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Letteratura latina G.B. Conte, Dispense di Letteratura latina

Riassunto del manuale di letteratura latina G.B. Conte

Tipologia: Dispense

2022/2023

In vendita dal 10/03/2022

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Scarica Letteratura latina G.B. Conte e più Dispense in PDF di Letteratura latina solo su Docsity! Manuale letteratura latina I I.1.1 Le condizioni della nostra documentazione non preservano i materiali di scrittura deperibili; non abbiamo perciò motivo di pensare che i romani dei primi secoli scrivessero unicamente su materiali duri. Abbiamo unicamente graffiti e iscrizioni e ci mancano documenti di tipo funerario che sono solitamente importantissime fonti. La presenza di iscrizione di tipo strumentale sembra provare che già nella Roma più arcaica una certa capacità di scrivere era diffusa anche tra persone di media condizione. L’uso della scrittura indispensabile per una serie di funzioni pubbliche; in questa fase – cioè sino alle prime figure della storia letteraria come Livio andronico – non è attestata una vera e propria circolazione libraria. E caratteristico che i più antichi libri di cui si ha qualche notizia – i famosissimi libri Sibillini introdotti a Roma ai tempi di tarquinio il superbo – siano testi religiosi e scritti in greco. Già nella Roma medio repubblicana il quadro dell’alfabetizzazione si presenta assai ampio e articolato. I.1.2 L’uso del latino come lingua ufficiale della comunità romana tradusse impulso di inestimabile valore per lo sviluppo della lingua Latina; il tradizionalismo tipico della cultura romana di età repubblicana favorì il perpetuarsi di certe formule di certe strutture di pensiero: ne ritroviamo tracce anche in autori immersi nella nuova cultura grecizzante, addirittura nel latino di Catullo e Virgilio. Sin dai tempi più antichi l’uso della scrittura fu legato alla necessità di avere precise registrazioni ufficiali: di trattati e patti internazionali e di leggi. Enorme fu l’importanza storica, sociale e culturale delle prime leggi di Roma; Abbiamo anzitutto tracce di remotissime leges regiae che dovrebbero risalire alla fase monarchica dei primi secoli. Costituì una forte conquista civile e politica la composizione delle “Leggi delle XII tavole”, cosiddette perché erano affidate a 12 tavole di bronzo esposte nel foro romano pronto; le leggi sarebbero state stilate fra il 451 e 450. I romani di età classica ravvisano nelle “Leggi delle XII tavole” il più vero fondamento della loro identità culturale. Un’altra antichissimo uso della scrittura riguardava i calendari; I giorni dell’anno erano divisi in fasti e nefasti, a seconda se vi fosse permesso o vietato il disbrigo degli affari pubblici punto Agli albori dell’oratoria si trova il nome di Appio Claudio Cieco, che ci appare per certi versi un predecessori di Catone. Viene ricordato per la sua efficace abilità oratoria: con un famoso discorso si oppose alla proposta di pace di Pirro e Cicerone vi allude come al primo discorso ufficiale mai pubblicato a Roma. A lui inoltre si attribuisce tradizionalmente la sostituzione della S intervocalica con la R. A suo nome circolava una raccolta di massime (Sententiae) ha carattere moraleggiante e filosofeggiante, considerata come un ricettacolo di saggezza unica. È significativo che di Appio Cicerone citi l’esistenza di un carmen: questo non significa affatto che Appio fosse propriamente parlando un poeta. Il significato più usuale di carmen è “poesia”, tuttavia Ennio non sembra amare molto il termine il definisce il suo lavoro come poema; da unlato.no voleva marcare la sua originale predisposizione a poetare alla greca, dall’altro sottolineava così il suo rifiuto di una certa tradizione antichissima. Un carmen non è tale per il suo contenuto o per il suo uso; per individuarlo bisogna guardare alla forma. Si può così distinguere prosa e poesia nella Roma arcaica: la prosa romana più antica è marcato da una fortissima stilizzazione, ossia ha una tessitura ritmica molto intensamente segnata e percepibile. Inversamente la poesia arcaica una struttura metrica curiosamente debole in quanto sottostante regole di maglia larga. La tradizione stilistica dei carmina è il più potente tratto di continuità che unisce il periodo della origine alla storia letteraria di Roma; la tradizione dei carmina non sparisce mai del tutto. Le più antiche forme di carmina che ci sono giunte riguardano una produzione a carattere religiosa e rituale. Il primo era il canto di un venerando collegio sacerdotale, i Salii, che sarebbe stato istituito da re Numa Pompilio; il linguaggio dei Salii era incomprensibile per i romani di età storica e le tracce che ce ne abbiamo ci risultano oscurissime. Un po’ meno fantasmatico e il carmen Arvale: Nel mese di maggio i fratres arvales levavano un inno di purificazione dei campi implorando protezioni da Marte e dai Lares punto Alcune caratteristiche di questi inni come la pienezza espressiva, le ripetizioni devono aver avuto duratura influenza sulla letteratura latina profana. Le testimonianze più antiche che abbiamo sulla poesia romana comportano l’uso del saturnio, in cui sono composti i due primi testi epici romani: la versione dell’Odissea di Livio andronico e il Bellum Poenicum di Nevio; E in saturnia sono gli elogi funebri ritrovati su sepolcri di due illustri personaggi appartenenti alla famiglia degli scipioni. I due componimenti più antichi si riferiscono a Lucio cornelio Scipione e al padre di questi; sono testi di notevole fattura letteraria che rivelano una certa familiarità con la cultura greca e con le tradizioni della poesia funeraria greca. Il saturnio pone agli studiosi di Roma arcaica interrogativi complessi: la stessa etimologia del termine fa pensare a qualcosa di indigeno com’era appunto il Dio Saturno. Ma tutte le attestazioni che abbiamo ci parlano di un’epoca già imbevuta di cultura greca non si può quindi collocare il saturnio in unità pura originaria priva di interferenze greche, d’altra parte l’interpretazione metrica di questo verso pone severi problemi: la struttura, incredibilmente fluida, non si lascia ricondurre a nessun verso canonico della poesia greca. Si sono proposte molte interpretazioni radicalmente diverse tra loro; Il dibattito è importante anche perché coinvolgere le nostre idee sullo sviluppo di una preistoria della cultura letteraria Latina. Il teatro romano arcaico I.2.1 La scena Nel secolo che intercorre tra il 240 a.C. e l’età dei gracchi la cultura romana conosce una straordinaria fioritura di opere sceniche e di rappresentazioni teatrali. La diffusione di questo tipo di comunicazione artistica è enorme paragonabile, o superiore persino, a quella dell’arte figurativa. È necessario innanzitutto affrontare nell’insieme i caratteri generali istituzionali di questo teatro. Tutti i principali generi teatrali romani sono dei prodotti di importazione. Di origine greca sono: A) Il principale genere comico, la palliata, così definita dal pallio ( abbigliamento greco); B) Il principale genere tragico, la cothurnata, Coturni sono gli altissimi calzari degli attori tragici greci. Gli autori presentano regolarmente le loro opere non solo come ambientati in Grecia ma anche come derivate da precisi e conosciuti modelli greci. Anche i termini tecnici della drammaturgia soprattutto di origine greca o etrusca. La più antica ricorrenza teatrale è quella legata alla celebrazione dei ludi romani: fu lì che Livio Andronico nel 240 mise in scena il primo testo drammatico regolare, una tragedia sul modello greco. Il carattere statale ufficiale dell’organizzazione ebbe due importanti conseguenze. 1. I committenti delle opere si identificavano con le autorità; 2. La commedia Latina che noi conosciamo non esercita vere forme di critica sociale e di costume. Un’altra data importante del teatro latino e 207, quando fu fondata la “confraternita degli autori e degli attori”. Il primo teatro di pietra fu edificato a Roma solo nel 55 a.C; Prima ci saranno state solo strutture provvisorie in legno. L’azione si svolgeva sempre in esterni, di fronte a due o tre case, collocate su una strada che portava da un lato al centro della città - il foro - e dall’altro verso l’esterno, cioè fuori dallo spazio urbano. Un aspetto fondamentale era costituito dall’uso di maschere; queste erano fisse per determinati tipi di personaggi che ritornavano praticamente in ogni trama di commedia: il vecchio, il giovane innamorato, la madrona, la cortigiana… Le maschere non escludevano del tutto qualche forma di recitazione facciale ma la loro funzionerà di fare riconoscere sin dall’inizio quale fosse il tipo del singolo personaggio. L’uso delle maschere doveva avere anche un’implicazione pratica: un attore cambiando maschera e costume poteva recitare più di una parte. alessandrina: Le commedie furono dotate di didascalie, di sigle dei personaggi. La fase critica nella trasmissione del corpus dell’opera plautina fu segnata dall’intervento di Varrone, che, nel De comoediis Plautinis, ritagliò nell’imponente corpus un certo numero di commedie (21, quelle giunte sino a noi) da lui accettate come totalmente e sicuramente genuine. La grande forza di Plauto sta nel comico che nasce dalle singole situazioni e dalla creatività verbale che ogni nuova situazione sa sprigionare. - Amphitruo: unica a soggetto mitologico, in cui Giove arriva a tebe per conquistare la bella Alcmena impersonando Anfitrione, signore della città e marito della dama; - Asinaria: macchinazioni di un giovane a riscattare la sua bella, una cortigiana, la cui impresa e successo grazie all’aiuto di furbi servitori e alla complicità del padre dell’innamorato; - Aulularia: la pentola piena d’oro è nascosta dal vecchio Euclione che ha un terrore ossessivo di esserne derubato. Tra molte inutili ansie dell’avaro la pentola finisce davvero per sparire e sarà utilizzata dal giovane amoroso per ottenere le nostre con l’amata, che è la figlia di Euclione; - Bacchides: il plurale del titolo designa due sorelle gemelle, la normale situazione di conquista della donna viene qui non solo raddoppiata ma anche perturbata da equivoci sull’identità delle concupite; - Captivi: un vecchio ha perduto due figli uno rapito da bambino all’altro prigioniero in guerra dagli Elei. Il vecchio si procura due schiavi di guerra elei per tentare uno scambio, alla fine non solo ottiene indietro il figlio ma scopre che una dei prigionieri in sua mano e addirittura l’altro figlio da tempo perduto; - Casina: un vecchio in figlio desiderano una trovatella che hanno in casa il vecchio immorale viene raggirato e trova nel suo letto un maschio invece che l’agognata Casina. Casina si scopre una fanciulla di libera nascita e può quindi regolarmente sposare il suo giovane pretendente; - Cistellaria: un giovane vorrebbe sposare una fanciulla di nascere illegittimamente il padre gliene destina un’altra, di legittimi natali; - Curculio: Curculio è un parassita di un giovane innamorato di una cortigiana per aiutarlo inscena un raggiro alle spese sia del lenone che detiene la ragazza sia di un soldato sbruffone che ha già messo in atto l’acquisto della medesima; - Epìdicus: una classica commedia del servo a ritmo incalzante; - Manaechmi: il fortunato prototipo di tutte le commedie degli equivoci; - Mercator: si affrontano i rivalità amorosa un giovane il suo anziano padre; - Miles gloriosus: la commedia mette in scena un servo arguto, Palestrione, e un comicissimo soldato fanfarone. Lo schema di fondo è quello abituale ma l’esecuzione prevede un gran numero di brillanti variazioni; - Mostellaria: il diabolico servo fa credere che ci sia un fantasma nella casa del vecchio Teopropide; - Persa: ancora una beffa ai danni di un lenone, solo che questa volta l’innamorato è lui stesso un servo; - Poenulus: un cartaginese è il protagonista, si assiste alle complicate vicende di una famiglia di origine cartaginese con un riconoscimento fino alle riunioni degli innamorati; - Pseudolus: lo schiavo del titolo è veramente una miniera di inganni. Riescie a spennare il suo avversario Ballione e portandogli via la ragazza amata dal padroncino e anche dei soldi in più; - Rudens: In un curioso prologo la stella Arturo preannuncia il naufragio di un cattivo soggetto il lenone Labrace; - Stichus: un uomo ha due figlie sposate con due giovani da tempo in viaggio per affari, vorrebbe spingerli al divorzio, ma l’arrivo dei mariti risolvere la questione; - Trinummus: un giovane scialacquatore tramite un benevolo raggiro viene salvato da un vecchio amico di suo padre; - Truculentus: Fronesio e una creatrice di inganni che sfrutta e raggira i suoi tre amanti. Si noti la fortissima prevedibilità degli intrecci e dei tipi umani incarnati dai personaggi punto è chiaro che Plauto desidera proprio questa prevedibilità che tende anche a usare dei prologhi espositivi che forniscono informazioni essenziali allo sviluppo della trama, a spesa di qualsiasi sorpresa al colpo di scena. I personaggi in azione possono essere ridotti a un numero limitati di tipi: il servo astuto, il vecchio, il giovane amatore, il lenone, il parassita, il soldato vantone. Questi sono inquadrati fin dai prologhi e il pubblico ha così fin dall’inizio una traccia su cui far scorrere la propria comprensione degli eventi scenici. La forma di gran lunga preferita è quella che sia definita spesso “commedia del servo” . La ricetta sta nell’azione di conquista del bene messo in gioco delegata dal giovane ad un servo ingegnoso; progressivamente i servi crescono di statura intellettuale e di libertà fantastica creando inganni e persino terrorizzandoli. Al centro dell’azione sta un’artista della frode. Per completare lo schema manca solo un elemento: una forza onnipresente, la Fortuna, la Tyche, regina incontrastata nel teatro ellenistico. Accanto alla “commedia del servo” Plauto afferma un’altra sua preferenza importante la “commedia del riconoscimento”; Queste commedie possono passare per una lunga fase di errori e confusione di persone oppure, assai spesso, il problema dell’identità salta fuori solo nel finale. In molte di queste commedie c’è uno schiavo furbo al lavoro: lavoro immorale e destinato ad avere successo; Lo schiavo opera su una realtà preesistente il suo lavoro sporco e falsificare. Grazie alla Fortuna scopriamo che esiste una realtà per così dire più autentica e sincera della realtà iniziale su cui lo schiavo operava i suoi trucchi. Plauto si distacca fortemente dai modelli greci per i numeri innumeri: è la predilezione per le forme “cantate” uno dei principali fattori che regolano la vertere, la ricreazione in latino dei modelli greci. Plauto si preoccupa molto poco di comunicare il nome e la paternità della commedia greca su cui si è orientato. È assolutamente chiaro che Plauto non ha una marcata preferenza su un modello ben preciso; ne deriva che lo stile è intrinsecamente vario e polifonico. D’altra parte i tratti costanti e dominanti non riguardano l’intreccio delle singole commedie, ma le attraversano tutte: giochi di parole, metafore, enigmi, doppi sensi… Le trasformazioni meno profonde sono per le linee generali dell’intreccio: dalla struttura metrica e dalla cancellazione della divisione in atti alla completa trasformazione del sistema onomastico. In Plauto i modelli greci si perdono e dal testo ci si fa un’idea del modello, lavorando solo su incoerenze e difficoltà dell’azione drammatica. La critica analitica ha saputo render buoni servigi alla comprensione della poetica plautina: le analisi comparative dimostrano che Plauto trasforma i suoi modelli secondo tendenze e preferenze che sono coerenti, tendendo a trascurare la severa coerenza dell’azione drammatica e le sottili sfumature nel carattere dei personaggi. I “difetti che la critica spesso riconosce a Plauto sono “sacrifici”: rinuncia a certe virtù de suoi modelli greci per spostare l’accento su altri interessi. Fra tutti i personaggi, Plauto ha chiaramente un favorito: il servo astuto, che regge le fila dell’intreccio, facendone quasi un equivalente del poeta drammatico, come un metateatro. Quasi sempre la messa in gioco di un “bene” si tramuta in una fase critica, dove possono vacillare valori familiari e sociali di riconosciuta importanza. Lo scioglimento tipico della commedia consiste in un “rimettere a posto le cose”; il pubblico trova nel movimento dal disordine all’ordine un particolare piacere. Il corpo dell’intreccio tocca problemi reali e quotidiani della realtà romana; così il pubblico partecipa molto concretamente al precipitare delle crisi e al comporsi finale di un ordine più ragionevole e rassicurante. Nessuna pretesa insegnati a e moraleggiante però governa queste vicende tipiche, si veda il predominio de servo furbo nei personaggi. I.7 Cecilio Stazio Era un libero di origine straniera, forse un Gallo Insubre (Milano). La data di nascita potrebbe essere tra 230/220 a.C. Fu amico intimo di Ennio, morendo un anno dopo di lui, nel 168 a.C. Ci restano una quarantina di titoli, tutte commedie palliate (la più lunga è il Plocium). Ha avuto una grande fortuna presso gli antichi, affievolitasi però a causa della perdita dei suoi testi. La posizione storica suggerisce una sorta di intermediazione tra Plauto e Terenzio, sembrando più vincolato ai modelli della Commedia Nuova ateniese di Plauto. I.8.1 L’oratoria Gli oratori più importanti dell’età arcaica sono uomini politici di rilievo; a detta di Cicerone il primo Romano era Marco Cornelio Cetègo che Ennio elogiava negli Annales. Fra i contemporanei di Catone spiccavano Scipione l’Africano Maggiore e Lucio Emilio Paolo. Le scarse testimonianze non permettono di formare un’immagine soddisfacente del loro stile. I.9 Ennio Quinto Ennio nacque nel 239 a.C. a Rudiae (Puglia), verosimilmente formatosi a Taranto, giunse a Roma in età matura, nel 204 a.C., in piena seconda guerra punica . svolse l’attività d’insegnante, ma presto si affermò come autore scenico. Nel 189 dedica un’opera alla vittoria del generale Marco Fulvio Nobiliore in Grecia, che fu aspramente criticata da Catone. Nel prosegui della vita sarà favorito dalla famiglia degli Scipione, ricevendo addirittura la cittadinanza romana. Nell’ultima parte della sua vita si dedicò alla fatica degli Annales, il poema epico che gli darà fama perpetua a Roma. .1 Il teatro Ennio fu fecondo autore di teatro, ultimo autore latino a coltivare insieme tragedia e commedia (mediocre). Fu essenzialmente poeta tragico: per la tensione stilistica dei suoi versi, per la vigorosa tendenza al patetico. Non a caso il suo modello preferito è Euripide, il più moderno dei grandi tragici ateniesi del V secolo. L’Ennio tragico della tradizione e delle testimonianze antiche è il ritratto di un grande vecchio venerato ma lontano, fatto per la parola di autori più sofisticati e attuali. È difficile credere che la rielaborazione dei modelli tragici abbia unicamente l’intento di compiacere un pubblico di colti intenditori; il rapporto con i modelli greci non sembra puramente emulativo: il tradurre enniano lo si capisce appieno solo interpretando nella tradizione di una concreta prassi teatrale già greca. Così l’intensificazione patetica che sembra propria delvertere enniano non va attribuita al passionale gusto latino. La scelta di un’espressione patetica e spesso enfatica corrisponde anche ad un’esigenza teatrale ben precisa: quella di produrre interesse nel pubblico. Facendo rivolgere l’attore agli spettatori presenti nel teatro, Plauto sembra voler cogliere un principio della poetica teatrale enniana: la ricerca di un’identificazione tra pubblico e personaggi, quel processo che ha nell’anonimo e comune del coro il suo tramite più forte e convincente. .2 Gli Annales Sono il più famoso testo epico romano sino all’età di Augusto. Ennio vedeva la sua poesia come celebrazione di gesta eroiche, avvicinandosi, nella parte più tarda della sua carriera al grandioso progetto di una celebrazione di tutta la storia romana in un unico, mastodontico, poema epico. L’opera si sviluppò in 18 libri, certamente molte migliaia di esametri: i frammenti che ci restano assommano a qualche centinaia di versi. Ennio decise di narrare senza stacchi e in ordine cronologico, anche se certe fasi ebbero più risalto di altre (particolarmente sacrificata fu la prima guerra punica). Catone si propose di elaborare una cultura che sapesse accogliere gli apporti greci, pur mantenendo salde radici romane. .4 La fortuna di Catone Catone il Censore: l’appellativo lo irrigidisce nella sua funzione censoria e ne denuncia la trasformazione da personaggio a simbolo del rigido custode della tradizione e del conservatorismo. Cicerone lo idealizzò nel De re publica mitigandone però le più ampie durezze del carattere e i tratti più intransigenti della sua avversione contro la nobiltà filoellenica. I.11 Terenzio Originario di Cartagine, sarebbe nato nel 185/184, ma la notizia è sospetta; più probabile una nascita 10 anni prima. Sarebbe giunto a Roma come schiavo del senatore Terenzio Lucano, qualche anno dopo la seconda guerra punica. Tutte le fonti sottolineano il suo stretto legame con Scipione l’Emiliano e Lelio. Sarebbe morto nel 159, o comunque prima della terza guerra punica, nel corso di un viaggio in Grecia intrapreso per scopi culturali. La cronologia delle opere è attestata con precisione nelle didascalie anteposte. Si tratta di 6 commedie, integralmente tramandateci: Andria, Hèycra, Adelphoe, Heautontimorùmenos, Eunuchus, Phormio. I modelli greci usati appartengono alla Commedia nuova attica: Menandro e Difilo. .1 Lo sfondo storico Il debutto teatrale di Terenzio si colloca due anni dopo la battaglia di Pidna (168) che costituì un momento cruciale nell’evoluzione della potenza romana e nei rapporti con l’oriente greco. Per circa vent’anni si avrà un periodo di pace in cui Roma consolida la sua posizione di potenza imperiale. Il 168 è uno spartiacque anche per il trionfo di Lucio Emilio Paolo; furono trasportati a Roma mille ostaggi achei. L’appropriazione del mondo greco si sviluppò su più livelli distinti: modificazioni nel gusto e nella mentalità, crescita di consumi di beni di lusso e dei consumi d’arte, interessi per nuovi modelli culturali e ideologici. Nel teatro di Terenzio domina l’interesse per i significati: per la sostanza umana che è messa in gioco negli intrecci della commedia. Il difficile tentativo di Terenzio è usare un genere popolare per comunicare anche sensibilità e interessi nuovi, maturati nel campo ristretto di una élite, sociale e culturale insieme. - Andria: la ragazza di Andro, Glicerio, è abbandonata nella fanciullezza e allevata da una cortigiana. Di lei s’innamora Panfilo, già fidanzato con Filùmena, figlia di Cremète ( padre che va su tutte le furie). L’intreccio si scioglie con il riconoscimento (agnizione) finale: si scopre che anche Glicerio è figlia di Cremete; - Hècrya: ruota intorno a Sòstrata, madre di Filumena e suocera di Panfilo. Filumena è stata messa incinta da uno sconosciuto durante una festa notturna prematrimonio. Panfilo vorrebbe abbandonarla, ma alla fine si scoprirà lo stesso Panfilo lo sconosciuto; - Heautontimorùmenos: il vecchio Menedemo, per punirsi di aver spinto il figlio Clinia ad arruolarsi ostacolandone le nozze, si è auto condannato a lavorare duramente la terra fino al ritorno del figlio. Quando il figlio torna il padre lo riaccoglie e, dopo una serie d’inganni, sposa l’amata; - Eunuchus: l’etera Taide, concubina del soldato Frasone, è innamorata del giovane Fedria. Trasone riporta a Teide la giovane Panfila (venduta). Cherea, fratello di Fedria e innamorato di Panfila, si traveste da enunco per farsi consegnare alla ragazza. Il falso enunco verrà smascherato ma Panfila vorrà e potrà sposarlo ugualmente; - Phormio: Formione riesce ad aiutare due cugini a sposare le innamorate; - Adelphoe: Demea ha allevato il figlio Ctesifone con rigore, dando l’altro figlio, Eschino, in adozione al fratello che lo ha educato con libertà… Gli intrecci terenziani sono quelli consueti alla Commedia nuova e alla palliata: giovani innamorati, genitori che li contrastano e quasi sempre il riconoscimento che risolve la situazione. Spesso Terenzio, più che alla rappresentazione psicologica dell’individuo, sembra interessato a quella del “tipo”. .2 Stile e lingua La prima superficiale impressione è quella di una piatta uniformità. Terenzio utilizza un linguaggio “censurato”; la restrizione del linguaggio serve ad assicurare il predominio di certi contenuti. Nel quadro della commedia latina Terenzio si distingue per la sua costante e controllata preoccupazione per il verosimile; ciò non significa che riproduca realisticamente la parlata quotidiana dell’epoca: usa una lingua settoriale, parlata dalle classi urbane di buona educazione e cultura. .3 I prologhi di Terenzio Terenzio cura molto la coerenza e l’impermeabilità dell’illusione scenica; lo sviluppo dell’azione non prevede mai sviluppi “metateatrali”; vengono rigorosamente eliminate quelle battute dei personaggi che non abbiano una diretta motivazione interna allo svolgimento drammatico, ma che si rivolgono liberamente al pubblico. L’importanza data al prologo come istituzione letteraria è la principale innovazione tecnica di Terenzio. Terenzio rinuncia alla funzione informatica dei prologhi, adoperandoli invece come personali prese di posizione dell’autore: chiarisce il rapporto con i modelli greci che ha utilizzato e risponde a critiche dei suoi avversari su questioni di poetica. Quest’uso dei prologhi avvicina Terenzio all’idea alessandrina di “poeta-filologo”. Nel prologo dell’Andria Terenzio ribatte l’accusa di contaminare fabulas, ossia di “rovinare” i suoi modelli greci creando inopportune mescolanze; la “contaminazione” non era però un processo di trasposizione meccanica. .4 Temi e fortune La palliata latina era sempre stata ancorata alle situazioni familiari ma con Terenzio i rapporti sono sentiti con maggiore serietà problematica. A ciò si deve l’apparizione di un concetto-chiave come humanitas, in cui confluiscono vari filoni di pensiero greco, ma tipicamente romana è la sintesi costruttiva e “ottimistica” dell’ideale. I.12 Lucilio Lucilio era di una distinta e florida famiglia della Campania settentrionale; la sua biografia giovanile è chiaramente legata al “circolo scipionico”. Si è malinformati sul periodo tardo della sua vita. È il primo letterato di buona famiglia che conduce una vita da scrittore, volontariamente, appartata dalla cariche pubbliche e dalla vita politica. Trenta libri di satire di cui abbiamo frammenti per circo 1300 versi. Si orientò verso l’esametro, che con Orazio diverrà l’unico verso prescritto alla satira. II.1 Il periodo cesariano Le morti di Silla (78 a.C.) e Cesare (44 a.C) sono punti di demarcazione cronologica poiché si legarono, in tutta la loro vita, allo sviluppo di due grandi esperimenti politici. Sia la dittatura di Silla che il “principato” di Cesare segnano due momenti-chiave nella crisi delle istituzioni repubblicane, e due fasi critiche in cui si avverte anche il maturare di nuove soluzioni. Anche nella pura e semplice cronologia letteraria la periodizzazione appare opportuna; questo perché la figura dominante nella vita culturale di questa generazione, Cicerone, inizia la sua attività pubblica con Silla e la sua morte violenta, nel dicembre 43, appare, persino più di quella di Cesare, come il simbolo di una fine di un’epoca. Il periodo 78-44 ha una sua soddisfacente chiusura: viene abbracciato integralmente lo sviluppo della poesia neoterica giunge a piena maturazione con Catulo, Partenio e il circolo dei poetae novi. Nessun’altra generazione conobbe uno sviluppo culturale altrettanto vario e complesso; in ombra rimase soltanto o sviluppo del teatro. Quanto alla storiografia è chiaro che si deve collocare nella temperie culturale cesariana l’opera di Sallustio. Guardando al periodo cesariano-ciceroniano in termini estremamente generali, il fenomeno che più colpisce è l’importanza assunta dal pensiero filosofico-politico, che significa anche autonomia. Le riflessioni filosofiche si nutrono sempre più del pensiero greco classico, ma puntano anche a una rilevanza diretta nella sfera politico-morale. Roma conosce così lo sviluppo di una vera filosofia “moderna” che si pone a fianco del pensiero greco e vuole ereditarne la capacità di sintesi e di interpretazione della realtà. Ciò che caratterizza questo periodo non è una particolare coerenza tra azione politica e ispirazione ideologica; vero elemento caratterizzante è la forte autonomia che gli intellettuali cominciano a pretendere nel quadro della vita sociale. Autonomia potrebbe essere anche la parola d’ordine dei grandi poeti di quest’epoca: la poesia di Catullo e Lucrezio si dichiara “nuova” e frutto di libera emulazione. Ma sono anche più autonomi nella vita sociale; a differenza dei letterati arcaici non hanno e non esibiscono veri patroni. La dimensione più vera della poesia di età cesariana è il “circolo” intellettuale. Rispetto a questo quadro, la grande novità della successiva età augustea sarà nel rendere sempre più centrale la figura del poeta a spese di quella dell’intellettuale. II.2 La poesia neoterica Poetae novi è la sprezzante definizione usata da Cicerone per indicare le tendenze innovatrici, il cui fastidio si manifesta anche in un’altra celebre definizione mirante a bollare i nuovi protagonisti del panorama letterario: cantores Euphorionis, da Euforione di Calcide, celebre per la ricercata densità e la preziosa erudizione dei suoi versi. Il processo di rinnovamento del gusto letterario promosso dai poetae novi non è che un aspetto del generale fenomeno di ellenizzazione dei costumi, che manifesta la sua influenza nel campo specificamente letterario, dove si assiste a un lento ma progressivo indebolimento dei valori e delle forme della tradizione, e all’emergere di esigenze nuove. Una manifestazione più vistosa dell’attenzione rivolta alla cultura greca per soddisfare le esigenze di un gusto più raffinato è nella comparsa di un nuovo tipo di poesia, di tono leggere e dimensioni brevi: le nugae. La nascita a Roma nella cerchia intellettuale di Lutazio Càtulo di questa poesia “nugatoria” è la spia più evidente dei fermenti in atto e preludio della rivoluzione neoterica. La poesia neoterica segna il culmine di una tendenza da tempo sensibile nella cultura latina: da una parte il crescente disinteresse per la vita attiva spesa al servizio dello stato, per i valori venerandi della tradizione; dall’altra il contemporaneo affermarsi affermarsi del gusto dell’otium. La rivoluzione del gusto letterario è cioè accompagnata da una più generale rivolta di carattere etico che la sostanzia, e mostra la crisi dei valori del mos maiorum. Tra le figure di spicco si ricordi Valerio Catone, Varrone, Cinna 4) Il libro IV prende in esame il procedimento della conoscenza, trattando la teoria dei simulacri: una specie di sottili membrane, composte di atomi, che si staccano dai corpi di cui mantengono la forma, e arrivano fino agli organi di senso. La testimonianza dei sensi è sempre veritiera, e l’errore può derivare solo da una sua errata interpretazione. I simulacri vaganti servono anche a spiegare le immagini che vediamo nei sogni; sono parimenti all’origine della reazione dei dormienti di fronte all’immagine degli oggetti del loro desiderio. A questo punto Lucrezio introduce una celebre digressione sulla passione d’amore e in versi carichi di dissacrante sarcasmo indica la causa unica di questa passione nell’attrazione fisica; 5) Il libro V dimostra la mortalità del nostro mondo analizzandone il processo di formazione; viene quindi trattato il problema del moto degli astri e delle sue cause; 6) Il libro VI si sforza di fornire spiegazioni assolutamente naturali di vari fenomeni fisici, come i fulmini o i terremoti, estromettendone la volontà divina. Sulla descrizione di vari eventi catastrofici s’innesta la narrazione della terribile peste di Atene del 430 con cui l’opera si chiude piuttosto bruscamente. Il De rerum natura non ha probabilmente ricevuto l’ultima revisione da parte dell’autore; particolari problemi ha destato il finale del poema. Poiché nel V libro Lucrezio annuncia la descrizione delle sedi beate degli dei, ma non mantiene poi la promessa, si è pensato che proprio questa descrizione fosse la chiusa progettata del De rerum natura. Il poema si sarebbe quindi chiuso con una nota serena. Ma probabilmente risponde meglio ai reali intenti di Lucrezio la supposizione che lòa fine progettata del poema fosse proprio la peste di Atene: Lucrezio potrebbe aver voluto contrapporre l’ouverture e il finale come una sorta di “trionfo della vita” e di “trionfo della morte”, per mostrare come non esista alcuna conciliazione del contrasto eterno di queste due potenze. Prima del De rerum natura la letteratura latina non aveva prodotto opere di poesia didascalica di grande impegno. Lucrezio si differenzia nettamente rispetto ai poeti ellenistici in quanto ambisce a descrivere, ma soprattutto a spiegare, ogni aspetto importante della vita del mondo e dell’uomo, e di convincere il lettore della validità della dottrina epicurea. La tradizione ellenica invece ricerca la sua ispirazione in argomenti tecnici e in gran parte sprovvisti di implicazioni filosofiche. Non a caso l’ispirazione di Lucrezio, Empedocle, molto vicino al De rerum natura. La consapevolezza dell’importanza della materia determina il tipo di rapporto che Lucrezio instaura con il lettore-discepolo, che viene costantemente esortato affinché segua con diligenza il percorso educativo propostogli dall’autore. L’ethos nel genere ellenistico era stato eminentemente encomiastico: esso rendeva lode alle cose e suggeriva che l’oggetto della descrizione era di per sé anche meraviglioso. Al contrario, in Lucrezio, non est mirandum e nec mirum sono le formule che spesso articolano l’argomentazione. Alla “retorica del mirabile”, Lucrezione sostituisce la “retorica del necessario”. Il destinatario diventa consapevole della propria grandezza intellettuale. È questa la radice del sublime lucreziano: il sublime diventa non solo una forma stilistica che rispecchia una forma di interpretazione del mondo, ma anche una forma di percezione delle cose per il lettore. Il sublime, per il destinatario, funziona come un invito all’azione. Attraverso la rappresentazione del sublime il poeta esprime con ansia un’esortazione al lettore: che scelga per sé un modello di vita alta e forte. Nel progetto didascalico lucreziano, insomma, il testo prevede un lettore pronto a ingaggiare quasi una lotta con un insegnamento che è duro e aspro. La nuova forma trova il suo necessario corrispettivo nella creazione id un destinatario che sappia adeguarsi alla forza sublime di un’esperienza sconvolgente. Per cui forma sublime del testo e forma sublime del destinatario sono i segni della trasformazione che il genere didascalico ha dovuto accettare quando ha scelto di farsi mezzo per comunicare un iter morale. Il libro che forse più di ogni altro testimonia la perizia argomentativa di Lucrezio è il III, dedicato alla confutazione del timore della morte. Nei versi Lucrezio propone ben 29 diverse prove per sostenere il suo assunto, creando un insieme di innegabile forza persuasiva; pur avendo dimostrato scientificamente la mortalità dell’anima, Lucrezio si rende conto che questo non è sufficiente a distogliere l’uomo dal dolore di dover abbandonare la vita. Per convincerlo, allora, dà la parola, nel finale del libro, alla voce della Natura stessa, che is rivolge direttamente all’uomo: se la vita trascorso è stata colma di gioie questi può ritrarsene come un convitato sazio e felice dopo un banchetto; se, al contrario, è stata segnata da dolori e tristezze, perché desiderare che essa continui? .3 Studio della natura e sernità dell’uomo Subito dopo il proemio Lucrezio si rivolge al lettore invitandolo a non considerare empia la dottrina che egli si accinge a trattare e a riflettere su quanto crudele ed empia fosse la religio tradizionale, dedicando un scena al sacrificio di Agamennone, della figlia. Così la religione è in grado di opprimere sotto il suo peso la vita degli uomini; ma se gli uomini sapessero che dopo la morte non c’è che il nulla, smetterebbero di essere succubi della superstizione religiosa e dei timori che essa comporta. A tal fine è necessaria una conoscenza sicura delle leggi che regolano l’universo, e rivelano la natura materia e mortale del mondo, dell’uomo, dell’anima stessa. Lucrezio resta fedele alle teorie di Epicuro in materia di religione: il filosofo greco credeva che gli dei fossero figure dotate di vita eterna, perfette e felici nella pace degli intermundia, incuranti delle vicende della terra. Era esclusa l’ipotesi che l’uomo fosse soggetto agli dei in un rapporto di dipendenza, che da essi potesse attendersi benefici o punizioni. .4 Il corso della storia Lucrezio dedica un’ampia sezione alla storia del mondo, del quale era stata anzitutto chiarita la natura mortale, originato com’è da una causale aggregazione di atomi e destinato alla distruzione. Tutta la seconda metà del libro V tratta invece dell’origine della vita sulla terra e della storia dell’uomo. Né gli animali né l’uomo sono stati creati da dio, ma si sono formati grazie a particolari circostanze: il terreno umido e il calore hanno spontaneamente generato i primi esseri viventi. In tutta la trattazione il desiderio del poeta è di di contrapporsi alle visioni teleologiche del progresso umano assai diffuse nella cultura del tempo: la natura segue le sue leggi, nessun dio la piega ai bisogni dell’uomo. Il “progetto sociale” di Lucrezio ed Epicuro: il saggio abbandoni le inutili ricchezze, si allontani dalle tensioni della vita politica, si dedichi a coltivare lo studio della natura con gli amici più fidati, somma della ricchezza della vita umana. .5 L’interpretaizone dell’opera La figura storica dell’autore e l’immagine del “narratore” non devono essere sovrapposte meccanicamente; il narratore non è in realtà che una persona tra le altre, che gioca il suo ruolo all’ interno del sistema di valori e dei temi del poema. Una lettura non preconcetta dell’opera induce a constatare che la tensione dell’autore è sempre rivolta a conseguire il convincimento razionale del suo lettore, a trasmettergli i precetti di una dottrina di liberazione morale nella quale egli stesso profondamente crede. Nel finale del libro IV Lucrezio si scaglia aspramente contro le insensatezze della passione amorosa, mosso dalla volontà di ribadire che il saggio epicureo deve tenersi lontano da una passsione irrazionale che non ha alcuna giustificazione nei dettami della natura. Il problema del pessimismo di Lucrezio non manca di occupare un ruolo centrale in buona parte della critica; da un lato si devono respingere i tentativi di rintracciare in molti luoghi dell’opera tracce di contraddizioni clamorose rispetto ad Epicuro. Lucrezio ripete molto spesso che la ratio da lui esposta è foriera di serenità e libertà interiori; offre al suo lettore la possibilità di guardare tutt’intorno con occhio indifeso e invita all’accettazione consapevole di ogni cosa in quanto esistente. .6 Lingua e stile Lo stile doveva piegarsi al fine di persuadere il lettore. Si spiegano così le frequenti ripetizioni, così come l’invito all’attenzione del lettore che doveva essere reiterato spesso. Non si trascuri il fatto che alla lingua latina mancava la possibilità di esprimere certi concetti filosofici e Lucrezio si trovò costretto a coniare dei tecnicismi. Lucrezio sfrutta però una gran mole di vocaboli poetici che la tradizione arcaica gli fornisce, specie nel campo degli aggettivi composti. Lucrezio dimostra di possedere una vasta conoscenza della letteratura greca, come testimoniano le riprese di Omero, Platone, Eschilo. Certamente, però, il tratto più distintivo dello stile lucreziano va individuato nella concretezza dell’espressione. Evidenza e vivacità descrittiva, visibilità e percettibilità degli oggetti intorno a cui si ragiona: questi caratteri dell’esposizione sono come gli effetti obbligati che derivano dalla mancanza di un linguaggio astratto già pronto. Ma le immagini di cose evocate per spiegare pensieri ed idee non restano solo mezzi destinati ad llustarre in modod comprensibile l’argomentazione astratta, ma diventano il risvolto emozionale di un discorso intellettuale che sceglie di farsi soprattutto descrizione le di grande efficacia poetica. II.5 Cicerone Marco Tullio Cicerone nasce nel 106 a.C. Ad Arpino; compie otttimi studi di retorica e filosofia a Rom,e inizia a frequentare il foro sotto la guida del grande oratore Lucio Licinio Crasso. Stringe con Tito Pomponio Attico un’amicizia destinata a durare per tutta la vita. Nell’81 debutta come avvocato: nell’80 difende la causa di Sesto Roscio che lo mette in conflitto con importanti esponenti del regime sillano. Tra 79 e 77 compie un lungo viaggio in Grecia e Asia studiando filosofia e retorica. Al ritorno sposa Terenzia. Nel 75 è questore in Sicilia. Nel 63 è console e reprime la “congiura” di Catilina. Dopo la forma io ne del primo triumvirato il suo astro inizia a declinare: nel 58 è costretto all’esilio con l’accusa di aver messo a morte senza processo i complici di Catilina. Richiamato a Roma, vi torna trionfante nel 57. Allo scoppio della guerra civile, nel 49, aderisce con lentezza alla causa di Pompeo; dopo la sconfitta di Pompeo ottiene il perdono di Cesare. Nel 44, dopo l’uccisione di Cesare, torna alla vita politica; inizia la lotta contro Antonio. Dopo il voltafaccia di Ottaviano che si stringe in triumvirato con Antonio e Lepido, il nome di Cicerone è inserito nelle liste di proscrizione. Viene ucciso dai sicari di Antonio il 7 dicembre del 43. .1 tradizione e innovazione nella cultura romana Cicerone è il personaggio del mondo antico che meglio si conosce: tramite le sue opere riconducibili a “generi” diversi, ma anche attraverso il ricco epistolario. Ciò sarebbe ancora poco, se Cicerone non fosse un personaggio particolarmente “interessante” per la posizione che occupa nella cultura romana e per il valore straordinario della sua esperienza intellettuale. Cicerone, grande avvocato, superbo manipolatore della parola ai fini della persuasione, mette a frutto tali artifici nelle orazioni e li teorizza nei trattati retorici: la sua ars dicendi si spoglia dei tratti di vana ampollosità di cui l’ha rivestita il ciceronianesimo umanistico e scolastico, per rivelarsi una tecnica sapiente e produttiva, funzionale al dominio dell’uditorio. Cicerone ha cercato di dare al proprio progetto politico-sociale concretezza di applicazioni pratiche anche con adattamenti alla situaiozne contingente; ma ha progressivamente sentito sempre più forte la necessità di riflettere sui fondamenti della politica e della morale. Il fine delle sue opere è dare una solida base ideale, etica, politica a una classe dominante il cui bisogno di ordine non si traduca in ottuse chiusure; una classe dominante che l’assolvimento dei doveri non renda insensibile ai piaceri dell’otium nutrito di arti e letteratura, né di quello stile di vita garbatamente raffinato che si riassume nel termine di humanitas. In questo senso, gran parte dell’opera di Cicerone può essere letta come la ricerca di un difficile equilibrio fra istanze di “ammodernamento” e necessità di conservazione dei valori tradizionali. .2 L’egemonia della parola: carriera politica e pratica oratoria L’attività di Cicerone s’intreccia indissolubilmente con le vicende politiche di Roma nell’ultimo cinquantennio della repubblica. .2.1 I primi successi e il processo di Verre Cicerone aveva già al suo attivo alcune cause quando, nell’80, assunse la difesa in un processo che ebbe vasta risonanza nella società romana (Pro Roscio Amerino). Il padre di Sesto Roscio era stato ucciso su mandato di due suoi parenti, in combutta con Lucio Cornelio Crisogono, che aveva poi fatto inserire il nome dell’ucciso nelle liste di proscrizione allo scopo di poterne acquistare all’asta, a prezzo irrisorio, le cospicui proprietà terriere. di Roma. Antonio pretese la testa di Cicerone, il cui nome venne messo nelle liste di proscrizione. Venne raggiunto dai sicari a Formia, dopo un tentativo di fuga, nel dicembre 43. .3 L’egemonia della parola: le opere retoriche Quasi tutte le opere retoriche di Cicerone sono state scritte a partire dal 55, un paio d’anni dopo il ritorno dall’esilio. .3.1 Eloquenza e filosofia In gioventù Cicerone aveva iniziato, senza portarlo a termine, un trattatello di retorica, il De inventione; un interesse particolare presenta il proemio, dove il giovane avvocato si pronuncia in favore di una sintesi di eloquenza e sapientia: l’eloquenza priva di sapientia ha portato più di una volta gli stati alla rovina. Il De oratore venne composto nel 55, durante un periodo di ritiro dalla scena politica. Un forma di dialogo, ambientato nel 91, al tempo dell’adolescenza di Cicerone, vi prendono parte fra i più grandi oratori dell’epoca, come Marco Antonio, nonno del triumviro, e Lucio Licinio Crasso. Nel I libro Crasso sostiene la necessità di una vasta formazione culturale, per l’oratore. Antonio gli contrappone l’ideale di un oratore più “istintivo” e “autodidatta”, la cui arte si fonda sulle proprie doti naturali e sulla pratica al foro. Nel libro II si passa alla trattazione di questioni più analitiche, ed Antonio espone i problemi concernenti la inventio, la dispositio e la memoria. Nel libro III Crasso discute le questioni relative all’elocutio e alla pronuntiatio, ossia in genere all’actio dell’oratore, non senza ribadire la necessità di una vasta cultura generale e della formazione filosofica. La scelta dell’anno 91 ha un significato ben preciso: è l’anno stesso della morte di Crasso, e precede di poco i lunghi conflitti fra Mario e Silla. La crisi dello stato è un’ossessione incombente su tutti i partecipanti al dialogo, e stride volutamente con l’ambiente sereno e raffinato in cui essi si riuniscono per tenere le loro conversazioni, la villa tuscolana di Crasso. Cicerone si è sforzato di ricreare l’atmosfera degli ultimi giorni di pace dell’antica repubblica; la ripresa del modello platonico per un’opera di retorica costituiva un notevole scarto agli aridi manuali greci del tempo: Cicerone aveva saputo creare un’opera viva e interessante, che si nutre dell’esperienza romana e conserva uno strettissimo rapporto con la pratica forense. In quest’ottica, il talento, la tecnica della parola e del gesto e la conoscenza delle regole retoriche non possono ritenersi bastevoli per la formazione dell’oratore: si richiede invece una vasta formazione culturale. La versatilità dell’oratore, la sua capacità di sostenere il pro il contra su qualsiasi argomento, riuscendo sempre a convincere e a trascinare il proprio uditorio, possono costituire un grave pericolo, qualora non vengano controbilanciate dal correttivo di virtù che le tengano ancorate al sistema di valori tradizionali. La formazione dell’oratore viene in tal modod a coincidere con quella dell’uomo politico della classe dirigente; egli dovrà servirsi della sua abilità non per blandire il popolo con proposte demagogiche, ma per piegarlo alla voce dei boni. Nel 46 Cicerone riprese le tematiche del De oratore in un trattato più esile, l’Orator, aggiungendovi una sezione sui caratteri della prosa ritmica; Cicerone sottolinea i tre fini ai quali la sua arte deve indirizzarsi: probare (prospettare la tesi con validi argomenti), delectare (produrre con le parole una piacevole impressione estetica), flectere (muovere le emozioni attraverso il pathos). Ai tre fini corrispondono i tre registri stilistici che l’oratore dovrà sapere alternare: umile, medio e elevato o “patetico”. .3.2 Storia dell’eloquenza e polemiche di stile La rivendicazione delle capacità di muovere gli affetti come compito sommo dell’oratore nasceva dalla polemica nei confronti della tendenza “atticistica”, i cui sostenitori rimproveravano a Cicerone di non aver preso sufficientemente le distanze dall’“asianesimo”. Sul contrasto Cicerone prese posizione, nel 46, nel Brutus, dedicato a Marco Bruto. Qui Cicerone disegna una storia dell’eloquenza greca e romana, dimostrando doti di storico della cultura e di fine critico letterario. L’ottica in cui Cicerone guarda al passato dell’oratoria è quella di una rottura degli schemi tradizionali che contrapponevano i generi di stile cui asiani e atticisti erano fortemente attaccati. .4 Un progetto di stato Il modello del dialogo platonico torna con la maggiore evidenza nel De re publica, a cui Cicerone lavorò a ungo fra 54 e 51; Cicerone si proiettò nel passato, per identificare la forma migliore di stato nella costituzione romana del tempo degli Scipioni. Il dialogo si svolge nel 129, nella villa suburbana di Scipione Emiliano. La ricostruzione della trama è resa fortemente ipotetica dalle condizioni estremamente frammentarie in cui il dialogo è stato conservato. Nel primo libro Scipione parte dalla dottrina aristotelica delle tre forme fondamentali di governo e della loro necessaria degenerazione nelle forme “estreme”, rispettivamente della tirannide, dell’oligarchia e della olocrazia (governo della “feccia” del popolo). Scipione mostra come lo stato romano dei maiores si salvasse da quella necessaria degenerazione per il fatto di aver saputo contemperare le tre forme fondamentali: l’elemento monarchico si rispecchia nel consolato, l’elemento aristocratico nell’istituzione del senato, l’elemento democratico nell’istituzione dei comizi. Il libro II si occupava dello svolgimento della costituzione romana. Il libro III trattava della iustitia e la critica si incentrava soprattutto sul concetto di “guerra giusta”, ricorrendo al quale i Romani, col pretesto di soccorrere i propri alleati in difficoltà, avevano progressivamente esteso il proprio dominio. Il libro IV si occupava dell’educazione dei cittadini e dei principi che devono regolare i loro rapporti. Nei libri IV e V Cicerone introduceva la figura del rector et gubernator rei publicae, o princeps. Nel VI libro il dialogo si concludeva con la rievocazione del sogno in cui tempo addietro gli era apparso l’avo, Scipione l’Africano, per mostrargli la piccolezza e l’insignificanza di tutte le cose umane, e di rivelargli tuttavia la beatitudine che attende nell’al di là le anime dei grandi uomini di stato. La teoria del “regime misto” risaliva al peripatetico Dicearco e allo stesso Aristotele. Nella verso se di Scipione il contemperamento delle tre forme fondamentali non avviene tuttavia in proporzioni peripatetiche. All’elemento democratico Scipione guarda con evidente antipatia e l’elogio del regime misto si risolve in un’esaltazione della repubblica aristocratica dell’età scipionica. Per le condizioni lacunose, è difficile precisare in che modo veniva delineata la figura del princeps e come si collocava nell’organismo stato. Cicerone sembra pensare a una élite di personaggi eminenti che si ponga alla guida del senato e dei boni; ciò significa che Cicerone non prefigura esiti “augustei”, ma intende mantenere il ruolo del princeps all’interno dei limiti della forma statel repubblicana. L’autorità del princeps è il sostegno necessario per salvare la res publica. Il princeps dovrà armare il proprio animo contro tutte le passioni “egoistiche”, particolarmente contro il desiderio di potere e di ricchezza: è questo il vero senso del disprezzo verso tutte le cose umane che il Somnium Scipionis addita ai reggitori dello stato. Cicerone disegna così l’immagine di un dominatore- asceta, rappresentante in terra della volontà divina. Ispirandosi ancora al modello platonico, Cicerone completà il dialogo sullo stato col De legibus, iniziato nel 52 e probabilmente mai pubblicato in vita. Se ne sono conservati i primi tre libri e frammenti dei libri IV e V. L’azione è posta nel presente e interlocutori sono Cicerone stesso, il fratello Quinto e l’amico Attico. L’ambientazione è nella villa di Cicerone ad Arpino e nei boschi e nelle campagne circostante ( locus amoenus). Nel libro I Cicerone espone la tesi stoica secondo cui la legge non è sorta per convenzione, ma si basa sulla ragione innata in tutti gli uomini ed è perciò data da dio. Nel libro successivo