Scarica LETTERATURA LATINA (Manuale storico dalle origini alla fine dell’Impero) - G.B. Conte e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura latina solo su Docsity! LETTERATURA LATINA (Manuale storico dalle origini alla fine dell’Impero) Parte 1. Alta e Media Repubblica Le origini Problema delle origini di una produzione artistica in lingua latina. Opinione dominante: precisa data di nascita; 240 a.C., anno in cui Livio Andronico fece rappresentare un suo testo scenico. Questa concezione delle origini può suonare semplicistica, ma non è incoerente rispetto ai suoi stessi presupposti, se si restringe la letteratura a una produzione artistica fissata con l’aiuto dello scrivere. Gli stessi Romani di età classica erano perfettamente consapevoli che le origini della letteratura non coincidono con quelle delle “forme comunicative”. La storia di queste forme comunicative è complessa; non si esaurisce nella comunicazione scritta e non si limita ad anticipare e preparare lo sviluppo della letteratura. I Romani avevano ben presente il riferimento alle origini della letteratura greca, diventarono pertanto curiosi della loro “preistoria” letteraria; anche se alcune ricostruzioni romane delle proprie origini sembrano troppo vincolate alle ricostruzioni che i Greci facevano del proprio passato letterario (ma non è mai esistito per i Romani un corrispettivo di Omero). Cronologia e diffusione della scrittura. Dal VII secolo gli abitanti del Lazio affidano alla scrittura la registrazione di semplicissimi messaggi. • L’uso della scrittura è legato a momenti di vita pratica. • Nel territorio della Roma arcaica circola gente che parla e scrive in greco, osco, etrusco. I segni alfabetici sono ancora particolarmente fluttuanti. • Abbiamo unicamente graffiti ed iscrizioni (gli altri supporti non duri si sono deteriorati). • L’uso della scrittura è indispensabile per una serie di funzioni pubbliche e private: conservazione di oracoli, formule e prescrizioni religiose, liste di magistrati e di sacerdoti, statuti, leggi e trattati; genealogie, memorie di famiglia, iscrizioni celebrative degli antenati. • Non è attestata una vera e propria circolazione libraria. Ciò che ci resta documenta l’esistenza di un crogiolo di popoli e di lingue, in cui si afferma solo progressivamente l’uso del latino e dell’alfabeto latino. Nella Roma medio-repubblicana (Livio Andronico), il quadro dell’alfabetizzazione si presenta assai ampio e articolato. Parallelamente al sorgere di veri e propri testi letterari, possiamo documentare una notevole estensione della capacità di leggere e scrivere (ampliamento della fascia di popolazione alfabetizzata). Nascono le corporazioni di scrivani (scribae), anche se la loro considerazione non è molto alta, come non lo è quella dei letterati. Le forme comunicative non letterarie. Il tradizionalismo tipico della cultura romana di età repubblicana favorì il perpetuarsi di certe formule e di certe strutture di pensiero: un influsso greco, certo variabile per grado e intensità, ed esposto a oscillazioni, c’è sempre stato nella storia di Roma, molto prima che i letterati romani aderiscano consapevolmente ai modelli letterari greci. • Leggi e trattati. Necessità di avere precise registrazioni ufficiali (anche influsso modellizzante sulle origini della prosa latina). Di trattati abbiamo solo testimonianze indirette, nessun frammento; abbiamo tracce delle prime leggi di Roma (leges regiae: fase monarchica, impostazione rigidamente sacrale, norme consuetudinarie). La composizione delle Leggi delle XII Tavole fu una forte conquista civile e politica, un baluardo contro lo strapotere delle grandi famiglie. Furono stilate da un’apposita commissione tra il 451 e il 450. I Romani di età classica ravvisano nelle Leggi delle XII tavole il più vero fondamento della loro identità culturale. Queste leggi trovano nelle monumentali assonanze, nelle allitterazioni, nella scansione in cola ritmici paralleli e staccati un sicuro effetto di sanzione inappellabile. • I Fasti e gli Annales. La comunità romana aveva sviluppato un suo calendario ufficiale- i giorni dell’anno erano divisi in fasti e nefasti, a seconda che vi fosse permesso o vietato il disbrigo degli affari pubblici. Garanti di questo ordinamento erano i pontefici. Le quantità di informazioni depositate nei fasti si arricchì progressivamente (tabulae dealbatae): avvenimenti di pubblica rilevanza e liste di magistrati. Queste registrazioni ufficiali presero il nome di annales e cominciarono a formare una vera e propria memoria collettiva dello Stato romano. Fu di enorme importanza come impulso per la struttura di opere storiografiche latine (autoctono, separato da influssi di origine greca). • I Commentarii. Uso individuale e non necessariamente pubblico (appunti memorie, osservazioni a carattere privato). Si presentano come opere non professionali, caratterizzate da un apporto di informazioni e memorie