Libro I: Giunone, nel suo odio per i troiani, scatena una tempesta che decima le navi di Enea, costringendolo ad approdare presso Cartagine, dove, favorito dalla madre 96 Venere, viene accolto da Didone, la regina della città fenicia, che chiede al suo ospite di narrare la fine di Troia;  Libro II: Enea racconta la distruzione della città da cui, con la protezione divina, riesce a fuggire portando con sé il padre, il figlio e i Penati, simbolo della continuità di una stirpe, perdendo però la moglie Creusa;  Libro III: Continua il racconto di Enea, partiti dalla Troade, i troiani capiscono che una nuova patria li aspetta in Occidente. Il racconto retrospettivo si chiude, dopo meravigliose periperzie, con la morte del vecchio Anchise;  Libro IV: Didone, innamoratasi di Enea, finisce con l’uccidersi quando l’eroe, costretto a seguire il corso deciso dal fato, la abbandona. La regina muore maledicendo Enea e profetizzando eterno odio tra Cartagine e i discendenti dei troiani;  Libro V: I troiani fanno tappa in Sicilia. Quasi tutto il libro è occupato dai giochi funebri in onore di Anchise.  Libro VI: Giunto a Cuma, in Campania, Enea consulta la Sibilla, guadagnando l’accesso al mondo dei morti, dove incontra una parte del suo passato: Deifobo caduto a Troia, Didone morta per causa sua, lo sfortunato pilota Palinuro e soprattutto il padre Anchise, che gli schiude il lontano futuro mostrandogli gli eroi, i condottieri che faranno la storia di Roma;  Libro VII: Incoraggiato dall’incontro col padre, Enea sbarca presso la foce del Tevere e, dopo aver riconosciuto da segni prestabiliti la terra promessa, instaura un patto con il re Latino. Per intervento di Aletto, il demone della discordia inviato da Giunone, la moglie di Latino, Amata, e il principe rutulo Turno, promesso sposo della figlia di Latino, fomentano la guerra. Rottosi il patto e saltato il matrimonio dinastico tra Enea e Lavinia, una coalizione di popoli italici marcia sul campo troiano. Lavinia, la nuova Elena, è al centro della discordia;  Libro VIII: Enea, in grave difficoltà, per consiglio divino risale il Tevere con un piccolo distaccamento e, nel luogo dove sorgerà Roma, trova l’appoggio di Evandro, re di una piccola nazione di arcadi. Insieme al figlio di Evandro, Pallante, Enea trova poi un potente alleato, la coalizione etrusca sollevata contro Mezenzio, crudele tiranno di Cere ora messo al bando e alleato di Turno. Gli dei fanno dono a Enea di un’armatura forgiata da Vulcano, il cui scudo è istoriato con il futuro di Roma;  Libro IX: L’assenza di Enea favorisce Turno e i suoi alleati, che ottengono parziali successi sui troiani. Il coraggioso sacrificio dei giovani troiano Eurialo e Niso in spedizione notturna non dà alcun esito;  Libro X: Enea torna con gli alleati e capovolge la situazione. Turno uccide Pallante, indossandone il balteo in ricordo della vittoria. Enea uccide allora Mezenzio, fortissimo 97 alleato di Turno;  Libro XI: Enea piange il morto Pallante, offendo senza successo la pace. Turno tenta ancora la sorte delle armi. In una grande battaglia equestre cade un altro eroe di parte latina, la vergine guerriera Camilla;  Libro XII: Provato dagli insuccessi, Turno accetta un duello decisivo con Enea. La ninfa Giuturna, spinta da Giunone, fa cadere anche questo patto. La battaglia riprende, quando ormai è certa la vittoria dei troiani, Giunone si riconcilia con Giove e ottiene che nei nuovo popolo non resti più traccia del nome troiano. Enea sconfigge Turno in duello e, dopo una prima esitazione, spinta dall’ira per avergli visto addosso il balteo di Pallante, lo uccide. Va notato che il poeta sottopone il materiale tratto dalle sue fonti storico-antiquarie ad una profonda ristrutturazione. Le variabili notizie sulla guerra con i latini, seguita da un’alleanza, sono state rifuse in un’unica sequenza di guerra, chiusa da una storica riconciliazione. La guerra è rappresentata da Virgilio come scontro tra i troiani, coalizzati con gli etruschi e con una piccola popolazione greca stanziata sul territorio della futura Roma, e i latini, appoggiati da numerosi popoli italici. Nello sforzo di creare una vera epica nazionale romana, Virgilio muove, nello spazio delle origini, tutte le grandi forze da cui nascerà l’Italia del suo tempo. Nessun popolo è escluso da un qualche contributo positivo alla genesi di Roma, gli stessi latini saranno riconciliati e anzi formeranno il nerbo della nuova gente, la grande potenza etrusca, estesa dalla Mantova di Virgilio sino al Tevere, si vede riconoscere un ruolo costruttivo, persino i greci, tradizionali avversari dei troiani, forniscono un decisivo alleato, l’arcade Pallante, e soprattutto si presentano come la più nobile preistoria di Roma. L’Eneide è quindi un’opera di denso significato storico-politico ma non è un poema storico, il taglio dei contenuti è dettato da una selezione “drammaturgica” del materiale, che ricorda più Omero che Ennio. Nonostante le aspettative create dal titolo, l’opera non traccia nemmeno un quadro completo della biografia dei Enea. La più nuova e grande qualità dello stile epico virgiliano sta nel conciliare il massimo di libertà con il massimo di ordine. Virgilio ha lavorato sul verso epico, l’esametro, portandolo insieme al massimo di regolarità e al massimo di flessibilità. La ricerca neoterica aveva affermato dure restrizioni nell’usare le cesure, nell’alternanza tra dattili e spondei, nel rapporto tra sintassi e metro. Virgilio plasma il suo esametro come strumento di una narrazione lunga e continua, articolata