ll’esposizione delle leggi che dovrebbero essere in vigore nel migliore degli stati si basa non su una legislazione utopistica, ma sulla tradizione legislativa romana, che ha i suoi punti di riferimento nel diritto pontificio e sacrale. Nel libro III Cicerone presenta il testo delle leggi riguardanti i magistrati e le loro competenze. .5 Una morale per la società romana Cicerone inziò a scrivere di filosofia solo dal 46, con l’operetta sui Paradossi degli stoici, dedicata a Marco Bruto. È però nel 45 che i lavori filosofici s’infittiscono in maniera quasi incredibile, e ciò in coincidenza con eventi molto dolorosi nella vita di Cicerone. Nel febbraio di quell’anno muore la figlia Tullia; oltre a ciò la dittatura di Cesare lo aveva privato di qualsiasi possibilità d’intervento negli affari pubblici. Divenuto quasi indifferente alle vicende politiche, vive in solitudine, e si tuffa completamente nella composizione delle proprie opere filosofiche. L’Hortensius, perduto, era un’esortazione alla filosofia. Gli Accademia, che trattavano di problemi gnoseologici, ebbero una doppia redazione: la prima in due libri (Accademia priora), la seconda in quattro libri (Accademia posteriora). Ci restano il libro II dela prima relazione e il libro I della seconda redazione. Il De finibus bonorum et malorum, dedicato a Bruto, è considerato da alcuni il capolavoro di Cicerone filosofo: tratta questioni etiche, ossia il problema del sommo bene e del sommo male, che è affrontato in cinque libri, comprendenti tre dialoghi: nel primo (libri I-II) è esposta la teoria degli epicurei, che segue la confutazione di Cicerone; nel secondo (libri III-IV) si mette a confronto la teoria stoica con le teorie accademica e paripatetica; nel terzo (libro V) è esposta la teoria eclettica di Antioco di Ascalona, maestro di Cicerone e Varrone; la più vicina al pensiero dell’autore. La più appassionata opera filosofica, però, sono le Tusculanae disputationes: divise in cinque libri, sono condotte in forma di dialogo tra Cicerone e un anonimo interlocutore. Nei singoli libri sono trattati i temi della morte, dolore, tristezza, turbamenti dell’animo e virtù come garanzia della felicità: si è quindi di fronte a una grande sMmaell’etica antica. Cicerone cerca qui una soluzione ai suoi dubbi: di qui la profonda partecipazione emotiva dell’autoreagli argomenti trattati, che conferisce allo stile un’appassionata solennità e fa raggiungere a talune pagine un’intensità lirica che trova pochi riscontri nella prosa latina. Lo sforzo di Cicerone filosofo si muove nel senso di ripensare tutto il corpus di metodi, riflessioni, teorie, cresciuto entro le scuole filosofiche ellenistiche per ricomporlo in un blocco di senso comune: egli intende offrire un punto di riferimento alla classe dirigente romana, nella prospettiva di ristabilirne l’egemonia sulla società. .5.1 La teoria della conoscenza Cicerone aderì al probabilismo degli accademici, una sorta di scetticismo pragmatistico che si preoccupa principalmente di garantire la possibilità di una conoscenza probabile. Cicerone e le sue fonti hanno ben capito la necessità di guardarsi da errori opposti, di evitare sia il dogmatismo radicale, che il dubbio fino a mettere in questione la possibilità stessa di qualsiasi conoscenza . .5.2 Sistemi etici a confronto: l’eclettismo filosofico di Cicerone L’eclettismo filosofico di Cicerone obbedisce alle esigenze di un metodo rigoroso, che si sforza di stabilire fra le diverse dottrine un dialogo dal quale sia bandito ogni spirito polemico. La stessa ideologia dell’humanitas invitava a un atteggiamento intellettuale di aperta tolleranza. L’eclettismo ciceroniano mostra una chiusura radicale verso l’epicureismo, alla cui esposizione e confutazione sono dedicati i primi due libri del dialogo De finibus bonorum e malorum. I motivi dell’avversione ciceroniana verso l’epicureismo sono due: in primo luogo la filosofia epicurea conduce al disinteresse per la politica, mentre dovere dei boni è partecipare alla vita pubblica; inoltre l’epicureismo esclude la funzione provvidenziale della divinità e indebolisce così i legami con la religione tradizionale. Il confronto fra i diversi sistemi filosofici trova uno sviluppo particolarmente esteso nel De finibus bonorum et malorum. Dopo che sono state confutate le tesi epicuree, Catone il Giovane si assume nel III libro la difesa dello stoicismo tradizionale, nei confronti del quale la posizione ciceroniana fu sempre di sostanziale perplessità. Cicerone riconosceva che lo stoicismo forniva la base morale più solida all’impegno dei cittadini verso la collettività; ma si sentiva lontano per cultura e gusti: il rigore etico gli appariva anacronistico, scarsamente praticabile in una società che era andata incontro a radicali trasformazioni. .8 L’epistolario Si è conservata una cospicua quantità delle lettere che egli scrisse ad amici e conoscenti. L’epistolario ciceroniano si compone,nella forma in ci è arrivato, di 16 libri Ad familiare, 16 libri Ad Atticum (il miglior amico), 3 libri Ad Quintum fratrem e 2 libri Ad Marcum Brutum, per un totale di 900 lettere. La varietà dei contenuti, delle occasioni e dei destinatari si rispecchia in quella dei toni: Cicerone è a volte scherzoso, a volte preoccupato fino all’angoscia per le vicende politiche e personali, a volte sostenuto e impegnato. Si tratta di lettere “vere”: quando le scrisse non pensava a una loro pubblicazione; perciò ci mostrano un Cicerone “non ufficiale”, che nelle confidenze private rivela apertamente i retroscena della sua azione politica, i dubbi, le incertezze, gli alti e bassi di umore. Il carattere di “epistolario reale” ha i suoi riflessi anche sullo stile, che è molto diverso da quello delle opere destinate alla pubblicazione: Cicerone non rifugge da un periodare spesso ellittico, gergale, denso di allusioni, abbondante di grecismi e di colloquialismi; la sintassi denuncia molte paratassi e parentesi,il lessico è costellato di parole pittoresche e ibridi greca-latini. E’ una lingua che rispecchia piuttosto fedelmente il sermo cotidianus delle classi elevate di Roma. Non va dimenticato l’eccezionale valore storico dell’epistolario, che a volte permette di seguire giorno per giorno l’evolversi degli avvenimenti politici. Grazie all’epistolario di Cicerone, l’epoca in cui egli visse è quella di tutta la storia antica che ci è nota nella maniera dettagliata. Cornelio Nipote poté parlare dei quell’epistolario come di una historia contexta eorum temporum. .9 Fortuna Già i contemporanei si divisero fa estimatori e detrattori di Cicerone: fra i secondi vanno ricordati Asinio Pollione e , soprattutto per i gusti stilistici, Sallustio. Per il Medioevo cristiano Cicerone è uno dei massimi mediatori delle idee e dei valori della civiltà antica, maestro di filosofia e di arte retorica. Dante ne ricorda soprattutto le opere filosofiche. Col primo umanesimo, l’interesse – spesso critico – per la figura umana e storica va ad aggiungersi all’ammirazione per lo scrittore. In personaggi come Petrarca (che scoprirà parte dell’epistolario), la riflessione sull’esperienza ciceroniana alimenta anche la tensione sempre viva fra vita attiva e vita contemplativa, impegno politico e ritiro negli studi filosofici. L’Umanesimo e il Rinascimento conoscono una lunga polemica di stile fra ciceroniani e anti-ciceroniani ( fra quest’ultimi si annoverano intellettuali come Poliziano ed Erasmo. Il ciceronianesimo fanatico morì abbastanza presto, dopo aver trovato un autorevole campione in Pietro Bembo; la successiva cultura europea erediterà l’idea del primato dell’eloquenza e della retorica, il culto e l’imitazione dei classici: anche di qui le difficoltà della formazione di una vera prosa storica e scientifica. Nell’epoca moderna egli ha contribuita soprattutto ad alimentare il moderatismo politico: l’odio per la tirannia unito al disprezzo per il volgo, il culto della libertà unito al rifiuto dell’eguaglianza e al disprezzo per la democrazia. II.6 Varrone Marco Terenzio Varrone nacque nel 116 a.C., a Rieti. fu questore nell’85, e successivamente tribuno della plebe e pretore. Fu al seguito di Pompeo, legato in Spagna. Nel 46 Cesare gli affidò l’incarico di allestire una grande biblioteca; nel 43 venne proscritto, ma fu salvato. morì nel 27 a. C. Opere conservate: De lingua latina; De re rustica. Opere di cui possediamo frammenti: In versi o prosimetriche: Saturae Menippeae, conserviamo circa 90 titoli. In prosa: Antiquates, divisi in 35 libri Rerum Humanorum, in 16 libri La composizione delle opere antiquarie di Varrone cade più o meno negli stessi anni in cui Cicerone si dedicava alla stesura delle sue opere filosofiche: pare convincente l’ipotesi che anche Varrone si proponesse il compito di fornire una risposta intellettuale e culturale alla crisi che Roma andava attraversando: l’amore per il passato era profondamente venato di nostalgia: vede come decadenza la storia romana almeno dell’ultimo secolo e guarda all’espansione dei consumi come a un fattore di corruzione. Si è supposto che Varrone si pone sulla linea tracciata dal filosofo greco Posidonio di Apamea, il quale avrebbe individuato le ragioni della superiorità dei Romani nella loro capacità di assimilare il meglio delle civiltà straniere con,le quali erano venuti a contatto. Nell’Antiquitates trovava illustrazione e ordine quasi tutto il patrimonio della civiltà latina: il proposito era una rassegna sistematica della vita romana nelle sue connessioni col passato. L’eredità varroniana fu preziosissima per la cultura augustea e per tutta la successiva ricerca antiquaria ed erudita. Le Antiquitates (lo schema dell’opera ci è arrivato da Agostino nel De civitate Dei) si articolavano nelle Res humanae, nelle Res divinae. Le 4 sezioni delle Res humanae trattavano successivamente degli uomini, dei luoghi, dei tempi, delle cose. La stessa suddivisione era mantenuta nelle prime 4 sezioni della seconda parte dell’opera; la quinta e ultima aveva per oggetto gli stessi dei. Le Res humanae incontrarono eccezionale successo. Cicerone ne tesse gli elogi, e lo stesso Virgilio le utilizzò per costituire la leggenda dell’Eneide. Nel Res divinae Varrone distingueva tre modi di concepire la divinità: una teologia “favolosa”, comprendente i racconti della mitologia e le loro rielaborazioni a opera dei poeti; una teologia “naturale”, cioè l’insieme delle teorie dei filosofi sulla divinità: esse devono restare possesso esclusivo degli intellettuali della classe dirigente; e non essere diffusa fra il popolo, perché potrebbe minare il concetto di “santità” delle istituzioni statali; infine la teologia “civile”, che concepisce la divinità nel rispetto di un’esigenza politica, ed è pertanto utile allo stato. Varrone riprendeva dalla teologia storica questa ripartizione, ma la piegava a interessi attuali: la necessità politica di conservare il patrimonio culturale della religione romana, anche senza accettarne il credo. Per Varrone la religione, con i sui culti e i suoi rituali, è una creazione egli uomini. La storia, come è concepita nelle Antiquitates è soprattutto storia di costumi, di istituzioni, anche di mentalità; è la storia collettiva del popolo romano sentito come organismo unitario in evoluzione. Solo nel quadro di questa vicenda collettiva i magni viri trovano il loro posto e hanno diritto alla memoria dei posteri. Che lo stato romano fosse creazione del popolo intero era del resto l’idea di Cicerone nel De re publica, che a sua volta risaliva a Catone. La composizione delle Saturae Menippeae dové iniziare presto (80 a. C.) e si protrasse a lungo. Il tema della tristezza dei tempi e della decadenza dei costumi romani doveva essere effettivamente diffuso nelle Menippeae; la satira acre dei vizi dei contemporanei era l’altro risvolto dello sguardo rivolto al passato. Così Varrone veniva a trovarsi inaspettatamente vicino ad alcune tematiche della predicazione popolare dei filosofi ellenistici: trovò perciò un modello in Menippo di Gàdara: in lui trova la mescolanza di realismo crudo e libera immaginazione fantastica, ed anche il tono amaro e tagliente della predicazione popolare. Altri modelli nelle Saturae di Ennio e Lucilio; fortissimo l’influsso di Plauto (l’autore più citato nelle Menippeae). nella letteratura latina, dettero inizio al genere letterario al quale si ricollegheranno il Satyricon di Petronio e la Apokolokyntosis di Seneca. Quintilliano nell’ottica di una satira tota nostra ignorava ogni precedente greco, ma le nostre testimonianze non mancano di denunciare il rapporto di imitazione ed emulazione che lega Varrone a Menippo. Il più importante fattore di identità sembra affidato alla tecnica del prosimetro, quell’irregolare successione di prosa e verso all’interno della narrazione che è del tutto abnorme alla pratica consueta. Ciò che soprattutto distingue la menippea da altre forme prosimetriche è la sostanziale integrazione del verso nel contesto narrativo della fabula: l’episodio metrico, insomma non si limita di solito a commentare “liricamente” lo svolgersi degli eventi raccontati. Se la satira di Seneca dà tutta l’impressione di un fondo colloquiale più costante, appare veramente vario e irriducibile l’impasto linguistico di Varrone. Il virtuosismo varroniano si traduce in un’inesauribile creatività verbale di stampo plautino. Ma l’autentico segnale di genere è il ricorso ad una folla di stilemi greci, che connotano convenzionalmente la forma di un apparente parlato estemporaneo. Nella ricerca comica della menippea sta inscritto anche un continuo effetto metaletterario: il testo satirico, con consapevolezza e con distaccata malizia, guarda ironico ai modelli della poesia “grande” e alle regole secondo cui sono costruiti. Della sterminata produzione di Varrone poco ci è rimasto Incontrò durante tuta l’antichità una fortuna incredibilmente vasta e continua, tale da essere paragonata a quella di Cicerone e Virgilio. Quanto agli eruditi successivi, il loro debito verso Varrone è eccezionalmente vasto. Il trionfo del Cristianesimo dette nuovo lustro alla fama di Varrone: fu lui il bersaglio polemico di Girolamo ed Agostino, lui il teorizzatore più perfetto della religione pagana, doveva essere conosciuto a fondo per essere meglio combattuto. Petrarca lo definirà “il terzo grande lume romano”, dopo Cicerone e Virgilio; al sommo oratore e al sommo poeta è accostato il sommo erudito. II.7 Cornelio Nepote Cornelio Nepote nacque nella Gallia Cisalpina, probabilmente intorno al 100 a. C. Si stabilì a Roma dove si diede a una vita di studi. Prima dl 32 Nepote pubblicò la prima edizione della sua opera principale, il De viris illustribus. Morì forse dopo il 27. Si è conservata una parte dell’opera più vasta di Nepote il De viris illustribus, una raccolta di biografie che doveva abbracciare almeno 16 libri; ci rimangono il libro sui comandanti militari stranieri; e le biografie di Catone e Attico, tratte dal libro sugli storici latini. Quanto ci rimane del De viris illustribus è solo una piccola parte di quella che doveva essere l’impresa più vasta e ambiziosa di Nepote: una grande raccolta di biografie costruita con l’intento di fare di questo genere letterario il veicolo di confronto sistematico fra la civiltà greca e romana. Cornelio Nepote raggruppava i suoi personaggi secondo categorie “professionali” (re, condottieri, filosofi, storici, oratori...); il raffronto sistematico fra romani e stranieri sembra costituire il non trascurabile apporto originale di Nepote.Il progetto di Nepote è sintomatico di un’epoca di cui i Romani incominciano ad interrogarsi sui “caratteri originali” della loro civiltà, e contemporaneamente ad aprirsi all’apprezzamento dei valori di tradizioni diverse. Addirittura di una forma di “relativismo culturale” si può parlare a proposito della praefatio ai libri sui generali stranieri. I concetti di “moralmente onorevole” e “moralmente turpe”, egli precisa, non sono gli stessi presso i greci e presso i romani: la distinzione dipende dai maiorum instituta (le tradizioni nazionali) di ciascun popolo. Comunque le diversità dei singoli popoli serve a dare ragione di costumanze divergenti, non a propagandare un’incondizionata adesione agli usi stranieri. Cornelio Nepote resta, nel complesso, uno scrittore mediocre: la qualità dell’esecuzione non può dirsi alla pari alla novità del progetto. Il suo merito maggiore è certo quello di avere influenzato la Vite Parallele di Plutarco. La più originale, e probabilmente riuscita fra le biografie di Nepote, è senza dubbio quella che egli dedicò al suo amico e prottettore Attico. Narrando la vicenda umana di Attico, Nepote ha voluto indicare ai propri lettori l’esempio di una felice quanto difficile conciliazione fra virtù arcaiche e valori modernizzanti., fra esigenze di fedeltà alla tradizione romana e ricerca della tranquillità personale. Creando il “personaggio” di Attico, Nepote addita un nuovo modello etico il quale si sforza di conferire dignità a scelte di vita non più imperniate sulla partecipazione all’attività politica. II.9 Sallustio Gaio Sallustio Crispo nacque in Sabina, nell’86 a. C. da una famiglia facoltosa. Una volta sconfitti i pompeiani in Africa, Cesare lo nominò governatore della provincia di Africa Nova, ma Sallustio diede prova malgoverno e rapacità; per evitargli il processo Cesare lo consigliò di ritirarsi dalla vita politica. Fu da questo momento in poi che si dedicò alla storiografia. Morì nel 35 o nel 34, facendo sì che restasse incompiuta la sua opera maggiore, le Historiae Due monografie storiche: Bellum Catilinae e Bellum Iugurthinum, composte e pubblicate nel 44-43. un’opera di più vasto respiro, le Historiae, iniziate nel 39 e rimasta incompiuta al libro V: l’opera comprendeva il periodo fra il 78 e il 67 (dalla morte di Silla alla guerra di Pompeo contro i pirati), ne restano numerosi frammenti anche di vaste dimensioni. .1 La monografia come genere letterario Ad ambedue le sue monografie Sallustio antepone proemi di una certa estensione che rispondono all’esigenza profonda di dare conto della propria attività intellettuale di fronte ad un pubblico come quello romano, fedele alla tradizione per cui fare storia è compito più importante che scriverne. Per Sallustio la storiografia resta infatti strettamente legata alla prassi politica e la sua maggiore funzione è individuata nel contributo alla formazione dell’uomo politico. Sallustio denuncia l’avidità di ricchezza e di potere come i mali che avvelenano la vita politica romana. La cosa più importante è che la stessa storiografia sallustiana tende a configurarsi come indagine sulla crisi. Così il Bellum Catilinae illumina il punto più acuto della crisi, il delinearsi di un pericolo di tipo sovversivo finora ignoto allo stato romano; il Bellum Iugurthinum affronta direttamente, attraverso una vicenda paradigmatica, il nodo costituito dall’incapacità della nobilitas corrotta a difendere lo stato. La scelta della monografia portò Sallustio ad elaborare un nuovo stile storiografico. .2 La congiura di Catilina e il timore dei ceti subalterni Catilina aveva intravisto la possibilità di coalizzare una sorta di “blocco sociale” avverso al regime senatorio: il proletariato urbano, i ceti poveri di alcuni zone dell’Italia. Dopo il proemio, Sallustio fa un ritratto di Catilina: la personalità di questo aristocratico corrotto è messa a fuoco sullo sfondo generale della decadenza dei costumi romani. Insieme a Manlio, suo complice, raduna a Fiesole un esercito. Catilina sconfitto alle elezioni consolari, attenta alla vita di Cicerone, il quale ottiene dal senato pieni poteri per soffocare la ribellione. Il senato dichiara Catilina e Manlio nemici pubblici. Sallustio introduce un excursus sui motivi della degenerazione della vita politica e sulle condizioni che hanno favorito l’attività di Catilina. Oltre ciò Sallustio introduce un parallelo tra Catone e Cesare, due personaggi dalle virtù opposte e complementari, i soli due grandi uomini del tempo. Si conclude con la resa dei conti presso Pistoia dove Catilina trova la morte. Alla malattia di cui soffriva la società romana Sallustio, interrompendo la narrazione, dedica un ampio excursus. Si tratta della cosiddetta “archeologia”, che traccia una rapida storia dell’ascesa e della decadenza di Roma. Il punto di svolta è individuato nella distruzione di Cartagine, a partire dalla quale – con la cessazione del metus hostilis – Sallustio fa cominciare il deterioramento della moralità romana. Un secondo excursus denuncia la degenerazione della vita politica nel periodo che va dalla dominazione di Silla alla guerra civile fra Cesare e Pompeo: la condanna coinvolge in pari modo le due parti in lotta, i populares e i fautori del senato. La condanna del “regime dei partiti” è coerente con le aspettative che Sallustio ripone in Cesare; da parte di quest’ultimo, lo storico auspicava forse l’attuazione di una politica per certi aspetti non diversa da quella che Cicerone si riprometteva nel suo princeps: un regime autoritario che sapesse porre fine alla crisi dello stato ristabilendo l’ordine della res publica, rinsaldando la concordia fra i ceti possidenti, restituendo prestigio e dignità a un senato ampliato con uomini provenienti dalla elite di tutta Italia. Questa impostazione generale spiega la parziale deformazione che Sallustio ha compiuto del personaggio di Cesare, “purificandolo” da ogni legame con i catilinari ed evitando la condanna esplicita della sua politica come capo dei populares. Immediatamente dopo la narrazione della seduta del senato, Sallustio delinea i ritratti di Cesare e Catone. Il primo si sofferma da un lato sulla sua liberalità, munificentia, misericordia, e dall’altro sull’infaticabile energia che sorregge la sua brama di gloria. Le virtù tipiche di Catone sono invece quelle, radicate nella tradizione, di integritas, severitas, innocentia, ecc. Differenziando i mores dei due personaggi, Sallustio voleva affermare che entrambi erano positivi per lo stato romano, per la complementarietà delle loro virtù. Con tale scelta Sallustio non perseguiva certo l’intento di denigrare Cicerone; ma è un fatto che dalla narrazione del Bellum Catilinae, la figura del console appare alquanto ridimensionata. Attinge invece una sua grandezza, sia pur malefica, il personaggio di Catilina, del quale Sallustio delinea un ritratto a tinte forti e contrastanti, ma dominato dall’esigenza moralistica: mentre tratteggia il suo personaggio, lo giudica. .3 Il Bellum Iugurthinum: Sallustio e l’opposizione antinobiliare All’inizio della sua seconda monografia, Sallustio spiega che la guerra contro Giugurta (111-105), fu la prima occasione in cui “osò andare contro l’insolenza della nobiltà”. Il Bellum Iugurthinum è largamente indirizzato a mettere in luce le responsabilità della classe dirigente aristocratica nella crisi dello stato. Giugurta, dopo essersi impadronito col crimine dl regno di Numidia, aveva corrotto col denaro gli esponenti dell’aristocrazia romana inviati a combatterlo in Africa. Mario eletto console nel 107, riceve l’incarico di portare a termine la guerra in Africa; Mario modifica la composizione dell’esercito arruolando i capite censi. Nella narrazione sallustiana, l’opposizione antinobiliare, cui Sallustio si riallaccia, rivendicava il merito della politica di espansione, della difesa del prestigio di Roma. Come nella precedente monografia, introduce al centro dell’opera un’excursus che indica nel “regime dei partiti” la causa prima della dilacerazione e della rovina della res publica; Sallustio a tal fine trascura di parlare di quell’ala favorevole a un impegno attivo in guerra. Le linee direttive della politica dei populares sono esemplificate nei discorsi che Sallustio fa tenere dal tribuno Memmio e da Mario: rappresentativi dei migliori valori etico-politci espressi dalla “democrazia” romana. Il discorso di Mario esprime soprattutto le aspirazioni della elite italica ad una maggiore partecipazione al potere; tuttavia il giudizio complessivo rimane legato da ambivalenze e sfumature. Come già nei confronti di Catilina, Sallustio non nasconde la propria perplessa ammirazione per l’energia indomabile, segno di virtus, anche se corrotta, di Giugurta. La personalità del re barbaro è rappresentata in evoluzione: la sua natura non è corrotta fin dall’inizio , ma lo diviene progressivamente. Il seme della corruzione viene gettato durante l’assedio di Numanzia, dai romani. .4 Le Historiae e la crisi della res publica La maggior opera storica rimase incompiuta per la morte dell’autore: le Historiae iniziavano col 78 a. C. e i frammenti non vanno altre il 67. Dopo la monografie, Sallustio si cimentava ora in un’impresa di ampio respiro: si imponeva il ritorno alla forma annalistica; l’opera influenzò molto la cultura augustea. Delle lettere rimaste importante è quella che Sallustio immagina scritta di Mitridate: dalle sue parole affiorano i motivi delle lagnanze dei popoli soggiogati e dominati da Roma; il solo motivo che i Romani hanno di portare guerra a tutte le atre nazioni è la loro inestinguibile sete di ricchezze. Le Historiae dipingono un quadro in cui dominano le tinte cupe: la corruzione dei costumi dilaga, salvo qualche nobile eccezione (fra le quali Sallustio ammira Sertorio che aveva fondato in Spagna una nuova repubblica), sulla scena politica si affacciano soprattutto avventurieri, demagoghi e nobili corrotti. .5 Lo stile di Sallustio A condizionare in larga misura la futura evoluzione stilistica della storiografia sarà proprio Sallustio che, nutrendosi di Catone, elaborò uno stile fondato sull’incocinnitas (il contrario della ricerca ciceroniana di simmetria, il rifiuto di un discorso ampio e regolare, proporzionato), sull’uso frequente di antitesi, asimmetrie e variationes di costrutto: il difficile equilibrio, fra questo dinamismo e un vigoroso controllo, produce un effetto di gravitas austera e maestosa. Alla gravitas di questo stile concorre le ricca patina arcaizzante. L’arcaismo non è solo nelle scelte di parole desuete, ma anche nella ricerca di una concatenazione delle frasi di tipo paratattico. Estrema è l’economia