personali. L’origine di questa accezione risale ad una pratica dei magistrati di età repubblicana. Un magistrato importante tendeva a raccogliere in una sorta di diario i provvedimenti e gli eventi principali del suo periodo di carica. • Gli albori dell’oratoria: Appio Claudio Cieco. Lo scrivere era considerato una tecnica assai utile, ma il saper parlare era ben più importante: i Romani consideravano l’abilità oratoria come una forma di potere e una fonte di successo, parte integrante e indispensabile della vita attiva (univa attività intellettuale veramente degna di un cittadino di elevata condizione). Il primo nome che incontriamo nella storia delle lettere latine è quello di un uomo eloquente, una figura semileggendaria di iniziatore dell’oratoria: Appio Claudio Cieco. Console, censore, dittatore, molteplici e importanti imprese di guerra e opere di pace: combatté contro Etruschi e Sabini, guerra sannitica, permise l’ingresso dei plebei in senato, fu promotore di fondamentali opere pubbliche. Per certi versi si può considerare come un predecessore di Catone: pratica oratoria, diritto, questioni linguistiche ed erudite. A suo nome circolava una raccolta di Sententiae a carattere moraleggiante e filosofeggiante. Le forme preletterarie: i carmina. Il significato più usuale di carmen è poesia, ma in realtà significa ben più che versi o poesia: è un vocabolo indifferenziato. Si possono definire le XII Tavole come un carmen (Cicerone); le formule magiche sono carmina; ma anche preghiere, giuramenti, profezie, sentenze del tribunale, cantilene infantili. Un carmen non è tale per il suo contenuto o per il suo uso, ma per la sua forma. Non esisteva ancora una distinzione netta tra poesia o prosa: la prosa romana antica è marcata da una fortissima stilizzazione, ha una tessitura ritmica molto intensamente segnata e percepibile (forti effetti di parallelismo verbale); la poesia arcaica invece ha una struttura metrica debole. Versi e prosa sembrano avvicinarsi reciprocamente: versi deboli e prosa forte. La tradizione stilistica dei carmina è il più potente tratto di continuità che unisce il periodo delle origini alla storia letteraria di Roma. Mentre gli influssi di provenienza si sovrappongono l’uno all’altro, la tradizione dei carmina non sparisce mai del tutto: rimane un segno durevole, che distingue lo stile letterario latino. È un modo di scrivere “ad effetto”, che non pratica nette distinzioni tra versi e prosa, ma nel suo complesso si oppone, semplicemente, allo stile casuale e informale della conversazione quotidiana. • Poesia sacrale. Produzione a carattere religioso e rituale. I rituali sono per loro natura conservativi e intangibili (e i Romani sono un popolo che si segnala per conservatorismo). Più importanti carmina rituali: • Carmen Saliare. Canto di un venerando collegio sacerdotale, i Salii, istituito da Numa Pompilio: dodici sacerdoti del dio Marte che ogni anno nel mese di marzo recavano in processione i dodici scudi sacri, gli ancilia. Proferivano i carmina avanzando in un balletto rituale scandito in tre tempi e accompagnato da percussioni (invocazioni ordinate in litanie di smisurata lunghezza). • Carmen Arvale. Collegio dei dodici Fratres Arvales che levavano un inno di purificazione dei campi (invocando la protezione da Marte e dai Lari). Insistenza su un ritmo ternario: la triplicazione di parole ed atti è diffusamente considerata come una garanzia di efficacia. Pienezza espressiva, ripetizioni, figure retoriche. • Poesia popolare. Le testimonianze più consistenti riguardano una produzione orale e improvvisata che aveva caratteri di motteggio e comicità. • Fescennini versus. Traccia di influsso etrusco, espressione di una funzione apotropaica (scongiuro dal malocchio) che questi canti avrebbero avuto. Venivano cantati presumibilmente nelle feste rurali. • Lazzi alle feste nuziali e forme di pubblica diffamazione. • Carmina triumphalia. Canti militari in cui alle lodi del vincitore, in occasione trionfo, si mescolavano liberamente scherni: l’esaltazione del successo veniva moderata e temperata dal riso, in modo da non suscitare effetti di empia tracotanza. • 207 a.C. Incarico della composizione di un partenio in onore di Giunone destinato al pubblico. • Appartenenza al collegium scribarum histrionumque (edifico pubblico): statuto ufficiale alla produzione lett. Opere. Possediamo circa 60 frammenti. Ci restano dei titoli di 8 tragedie cothurnatae. Compose anche delle palliatae, che ebbero meno risonanza delle tragedie. L’opera più significativa è l’Odusia, traduzione in saturni dal greco (40 versi rimastici). Nascita della traduzione poetica. I grandi classici romani del I secolo concordavano nell’indicare in Livio l’iniziatore della letteratura latina. L’iniziativa di tradurre in lingua latina e in metro italico l’Odissea ebbe una portata storica enorme. Una cultura letteraria come quella greca non arrivò mai a concepire la traduzione