dell’espressione (asindeti e omissioni di legami sintattici); ma alla condensazione del discorso, reso essenziale, reagisce il gusto per l’accumulo di parole quasi ridondanti. Uno stile arcaizzante, ma innovatore, perché il suo andamento spezzato è del tutto anticonvenzionale e perché lessico e sintassi contrastano quel processo di standardizzazione che si stava verificando nel linguaggio letterario. .6 Le Epistulae e l’Invectiva Le opere di Sallustio ottennero un successo immediato e rilevante; lo stesso stile di scrittura, personalissimo ed efficace, provocava ammirazione. I manoscritti di Sallustio si conservano in una Invectiva in Ciceronem, che anche Quintiliano considerava autentica: è probabile però che l’autore sia un retore d’età augustea. Suo evidente pendant sarebbe l’Invectiva in Sallustium che si attribuiva a Cicerone (questa sicuramente un falso). Ugualmente spurie sono da ritenersi le Episulae ad Caesarem senem de republica, trasmesse anonimamente in un codice che contiene lettere e discorsi tratti dalle opere storiche di Sallustio. Lo è quasi più sallustiano di quello di Sallustio: la scrittura però pare impropria alle forme letterarie del discorso oratorio e dell’epistola. Il contenuto è prevedibilmente scontato: irrisione violenta di Cicerone, della sua linea politica e delle sue ambizioni; suggerimenti a Cesare che scelga la via della clementia e concili le fazioni e restituisca pace e libertà. La questione dell’autenticità è ancora molto controversa tra filologi e storici; sembra però verosimile che queste operette siano il frutto delle scuole di retorica della prima metà del I secolo d.C. .7 Fortuna di Sallustio Nell’antichità la fortuna di Sallustio fu in genere salda, anche se l’eccesso di arcaismo gli fu rimproverato da uno storico come Asinio Pollione; per lo stesso motivo fu uno degli autori prediletti nell’età antoniniana. Fra gli storici il maggior ammiratore di Sallustio fu Tacito. Nel Medioevo Sallusti continuò ad essere ammirato; un’influenza ragguardevole esercità sulla storiografia degli umanisti: si veda nel pensiero politico di Leonardo Bruni e nell’opuscolo composto dal Poliziano sulla congiura de’ Pazzi. In epoca successiva Sallustio fu uno degli autori più amati dall’Alfieri. Chi è il puer che con il suo avvento riporta l’età dell’oro sul mondo in crisi? L’identificazione tardoantica del puer con Gesù Cristo è solo la più coraggiosa delle tante congetture avanzate. L’egloga si inserisce nelle aspettative di rigenerazione tipiche dell’età di crisi fra Filippi e Azio, ed ha un chiaro parallelo nell’epodo XVI di Orazio. Due sono i filoni culturali che nutrono questa poesia visionaria: le poesie in onore di nozze e di nascite; Virgilio poi ha attinto anche da fonti non poetiche, dove si mescolano influssi filosofici e presenza di dottrine messianiche, aspettative di una salvatore. L’egloga è datata al consolato di Asinio Pollione, 40 a. C. L’ipotesi migliore è che il bambino fosse atteso in quell’anno, ma non sia mai nato. In quell’anno molte speranze seguivano il patto di potere fra Ottaviano e Antonio; Antonio prendeva in moglie la sorella del primo. Il matrimonio durò poco e non vi furono figli maschi. Nella Egloga X Cornelio Gallo è presentato come poeta d’amore, ma si tratta di un componimento bucolico. Tipicamente bucolico è lo scenario dell’Arcadia, così come l’idea che la poesia possa medicare le ferite d’amore avvicinando l’uomo alla natura. Ma Virgilio non rinuncia ad allargare l’orizzonte; Gallo è rappresentato come l’incarnazione di un’altra poesia: il canto elegiaco, che è anche una scelta di vita. Gallo provato dall’amore infelice cerca rifugio nella poesia dell’amico. Nel complesso, le Bucoliche rivelano il maturare delle scelte di vita dell’autore. La poesia è vissuta come un rifugio contro i drammi dell’esistenza; la vita ritirata dei pastori accoglie stemperate tonalità epicuree. .3 Le Georgiche Nel 38 le Bucoliche sono ormai completate, e già Virgilio ha un nuovo influente protettore: Mecenate. Quest’ultimo non chiede nessuna partecipazione diretta alle fortune del partito di Ottaviano, ma la sua influenza è evidente in una nuova generazione di opere poetiche, come le Georgiche di Virgilio. La composizione gli costò quasi 10 anni di lavoro; nel 29 a. C. il poema era giunto ad uno stadio definitivo. L’opera presuppone una straordinaria ricchezza di letture: grande poesia greca (Omero, gli alessandrini, i tragici), e romana (Lucrezio, Catullo...), anche fonti tecniche in prosa, e trattati filosofici d’ogni tipo. Un lungo processo compositivo denunciato anche dalla scalatura delle allusioni storiche disseminate nell’opera. Il finale del I libro evoca un’Italia in preda alle guerre civili, in cui l’ascesa di Ottaviano è solo una speranza insidiata da molti pericoli; in molti altri luoghi del libro il poema mostra già il principe trionfatore dell’universo pacificato. Virgilio ha voluto inglobare nel suo poema, accanto alla vittoria del nuovo ordine, anche le lacerazioni che lo hanno preparato. Come già per le Bucoliche (ma in maniera meno intensa), Virgilio parte da un aggancio immediato con la poesia greca ellenistica, che avevano compiuto una svolta di gusto e di poetica entro la tradizione del genere didascalico. Spesso questi poeti usano come falsariga dei trattatici scientifici in prosa: chi fosse interessato ai contenuti, teorici o pratici, poteva rivolgersi direttamente a queste fonti tecniche. Questi poeti non pretendono di insegnare a un destinatario; anzi la figura stessa dal destinatario è più che altro una sopravvivenza formale. Prevalente è ormai la passione di scrivere. La raffinatezza della ricerca formale, il virtuosismo del fare versi, sbilanciano queste opere sul versante della forma: operazioni svolte quasi contro i contenuti stessi dell’opera. Il rigore formale di questa poesia è per Virgilio una lezione da meditare. Ma le Georgiche risulteranno ben altro che la “messa in poesia epica” di trattazioni tecniche. La tradizione della poesia didascalica si era spezzata, e nuovamente rivoluzionata, in ambito romano, sotto il forte impulso di Lucrezio. Nella sua stessa epoca, la tradizione didascalica “aratea” aveva trovato interpreti come Cicerone giovane; ma Lucrezio se ne era distaccato decisamente, ritrovando per un’altra via il filone di Parmenide, di Empedocle, veicolo di espressione per un messaggio individuale rivolta ad una larga comunità, orientato a ben precisi scope di trasformazione della vita, di liberazione della vita, di liberazione, di rifondazione della saggezza. Più alessandrino (e neoterico) di Lucrezio, Virgilio si sente più vicino a Lucrezio che agli alessandrini. Certamente non gli è estraneo il gusto delle cose tenui, lo sforzo per trasformare in poesia dettagli fisici e realtà minute, in apparenza refrattarie alla dizione poetica. Le Georgiche, non a caso, devono parte del loro fascino a immagini come queste: il comportamento delle api ammalate, la consistenza della terra sbriciolata fra le dita. Il tenui labor è un programma poetico che deve molto alla ricerca formale alessandrina e alla poetica di Callimaco. Tuttavia, l’impulso di fondo delle Georgiche è partito da un dialogo con Lucrezio. “...nulla sa delle leggi del ferro, dei deliri del foro, dei pubblici archivi” ( II 490-502). Un nuovo messaggio di salvazione e di saggezza: non coincide, né si oppone direttamente, con la dottrina di Lucrezio, ma si misura rispetto ad essa; vi sono chiare analogie: la saggezza del contadino, che media la fatica del lavoro e la spontaneità della terra, conduce ad una forma di autosufficienza, materiale e spirituale. Un’autarchia che risponde all’incombere della crisi sociale e culturale della repubblica. Vi sono delle nette differenze. Lo spazio georgico di Virgilio accoglie più largamente la religiosità tradizionale, fa corpo con essa. Si ha l’impressione che Lucrezio guardi alle cause naturali con retroscena della cultura umana; Virgilio sembra appigliarsi pazientemente a tutto ciò che incivilisce e umanizza la natura. Lo spazio georgico del poema ha una sua cintura protettiva. Il giovane Ottaviano si profila come l’unico che può salvare il mondo civilizzato dalla decadenza e dalla guerra civile (I 500 segg.): siamo prima di Azio, nell’incertezza che nasce dalla morte di Cesare e da Filippi. Altrove appare già come vincitore e portatore di pace. Il nuovo principe assicura le condizioni di sicurezza e prosperità entro cui il mondo dei contadini può ritrovare la sua continuità di vita. Per questo tipo di cornice ideologica, le Georgiche si possono considerare il primo vero documento della letteratura latina nell’età del principato. Il principe Augusto, e accanto a lui il suo consigliere Mecenate, sono accolti nell’opera non solo come illustri dedicatari, ma anche come veri e propri ispiratori. Il ruolo di destinatari della comunicazione didattica è assegnato invece alla figura collettiva dell’agricola. Dietro a questo destinatario ideale, si profila invece il destinatario reale dell’opera: un pubblico che conosce la vita della città e la sua crisi. E’ abbastanza difficile credere che le Georgiche siano direttamente ispirate da un “programma augusteo” di risanamento del mondo agricolo. L’immagine dell’economia rurale che traspare dal poema è una idealizzata costruzione regressiva, inadeguata alla realtà dell’epoca. L’ “eroe” del poema è il piccolo proprietario agricolo, il coltivatore diretto: Virgilio ha al massimo pallidi accenni per le grandi trasformazioni in corso. Più notevole ancora è la mancanza di un qualsiasi accenno al lavoro schiavile, vero cardine dell’economia agricola. L’idealizzazione del colonus, ha evidentemente un puro significato morale. Più facile è cogliere, a questo livello, precise convergenze tra Virgilio e la propaganda ideologica augustea. Come l’esaltazione delle tradizioni dell’Italia contadina e guerriera, ha come sfondo il clima di guerra contro Antonio. I temi dei quattro libri sono, rispettivamente, il lavoro dei campi, l’arboricultura, l’allevamento del bestiame, l’apicultura: sono quattro delle attività fondamentali del contadino. L’ordine con cui questi lavori sono collocati descrive una curva, per cui l’apporto della fatica umana diviene sempre meno accentuato, e la natura è sempre più protagonista; la struttura del libro, inoltre sembra orientata dal grande al piccolo. Ogni libro delle Georgiche è dotato di una “digressione” conclusiva, di estensione piuttosto regolare: le guerre civili; la lode della vita agreste; la peste animale nel Norico, la storia di Aristeo e delle sue api. Hanno chiaro valore di cerniera i proemi: due volte lunghi ed esorbitanti rispetto al tema dei libri (I,III); due volte brevi e strettamente introduttivi (II, IV). Il I e il III libro sono così accoppiati, e lo sono anche nelle grandi digressioni finali: guerre civili e pestilenza degli animali si richiamano quasi a specchio, e gli orrori della storia corrispondono ai disastri della natura. Rispetto a questi finali, rasserenante è l’effetto delle altre digressioni: l’elogio della vita campestre si oppone alla minacci della guerra,e la rinascita delle api replica allo sterminio della peste. Queste grandi polarità fra i temi della vita e della morte danno un senso all’architettura formale. La digressione finale del IV libro, a differenza delle altre, ha carattere narrativo. E’ introdotta come àition alla maniera alessandrina: “origine”, e spiegazione, di un fatto mirabolante, la bugonia: proprietà delle api che possono nascere dalla corruzione di una carcassa bovina. Aristeo – personaggio mitico, grande civilizzatore e scopritore di tecniche – ha perso la sue api per una epidemia. Senza volerlo aveva causato la morte di Euridice, la sposa di Orfeo. Con un sacrificio di buoi viene placata la maledizione; e dalle vittime del sacrificio, miracolosamente, si sviluppa la vita di nuove api. Virgilio ha collegato due miti abbastanza diversi tra loro, ripensandoli entrambi e disponendoli in una struttura a cornice. In questo pesa molto la tradizione della poesia alessandrina e neoterica, quella dei racconti ad incastro. Alcuni temi fondamentali del poema si ritrovano ora sotto mutata veste, cioè sotto specie non più didattica ma narrativa. La figura di Orfeo fonde insieme le grandi possibilità dell’uomo, che col suo canto arriva persino a dominare la natura, e il suo sacco, l’impossibilità di vincere le leggi naturali della morte. Aristeo, invece, indica una diversa strada: la paziente lotta contro la natura è sostenuta da una tenace obbedienza ai precetti divini e conduce fino alla rigenerazione delle api. .4 Dalle Georgiche all’Eneide L’esperienza delle Georgiche permette a Virgilio di “pensare in grande” senza abbandonare i requisiti della poetica nuova; il poema si misura con un ampio concertato di temi, organizzati in continuità, senza per questo rinunciare alla cesellatura formale. Nello stesso tempo Virgilio approfondisce la natura “soggettiva” del suo stile: quando descrive il poeta immerge oggetti e personaggi nella sua partecipazione soggettiva, oppure s’immerge nella prospettiva di altri soggetti; descrive e narra senza rinunciare alle emozioni. L’aspettativa di un nuovo epos era forte nella cultura augustea. Il poeta che nelle Bucoliche rifiutava di cantare reges et proelia accetta ora di affrontare questo peso. La tradizione “enniana” avversata dai neoterici non si era mai estinta del tutto, ma l’epica serviva per lo più alla celebrazione di imprese contemporanee. .5 L’Eneide .5.1 Omero e Augusto In realtà la nuova epica non si proponeva di continuare Ennio ma di “sostituirlo”: perciò era inevitabile un confronto diretto con Omero. Secondo i grammatici antichi l’intenzione dell’Eneide sarebbe duplice: imitare Omero e lodare Augusto “partendo dai suoi antenati”. Un primo sguardo mostra che si tratta di una semplificazione: i 12 libri sono concepiti come una risposta ai 48 dei due poemi omerici. Eneide: I-VI racconta il travagliato viaggio di Enea da Cartagine alle sponde del Lazio, con una retrospettiva sulle vicende che avevano portato Enea da Troia a Cartagine. Dal VII comincia la narrazione di una guerra che si concluderà solo con la morte di Turno all’ultimo verso del libro XII. Perciò si usa parlare di una metà “odissiaca” dell’Enedie (I-VI) e di una metà “iliadica” (VII-XII). L’Iliade narra le vicende che portano alla distruzione di una città; l’Odissea narra, facendo seguito a questa guerra, il ritorno a casa di uno dei distruttori. Queste due storie epiche, queste fabulae, si presentano in Virgilio in sequenza rovesciata: prima i viaggi, poi la guerra; ma questo comporta anche un’inversione dei contenuti. Il viaggio di Enea non è un ritorno a casa come quella di Odisseo; è fondamentalmente un viaggio verso l’ignoto. La guerra di Enea non serve a distruggere una città, ma a costruirne un nuova (l’antenata di Roma). Questa complessa trasformazione non ha precedenti nella poesia antica. Si potrebbero distinguere i diversi livelli nel rapporto di trasformazione. L’Eneide è innanzitutto una particolare contaminazione dei due poemi omerici. In secondo luogo, vi è anche una continuazione di Omero. Infatti le imprese di Enea che fanno seguito all’Iliade si riallacciano all’Odissea; Virgilio riprende l’esperienza dell’epos ciclico: la catena di narrazioni epiche che “integravano” la poesia di Omero in una sorta di continuum. In terzo luogo, l’Eneide racchiude in sé una sorta di ripetizione di Omero. La guerra nel Lazio è spesso vista come una ripetizione della guerra di Troia; alla fine però, nella nuova Iliade i Troiani sono vincitori ed Enea uccide il capo avversario, Turno, come Achille uccide Ettore. Ma si vede bene che la ripetizione è anche superamento di Omero. La guerra porta alla costruzione di una nuova unità. Alla fine, Enea riassume in sé l’immagine di Achille vincitore e, soprattutto quella di Odisseo che dopo tante prove conquista la patria restaurando la pace. Questo ci riporta all’altra intenzione di Virgilio: “lodare Augusto partendo dai suoi antenati”. Il poema si stacca dal presente per una distanza quasi siderale: gli antichi ponevano un intervallo di 400 anni fra la distruzione di Troia e la fondazione di Roma. Questo spostamento permette a Virgilio di guardare il mondo di Augusto da lontano; l’Eneide è attraversata da scorci profetici che conferiscono alla storia un orientamento “augusteo”, ma non cessa di essere omerica. Infatti sono omeriche le tecniche narrativa che permettono a Virgilio di guardare da lontano la Roma augustea. Nell’Iliade Zeus profetizza il destino degli eroi e la distruzione di Troia; nell’Eneide Giove profetizza non solo il destino di Enea ma anche la futura grandezza di Augusto che riporterà finalmente l’età dell’oro. Nell’Odissea Odisseo scende verso l’Ade e ottiene uno scorcio sul suo destino, nell’Eneide Enea impara dal regno dei morti non solo il suo personale futuro, ma anche i grandi momenti critici dello III.2 Orazio Quinto Orazio Flacco nacque il dicembre del 65 a. C. a Venosa, una colonia romana al confine tra Apulia e Lucania. La sua famiglia era di modeste condizioni, il padre era liberto.Ma ottiene comunque una istruzione di primo livello, attorno ai vent’anni Orazio si recò in Grecia a perfezionare gli studi. Lì si arruolò nell’armata di Bruto, come tribuno militare. Dopo Filippi poté tornare a Roma grazie ad un’amnistia. Intorno al 38 Virgilio e Vario lo presentarono a Mecenate che lo ammise nel suo circolo letterario. Muore nell’8 a.C. due mesi dopo Mecenate. - Epodi - 17 componimenti. Il nome rimanda alla forma metrica: epodo è il verso più corto che segue a un verso più lungo, formando con esso un distico. Orazio li chiama iambi facendo riferimento al ritmo che prevale negli Epodi, e insieme, alludendo al recupero di quel tono aggressivo tradizionalmente associato alla poesia giambica greca. La raccolta è caratterizzata da una varietà di argomenti: i carmi di invettiva (3,4,5,6,8,10,12 e 17) ; gli epodi erotici (11,14,15); gli epodi civili (7,9,16); isolati il 13 e il 2. - Satire – Un primo libro di 10 componimenti, dedicato a Mecenate, pubblicato nel 35. Nel 30, insieme agli Epodi, appare il secondo libro di 8 satire. In totale contano più di 2000 versi. Gli argomenti sono vari: 1,1 tratta dell’incontentabilità e dell’avarizia umana; 1,6 è una riflessione sulla propria condizione sociale e sui rapporti con Mecenate; 1,9 è una specie di vivacissimo mimo: il poeta mette in scena se stesso alle prese con un seccatore per la strade di Roma; in 2,8 Fundanio racconta ad Orazio una cena a casa del ricco Nasidieno, che ha pretese di gastronomo (da questa satira trarrà spunto Petronio per la Cena Trimalchionis). - Odi (i Carmina) – Una raccolta di tre libri (88 carmi in tutto), Orazio vi aveva lavorato per 7 anni. Alla poesia lirica doveva tornare 6 anni più tardi per comporre, su incarico di Augusto, l’inno per le celebrazione dei ludi saeculares, in metro saffico. Poi si dedicò ancora alla poesia e vi aggiunse un VI libro di Odi (15). La lirica oraziana sperimenta metri vari. Merita attenzione la disposizione dei componimenti. Le odi di apertura e di chiusura sono indirizzate a personaggi di riguardo e spesso, secondo una tradizione consolidata, trattano questioni di “poetica”. Anche il secondo posto, il penultimo, nonché la posizione centrale, sono sedi privilegiate. A differenza della lirica moderna, le odi di Orazio raramente danno voce a libere meditazioni o introspezioni: quasi sempre hanno un’impostazione dialogica, sono rivolte ad un “tu” che può essere un personaggio reale, immaginario, un dio o la Musa, persino un oggetto inanimato. .1 Gli Epodi come poesia dell’eccesso La produzione giambica di Orazio sembra legata alla fase “giovanile” della sua poetica e alle particolari condizioni di vita che caratterizzano il periodo immediatamente successivo all’esperienza di Filippi. A questa situazione di disagio è quasi naturale collegare asprezze, polemiche, toni carichi, linguaggio poetico violento. Ciò ci consegna un’immagine del poeta molto diversa da quello stereotipo ( buon gusto, affabilità, senso della misura, distacco dalle passioni) cui è sempre stata collegata la fortuna di Orazio nella cultura europea. Orazio rivendica il merito di aver trasferito in poesia latina i metri di Archiloco; ma rivendica anche esplicitamente i diritti dell’originalità: egli afferma di aver mutuato da Archiloco i metri (numeri) e l’ispirazione aggressiva (animi), ma non i contenuti (res). Archiloco dava voce agli odi e ai rancori, alle passioni civili e alla tristezze di un aristocratico greco del VII secolo a. C. Orazio scriveva nella Roma dominata dai triumviri e sarebbe entrato presto nell’entourage di Ottaviano; era figlio di un liberto, era appena uscito da una difficile esperienza politica. L’aggressività di Orazio non può rivolgersi che contro “bersagli minori”:personaggi scoloriti, anonimi o fittizi. Anche per influsso dei Giambi di Callimaco (un altro dei modelli greci per gli Epodi) Orazio, in ogni modo, doveva sentire connaturata a una raccolta giambica l’esigenza della varietà. .2 Le Satire .2.1 Un genere tutto romano: Orazio e Lucilio Secondo Quinitliano, satura tota nostra est, egli non riusciva cioè ad indicare autori greci che fossero serviti come punto di riferimento agli autori di questo genere letterario. E anche Orazio, nei componimenti programmatici che forniscono le coordinate della sua poesia satirica, indica in Lucilio l’inventore del genere. Il che non era affatto scontato. Lasciando pure da parte l’antica satura drammatica, su cui siamo poco informati, aveva scritto satira Ennio. Anche qui manchiamo di notizie sufficienti: si ritiene in genere che le sue Satire fossero caratterizzate dalla varietà (di metro, stile, contenuto). Ma Orazio non nomina Ennio e Quintiliano lo escluderà dalla linea Lucilio-Orazio-Giovenale. Lucilio era quindi identificato come colui che aveva fissato i tratti costitutivi della poesia satirica. A lui risaliva un elemento fondante: la scelta dell’esametro come forma di metrica della satira. Ma soprattutto Lucilio aveva praticato questo genere letterario come strumento dell’aggressione personale, della critica mordace. Lucilio organizzava dunque la rappresentazione della società contemporanea, soprattutto del ceto dirigente. Nella sua poesia aveva però posto una grande varietà di temi e di interessi; più importante di tutti era però l’elemento autobiografico: la satira luciliana conteneva fatti, personaggi e osservazioni connesse alla vita personale. Anche in questo Orazio sarà consapevole di raccogliere l’eredità del maestro. .2.2 Satira e diatriba: la morale oraziana Orazio stesso non sottovalutava le differenze che lo separavano dall’inventor del genere: egli però sottolineava principalmente quelle relative allo stile, criticando in Lucilio la sciatta e abbondante facilità. Al piacere gratuito dell’aggressione (un tratto “aristofanesco” vivace in Lucilio) Orazio sostituisce l’esigenza di analizzare i vizi mediante l’osservazione critica e la rappresentazione comica delle persone. Lucilio attaccava con virulenza i cittadini eminenti, avversari di cui condivideva la condizione. Ciò non sarebbe stato possibile al figlio di un liberto:ma, quel che più conta, per trarre insegnamento dalla condotta dei propri simili criticandone gli errori non era necessario scegliere bersagli di elevato livello sociale. Come gli aveva insegnato suo padre, impara da chi gli sta vicino, da quelli che incontra per strada. La morale oraziana ha radici nell’educazione, nel buon senso tradizionale, ma è costruita con elaborati dalle filosofie ellenistiche, che giungono ad Orazio anche attraverso il filtro della diàtriba (la tradizione di letteratura filosofica popolare, illustrata da dialoghi ed aneddoti). Gli obiettivi fondamentali della ricerca di Orazio sono l’autàrkeia (l’autosufficienza interiore) e la metriòtes (la moderazione, il giusto mezzo). Nessuno di questi concetti appartiene ad una setta specifica, ma l’epicureismo è la tradizione filosofica che ha un peso maggiore nella satira di Orazio. L’affinità intellettuale, l’indulgenza, la dedizione, la comunanza di vita, la compattezza nei confronti dell’esterno: tutto ciò risente delle teorie epicuree. La ricerca morale non caratterizza soltanto le satire che si potrebbero chiamare “diatribiche”, quelle cioè in cui si è sviluppata, alla maniera della diàtriba, una discussione su uno specifico problema (come 1,1; 1,2; 1,3), ma anche quelle in cui il poeta –sul modello del Lucilio “autobiografico” – rappresenta una scena, racconta un episodio. In questi casi, l’interesse morale non è separabile dalla rappresentazione stessa: è come una lente attraverso cui il poeta osserva gatti e personaggi. .2.3 Il II libro e il nuovo assetto della satira oraziana Il meccanismo fondamentale del genere satirico nella prima raccolta consisteva nel confronto fra un modello positivo (l’obiettivo della ricerca morale) e tanti modelli negativi (i “tipi” della società romana). Nel libro II, invece, si registra innanzitutto un regresso della componente rappresentativo-autobiografica; nelle satire argomentative risulta poi dominante la forma di dialogo e per di più il ruolo dominante non spetta al poeta, bensì all’interlocutore. La coincidenza tra il poeta e la “voce satirica” (quella che argomenta e confuta) aveva assicurato un punto di riferimento alla ricerca morale del I libro. Ora che il poeta si ritira in secondo piano non c’è più la possibilità di estrarre un senso unitario dalle contraddizioni della società: tutti gli interlocutori sono depositari di una loro verità, anche se non tutte equivalenti. L’equilibrio tra autàrkeia e metriòtes sembra perduto: il poeta non rappresenta ormai la propria capacità di vivere fra la gente senza perdere la propria identità morale, ma permette piuttosto agli interlocutori di denunciare (anche ingiustamente) le debolezze e le sue incoerenze nelle scelte. .2.4 La stile del sermo oraziano La satira, dice Orazio, non è vera poesia: per essere poeta ci vuole ispirazione divina e una voce capace di trasmettere suoni sublimi (1,4). La satira è dunque letteratura più vicina alla prosa, distinta da questa solo per il vincolo del metro. Ma non va preso troppo alla lettera e soprattutto non se ne deve dedurre che lo stile delle Satire sia frutto di facile improvvisazione. Il linguaggio della conversazione colta che egli si propone di riprodurre richiede cure raffinate e pazienti, non meno faticose di più apprezzati livelli della produzione letteraria. Mobilità e varietà sono le caratteristiche prime dello stile delle Satire, che di volta in volta si modella docilmente sui soggetti. .3 Le Odi .3.1 I presupposti culturali e letterari della lirica oraziana La lirica oraziana non può essere intesa a prescindere dal rapporto organico con la tradizione greca. Se negli Epodi Orazio si dichiarava erede di Archiloco, per quel che riguarda la produzione lirica egli rivendica orgogliosamente il titolo di Alceo romano (Carmina 1). Ma simili dichiarazioni possono essere fraintese facilmente dal lettore moderno: esse rimandano in realtà a un rapporto di imitatio che significa soprattutto obbedienza alla lex operis (le regole che organizzano il genere letterario in cui il poeta vuole operare) e quindi del decorum letterario. L’imitazione, com’è intesa da un poeta latino, è una componente del linguaggio poetico e non un ostacolo all’originalità della creazione. Il rapporto con Alceo: Orazio è orgoglioso di averne divulgato per primo i modi: per ciò egli ha diritto all’apprezzamento che spetta a colui che apre vie sconosciute. Nel richiamarsi ad Alceo, Orazio approfittava dell’auctoritas del suo modello per avvalorare la coniugazione di componenti diverse nel suo mondo lirico: l’attenzione alle vicende della comunità e un canto più legato alla sfera privata. Alceo come sappiamo dai rinvenimenti papiracei, era stato anche poeta gnomico: a lui è dunque naturale collegare la forte componente moraleggiante della lirica oraziana. Un tratto caratteristico del modo in cui Orazio intende il rapporto con la lirica greca arcaica, e con Alceo, è la ripresa evidente (a volte quasi una citazione che serve da motto): poi però il poeta procede in maniera sua propria e il modello viene quasi dimenticato. Ma i versi di Alceo erano espressione degli amori e degli odi di un aristocratico, impegnato in prima persona nelle aspre lotte politiche della sua città. In Orazio invece l’interesse per la res publica è vivace, ma è quello di un intellettuale che dopo un effimero coinvolgimento nelle tempeste civili, vive al riparo dei potenti signori di Roma. Per Orazio la poesia come ristoro dall’impegno, come pausa in mezzo alle battaglie, era poco più che un’immagine letteraria. L’altro grande rappresentante della lirica eolica, Saffo, ha lasciato una traccia minore nella poesia di Orazio. Un ruolo notevole è svolto anche dalla lirica corale, è in particolar modo fra i lirici corali Pindaro. La ricerca oraziana del sublime, soprattutto nella poesia di argomento civile, sembra nutrirsi di suggestioni provenienti da Pindaro: periodi ampi, di andamento impetuoso, solenne gravità della gnome. Il richiamarsi di Orazio alla lirica greca arcaica aveva indubbiamente le caratteristiche di una precisa scelta programmatica ed esprimeva la volontà consapevole di distinguersi dall’alessandrino dei neòteroi. Ciò non significa naturalmente che Orazio non sia poeta “moderno” e che la sua lirica prescinda dall’esperienza ellenistica. Da qui viene un vasto repertorio di temi, immagini, situazioni. Ma, come l’esempio di Alceo poeta civile incontrava in Orazio una esigenza attuale di attenzione appassionata per le vicende della res publica, così neanche la poesia alessandrina è pura suggestione letteraria: essa è la “forma” della vita quotidiana di Roma metropoli ellenizzata: una mondanità fatta di amori, feste, danze, poesia. .3.2 Temi e caratteristiche della lirica oraziana E’ consolidata l’immagine di Orazio poeta dell’equilibrio sereno, del distacco dalle passioni, della moderazione; essa ci fa intuire il ruolo centrale che nella lirica oraziana è svolto dalla meditazione e dalla Questo aspetto didascalico si accenta nelle epistole del II libro e soprattutto nell’Ars Poetica. La società augustea è anche una società di letterati e di amanti della letteratura: i problemi di critica letteraria, di poetica e politica culturale sono fra quelli di più viva attualità. Augusto è l’interlocutore primario (implicito ed esplicito) di questi discorsi sull’arte e sulla letteratura. Restava aperta (ed urgente agli occhi del principe) la questione del teatro latino. Tale questione è centrale nelle epistole letterarie di Orazio: nella 2,1, in un specie di disputa “degli antichi e dei moderni”, Orazio si schiera decisamente dalla parte di questi ultimi, in nome del principio callimacheo dell’arte colta e raffinata. L’Ars poetica sembra tuttavia orientare la sua analisi dell’arte e della poesia sui problemi della letteratura drammatica. Egli comunque resta fedele nell’Ars ai suoi principi, predicando un’arte raffinata (v.291: si raccomanda di perfezionare con il labor limae il proprio prodotto), colta (leggere e rileggere i grandi modelli greci), attenta (i principi fondamentali: coerenza e decorum). Nel quadro di queste riflessioni Orazio ha occasione di disegnare preziosi tracciati di storia della cultura e della letteratura sia greca che romana, nonché di aprire interessanti squarci sulla “vita quotidiana” del letterato romano. .5 La fortuna Già il pubblico dei contemporanei riconobbe in Orazio uno dei grandi della letteratura romana. Nel Medioevo, Orazio fu ben conosciuto, anche se in maniera minore rispetto a Virgilio. Si apprezzava il poeta moraleggiante, da cui era possibile estrarre massime di saggezza per i florilegi, e si leggevano soprattutto le Epistole e le Satire. Orazio lirico invece, già imitato da Petrarca, venne esaltato a partire dall’età rinascimentale: divenne il modello incontrastato della letteratura di stampo classicista; l’Ars poetica restava un punto di riferimento nelle discussioni di poetica. Il 700 fu un vero e proprio secolo oraziano: la cultura illuminista e arcadica apprezzava, il poeta elegante e raffinato, il razionalista e il moralista pungente. In età romantica subì una svalutazione, ma restò sempre caro ai poeti di formazione classica, come Leopardi. Carducci poi, con le Odi barbare, inaugurerà un nuova stagione della fortuna oraziana. III.3 Tibullo Con buona approssimazione datiamo la suo morte poco dopo quella di Virgilio, fine 19 e inizi 18 a. C. La nascita fra il 55 e il 50 a. C., nel Lazio centrale; la famiglia agiata, apparteneva al ceto equestre. Il punto di riferimento centrale della sua biografia è il rapporto di amicizia e protezione che lo legò a Messalla Corvino, nobile repubblicano che conservò una posizione di prestigio anche sotto Augusto. Tibullo seguì il suo patrono in alcune delle spedizioni militari affidategli: come quella vittoriosa in Aquitania che valse Messalla l’onore del trionfo, celebrato nell’elegia 17 dal poeta. Sotto il nome di Tibullo l’antichità ci ha trasmesso una raccolta eterogenea di elegie – il cosiddetto Corpus Tibullianum – in 3 libri, di cui solo i primi due sono attribuiti al poeta. Il I libro è dominato soprattutto dalla figura di Delia alla quale sono dedicate 5 elegie: ci descrivono – conformemente alla topica del genere – una donna volubile, capricciosa ,amante del lusso e dei piaceri mondani, e una relazione tormentata, sempre insediata dai rischi del tradimento. Alle elegie per Delia si alternano quelle per un giovinetto, Màrato, dal tono meno sofferto. Completa il libro l’ultima elegia che celebra la pace e la vita agreste. 3 delle 6 elegie del II libro, forse incompiuto, sono invece dedicate alla donna che ne è nuova protagonista, Nèmesi (“Vendetta”, cioè colei che ha scalzato Delia dal cuore del poeta), una figura dai tratti più aspri, una cortigiana avida e spregiudicata. .1 Il mito della pace agreste Tibullo è comunemente noto come poeta dei campi, della serena vita agreste. Eppure non manca, nemmeno in lui, lo scenario abituale della poesia elegiaca, la vita cittadina, sfondo degli amori e degli intrighi, degli incontri furtivi e dei tradimenti. Una tendenza, una spinta tipica della poesia elegiaca, è quella di costruirsi un modo ideale, uno spazio di evasione, di rifugio dalle amarezze di un’esistenza tormentata. Questa lacerante tensione trova il suo sfogo nel mondo del mito, dove il poeta proietta la propria esperienza, assimilandola ai grandi paradigmi eroici. In Tibullo però il mondo del mito è assente e la sua funzione è svolta dal mondo agreste. E’ forte in lui questo bisogno del rifugio, di uno spazio intimo e tranquillo, in cui proteggere e coltivare gli affetti dalle insidie e dalle tempeste della vita. Dietro i tratti di idillio bucolico (si avverte l’influenza di Virgilio), la campagna di Tibullo rivela il suo carattere italico, col patrimonio di antichi valori agresti celebrati dall’ideologia arcaizzante del principato: in ciò, nell’atteggiamento antimodernista, Tibullo rappresenta forse il caso più vistoso di quella contraddizione che la poesia elegiaca, dichiaratamente anticonformista e ribelle, cova in se stessa. .2 Tibullo poeta docus Le nostre conoscenze della poesia alessandrina sono oggi tali che ci consentono di ritrovare nell’opera di Tibullo molti dei tratti distintivi della poesia ellenistica; e nonostante che in lui manchino tracce dell’erudizione sottile esibita dagli Alessandrini e sia quasi assente l’evocazione di miti preziosi che decorino la composizione, senza anche a Tibullo compete l’etichetta di poeta doctus. Il suo stile rivela in ogni punto, e con regolarità, la sforzo di una scrittura attentissima, dove la semplicità è il risultato di una scelta artistica. “Terso ed elegante” così lo definisce Quintilliano. .3 La fortuna La sua fortuna fu superiore a quella di chi (probabilmente Properzio) appare al lettore odierno più meritevole e pregnante. Il dibattito fu precoce, l’inizio di una storia della critica: si intravede il partito “classico” pronto ad ammirare l’equilibrio di Tibullo, e quello opposto, sensibile alla costruzione ruvida improvvisa ma infallibile di Properzio. Episodio significativo di tale fortuna, il Goethe delle Elegie romane. .4 Il Corpus Tibullianum I due codici più importanti di Tibullo, l’Ambrosiano e il Vaticano, ci hanno trasmesso un raccolta di componimenti poetici di cui solo una parte sono da attribuire al poeta: il cosiddetto Corpus Tibullianum, diviso in 3 libri nei codici, ma il III libro fu diviso dagli umanisti in due, quindi oggi si parla di quattro libri. .4.1 Ligdamo I primi 6 componimenti del III libro del Corpus sono opera di un poeta che si denomina Lygdamo. Si era creduto che fosse Tibullo stesso. Fu il dotto tedesco Voss a rendersi conto che Lygdamo fissa il suo anno di nascita con il verso: “cum cecidit fato consul uterque pari” (III 5,18), lo usa allo stesso scopo anche Ovidio (Tristia IV 10,6); quando nella battaglia di Modena morirono ambedue i consoli (43 a. C.). Ma chi è allora questo poeta? L’ipotesi più ovvia è che Lygdamo sia il giovane Ovidio., ma si scontra con ragioni di tipo soprattutto linguistico-stilistico. Probabilmente sarà un poeta della cerchi di Messalla. .4.2 il Panegirico di Messalla e gli altri componimenti Alle 6 elegie di Lygadmo fanno seguito un lungo carme in esametri, il Panegyricus Messallae e un altro gruppo di 13 componimenti, che oggi formano il IV libro. Il mediocre componimento costituisce un elogio dell’uomo politico. L’autore ignoto sarà stato un altro poeta del suo circolo. Ma indipendentemente dall’identità degli autori, l’intero Corpus Tibullianum è innanzitutto documento prezioso di quell’importante ambiente culturale e letterario che fu il circolo di Messala. III.4 Properzio Sesto Properzio nacque in Umbria, Assisi, fra il 49 e il 47 a. C. La famiglia benestante, era di rango equestre, ma a seguito della guerra di Perugia, subì lutti e confische di terre. Si trasferì a Roma per tentare forse la carriera politica, ma già nel 29 lo vediamo inserito nei circoli mondano-letterari della capitale e legato ad una donna, Cinzia. L’altro evento importante è il contatto con Mecenate e il suo famoso circolo; ma i suoi legami furono stretti soprattutto con Ovidio. Mori forse nel 16 a. C. Di Properzio possediamo 4 libri di elegie. Libro I: 22 elegie. Il libro si apre nel nome di Cinzia e il fascino della donna colta e raffinata sul giovane innamorato dà vita più o meno direttamente a tutte le elegie di questo I libro. Libro II: 34 elegie. Reca traccia vistosa, nella I elegia, dell’incontro con l’ambiente ufficiale di Mecenate, cioè la recusatio della poesia epica, che è quanto dire della poesia celebrativa. Cinzia è sempre al centro del libro. Libro III: 25 elegie. Ancora dominato dalla figura di Cinzia, ma con l’ombra dell’imminente discidium, del distacco definitivo. Tuttavia compaiono motivi legati alle fortune e all’ideologia augustea. C’è inoltre un’attenzione nuova per la moralità antica, una disponibilità maggiore di fronte ai temi graditi agli ambienti ufficiali: un chiaro indizio del percorso che il poeta stava compiendo verso la sua “integrazione difficile” al regime. Libro IV: 11 elegie di maggiore impegno e maggiore lunghezza. Due sole elegie dedicate ancora a Cinzia. .1 Nel nome di Cinzia: il primo canzoniere Era consuetudine già dei poeti alessandrini, passata poi tra i néoteroi, dare a una raccolta di componimenti il nome della donna che vi era celebrata. Infatti, nel 28 a. C. Properzio pubblicò nel nome di Cynthia il I libro delle elegie. Cynthia prima suis miserum me cepit ocellis, contactum nullis ante cupidinibus (I 1,1 segg.) (“Cinzia per prima mi ha preso, infelice, coi suoi occhi / nessuna passione mi aveva prima toccato”). Egli si presenta come prigioniero dalla passione per lei, e irrimediabilmente destinato, a causa sua, a una vita dissipata. Cinzia è una donna ricca di cultura letteraria e musicale, che vive da cortigiana negli ambienti mondani, frequentati da uomini politici e letterati. Legarsi a un tale donna significa per Properzio compromettersi socialmente, contravvenire al codice di rispettabilità cui un uomo della sua condizione è tenuto. Properzio porta all’estremo e coerentemente “teorizza” quella che era già stata la rivolta di Catullo, il rifiuto del mos maiorum, del primato dei valori della civitas, per un’esistenza totalmente dedita all’amore. Un’esistenza dedita all’otium, al servitium nei confronti della donna amata, fa tutt’uno con l’attività letteraria dal poeta-amante, che della sua vita fa materia di poesia. Eppure l’amore di Properzio, il tipo di relazione che idealmente persegue, non è l’amore libertino, la disinvolta commedia delle avventure galanti che sarà l’arte del dongiovanni ovidiano: egli sogna per sé e per Cinzia i grandi amori del mito, le passioni esclusive ed eterne, fin oltre la morte. Per Cinzia vorrebbe configurare l’amore con lei come un foedus garantito dagli dei e sostanziato di castitas, pudor , fides, i capisaldi dell’etica matronale. La realtà, naturalmente è ben altra, e il poeta elegiaco si lacera nella contraddizione di cui è prigioniero: è sedotto dal fascino, dall’eleganza mondana della donna amata, e al tempo stesso cerca in lei semplicità, fedeltà, dedizione assoluta. .2 Il canzoniere maggiore e il distacco Il successo del primo libellus sollecitò l’interesse di Mecenate, che cerca di orientare Properzio verso forme poetiche nuove, di guadagnarlo alla politica culturale del regime. Ma il libro II si apre con un recusatio, un elegante ma fermo rifiuto (di tradizione callimachea) d parte del poeta che si dichiara impari ad affrontare la Musa sublime del poema epico-storico, e ribadisce l’unità di poetica e stile di vita. Eppure Properzio, nel L’elegia ovidiana coltiva piuttosto ambizioni di segno contrario: nel negare l’impegno totalizzante della precedente poesia d’amore, nel neutralizzarne le spinte aggressive, Ovidio cerca una riconciliazione della poesia elegiaca con la società, e a suo modo cerca di sciogliere, una vistosa contraddizione dell’elegia, che nel suo orgoglioso contrapporsi al sistema tradizionale dei valori sociali e culturali non aveva saputo elaborare modelli etici alternativi. A questo atteggiamento contraddittorio, e tendenzialmente arcaizzante della poesia elegiaca, Ovidio contrappone i valori della modernità, un’accettazione entusiastica dello stile di vita della scintillante Roma augustea. All’esaltazione del cultus , degli agi e delle raffinatezze, risponde anche il poemetto Medicamina faciei femineae che si oppone la tradizionale rifiuto della cosmesi e illustra la tecnica di preparazione di alcune ricette di bellezza. Il ciclo didascalico è concluso dai Remedia amoris, l’opera che insegna come liberarsi dall’amore. .4 Le Heroides Se l’eros è il tema unificante della produzione giovanile ovidiana, l’altra grande fonte della sua poesia è il mito; l’opera che più di esso si alimenta sono le Heroides. Con questo titolo si designa una raccolta di lettere poetiche: la prima serie (1-15) è scritta da donne famose, eroine del mito greco ai loro amanti o mariti lontani: Penelope a Ulisse, Fedra a Ippolito, Arianna a Teseo, Medea a Giasone, ecc. La seconda (16-21) è costituita dalle lettere di tre innamorati accompagnate dalla risposta delle rispettive donne: tra cui Paride ad Elena. Dell’originalità di quest’opera, con cui crea un nuovo genere letterario, Ovidio si dice orgoglioso. Se personaggi e situazione appartengono al grande patrimonio del mito, molti elementi sono mutuati dalla tradizione elegiaca latina, dove sono ricorrenti motivi come la sofferenza per la lontananza della persona amata, recriminazioni, lamenti, suppliche, sospetti di infedeltà. Tra le epistole che risentono di più del modello elegiaco, c’è quella di Fedra a Ippolito, in cui l’eroina euripidea perde i suoi tratti di nobile dignità tragica per assimilarsi a una dama spregiudicata della società galante, tesa a sedurre il figliastro con le lusinghe di un facile furtivus amor. Nelle Heroides il modello elegiaco fa da filtro attraverso cui passano i materiali narrativi dell’epos, della tragedia, del mito. E’ un’ottica ristretta, convenzionale, che porta le eroine ovidiane ad imporre tagli “elegiaci” sul materiale narrativo dell’epos, della tragedia, del mito; è un processo di deformazione, di sistematica reinterpretazione, di riscrittura coerente. Così, nella epistola 7, Didone seleziona nel modello virgiliano gli elementi funzionali alla sua interpretazione persuasiva; così si spiega l’insistenza su un’ipotesi come quella della gravidanza, che rovescia la formulazione nell’Eneide, dove si trattava di una speranza delusa. Ovidio introduce il lettore in un universo letterario nuovo, né epico o mitico né elegiaco, ma fondato sulla compresenza di codici e valori, sulla loro interazione. Certo la scelta della forma epistolare imponeva vincoli precisi al poeta, soprattutto per la I serie, in cui si configurano come monologhi costruiti prevalentemente su una situazione-modello, il “lamento della donna abbandonata”. La struttura della lettera non permetteva molte variazione: data per nota al lettore colto la situazione di partenza, l’andamento fonologico è solo interrotto qua e là da qualche flash-back. C’è ancora un aspetto da sottolineare. Le Heroides propriamente sono poesia del lamento, sono l’espressione della condizione infelice della donna, lasciata sola o abbandonata dallo sposo-amante lontano. Ma se a causare la sofferenza è per lo più questo ritrovarsi abbandonate dall’amato, non mancano altre cause di infelicità per le figure femminili delle: le eroine soffrono in quanto donne. Nelle Heroides il genere elegiaco sembra così tornare alla proprie origini di poesia del dolore e del lamento. Nell’operazione di “riscrittura” messa in atto, Ovidio rielabora i testi della tradizione spostando la prospettiva e dando voce alla donna e alle sue ragioni. Nell’approfondimento della psicologia femminile (forte l’influsso del modello euripideo) è anzi proprio uno degli aspetti più notevoli delle Heroides. .5 Le Metamorfosi Dopo Virgilio, che con l’Eneide aveva realizzato il grandioso progetto di un poema epico di tipo omerico, di un epos nazionale, Ovidio segue un’altra direzione. La veste formale sarà quella dell’epos (l’esametro sarà il marchio distintivo), e così le grandi dimensioni (15 libri), ma il modello è quello dei un “poema collettivo”, che raggruppi cioè una serie di storie indipendenti accomunate da uno stesso tema. Al tempo stesso però proprio mentre opera questa scelta di poetica alessandrina (nei contenuti e nella forma), Ovidio rivela anche l’intenzione di comporre un poema epico, che la poetica callimachea aveva notoriamente messo al bando. Ne dà conferma lo stesso impianto cronologico del poema, illimitato (dalle origini del mondo ai giorni di Ovidio). Ciò riavvicinava il poeta agli orientamenti del principato e di rispondere, anzi, alle esigenze nazionali ed augustee. .5.1 Composizione e struttura Le circa 250 vicende mitico-storiche narrate nel corso del poema sono ordinate secondo un filo cronologico che subito dopo gli inizi si attenua fino a rendersi quasi impercettibile per lasciar spazio ad altri criteri di associazione. Le varie storie possono essere collegate, ad esempio, per contiguità geografica, o per analogie tematiche, o invece per contrasto, o per semplice rapporto genealogico fra i personaggi, o ancora per analogia di metamorfosi, e così via. Dopo il brevissimo proemio inizia la narrazione della nascita del mondo dall’informe caos originario e della creazione dell’uomo: il diluvio universale e rigenerazione del genere umano grazie a Deucallione e Pirra segnano il passaggio dal tempo primordiale al tempo del mito, degli dei e semidei, delle loro passioni e dei loro capricci. Fino ai personaggi della guerra troiana che ci introducono nella storia per arrivare fino all’età di Augusto. Alla fluidità della struttura corrisponde la varietà dei contenuti. Molto variabili sono già le dimensioni delle storie narrate, oscillanti dal semplice cenno allusivo, allo spazio di qualche centinaio di versi, che fa di molti episodi dei veri e propri epilli. Ovidio non tende all’unità e all’omogeneità dei contenuti e delle forme, quanto piuttosto alla loro calcolata varietà; tende soprattutto alla continuità della narrazione, al suo armonioso fluire e dipanarsi. Diversamente dall’Eneide, infatti, la cesura fra i vari libri delle Metamorfosi cade per lo più nei punti “vivi”, nel mezzo di una vicenda, a sollecitare il lettore anche nelle pause del testo. La tecnica di narrazione: non solo l’ordinamento cronologico è piuttosto vago, ma viene continuamente perturbato dalle ricorrenti inserzioni narrative proiettate nel passato. Ovidio, il narratore principale, fa frequente ricorso alla tecnica, già alessandrina, del racconto a incastro, che gli permette di evitare la pura successione elencativa delle varie vicende incastonandone una o più all’interno di un’altra usato come cornice. .5.2 La metamorfosi e l’universo mitico La metamorfosi, la trasformazione di un essere umano in animale, in pianta, in statua o in altra forma, era un tema presente già in Omero, ma caro soprattutto alla letteratura ellenistica, della quale soddisfava anche un gusto caratteristico, quello dell’eziologia, della dotta ricerca delle cause. Nel poema ovidiano la metamorfosi è il tema unificante fra le tante storie narrate: il poeta cerca anche di dare retrospettivamente dignità filosofica alla sua opera mediante il lungo discorso di Pitagora che indica nel mutamento la legge dell’universo, cui l’uomo deve docilmente adeguarsi. In realtà l’argomento centrale dell’opera è rappresentato dall’amore, ma ambientato nell’universo del mito nel mondo degli dei e dei grandi eroi. Alla dimensione mitica non corrisponde però un ethos idealizzante, una grandezza di valori. Il mito non ha per Ovidio la valenza religiosa, la profondità che ha in Virgilio: Ovidio accentua una tendenza insita nella cultura ellenistica e fa del mito un ornamento della vita quotidiana. Il mondo del mito è innanzitutto il mondo delle finzioni poetiche: e le Metamorfosi costituiranno una sorta di grandiosa enciclopedia del mito per i millenni futuri, la summa di uno sterminato patrimonio letterario. Di questa sua natura complessa il poema ovidiano è cosciente e orgoglioso, e ama esibire con frequenza le fonti della propria memoria poetica. .5.3 Poesia come spettacolo Il carattere fondamentale del mondo descritto dalle Metamorfosi è la sua natura ambigua e ingannevole. I personaggi si aggirano come smarriti in questo universo insidioso, governato dalla mutevolezza e dall’errore; il loro incerto agire, la naturale attitudine umana all’errore, costituiscono l’oggetto dello sguardo ora commosso ora divertito del poeta, lo spettacolo che il poema rappresenta. I personaggi agiscono seguendo ognuno un proprio punto di vista, convinti tutti di padroneggiare la realtà: il poeta, solo depositario del “punto di vista vero”, analizza questa moltiplicazione delle prospettive. Rifiutando l’impersonale oggettività del poeta epico, il narratore delle Metamorfosi interviene spesso per commentare il corso degli eventi. Al carattere spettacolare di questo universo, corrisponde anche una tecnica narrativa che privilegia i momenti salienti dei quegli eventi, ne isola singole scene, sottraendole alla loro dinamica drammatica. Nella sua natura eminentemente visiva, nella sua immediata evidenza plastica (qualità che contribuisce a spiegare l’immensa fortuna di modello delle arti plastiche), questa poesia amante della spettacolarità spesso nelle sue forme più orride, anticipa caratteri importanti del gusto letterario del nuovo secolo, del “manierismo imperiale”. .6 I Fasti I Fasti sono l’opera ovidiana meno lontana dalle tendenze culturali, morali, religiose del regime augusteo. Sulle orme dell’ultimo Properzio, delle sue “elegie romane”, anche Ovidio si impegna sul terreno della poesia civile: il progetto è quello di illustrare gli antichi miti e costumi latini, seguendo la traccia del calendario romano. L’opera deve molto soprattutto al modello degli Aitia callimachei, sia nella tecnica compositiva che nel carattere eziologico, di ricerca delle origini della realtà attuale dal mondo del mito. Ovidio si impegna in accurate ricerche di svariate fonti antiquarie: da Valerio Flacco, Varrone, a Livio. Sullo sfondo di carattere antiquario, egli inserisce materiale mitico di origine greca o di carattere aneddotico, con riferimenti alle vicende e alla realtà contemporanea. Ciò permette di sottrarsi ai condizionamenti di un arido “calendario in versi”, e soddisfare, in certi momenti idillici, il suo gusto per il pathos delicato, o di far spazio all’elemento erotico. Questa interpretazione alleggerirebbe il poema da qualsiasi responsabilità verso l’ideologia augustea: Ovidio pagherebbe “stancamente il suo debito facendo il proprio dovere di civis Romanus”. Un interpretazione che si sposa con l’interesse moderno per i Fasti come “fonte” di preziose informazioni antropologiche. Ma l’uso che Ovidio fa dello schema eziologico risulta essere assai più malizioso di quanto si era pensato: il poeta gioca con il suo compito di antiquario. Non è detto che la malizia si fermi al confine dell’ideologia augustea; nessuno può dimenticare quale parte abbia la ricostruzione del passato nel progetto ideologico di Augusto. Così, quando Ovidio decostruisce e mette in dubbio il rapporto tra passato e presente, il gioco minaccia di farsi serio. E’ la Romanità espressa del calendario che viene insidiata e decentrata. La vera lacuna del poema – ovviamente dal punto di vista del principe – non è che Ovidio non riesca a prendere sul serio Augusto, ma che non riesce a prender sul serio Romolo. .7 Le opere in esilio L’improvviso allontanamento da Roma segna una brusca frattura nella carriera poetica di Ovidio. Più di altri doveva accusare la separazione della capitale: dal centro della scena si trova confinato ai margini dell’impero, in mezzo a un popolo primitivo che non parla nemmeno il latino. La prima opera composta lontano da Roma – e inviata non senza esitazione – è la raccolta Tristia, 5 libri la cui cifra comune, esplicitamente sottolineata, è il lamento sull’infelice condizione del poeta esiliato; con pari insistenza ricorre l’appello agli amici e alla moglie per ottenere, se non la remissione della pena, La “pateticità” di Livio non ha nulla a che sia paragonabile al pathos acceso di Sallustio; è piuttosto un discorso arioso di rappresentare e di narrare: un modo “sentimentale” (c’è più ethos che pathos), che ottiene l’effetto di aggiungere una suggestione di maestà epica. Il modello di stile storiografico elaborato da Livio divenne rapidamente un classico, e rivaleggiò con l’altro modello, Sallustio, il quale esercitò nell’antichità un influsso predominante. Livio oppositore di Sallustio, e seguace di Cicerone, dunque. Ma è pur vero che il periodare di Livio, confrontato con quello del modello, risulta spesso carico, affollato; insomma, se il periodo ciceroniano è fatto per essere ascoltato, quello liviano si attende di essere letto. IV.1 La fine del mecenatismo La seconda generazione augustea aveva dato segni di disaffezione, se non di aperta insofferenza, per la letteratura che a quel programma di restaurazione morale e politica aveva prestato il proprio appoggio e consenso. La scomparsa di Mecenate e il venir meno della sua accorta opera di mediazione fra il potere politico e l’élite intellettuale provocò un distacco che non si sarebbe più ricomposto: la crisi del mecenatismo è già manifesta con Tiberio, che non sembra nemmeno porsi il problema di organizzare un programma di egemonia culturale. È qui che nasce l’atteggiamento di ostilità verso la dinastia Giulio-Claudia che avrebbe esteso il suo influsso sino a Svetonio e Tacito. La situazione non migliora con Claudio , che pure aveva personalmente un’ottima fama di erudito. Solo Nerone, negli anni iniziali del suo principato, tenta un recupero del consenso del senato e una ripresa del mecenatismo; Nerone stesso fu poeta e promosse varie attività artistiche, come i Neronia, un certame poetico pubblico. L’iniziativa documenta l’indirizzo particolare che egli esprime a queste manifestazioni culturali, il loro carattere pubblico e spettacolare. La moda dei pubblici agoni poetici persiste, e anzi si diffonde più ampliamento sotto il principato dei Flavi, ma l’avvento della nuova dinastia imperiale segna una netta inversione di rotta rispetto agli indirizzi culturali di Nerone. Alle sue aperture ellenizzasti essi oppongono un programma di restaurazione morale e civile; sul piano letterario spiccano soprattutto: la ripresa della poesia epica e l’assurgere di Cicerone a modello di una maniera stilistica ma anche di un’educazione fondata sulla retorica. Restano comunque forti le tracce del gusto impostosi nella prima parte del I secolo d.C.. IV.2 Seneca Lucio Anneo Seneca nacque in Spagna, Cordova, da ricca famiglia equestre, forse nel 4 a. C. Venne presto a Roma, dove fu educato nelle scuole retoriche, e filosofiche. Iniziò l’attività forense e la carriera politica, così fortunata che Caligola, geloso, lo condannò a morte, ma fu salvato da un’amante dell’imperatore. Non si salvò dalla relegazione che, nel 41, gli comminò Claudio, con l’accusa di coinvolgimento nell’adulterio di Giulia Livella. Dalla Corsica, tornò nel 49, per intervento di Agrippina, che lo scelse come tutore del figlio di primo letto, il futuro imperatore Nerone. In questo modo accompagnò l’ascesa al trono del giovane Nerone (54 d. C.) e da allora resse la guida dello stato: è il celebre periodo di buon governo; fino al matricidio compiuto da Nerone (59 d. C.), che costrinse il filosofo a gravi compromessi. Viene coinvolto nella celebre “congiura di Pisone”: condannato a morte da Nerone, si suicidò nello stesso 65 d. C. Della vasta produzione senecana, quelle di carattere filosofico occupano lo spazio maggiore. Alcune di queste raccolte, dopo la morte, in 12 libri di Dialogi: sono trattati, per lo più brevi, su questioni etiche e psicologiche. Altre opere filosofiche tramandateci autonomamente, sono i 7 libri De beneficiis, il De clementia, indirizzato a Nerone e 20 libri comprendenti le 124 Epistulae morales ad Lucilium. Di carattere propriamente scientifico la Naturales Quaestiones, in 7 libri. Abbiamo 9 tragedie cothurnatae, cioè di argomento greco e il Ludus de morte Claudii (o Apokolokyntosis), una satira menippea sulla singolare apoteosi dell’imperatore Claudio. .1 I Dialogi e la saggezza storica La Consolatio ad Marciam, scritta sotto il consolato di Caligola (40), indirizzata alla figlia dello storico Cremuzio Sordo per consolarla della perdita del figlio. Il genere della consolazione, già coltivato nella tradizione filosofica greca, si costituisce attorno a un repertorio di temi morali (la fugacità del tempo, la precarietà della vita, la morte come destino ineluttabile...) che saranno parte della riflessione filosofica di Seneca. Le singole opere dei Dialogi costituiscono trattazioni autonome di aspetti o problemi particolari dell’etica stoica, il quadro generale in cui l’intera produzione filosofica senecana si iscrive (uno stoicismo, comunque, che ha stemperato l’antico rigore dottrinale). Il De vita beata affronta il problema della felicità e del ruolo che nel perseguimento di essa possono svolgere gli agi e le ricchezze. In realtà, dietro il problema generale, Seneca sembra voler fronteggiare le accuse di incoerenza tra i principi professati e la concreta condotta di vita che lo aveva portato ad accumulare un patrimonio sterminato. Saggezza e ricchezza non sono necessariamente antitetiche; Seneca resta generalmente estraneo al fascino del modello cinico, avvertito come pericolosamente asociale: chi aspira alla sapientia dovrà saper “sopportare” gli agi e il benessere che le circostanze delle vita gli hanno procurato, senza lasciare invischiarsene. La “trilogia” dedicata all’amico Sereno, che abbandona le sue convinzioni epicuree per accostarsi all’etica stoica, è composta da: De constantia sapientis, De otio, De tranquillitate animi. Il primo esalta le qualità del saggio stoico, forte della sua interiore fermezza. Il terzo affronta il tema della partecipazione del saggio alla vita politica: Seneca cerca una mediazione fra i due estremi dell’otium contemplativo e dell’impegno proprio del civis romano. La scelta di una vita appartata è invece chiara nel De otio: una scelta forzata, resa necessaria dalla situazione politica difficile. Nel De providentia affronta il problema della contraddizione fra il progetto provvidenziale che secondo la dottrina stoica presiede alle vicende umane e la sconcertante constatazione di una sorte che sembra spesso premiare i malvagi e punire gli onesti. La risposta di Seneca è che l’avversità che colpiscono chi non li merita non contraddicono tale disegno provvidenziale, ma attestano la volontà divina di mettere alla prova gli onesti. .2 Filosofia e potere I 7 libri De beneficiis: vi si tratta della natura e delle varie modalità degli atti di beneficenza, del legame benefattore-beneficato. L’opera che analizza il beneficio come elemento coesivo dei rapporti sociali, sembra trasferire sul piano morale individuale il progetto di una società equilibrata e concorde che Seneca aveva fondato sull’utopia di una monarchia illuminata. L’appello, rivolto soprattutto alle classi privilegiate, ai dovere di filantropia e di liberalità, è nell’intento di instaurare rapporti sociali più umani. L’opera in cui Seneca aveva esposto più compiutamente la sua concezione del potere è il De clementia, dedicato al giovane imperatore Nerone (55-56). Non mette in discussione la legittimità costituzionale del principato: il potere unico era il più conforme alla concezione stoica di un ordine cosmico governato dal logos, dalla ragione universale, il più idoneo a rappresentare l’ideale di un universo cosmopolita; vincolo e simbolo unificante dell’impero. Il problema, piuttosto, è quello di avere un buon sovrano: e in un regime assoluto, privo di forme di controllo esterno, l’unico freno sul sovrano sarà la sua stessa coscienza. La clemenza è la virtù che dovrà informare i suoi rapporti coi sudditi: con essa potrà ottenere il consenso. E’ evidente in questa concezione l’importanza che acquista l’educazione del princeps e più in generale la funzione della filosofia come garante e ispiratrice della direzione politica dello stato. .3 La pratica quotidiana della filosofia: le Epistole a Lucilio L’opera principale della sua produzione tarda, e la più celebre in assoluto, sono le Epistulae ad Lucilium, una raccolta di lettere di vario argomento. Se si tratti di un epistolario reale o fittizio è questione di cui si continua a discutere. L’opera ci è giunta incompleta; costituisce, comunque, un unicum nel panorama letterario filosofico antico. Lo spunto a comporre lettere a carattere filosofico sarà venuta da Platone, e soprattutto Epicuro; egli mostra piena consapevolezza di introdurre un genere nuovo, distinto dalla comune pratica epistolare. Il modello è appunto Epicuro, colui che nelle lettere agli amici ha saputo perfettamente realizzare quel rapporto di formazione e di educazione spirituale che Seneca istituisce con Lucilio. Le sue lettere vogliono essere uno strumento di crescita morale. Riprendendo un topos comune nella epistolografia antica , Seneca insiste sul fatto che lo scambio di lettere permette di istituire un colloquium con l’amico, di creare con lui un’intimità quotidiana. Più degli altri generi di letteratura filosofica, la lettera, vicina alla realtà della vita vissuta, si presta perfettamente alla pratica quotidiana della filosofia. Non meno importante dell’aspetto teorico è nella lettera quello parenetico: essa tende non solo e non tanto a dimostrare una verità quanto ad esortare, ad invitare al bene. Oltre a essere funzionale a una fase specifica del processo di direzione spirituale, il genere epistolare si rivela anche appropriato ad accogliere un tipo di filosofia, come quella senecana, priva di sistematicità e incline a trattare aspetti parziali o singoli temi etici. Gli argomenti delle lettere, sono svariati, ma vengono generalmente ricondotti alla tematiche della tradizione diatribica: vertono sulle norme cui saggio informa la Libro V – Il senato, esule da Roma, si riunisce in Epiro. Cesare fa passare le proprie legioni in Epiro; Antonio cerca di raggiungerlo passando di nuovo il mare in incognito. Pompeo mette al sicuro la moglie a Lesbo. Libro VI -Sesto uno dei figli di Pompeo si reca consultare la maga Erìttone; episodio della negromanzia: la maga richiama in vita un soldato il quale rivela la rovina che incombe sulla famiglia di Pompeo e su Roma. Libro VII - Battaglia di Farsalo, vittoria di Cesare. Eroica morte di Domizio Enobarbo, antenato di Nerone. Pompeo fugge. Libro VIII - Pompeo fugge in Egitto. Ma il re Tolomeo lo fa uccidere al suo arrivo. Libro IX – Catone assume il comando dei resti dell’esercito repubblicano e attraversa il deserto libico. Cesare arriva in Egitto, dove gli viene offerta la testa di Pompeo, fingendo un cavalleresco sdegno. Libro X – Ad Alessandria Cesare visita la tomba di Alessandro Magno. Fastoso banchetto alla presenza di Cleopatra. Gli Alessandrini tentano una sollevazione contro Cesare: il poema s’interrompe bruscamente. La critica antica ha ripetutamente mosso al poema di Lucano una serie di censure: l’uso e l’abuso delle sententiae concettistiche, che avvicinerebbero lo stile della Pharsalia a quello oratorio, la rinuncia agli interventi della divinità , uno ordine di narrazione quasi “cronachistico” o “annalistico” , tipico più delle narrazioni storiche che poetiche. La perdita del materiale storiografico, a cui con ogni probabilità si rifaceva il poeta, impedisce di accertare in che misura Lucano abbia seguito le proprie fonti. Di certo la fedeltà scrupolosa alla fonte storica viene sacrificata alle “deformazioni” della verità a fini ideologici, soprattutto per quel che riguarda Pompeo, Cesare e rispettivi sostenitori; in tal caso l’alterazione riguarda il modo di presentare o di colorire alcuni degli avvenimenti tramandati ma altre volte essa si spinge fino al punto di inserire episodi estranei alla realtà dei fatti, come la scena di negromanzia del libro VI. .2 Lucano e Virgilio: la distruzione dei miti augustei Le critiche a Lucano presuppongono un confronto più o meno esplicito con l’Eneide di Virgilio: a ragione si è potuto parlare di una sorta di “anti-Eneide”, e del suo autore come un “anti-Virgilio”. Nelle mani di Lucano il poema epico stravolge la caratteristiche che gli erano state proprie nella tradizione letteraria romana fin dai tempi di Nevio e di Ennio: da monumento eretto a testimonianza delle glorie dello stato e dei suoi eserciti, si trasforma nella indignata denuncia della guerra fratricida, del sovvertimento di tutti i valori morali, dell’avvento del regno dell’ingiustizia. Lucano sembra proporsi una sistematica confutazione del modello mediante una sorta di ribaltamento delle sue affermazioni, una ripresa in chiave polemica (o “antifrastica”, come è definita) di espressioni e situazioni virgiliane. C’è un tono di risentita indignatio nei confronti del modello: è come se Virgilio, nell’Eneide, avesse perpetrato un inganno, coprendo con un velo di mistificazioni la fine delle libertà romana e la trasformazione dell’antica res publica in tirannide. Lucano sembra prefiggersi il compito di smascherare l’inganno, di scrivere un poema che non giustifichi il potere del principe ricorrendo ad antiche favole religiose, ma mostri, invece, come il regime sia nata dalle ceneri della libera res publica. La via che Lucano sceglie per sconfessare Virgilio è in primo luogo il mutamento dell’oggetto: non rielaborazione di racconti mitici, ma un scelta programmatica di fedeltà al “vero” storico. .3 L’elogio di Nerone e l’evoluzione della poetica lucanea E’ abbastanza probabile che il pessimismo lucaneo sia andato maturando progressivamente nel corso della stesura del poema: in una fase iniziale, Lucano avrà condiviso le speranze di palingenesi politico-sociale suscitate dall’avvento al potere di Nerone. Nell’epos virgiliano, il tema storico delle guerra civili si affacciava qua e là nel testo, ma solo adombrato nel remoto conflitto tra Troiani e Latini (destinati a fondersi); Lucano vuole invece riproporlo in tutta la sua ineludibile realtà storica. L’elogio di Nerone riprende da Virgilio tutta una serie di motivi rivolti alla glorificazione del principe. Agli occhi di Lucano Nerone, e non Augusto, è la vera realizzazione delle promesse del Giove virgiliano. Questa interpretazione presuppone la “sincerità” dell’elogio di Nerone,non univocamente condivisa dagli studiosi moderni. Già alcuni scoli antichi avevano visto, negli esuberanti tumores dell’elogio, il segno di una sorta di ironia “cifrata” nei confronti dell’imperatore. Maggiori elementi di plausibilità ha una seconda linea interpretativa, che presuppone in Lucano un’evoluzione sotto certi aspetti non dissimile da quella di Seneca. Un relativo mutamento di giudizio di Pompeo era implicito nella stessa struttura della Pharsalia, in cui il personaggio si muove verso la conquista della progressiva saggezza; quanto a Cesare, l’avversione nei suoi confronti è costante fin dall’ inizio del poema. Resta il fatto che, all’interno della Pharsalia, l’elogio a Nerone suona come una nota stridente: nel progetto stesso del poema era insita la contraddizione fra la visione pessimistica dell’ultimo secolo di storia romana, che Lucano andava maturando, e la aspettative suscitate dal nuovo principe. .4 Lucano e l’anti-mito di Roma Nel seguito del poema il pessimismo di Lucano si fa più radicale, e approda a una concezione coerentemente priva di luci: un vero e proprio “anti-mito” di Roma, il mito del suo tracollo, della inarrestabile decadenza, che si contrappone a quello virgiliano dell’ascesa della Città da umili origini. Come l’Eneide, la Pharsalia si articola intorno a una serie di profezie che rivelano non le future glorie di Roma, ma la rovina che l’attende. La più importante è costituita senza dubbio dalla nekyomantèia (“negromanzia”) del libro VI. Introducendo il mondo dell’oltretomba, Lucano mostra l’evidente volontà di creare un pezzo che posa fare da pendant alla catabasi (“discesa agli Inferi”) di Enea. Lucano rovescia il modello virgiliano fin nei minimi particolari. La scelta di Pompeo a destinatario della rivelazione si spiega col fatto che Lucano ha inteso collegare la stirpe di Pompeo al mito della rovina di Roma, come Virgilio aveva collegato la gens Iulia a quello della sua ascesa gloriosa. Per di più Sesto Pompeo, figlio degenere ed empio, rappresenta per molti aspetti un rovesciamento del pio Enea. .5 I personaggi del poema La Pharsalia non ha, come l’Eneide, un personaggio principale: l’azione del poema ruota attorno soprattutto a Cesare, Pompeo e Catone. Cesare domina a lungo la scena con la sua malefica grandezza: egli assurge a incarnazione del furor che un’entità ostile, la Fortuna, scatena contro l’antica potenza di Roma. Il furor, l’ira, l’impatientia sono le passioni che agitano il suo personaggio; sono anche i tratti tipici della rappresentazione del tiranno. Nella Pharsalia Lucano spoglia Cesare del suo attributo principale – la clemenza verso i vinti – a costo di stravolgere la verità storica. Alla frenetica energia di cesare si contrappone una relativa passività da parte di Pompeo: un personaggio in declino, affetto da una sorta di senilità politica e militare. L’intento di Lucano è quello di farne una sorta di Enea cui il destino si mostra avverso: così egli diviene una figura “tragica”, l’unica che, all’interno dell’opera, subisca una evoluzione psicologica. Alla progressiva perdita di autorevolezza in campo politico fa riscontro, in Pompeo, un ripiegamento nella sfera del privato; va incontro ad una sorta di “purificazione”: diviene consapevole della malvagità dei fati, comprende che la morte in nome di una causa giusta costituisce l’unica via di riscatto morale. Questa consapevolezza costituisce invece per Catone un solido possesso fino dalla sua prima apparizione nel poema. Lo sfondo filosofico della Pharsalia è indubbiamente di tipo stoico: ma nel personaggio di Catone si consuma la crisi dello stoicismo di stampo tradizionale, che garantiva il dominio della ragione nel cosmo e, quindi, la provvidenza divina nella storia. Di fronte alla consapevolezza della malvagità di un fato che cerca unicamente la distruzione di Roma, diviene impossibile, per Catone, l’adesione volontaria alla volontà del destino (o degli dei) che lo stoicismo pretendeva dal saggio. Matura così la convinzione che il criterio della giustizia è ormai da ricercarsi altrove che nel volere del cielo. Catone si impegna nella guerra civile, con piena consapevolezza della sconfitta alla quale va incontro, e della conseguente necessità di darsi la morte, l’unico modo che gli resta per continuare ad affermare il diritto e la libertà. Intorno ai tre protagonisti si muove una serie di personaggi minori, la cui caratterizzazione è condizionata dall’appartenenza all’uno o all’altro degli schieramenti in lotta. Così come molti dei pompeiani e dei catoniani sono presentati come combattenti valorosi, anche se sfortunati, l’esercito di Cesare, al contrario, è costituito per lo più da mostri assetati di sangue, legati al loro capo da una sudditanza psicologica e dalla avidità di prede. .6 Lo stile Ardens et concitatus: così Quintilliano ebbe a definire Lucano e voleva probabilmente riferirsi anche all’incalzante ritmo narrativo dei periodi, che si susseguono senza freno e lasciano debordare parti della frasi oltre i confini dello schema esametrico. Per la spinta continua al pathos e al sublime, lo stile di Lucano ha molti punti di contatto con quello delle tragedie di Seneca: si è potuto parlare di “Barocco” e di “manierismo”. E’ uno stile che di rado conosce dominio e misura, ma è anche uno stile che non è solo il frutto dell’adesione alle mode letterarie del tempo, né intende solo compiacere il gusto delle sale di declamazione; la tensione espressiva dell’epica lucanea si alimenta dell’impegno e della passione con le quali il giovane poeta ha vissuto la crisi della sua cultura. La rappresentazione di una catastrofe come la guerra civile poteva ancora a nutrirsi di una forma tradizionale qual era quella che il genere epico offriva? Nell’immaginario dell’epica eroica la coscienza e l’orgoglio di un popolo avevano trovato forme adeguate a “trasfigurare” gli eventi del proprio passato. Ma a questo compito l’epos non può far fronte ora che lo sviluppo degli eventi ha tradito quel mondo ideale e ha tolto credito alle forme letterarie che lo raccontavano. Lucano non ha la forza di sbarazzarsi di una forma letteraria che pure sente insufficiente ai suoi bisogni, così egli cerca un rimedio di compenso nell’ardore ideologico con cui denuncia la crisi. Ma così la presenza di un’ideologia politico-moralistica si fa in lui ossessiva, invade il suo linguaggio e si riduce a retorica. .7 La fortuna Dante la colloca quarto fra gli “spiriti magni” dopo Omero, Orazio e Ovidio (Inf. IV); al Catone lucaneo è largamente ispirato quello che Dante incontra nel Purgatorio. Goethe, nel Faust, prese spunto dalla descrizione dei riti della maga Erìttone. Foscolo derivò da Lucano alcuni accenni dei Sepolcri. Gli spunti “titanistici” e “antiteistici” della Pharsalia alimenteranno anche la poesia di G. Leopardi: il Bruto Minore è sotto certi aspetti la poesia più “lucanea” che sia stata scritta. IV.4 Petronio Se è il personaggio rappresentato da Tacito negli Annales XVI (cosa che oggi appare altamente probabile) si tratta di T. Petronius Niger, console verso il 62, suicida per volontà di Nerone nel 66. Il cognome Arbiter, attestato nella tradizione manoscritta del Satyricon sarà da collegarsi alla definizione riportata da Tacito, elegantiae arbiter, anche se la connessione tra questi dati è discussa. Nominato pochissime volte e a partire dal III secolo; oltre Tacito qualche menzione in Plinio. Un lunghissimo frammento in prosa; titolo Satyrica, che sembra formato da due grecismi: Satyri ( i Satiri) più il suffisso di derivazione greca –icus (-ikòs), lo stesso che serve alla formazione di titoli come Georgica (neutro plurale). Secondo altri il titolo risente della parola latina satura. (Si noti che il titolo usuale Satyricon non è esatto; si tratta di un genitivo plurale neutro, retto da libri). La parte che abbiamo copre parte dei libri 14 e 16 e la totalità del libro 15; è verosimile che quest’ultimo coincidesse in gran parte con la “Cena di Trimalcione”. Non sappiamo di quanti libri fosse composto il romanzo. Il testo ebbe un destino capriccioso e complesso; fu mutilato e antologizzato in età tardo-antica. Di questa riduzione una sezione – la Cena Trimalchionis – ricompare soltanto nel XVII secolo, in un codice ritrovato in Dalmazia. Pregiudizi moralistici inibirono a lungo la diffusione di Petronio, soprattutto nelle scuole. Ma lo sviluppo del romanzo europeo fu profondamente influenzato dal Satyricon. Flaubert e Joyce sono debitori di questo esperimento narrativo. .1.4 Realismo e parodia Il Satyricon deve molto alla narrativa per trama e struttura del racconto, e qualcosa alla tradizione menippea, per la tessitura formale (il “prosimetro”); ma trascende, in complessità e ricchezza di effetti, entrambe le tradizioni. Il dato più originale della poetica di Petronio è forse la sua forte carica realistica, evidente a noi soprattutto nella Cena di Trimalcione. Il romanzo ha una sua storia da raccontare, ma nel farlo si sofferma a descrivere luoghi, sono quelli tipici e fondamentali del mondo romano: la scuola di retorica, la pinacoteca, il banchetto, la piazza del mercato, il postribolo, il tempio. L’autore ha vivo interesse per la mentalità delle varie classi sociali, oltre che per il loro linguaggio quotidiano. La satira ci offre un elemento di contrasto. Il “realismo” della satira si sofferma in genere su tipi sociali ben precisi – il parassita, il ricco stupido, il poetastro – e questi tipi sono costruiti tutti attraverso un filtro morale; il poeta satirico li guarda attraverso il suo ideale. Petronio, invece, non offre ai suoi lettori nessuno strumento di giudizio, visto che la narrazione è condotta in prima persona, da un personaggio che è dentro fino al collo in quel modo sregolato. L’originalità di Petronio del realismo petroniano sta dunque non tanto nell’offrirci frammenti di vita quotidiana, ma nell’offrirci una visione del reale che è critica quanto disincantata. Sottili effetti ironici nascono continuamente dall’uso di modelli letterari elevati, che non sono solo direttamente imitati nelle parti poetiche, ma forniscono anche una traccia per le parti narrative. Esempio: Encolpio perseguitato da Priàpo, si paragona ad Ulisse perseguitato da Posidone. Richiami alla grande epica sono frequenti; soprattutto ricorrenti ci appaiono le allusioni all’Odissea. La struttura “di viaggio” del romanzo rende abbastanza naturale questo privilegio, ma si è pensato che tutta la storia di Encolpio sia in qualche modo concepita come una parodia dell’Odissea. Un ipotesi suggestiva quanto pericolosa. La spiegazione più naturale è che la parodia omerica del romanzo di Petronio vada riassorbita nel gioco complessivo delle parodie, variegato tessuto del Satyricon. Se Priàpo aveva un ruolo dominante, è facile capirne i motivi: questo buffo dio del sesso rurale dà la tonalità giusta alla storia, proprio come le nobili divinità dell’Olimpo contraddistinguono l’epica, e ne marcano il livello elevato. IV.5 Persio Aulo Persio Flacco nacque a Volterra, da ricca famiglia equestre, ne 34. A Roma il maestro che segnò un’impronta decisiva nella sua vita fu u filosofo, lo stoico Anneo Cornuto, il quale lo introdusse negli ambienti dell’opposizione senatoria al regime. La conversione alla filosofia lo portò a condurre una vita austera e appartata, ne culto degli studi e della famiglia: una vita breve, perché Persio morì nel 62. Della sua non copiosa produzione non pubblicò nulla in vita. L’edizione, curata da un suo amico, del libro delle Satire fu accolto da immediato successo. .1 Le Satire Sono 6 componimenti satirici in esametri dattilici, il metro ormai tradizionale di questo genere letterario. La Satira I illustra i vezzi deplorevoli della poesia contemporanea; la II attacca la religiosità formale e ipocrita di chi non conosce onestà di sentimenti; la III è indirizzata ad un “giovin signore” che conduce una vita ignava e dissipata; la IV illustra la necessità di praticare la norma del nosce te ipsum; la V svolge il tema della libertà secondo la dottrina stoica; la VI deplora il vizio dell’avarizia additando invece come modello il saggio stoico che usa con moderazione il suoi beni. .1.1 Satira e stoicismo Il suo spirito polemico, e l’entusiastica aspirazione alla verità, trovavano nella satira lo strumento più idoneo ad esprimere il sarcasmo e l’invettiva, nonché l’esortazione morale. La sua poesia è anzitutto ispirata da un’esigenza etica, dalla necessità di mascherare e combattere la corruzione e il vizio, e si contrappone perciò polemicamente alle mode letterarie del tempo. Agli occhi di Persio la poesia contemporanea è viziata da una degenerazione del gusto che è anche segno di indegnità morale. Nella descrizione delle molteplici forme in cui il vizio e la corruzione si manifestano, Persio ricorre con frequenza a un campo lessicale, quello del corpo e del sesso, sfruttandone il ricco patrimonio metaforico. L’immagine ossessiva del ventre diventa il centro attorno a cui ruota l’esistenza dell’uomo, e l’emblema stesso della sua abiezione (l’assimilazione tra vizio morale e malattia fisica era un presupposto comune della filosofia stoica e della sua terapia delle passioni). Nella denuncia del vizio, e nella aspra descrizione delle sue manifestazioni, Persio si riallaccia alla tradizione della satira e della diatriba (ciò spiega la sua tendenza a delineare tipi fissi), ma ne accentua i toni forzandoli verso un barocchismo macabro. La fenomenologia del vizio diventa così l’aspetto prevalente, relegando in uno spazio marginale la fase “positiva” del processo di liberazione morale: cioè sono poche le indicazioni sul recte vivere. Lo stoicismo di Persio non assume apertamente i carattere dell’impegno politico; inclina piuttosto verso un raccoglimento interiore, condizione per praticare il culto della virtù. .1.2 Dalla satira all’esame di coscienza Allo storico della letteratura il libro delle Satire offre l’occasione di una verifica importante; bisogna prima riconoscere, sotto la specie dei forti echi intertestuali che lo animano, la presenza reale di modelli e autori esemplari, voci diverse e lontane della tradizione letteraria romana chiamate a dialogare e contrastare fra loro. Prima presenza, costante e unanime, è quella del sermo oraziano, una forma discorsiva che aveva saputo adattarsi sia all’intenzione satirica che alla pensosità epistolare. Ma risultano coinvolte questioni di portata più generale. Anche per suggestione lucreziana, erano stati importanti nella letteratura augustea ambizioni genericamente educative, istanze pragmatiche e allocutorie: cioè il poeta cercava il contatto intenso col destinatario, lo provocava lo coinvolgeva. Persio raccoglie questo “modello lucreziano” e lo sviluppa nel suo rovescio, di Lucrezio anzi ne fa praticamente un antimodello. Era stato Orazio che aveva mediato alla classicità augustea istanze e atteggiamenti lucreziani. Un suo tratto caratterizzante è nel rapporto paritetico fra il poeta e il destinatario: Orazio non si atteggia a maestro che insegna, ma percorre insieme all’amico cui si rivolge un cammino comune. Questo il modello depositato dalla tradizione. Il liber poetico di Persio vale come riflessione su di esso e insieme come apostasia. Trasformando radicalmente quella che era la figura cordiale dell’autore-filosofo proteso amichevolmente verso il lettore, le Satire descrivono l’iter predicatorio di un maestro perennemente inascoltato. Il discorso didascalico in Persio si nega statutariamente la possibilità di una risposta positiva del destinatario. Il sermo oraziano, pacato nella sua bonomia, viene sostituito da un atteggiamento aspro e aggressivo., necessario per superare l’indifferenza dei miseri in preda la vizio. Indebolito il contatto con l’atro polo della comunicazione, si guadagna spazio per una letteratura dell’interiorità, per il monologo confessionale: quella dell’esame di coscienza è la cifra culturale che sigla tutto il libro. .1.3 L’asprezza dello stile A questa intenzione di aggredire salutarmene il lettore, di scuoterlo, va ricondotta principalmente anche la peculiarità dello stile di Persio, la sua ben nota oscurità. Un linguaggio scabro sarà la maniera migliore per esprimere sentimenti autentici, la realtà naturale delle cose. A tale scopo Persio (laddove Orazio aveva raccomandato la scelta accurata della callida iunctura) ricorre abitualmente alla tecnica della iunctura acris, del nesso urtante per asprezza, sia dal punto di vista fonico che soprattutto semantico; l’uso dell’aprosdòketon. La lingua quindi è quella della quotidianità, ma lo stile si incarica di deformarla ad esprimere una verità non banale, a istituire relazioni insospettate fra le cose. IV.6 Giovenale Poche e incerte le notizia sulla vita di Giovenale, ricavabili in parte dai rari accenni autobiografici presenti nelle sue satire. Decimo Giunio Giovenale sarebbe nato nel Lazio, ad Aquino, tra il 50 e il 60, da famiglia benestante. All’attività poetica arrivò in età matura; visse, come l’amico Marziale, all’ombra dei potenti, nella disagiata condizione di cliente, privo di autonomia economica. Morì sicuramente dopo il 127. La sua produzione poetica è costituita da 16 satire, in esametri (per 3869 versi), suddivise in 5 libri forse dall’autore stesso. Tra il 100 e il 127 la loro pubblicazione. .1 La satira “indignata” La letteratura del tempo, col suo dilettarsi di trite leggende mitologiche, è ridicolmente lontana, agli occhi di Giovenale, dal clima morale corrotto, dalla profonda abiezione in cui versa la società romana. Di fronte all’inarrestabile dilagare del vizio sarà l’indignazione la musa del poeta, e la satira il genere obbligato. Così nella I satira, Giovenale enuncia le ragioni della sua poetica e la centralità che in essa occupa la indignatio. Al contrario di Orazio, non crede che la poesia possa influire sul comportamento degli uomini, giudicati prede irrimediabili della corruzione. Giovenale rifiuta di uniformarsi alla tradizione satirica precedente, razionalistica e riflessiva, ma il suo rifiuto investe le forme stesse del ragionamento e del giudizio morale, gli schemi del pensiero moralistico romano. Questo, com’è noto, si costituisce grazie a un’operazione di adattamento alla società romana del grande patrimonio di topoi della diatriba cinico-stoica, e informa nelle maniere più varie la riflessione sui problemi di etica personale e di morale sociale, fornendone gli schemi di impostazione e i tipi di soluzione. Sono appunto le risposte della morale diatribica che Giovenale rifiuta, di quella morale che insegna a restare indifferenti di fronte al mondo delle cose concrete, esteriori, e a coltivare l’apàtheia e l’autarkeia del saggio. Rigetta e demistifica col rancore dell’emarginato, di chi si vede escluso dai benefici che la società elargisce ai corrotti e costretto all’umiliante condizione del cliente. L’astio sociale, il risentimento per la mancata integrazione,è una componente importante della satira “indignata” di Giovenale; al suo sguardo deformato di moralista, la società romana appare irrimediabilmente perversa. La sua furia aggressiva non risparmia nessuno, accanendosi soprattutto sulle figure più emblematiche della società e del costume della capitale. Bersaglio privilegiato sono le donne, le donne emancipate e libere, che per il loro disinvolto muoversi nella vita sociale personificano agli occhi del poeta lo scempio stesso del pudore. Questa radicale avversione al suo tempo, e la rabbiosa protesta conto l’oppressione, la miseria in cui versano gli umili e i reietti, hanno fatto parlare di un atteggiamento “democratico” di Giovenale, ma è una prospettiva illusoria: il suo atteggiamento verso il volgo, gli indotti, è di profondo e irrevocabile disprezzo. Un marcato cambiamento di toni si avverte nella seconda parte dell’opera di Giovenale, negli ultimi due libri, in cui il poeta rinuncia alla violenta ripulsa dell’indignatio assume un atteggiamento più distaccato, mirante all’apàtheia degli stoici, riavvicinandosi a quella tradizione diatribica della satira da cui si era distaccato bruscamente. .2 Lo stile satirico sublime Mentre, nella tradizione precedente, proprio l’avere come oggetto la realtà quotidiana aveva fatto sì che la satira adottasse un livello stilistico umile, un tono familiare e senza pretese (il sermo), adesso che questa realtà ha assunto caratteri eccezionali, che il vizio l’ha popolata di mostri, anche la satira dovrà farvi corrispondere caratteri grandiosi. Non più stile dimesso, ma simile a quello dell’epica e soprattutto della tragedia. Giovenale trasforma quindi profondamente il codice formale del genere satirico, recidendo il legame con la commedia e accostando la satira alla tragedia, sul terreno dei contenuti e dello stile, analogamente “sublime”. Un procedimento usuale è il ricorso alle solenni movenze epico-tragiche proprio in coincidenza con i contenuti più bassi e volgari. Il suo realismo ha naturalmente una forte spinta deformante, che si esplica soprattutto nel tratteggiare figure e quadri di violenta crudezza. .3 La fortuna La fama di Giovenale fiorisce nel IV secolo. Conosciuto da Dante e Petrarca e dagli umanisti, conoscerà grande fortuna soprattutto nella tradizione satirico-moralistica europea, da Ariosto a Parini, da Alfieri a Hugo a Carducci. IV. 8 Valerio Flacco Vita praticamente ignota. Non fa accenni autobiografici. Da Quintilliano si ricava che morì poco prima del 92. Argonautica, in 8 libri di esametri (5600 versi). Poema epico incompiuto, probabilmente per la sua morte. .1 Gli Argonautica Del poema restano una seria di vicende che corrisponde, all’incirca, a tre quarti del racconto sviluppato da Apollonio Rodio nei 4 libri dell’Argonautica. Pur riprendendo quasi tutti gli episodi principali del modello greco, Valerio mira ad una riscrittura del tema argonautico in gran parte autonoma, e non si limita ad una “romanizzazione” del testo. Vi sono abbreviamenti , aggiunte, modifiche importanti nella psicologia dei personaggi, nel modo di concepire l’intervento divino. Nei punti in cui Valerio segue da vicino il testo greco la sua rielaborazione appare guidata dalla ricerca dell’effetto: accentuazione del pathos e drammatizzazione del modello. La formazione stessa del testo di Apollonio – imitatore di Omero e imitato da Virgilio – si colloca al centro di una rete di rapporti che tengono insieme una vasta tradizione epica. Così l’autore non può esimersi dal trarre opportuni riferimenti dai modelli, in particolare da Ovidio, ma anche Seneca tragico e Lucano. Sicché questa poesia riflessa ed elaborata rischia a volte di disperdersi sotto le spinte in una troppo vasta molteplicità di modelli. Il fondamentale influsso di Virgilio spinge Valerio ad una poetica “reazionaria”: il tema è mitologico, l’apparato divino onnipresente, l’impostazione morale del racconto senza dubbio edificante. Mentre Apollonio aveva fatto di Giasone un eroe problematico e chiaroscurale – quasi un antieroe – Valerio riporta il suo protagonista ad una scala di grandezza epica. La narrazione di Valerio Flacco esaspera la propensione virgiliana allo stile soggettivo, a rendere cioè situazioni e avvenimenti attraverso il punto di vista e le sensazioni dei vari personaggi. Ma la tendenza comporta una continua psicologizzazione del racconto, a scapito della narrazione degli eventi: ne risulta un testo assai difficile e dotto; infatti, a volte il lettore non trova tutte le informazioni necessarie, ma per comprendere deve essere già a conoscenza degli avvenimenti, e del testo di riferimento di Apollonio. Il radicamento del poema nella cultura contemporanea sembra nel complesso scarso. In qualche aggiunta di Valerio rispetto al modello greco si colgono però i momenti di sensibilità più attualizzata. Le vicende politiche nel regno di Colchide sono più sviluppate e ripresentano il tema della guerra civile tra fratelli, tipico dell’immaginazione e della cultura flavia. Questa situazione permette di manifestare una curiosità più aggiornata sulle popolazioni barbariche. E’ tipico dell’età flavia il crescere di interessi etnografici per i popolo di confine. Una pallida esigenza di riferimenti attuali si coglie anche nell’impianto complessivo dell’opera. Argo, la prima nave, deve aprire i mari perché possano svilupparsi le civiltà: così il potere mondiale passerà dall’Asia alla Grecia, e da questa a un’altra civiltà ancora da nascere... Valerio è confinato a tema davvero preistorico: anteriori agli eventi narrati da Virgilio,e addirittura da Omero, si compiono le imprese dei suoi eroi. IV.9 Silio Italico Tiberio Cazio Asconio Silio Italico, nato attorno al 26. Avvocato, politicamente legato a Nerone. Ritirato a vita privata, si dedicò ad un ampio poema storico. Muore nel 101. Punica i 17 libri di esametri (oltre 12000 versi); secondo una parte della critica è incompiuto. .1 I Punica Sappiamo del suo estetismo quasi maniacale, del suo culto museografico di Virgilio. Silio Italico amava raccogliere i cimeli del poeta e ne aveva addirittura comprato il sepolcro. In questa mentalità c’è molto dello spirito con cui si accinge a produrre letteratura: la sua opera è una fredda galleria di busti storici e curiosità antiquarie. I Punica sono il più lungo epos storico latino a noi giunto. I 17 libri raccontano la II guerra punica dalla spedizione di Annibale in Spagna al trionfo di Scipione dopo Zama. L’argomento stesso del poema subito pone il problema delle fonti storiografiche. La linea “annalistica” testimonia la volontà del poeta di collegarsi alla più imponente trattazione monografica in latino degli eventi che vanno dal 218 al 201 a. C.: la terza deca di Livio. Nello sviluppo della narrazione l’uso dell’opera dello storico augusteo è sempre piuttosto ampia; in alcuni passi ne segue la traccia con notevole aderenza. Il parallelo più ovvio dei Punica sono gli Annales di Ennio, che forniva un esempio canonico per la composizione di un’epica “anno per anno”. Un altro precedente arcaico, più distante e certamente meno diretto, era Nevio l’autore del Bellum Poenicum. L’impulso fondamentale dell’opera venne dell’Eneide. La guerra di Annibale è presentata come una diretta continuazione di Virgilio: è originata dalla maledizione di Didone ed i suoi discendenti. Silio Italico restaura, all’interno dell’epica storica, la funzione strutturale dell’apparato mitico. Per una meccanica estensione, Giunone fino alla vittoria di Canne asseconda le iniziative di Annibale. Nei Punica la volontà di Giove è quella di imporre ai Romani una durissima prova: fornendo prove di valore deve dimostrare di essere degna di aspirare al dominio su altri popoli. L’intento di elaborare una “teoria” non allontana il fastidio provocato dall’inverosimiglianza delle intrusioni divine nel corso dell’azione storica. I lettori sono chiamati ad accettare non solo le convenzioni dell’epos virgiliano, ma addirittura di quello omerico. Manca il protagonista assoluto: più volte è stato sottolineato che Annibale, l’unico personaggio presente con una certa continuità dell’inizio alla fine, merita a buon diritto questo titolo. La caratterizzazione dell’eroe negativo tradisce ora l’influsso del Turno virgiliano, ora, negli spunti più demoniaci, quello del Cesare di Lucano. Contro si erge un nutrito gruppo di eroi romani, degni rappresentanti di valori ideologici, quali fides, pietas, constantia, fortitudo. Tra questi eroi spiccano Scipione e Fabio Massimo. L’opera nel suo complesso si innesta, senza aggiungere molto nel ricco filone della letteratura patriottica romana. Le disgressioni mitologiche ed eziologiche e la ricerca di esattezza antiquaria tutta rivolta al mondo dell’Italia arcaica denunciano attenzione e sensibilità al fascino della poikilìa (varietà) alessandrina. IV.10 Plinio il Vecchio La carriera è quella, esemplare, di un efficiente cavaliere al servizio della corte imperiale. Gaio Plinio Secondo era nato a Como 23 d. C. Giovane esordisce con il servizio militare, che prese per due lunghi periodi in Germania Le campagne germaniche suggeriscono a Plinio un’opera storica che doveva essere di notevole respiro, i Bella Germaniae: Tacito ne farà un cospicuo uso come fonte. Dopo la morte di Claudio, Plinio si apparta: da alcune allusioni nella Naturalis Historia sappiamo era violentemente ostile a Nerone. E’ probabile che in questo periodo si dedicasse all’oratoria e all’avvocatura, e deve avere sviluppato interessi per la grammatica. Con l’ascesa di vespasiano, Plinio imbocca una carriera come procuratore imperiale, con numerosi incarichi di rilievo. Verso il 77-78, Plinio conclude la colossale fatica della Naturalis Historia e la presenta al nuovo imperatore Tito. Svolge, nel frattempo l’incarico di prefetto della flotta imperiale di stanza in Campania. E’ in tale veste – e per cause di servizio - che muore il 24 agosto del 79 d. C. travolto dall’eruzione del Vesuvio. Tutte le opere sono andate perdute, tranne la Naturalis Historia. Plinio sosteneva di non aver mai letto libro tanto cattivo da non aver qualche utilità; e Plinio leggeva di continuo, schedava, prendeva appunti. Il risultato finale fu un’opera in 37 libri, destinata ad inventariare la somma delle conoscenze acquisite dall’uomo. Il piano dell’opera: I. Indice generale e bibliografia libro per libro; II. Cosmologia; III-IV. Geografia; VII. Antropologia; VIII-IX. Zoologia; XII.XIX. Botanica; XX- XXXII. Medicina; XXXIII-XXXVII. Metallurgia e mineralogia. Il testo è preceduto da una lettera dedicatoria al futuro imperatore Tito. .1 Plinio il vecchio e l’enciclopedismo Uno sforzo di sistemazione del sapere è evidente in tutta la cultura romana della prima età imperiale e si esprime soprattutto in opere di tipo manualistico. La destinazione pratica di queste sintesi tende a indebolire la tensione teorica e lo sperimentalismo autonomo; d’altra parte non favorisce lo sviluppo di capacità critiche. I tempi sono maturi per lo sviluppo di vere enciclopedie, intese come “inventari” delle conoscenze acquisite. La Roma imperiale conosce una grande espansione dei ceti tecnici e professionali: medici, architetti, amministratori; in parte coincidono con la nascente burocrazia imperiale; in parte i governatori della province sono sempre meno condottieri e sempre più dei tecnici. Nello stesso tempo, la curiosità scientifica si afferma anche come forma di intrattenimento, di consumo culturale. I testi naturalistici di successo non sono, naturalmente le severe opere di Aristotele; sono i cosiddetti paradossografi (dal greco paràdoxon “stranezza”) gli autori che alimentano un vero e proprio nuovo genere letterario. Si tratta di raccolte in cui confluiscono aneddoti, piccole curiosità scientifiche, notizie antropologiche, ed estratti da opere scientifiche più serie. Il più celebrato autore è Lucinio Muciano. La letteratura paradossografica esprime molto bene il limite della cultura scientifica romana; accoglie genuine curiosità e vivaci interessi pratici, ma non contiene in sé nessun principio sistematico; ancor più importante la mancanza di collegamento fra esperienza pratica e tradizione: l’arricchimento delle esperienze non porta direttamente a un cambiamento dei modelli acquisiti. La gigantesca opera erudita di Plinio il Vecchio è la realizzazione più compiuta di questa tendenze della cultura romana. Una cultura che aveva già conosciuto grandi e piccole opere di sintesi, come la trattatistica di Varrone, il manuale di architettura di Vitruvio, ecc. Ma nessuno di questi autori concepì un progetto di conservazione integrale dello scibile; né esistevano opere greche in qualche modo paragonabili. .1.1 Eclettismo e progetto enciclopedico L’enciclopedia di Plinio fu quindi una scommessa originale per dimensione e ambizioni. E’ una circostanza favorevole, non certo casuale, il fatto che l’autore fosse vicino a certe posizioni degli Stoici. Sicuramente stoica la concezione dell’universo come complessa solidarietà, retta da una Preveggenza divina, una macchina cosmica che l’uomo deve conoscere, era un’idea atta a guidare un progetto di enciclopedia. Ma la mentalità enciclopedica è per Plinio un accomodante eclettismo; una scelta filosofica troppo precisa finirebbe per ridurre la quantità di materiale da registrare e da classificare. Di fatto, nello stesso libro della cosmologia Plinio affianca con disinvoltura professioni stoicheggianti a curiose divagazioni magico- astrologiche, imparentate a qualche fonte orientale. Evidente nella Naturalis Historia, è un altro aspetto della personalità di Plinio: il suo impegno, definibile “spirito di servizio”. Questo è il vero apporto originale e personale, in un’immensa congerie di nozioni e teorie altrui, di suo porta senso pratico, e serietà morale, qualità tipiche di un operoso funzionario imperiale. Stilisticamente, Plinio è considerato da molti critici il peggior scrittore latino. Si consideri che, la stessa folle ampiezza del lavoro era incompatibile con un processo di regolare elaborazione stilistica; inoltre, la tradizione enciclopedica romana non comportava un particolare sforzo di bello scrivere. L’opera era troppo lunga per essere letta difilato e anche, naturalmente, per essere usata nelle scuole. D’altra parte l’architettura stessa facilita la consultazione. Bisogna riconoscere che la Naturalis Historia, prima che le nostre enciclopedie moderne generalizzino l’uso dell’ordine alfabetico, è uno dei testi antichi meglio organizzati e consultabili. .2 La Fortuna L’opera ha avuto una doppia sopravvivenza. Da un lato, si cominciò presto a manipolarla: se ne trassero riduzioni, compilazioni di singole parti omogenee, e antologie. Tuttavia la Naturalis Historia continuò ad essere copiata per tutto il Medioevo: i suoi smisurati indici di fonti e autori erano una garanzia, promettevano accesso a tesori di sapere che rischiavano di perdersi. Fra 300 e 500 Plinio fu oggetto di cure filologiche da parte degli Umanisti. Nell’era moderna, il testo pliniano muta valore, e si decompone in singole parti di interesse puramente storico: documento inestimabile per la storia dell’arte antica, per la storia della scienza, del folklore, della religione... La sua tendenza a salvare tutto ciò che è stato tramandato ci garantisce un inventario aperto sul mondo della cultura antica. IV.11 Marziale Intorno al 90 il Nuovo Stile di Seneca contava ancora seguaci e ammiratori. Ma già solo pochi anni dopo, ai tempi dell’Institutio, la situazione pare alquanto mutata:il nuovo classicismo è un movimento che va affermandosi, ed è praticamente vinta la battaglia di Quinitliano, suo leader culturale. Ma resta ancora da condannare tratti della stravaganza modernista: il libro VIII conserva una viva polemica contro le sententiae della maniera senecana. Originariamente -dice Quintiliano- sententia voleva dire semplicemente “giudizio”, “opinione”; succede invece che ora si indicano così i “tratti brillanti del discorso, soprattutto quelli collocati alla fine del periodo”. Le sententiae sono diventate un artificio per rendere vivace il discorso: lo scintillare continuo di piccole sentenze spezzano il discorso e lo rendono discontinuo e imprevedibile. Di questi artifici si alimenta appunto lo stile sconnesse spezzettato di Seneca, il suo scrivere “ad effetto”. Quintiliano, in ultima analisi, riteneva che l’elocuzione dovesse svolgersi anzitutto in funzione della “sostanza delle cose”, laddove Seneca mirava all’ascoltatore, all’esigenza di catturarne l’interesse. .2 Il programma educativo di Quintiliano Il tipo di oratore ideale che Quintliano delinea si avvicina a quello ciceroniano per la vastità della formazione culturale richiesta, ma in questa formazione generale la filosofia sembra aver perduto terreno rispetto alla retorica e alla cultura letteraria, di cui Quintiliano rivendica il primato. Nel suo programma le letture degli autori più diversi hanno lo scopo precipuo di formare lo stile dell’oratore. Ma a quest’ultimo viene additato soprattutto il modello ciceroniano; reinterpretato ai fini di una ideale equidistanza fra asciuttezza e ampollosità. In realtà Quintiliano era altrettanto avverso all’arcaismo, e all’eccessivo “modernismo” dell’asianesimo senecano, la corrupta oratio del periodare a volte turgido, più spesso lambiccato e lezioso. Ciò nonostante, lo stile stesso di Quintiliano non è armoniosamente ampio e simmetrico come quello di Cicerone; in qualche modo, esso appare aver subito il condizionamento esercitato dalla prosa di Seneca. .3 L’oratore e il principe Un problema pone il XII libro della Institutio, dove Quintiliano accenna alla questione dei rapporti fra oratore e principe. Probabilmente si schierava fra quegli intellettuali che, come farà Tacito, accettavano il principato come una necessità. Nei limiti di questa situazione precostituita, il suo sforzo fu di ottenere per l’oratore il massimo di “professionalità” insieme a un alto grado di dignità. L’oratore quintilianeo non pone certo in discussione il regime, ma le doti morali che deve possedere sono utili, prima che al principe, alla società in generale Resta però vero che l’ideale propugnato da Quintiliano di un oratore che sia ancora, secondo l’antico modello catoniano, vir bonus dicendi peritus, guida al senato e al popolo romano, è un’illusione del tutto infondata, quasi una negazione fatta alla realtà storica dell’Impero: un giudizio ben altrimenti fondato, realistico, della posizione che tocca all’oratore, ci è conservato da Tacito, fortemente marcato dalla coscienza di un ruolo decaduto, dalla disincantata denuncia di una irreversibile impotenza politica. IV.13 Plinio il Giovane Gaio Cecilio Secondo nacque a Como nel 61; alla morte del padre venne adottato da Plinio, suo zio materno, di cui assunse il nome. A Roma studiò retorica sotto Quinitliano; iniziò presto l’attività forense e il cursus honorum: nel 100 fu nominato conusl suffectus. Traiano lo nominò legato in Bitinia. Morì probabilmente nel 113. Panegyricus, versione ampliata del discorso di ringraziamento tenuto in senato in occasione della nomina di console; una raccolta di Epistulae in 10 libri, dalle quali ci provengono la maggior parte delle notizie biografiche. .1 Plinio e Traiano Nel Panegyricus, la gratiarum actio di fronte al senato trapassa in un encomio dell’imperatore: Plinio enumera ed esalta le virtù dell’optimus princeps Traiano, che ha reintrodotto la libertà di parola e di pensiero. Auspica, dopo la fosca tirannide di Domiziano, un periodo di rinnovata collaborazione fra l’imperatore e il senato e si sforza di delineare un modello di comportamento per i principi futuri: fondato sulla concordia fra imperatore e ceto aristocratico, e sulla intesa politica, e integrazione sociale fra quest’ultimo e il ceto equestre. Non senza qualche ingenuità, Plinio sembra rivendicare una funzione “pedagogica” nei confronti del principe: traspare il tentativo di esercitare una blanda forma di controllo sull’imperatore. Ma i reali rapporti fra Plinio e Traiano emergono chiaramente dall’epistolario intercorso fra i due, conservato nel libro X della Epistulae. Plinio si comporta come funzionario scrupoloso e leale, ma anche alquanto indeciso, che informa Traiano di tutti i problemi che sorgono e da lui si attende consigli e direttive. Dalle risposte di Traiano traspare talora un lieve senso di fastidio per continui quesiti che gli sottopone. Famoso l’atteggiamento di assunto dall’imperatore a proposito della questione dei Cristiani: in mancanza di una legislazione in materia, dà istruzione a Plinio di non procedere se non in caso di denunzie non anonime. .2 Plinio e la società del suo tempo Nelle Epistulae è probabile che Plinio segua soprattutto un criterio di alternanza di argomenti e motivi, in modo da evitare al lettore la monotonia. Le lettere sono infatti solitamente dedicate ciascuna a un singolo tema, sempre trattato con cura attenta dell’eleganza: questa è una delle differenze che separa questo epistolario, concepito per la pubblicazione, da quello ciceroniano, modello di riferimento, dove l’urgenza della comunicazione spingeva spesso l’autore ad affastellare argomenti più vari. Le lettere di Plinio sono in realtà una serie di brevi saggi di cronaca sulla vita mondana, intellettuale e civile. Elogia personaggi diversi, soprattutto poeti; ma è raro che per qualche personaggio non trovi una frase gentile che ne metta in evidenza le caratteristiche positive. Plinio si rivela un frequentatore assiduo delle sale dove si tenevano recitationes e declamationes, manifestazioni che egli stesso contribuiva ad organizzare. E’ un entusiasta che non lesina parole di lode a quasi tutti i versificatori ai conferenzieri che ascolta. Plinio non è preoccupato, come il suo maestro Quintiliano o il suo amico Tacito, dalla crisi della cultura; la letteratura di cui si diletta è essenzialmente frivola, destinata all’intrattenimento e a un consumo frivolo: si tratta, oltre a brani di oratoria declamata, soprattutto di versiculi, di nugae poetiche spesso insipide. Si capisce come l’estrema mondanità di Plinio e il suo essere contemporaneamente un uomo ricchissimo, un importante personaggio politico, e uno stimato letterato, lo ponessero in una posizione privilegiata come osservatore della sua epoca. Nel suo epistolario compaiono le massime figure del tempo, da Traiano a Tacito, a Svetonio. Un quadro di insieme della letteratura nell’età dei Flavi e di Traiano, e il nome di un gran numero di autori ci è conservato solo attraverso l’epistolario di Plinio. I toni sempre smorzati e accomodanti, il signorile senso della misura a scapito di una vigorosa caratterizzazione della propria personalità – insomma, quanto rende Plinio un autore “minore” agli occhi dei lettori moderni” contribuirono invece al successo e lo resero un modello già presso gli antichi. IV.14 Tacito Publio Cornelio Tacito nacque nel 55 probabilmente nella Gallia Narbonese, forse da una famiglia equestre. Studiò a Roma; iniziò la carriera politica sotto Vespasiano . Dopo essere stato pretore nell’88, Tacito fu per qualche anno lontano da Roma, in Gallia o in Germania, per un incarico. Nel 97 fu consul suffectus; proconsole in Asia nel 113. Morì probabilmente intorno al 117. De vita Iulii Agricolae, pubblicata nel 98; De origine et situ Germanorum (comunemente noto come Germania); Dialogus de oratoribus, successivo al 100; Historiae, in 12 o 14 libri, composte entro il 110; Annales (o Ab excessu divi Augusti), in 16 o 18 libri, forse rimasti incompleti per la morte dell’autore. Delle Historiae ci sono pervenuti solo i libri I-IV, parte del V e alcuni frammenti; degli Annales i libri I-IV, una esigua parte del V, il VI, parte del XI, i libri XII-XV e parte del XVI. .1 Le cause della decadenza dell’oratoria L’autenticità del Dialogus de oratoribus è stata contestata fin dal XVI secolo, soprattutto per ragioni di stile; e perplessità rimangono anche fra i moderni. Il periodare del Dialogus ricorda molto da vicino il modello neociceroniano, cui si ispirava l’insegnamento della scuola di Quintiliano. Ma è probabile che l’insolita “classicità” dello stile sia da spiegarsi con l’appartenenza dell’opera al genere retorico, per il quale Cicerone costitutiva ormai un modello canonico. Il Dialogus de oratoribus si riallaccia alla tradizione dei dialoghi ciceroniani su argomenti filosofici e retorici. Il dialogo si conclude con un discorso di Materno, evidentemente portavoce di Tacito, il quale sostiene che una grande oratoria era possibile solo con la libertà, o piuttosto con l’anarchia, che regnava al tempo della repubblica, nel fervore dei tumulti e dei conflitti civili; diviene anacronistica, e sostanzialmente non più praticabile, in una società tranquilla e ordinata come quella conseguente alla instaurazione dell’impero. L’opinione attribuita a Materno rappresenta una costante del pensiero di Tacito: alla base di tutta la sua opera sta infatti l’accettazione della indiscutibile necessità dell’Impero come unica forza in grado di salvare lo stato dal caos delle guerre civili. Il principato restringe lo spazio per l’oratore e l’uomo politico, ma al principato non esistono alternative. .2 Agricola e la sterilità dell’opposizione Agli inizi del regno di Traiano, Tacito pubblica il suo primo opuscolo storico, che tramanda ai posteri la memoria del suo suocero Giulio Agricola, artefice della conquista della Britannia. Per il tono qua e là encomiastico l’opera si richiama in parte allo stile delle laudationes funebri; si incentra principalmente sulla conquista dell’isola, lasciando un certo spazio a digressioni geografiche ed etnografiche, derivanti da appunti di Agricola, e in parte da notizie contenute nei Commentarii di Cesare. Nell’elogiare il carattere del suocero, Tacito mette in rilevo come egli avesse saputo servire lo stato con fedeltà, onestà e competenza anche sotto un principe pessimo come Domiziano. Ma alla fine cade in disgrazia presso lo stesso imperatore. Attraversando incorrotto la corruzione altrui, Agricola sa morire senza andare in cerca della gloria di martirio ostentato, all’ambitio mors (come il suicidio degli stoici) che Tacito condanna in quanto di nessuna utilità alla res publica. L’esempio di Agricola indica come anche sotto la tirannide sia possibile percorrere una “via mediana”. .3 Virtù dei barbari e corruzione dei Romani Gli interessi etnografici sono al centro della Germania. Quest’ultima costituisce per noi praticamente l’unica testimonianza di una lettura specificatamente etnografica che a Roma doveva godere di una certa fortuna: si può risalire fino al De bello gallico di Cesare. E’ stato sottolineato come le notizie contenute nella Germania non derivino da osservazione diretta, ma quasi esclusivamente da fonti scritte: la maggior parte della documentazione è tratta dai Bella Germaniae di Plinio il Vecchio. Gli intenti: probabilmente un’esaltazione di una civiltà ingenua e primordiale, non ancora corrotta dai vizi raffinati di una civiltà decadente, in filigrana, la Germania sembra percorsa da una vena di implicita contrapposizione dei barbari, ricchi di energie ancora sane e fresche, ai Romani. La debolezza e la frivolezza della società romana dovevano allarmare lo storico senatore: i Germani, forti, liberi e numerosi potevano rappresentare una seria minaccia per un sistema politico basato sul servilismo e la corruzione. Non stupisce, tuttavia, che Tacito si addentri anche in una lunga enumerazione dei difetti di un popolo che gli appare essenzialmente barbarico: l’indolenza, la passione per il giuoco, la tendenza all’ubriachezza e alle risse, l’innata crudeltà. .4 I parallelismi della storia La parte che ci è rimasta delle Historiae contiene la narrazione degli eventi degli anni 69-70. Dal regno di Galba fino alla rivolta giudaica, l’opera nel suo insieme doveva estendersi fino al 96, l’anno della morte di Domiziano. Nel proemio, Tacito afferma di riservare invece per la vecchiaia la trattazione dei principati di Nerva e Traiano. Le Historiae affrontavano perciò un periodo cupo, sconvolto da varie guerre civili, e concluso da una lunga tirannide. L’anno col quale si apre la narrazione, il 69, aveva visto succedersi 4 imperatori (Galba, Otone, Vitellio, Vespasiano); era anche stato divulgato un “arcano” dell’impero: l’imperatore poteva essere eletto altrove alla cura delle biblioteche pubbliche; poi, sotto Adriano, fu addetto all’archivio imperiale e alla corrispondenza dello stesso principe. La sua carriera si interrompe bruscamente nel 122, quando cadde in disgrazia presso l’imperatore; dopodiché si perdono le tracce. Di una copiosa produzione,in greco e in latino, di opere erudite abbiamo solo notizie, e miseri frammenti. De viris illustribus si intitolava una raccolta di biografie di letterati suddivisa per “generi”. A noi ne resta solo una sezione, De grammaticis et rhetoribus; delle altre sezioni abbiamo solo materiale sparso giuntoci per tradizione indiretta. Il De vita Ceasarum, una raccolta di 12 biografie (dei primi Cesari) in 8 libri, ci resta invece completo. .1 La biografia di Svetonio Quello biografico era un genere letterario di tradizione greca che, a Roma, era stato coltivato e collaudato soprattutto da Varrone e Cornelio Nepote: avevano tracciato i profili di personaggi famosi sulla base dello steso schema che inspirerà il De viris illustribus svetoniano. Brevi informazioni su origini e luogo di nascita, sull’insegnamento esercitato, sugli interessi principali e le opere composte, sul carattere: questo grosso modo, è il modello su cui si sono impostati i succinti ritratti di grammatici e retori delineati da Svetonio. Uno schema non dissimile sembra essere alla base anche dell’altra opera biografica di Svetonio, cioè le Vite dei Cesari. L’aspetto più rilevante nell’organizzazione del materiale biografica è la rinuncia a una disposizione cronologica che accompagni lo sviluppo della personalità analizzata: è la stesso autore, in un passo della Vita di Augusto, a rendere conto di tale criterio espositivo che procede non per tempora sed per species, secondo una serie di categorie, di rubriche, che trattano separatamente i vari aspetti della personalità del principe. Gli studiosi hanno maturato la convinzione che egli abbia “indebitamente” esteso ai Cesari il modello biografico già sperimentato nel De viris illustribus: questo modello – secondo tale tesi – era stato elaborato per illustrare le figure degli uomini di cultura, e costituiva un tipo di biografia destinata alla cerchia degli eruditi e priva di ambizioni artistiche, nella quale naturalmente la narrazione cronologica non aveva una funzione rilevante come in un opera che volesse tratteggiare la personalità di uno statista o di un condottiero. Per questo secondo tipo di biografia la cultura greca aveva elaborato un altro modello, il tipo “plutarcheo” (perché Plutarco, più o meno negli stessi anni di Svetonio, ne avrebbe dato l’esempio più insigne nelle Vite Parallele), adatto, in virtù della disposizione cronologica degli eventi narrati, a far luce sullo sviluppo di personalità di carattere eminentemente pubblico; il tipo di biografia cioè che Svetonio avrebbe dovuto adottare per le Vite dei Cesari. Nella rinuncia alla schema annalistico, che la cultura senatoria aveva ancorato al succedersi delle magistrature repubblicane, si vede quindi la realistica presa di coscienza che quelle magistrature, pur se formalmente ancora vigenti, sono ormai una parvenza fittizia, e che solo la durata del regno di ogni singolo principe può scandire il succedersi di un periodo all’altro. Insieme, prevale ormai la tendenza a ravvisare tratti specificamente romani proprio laddove prima si supponeva più forte l’influenza dell’eredità alessandrina: la tradizione degli elogia e delle lauadationes funebres, che elencavano le imprese civili e militari, sembra rivelare la sua influenza sul modo in cui Svetonio seleziona e dispone il materiale. Le Res Gestae di Augusto ci danno un esempio significativo della spinta che tale tradizione eminentemente romana poteva esercitare sulla esposizione per species nelle Vite. E nella tendenza, tanto deplorata come deteriore gusto del pettegolezzo, a insistere sulla vita privata degli imperatori descrivendone eccessi e intemperanze, sui particolari futili o scandalistici (che ha alimentato la fortuna dell’opera, letta come manuale di perversioni regali), si inclina oggi a vedere la manifestazione di una volontà obiettiva e demistificante, dell’intenzione di mostrare un ritratto integrale del personaggio. Ne risulta un tipo di “storiografia minore” (rispetto, ad esempio, a quella tacitiana, rispondente ai canoni della cultura storiografica aristocratica), che attinge alle fonti più varie e che delinea anche, in qualche modo, i tratti del suo destinatario, da identificare nell’ordine equestre al quale lo stesso Svetonio appartiene e che costituisce il punto di vista attraverso cui le singole vicende sono osservate e valutate. Senza assurgere al livello della grande storiografia, le Vite dei Cesari costituiscono tuttavia un documento eccezionalmente ricco di notizie e informazioni per la ricostruzione storica del primo periodo imperiale. IV.15 Apuleio Nel completo silenzio dei contemporanei, le notizie sulla sua vita sono ricavate dalle opere stesse. Lucius Apuleius nasce in Africa in una zona tra la Getulia e la Numidia verso il 12, fu di estrazione agiata e gli permise di studiare a Cartagine e ad Atene. Nel 158,Apuleio si trovò a dover sostenere un processo intentatogli dai parenti della moglie, sotto l’accusa di magia: ne abbiamo testimonianza nell’Apologia. Le nostre notizie su di lui non oltrepassano il 170. Opere a noi pervenute: Metamorphoseon Libri, romanzo in 11 libri, noto fin dall’antichità col titolo di Asinus aureus; l’Apologia (nei codici che ce la tramandano il titolo è De Magia); la Flòrida, raccolta di 23 brani oratori; i trattati filosofici De Platone et eius dogmate, De deo Socratis e De mundo. .1 Una figura complessa di oratore, scienziato, filosofo Quella di filosofo platonico doveva costituire in certo modo la qualifica ufficiale e probabilmente quella favorita da Apuleio. Rappresentante della temperie che va sotto il nome di “seconda sofistica”, che vede moltiplicarsi le esibizioni di retori famosi, accanto ad una penetrazione massiccia dell’irrazionale nelle scelte religiose. Apuleio condivide i vari aspetti di tale fenomeno culturale: la curiosità per il mondo della natura, l’inquietudine e le tensione verso occulto, l’iniziazione ai culti misterici, e infine la pratica brillante di conferenziere itinerante. Apuleio è talmente impregnato di cultura popolare, oltre che di dottrine scolastiche e accademiche, che si possono riconoscere in lui i riflessi non solo del pensiero platonico, e filosofico in generale, ma anche alla religiosità ebraica e persino gnostica. Non mancano tracce significative di dottrine accettate a più basso livello culturale, quali la fisiognomica o l’arte di interpretare i sogni. Parte della produzione si compone dei 3 trattati De deo Socratis, De Platone et eius dogmate, De mundo, sulla cui autenticità non sussistano più dubbi, e che vengono in genere considerati frutto della studiosa giovinezza di Apuleio. Il più importante di questi scritti è sicuramente il De deo Socratis, la trattazione più sistematica della dottrina dei demoni a noi giunta dall’antichità. L’impianto è tripartito: alla sezione I, che esamina i mondi separati degli dei e degli uomini, segue la parte dedicata alla posizione dei dèmoni nella gerarchia degli esseri razionali e la loro funzione interna fra due mondi (che li rende garanti del compiersi di un progetto provvidenziale nella storia del mondo); la conclusione è tutta sul dèmone di Socrate, la voce interiore che, sentita come tramite di un ordine divino, costringeva il filosofo a proseguire la ricerca del vero. Dell’aspetto più appariscente comune ai letterati della seconda sofistica – l’attività degli oratori itineranti – Apuleio ci ha lasciato ampia documentazione. I Florida, una raccolta di 23 brani oratori su diversi temi e di diversa estensione, stralciati del testo di conferenze e pubbliche letture tenute in Africa. Del compilatore ci è ignota l’identità, ma si può intuire i criteri di scelta: antologizzò in pezzi di più insistita bravura retorica, prescindendo dai contenuti (ci resta un’immagine di conferenziere duttile: l’oratore dei discorsi politici ufficiali, il panegirista religioso, l’erudito, il letterato, il moralista, ecc.). Si tratta di eccezionali esempi di virtuosismo retorico, di cui si può ammirare la duttilità di una prosa vivace e brillante. La lunga orazione che costituisce il testo dell’Apologia è invece un’orazione giudiziaria, l’unica a noi pervenuta di età imperiale. Già per il fatto che, qualora fosse stata recitata nella forma attuale, sarebbe durata certo molte ore, e per il fatto poi che essa manchi di un taglio realmente processuale il lettore è indotto a sospettare che anche quest’opera abbia invece una natura e una destinazione fortemente letteraria. Il famoso retore è qui impegnato nello sforzo di consegnare alla posterità un’immagine ben modellata di sé: quella di un brillante e geniale philosophus platonicus. Il processo sembra generato da interessi economici. Il suocero di Ponziano – amico di gioventù e figlio di Pudentilla, moglie di Apuleio – già forse poco dopo il matrimonio, cercò l’appoggio di Ponziano stesso e, alla sua morte, quello del fratello minorenne, Pudente, per colpire Apuleio: lo scopo era di interdire l’accesso futura all’eredità della moglie, ben più anziana di lui, col pretesto di tutelare gli interessi di Pudente. Ad Apuleio fu contestato il reato di magia: evidentemente sosteneva l’accusa, solo grazie al ricorso a pratiche magiche, egli aveva potuto piegare al matrimonio una vedova facoltosa e non più giovane. L’abilità di avvocato che Apuleio rivela nell’Apologia ha spesso favorito l’accostamento a Cicerone (quello della Pro Celio); da lui oltre a mutare il tipo di periodare, egli utilizza più di una volta interi passi. Ma certo non ciceroniano è il “colore” del discorso teso alla mescolanza dei volgarismi, neologismi, arcaismi, pietismi. Quanto al contenuto, non si può fare a meno di ammirare la disinvoltura con cui l’oratore mette in ridicolo le ragioni dell’accusa: Apuleio parla infatti dall’alto della sua cultura enciclopedica, che egli ostenta di continuo. Le movenze libere e vivaci del discorso consentono graziosi esercizi di dottrina comprensibili solo a un interlocutore capace di riconoscere gli exempla letterari citati nelle argomentazioni difensive dell’autore. L’aspetto più affascinante è però sicuramente l’ombra inquietante che Apuleio non riesce o non si cura di fugare sulle proprie innegabili e vaste competenze proprio in materia di magia. La netta distinzione tra magia e scienza (“magia goetica” e “magia teurgica”) si basa in fondo su una distinzione di poteri; ma la capacità di dominio delle forze della natura, propria dello “scienziato” conserva tuttavia un che di ambiguo nel corso dell’intera orazione. .2 Apuleio e il romanzo Insieme col Satyricon di Petronio, l’opera di Apuleio rappresenta per noi l’unica testimonianza del romanzo antico in lingua latina: l’unica, dunque, pervenuta per intera. Il titolo conservato concordemente dai codici, quello di Metamorphoseon libri, conobbe presto la concorrenza di quello con cui l’opera è stata indicata da Agostino: Asinus aureus, dove è incerto se l’aggettivo vada riferito a un apprezzamento della qualità del testo o piuttosto al colore fulvo dell’animale. Degli 11 libri, i primi 3 sono occupati dalle avventure del protagonista, il giovane Lucio, prima e dopo il suo arrivo in Tessaglia (tradizionalmente terra di maghi). Ospite di un ricco del posto, e della sua sposa Panfila, riesce a conquistarsi i favori della servetta Fetide, e la convince a farlo assistere di nascosto a una delle trasformazioni cui si sottopone la padrona. Alla vista di Panfila, che grazie ad un unguento, si tramuta in gufo, Lucio non sa però resistere, e prega Fetide che lo aiuti a sperimentare su di sé tale metamorfosi. La serva accetta, ma sbaglia unguento, e Lucio diventa asino, pur mantenendo facoltà raziocinanti umane. I libri successivi, tranne l’ultimo, ripercorrono le tragicomiche peripezie dell’asino. La lettura delle Metamorfosi pone qualche questione preliminare. La prima riguarda il genere cui il testo rimanda, e che si suole definire “romanzo”. In realtà , all’interno del sistema dei generi tramandatoci dall’antichità, il romanzo sembra mancare di un fisionomia definita, e appare piuttosto come il risultato di un’intersezione dei generi diversi. A ciò si aggiunge la difficoltà di tracciare un vero e proprio quadro del genere romanzo, data la penuria di testimonianze, almeno per la letteratura latina: mancava nella società romana un vasto ceto di lettori di media cultura, quello che sembra essere il presupposto ineliminabile per il nascere ed il mantenersi di un genere per definizione così popolare. Bisogna poi considerare il rapporta con le fabulae Milesiae, a cui lo stesso autore riconduce la sostanza dell’opera. Ma il naufragio pressoché totale della traduzione che Cornelio Sisenna fece delle originali fabulae Milesiae rende irrimediabilmente oscure le origini di questo genere di narrativa. Resta un unico dato certo, quello del carattere erotico di queste novelle, comune anche al romanzo. Anche la storia dell’asino-uomo sembra essere stata una fabula Milesia; ma si deve probabilmente ad Apuleio l’aggiunto dell’elemento magico: ed egli si mostra conscio dell’innovazione, quando proprio nei primi libri inserisce una serie di racconti a carattere spiccatamente magico. Sono racconti i cui personaggi rappresentano tipiche figure di mercanti viaggiatori o di studenti scioperati: personaggi che dovevano essere molto comuni nella Milesia se li ritroviamo, col loro costante repertorio di gesti e atteggiamenti, nel Satyricon di Petronio. Qui, nel romanzo di Apuleio, la loro logico di vita appare frustrata, se non addirittura ribaltata, nell’urto con lo spietato mondo della magia. Un’altra importante questione riguarda un delicato problema di fonti. E’ noto che un romanzo a noi pervenuto nel corpus della opera di Luciano di Samòsata, ma sicuramente spurio, sviluppa lo stesso intreccio del romanzo latino, col titolo di Lucio o l’Asino, in lingua greca e in forma nettamente più concisa. Abbiamo la testimonianza del patriarca bizantino Fozio (IX secolo) che dichiara di aver letto racconti di trasformazioni nell’opera di un altrimenti ignoto Lucio di Patre, in vari libri: di questi i primi due Luciano li avrebbe ripresi da Lucio. L’interpretazione della notizia ha dato origine a un dibattito ancora in corso fra gli studiosi sui rapporti relativi e la priorità dell’uno o dell’altro dei due scritti pervenuti.