di un’opera letteraria da una lingua straniera. L’operazione ebbe finalità letterarie e più genericamente culturali. • Livio rese disponibile ai Romani un testo fondamentale della cultura greca. • Riuscì contemporaneamente a divulgare cultura greca a Roma e a far progredire la cultura letteraria in lingua latina. • L’importanza sta nell’aver concepito la traduzione come operazione artistica: costruzione di un testo fruibile autonomamente, che si sforzi di conservare non solo i contenuti ma anche la qualità artistica del modello. • Non avendo una tradizione epica alle spalle, cercò per altre vie di dare solennità e intensità al suo linguaggio letterario: arcaismi, formulario della tradizione religiosa romana. • Notevolissima volontà di aderenza all’originale e di chiarezza: tradurre significa tanto conservare ciò che può essere recepito quanto modificare ciò che è intraducibile. A volte si ha l’impressione che Andronico modifichi Omero per intenzioni specificamente artistiche (alessandrinismo, ricerca di pathos e tensione drammatica). La capacità di “drammatizzare” il racconto omerico ci fa penare che Andronico fu anche un significativo drammaturgo (precisi modelli greci dei suoi testi teatrali: Sofocle ed Euripide in preferenza). Tutte le caratteristiche della scena romana di età repubblicana sono già patrimonio di Livio Andronico. Ricerca patetica più accentuata rispetto al modello greco. Nevio Vita. Cittadino romano di origine campana, combatté nella prima guerra punica. Plebeo di nascita (non sono molti nella Roma arcaica i letterati romani di origine plebea). La sua biografia reca tracce di polemiche anti-nobiliari, e non abbiamo indizi che si appoggiasse a protettori aristocratici. Si racconta che attaccasse in poesia la potente famiglia nobiliare dei Metelli. Si sospetta che fosse incarcerato per certe allusioni contenute nei suoi drammi. Morì forse in esilio a Utica, lasciando una diffusa fama letteraria. Opere. Numerose tragedie e commedie. Delle tragedie di argomento greco ci restano sette titoli e una cinquantina di frammenti. Delle commedie conosciamo ventotto titoli e ottanta frammenti. La sua opera principale è il Bellum Poenicum in saturni. Circa 4000/5000 versi (relativamente breve in omaggio alla poetica alessandrina), di cui ne restano circa 60. L’opera non aveva divisioni in libri, ma fu ripartita in 7 dal grammatico Lampadione. Il poema narrava la storia di Enea che da Troia giunge nel Lazio e la storia della prima guerra punica (difficile capire il collegamento narrativo). Era un contenuto di grande attualità per il pubblico romano. Tra mito e storia. È il primo letterato latino di nazionalità romana ed è il primo letterato romano vivacemente inserito nelle vicende contemporanee, partecipe di eventi storici e politici sia per esperienza personale che per scelta letteraria. Il forte impegno di Nevio nella vita politica di Roma traspare dai caratteri originali della sua opera: è il primo testo epico latino che abbia un tema romano e così anche le due praetextae (Romulus e Clastidium). • Scelta di un tema storico contemporaneo, ma anche racconto della preistoria di Roma (“strato omerico”, in cui vi è notevole spazio per l’intervento divino). • Ardita saldatura tra mito e storia nazionale, che innestava l’ascesa di Roma in una specie di visuale cosmica, naturalmente nutrita di cultura greca. • Strato storico: racconto della guerra contro Cartagine. Mito di fondazione e storia contemporanea si affrontavano a blocchi distinti. • Nevio deve essere stato un profondo conoscitore di poesia greca. Il Bellum Poenicum presuppone Omero e presuppone anche la tradizione ellenistica del poema storico-celebrativo (incrocio tra Iliade e Odissea). • Notevoli varietà di tono e di impasto lessicale. Importanza delle figure di suono: ripetizioni, allitterazioni, assonanze formano la struttura portante del verso saturnio. • La sperimentazione di un nuovo linguaggio poetico si sviluppò in due direzioni principali: • Sezione mitica del poema impone a Nevio la sfida del linguaggio poetico greco: nuovi composti e nuove combinazioni sintattiche per rispondere alla ricchezza di epiteti composti della poesia greca. • Sezione storica del poema pone problemi di natura diversa: lunga narrazione continua con un linguaggio semplice, concreto, con l’ordine delle parole lineare. Vengono introdotti in poesia numerosi termini tecnici e vocaboli prosaici. Nel complesso il Bellum Poenicum appare come un’opera di forte sperimentalismo, in cui forse le diverse componenti stilistiche non trovavano uno stabile equilibrio. Oltre alle praetextae Nevio compose anche tragedie mitologiche, di cui parecchie legate al ciclo troiano. Di gran lunga più importante sembra la produzione comica, che fa di Nevio il più notevole predecessore di Plauto. Il suo teatro era più “impegnato” di quello del secolo successivo: la sua opera contiene attacchi personali a personaggi politici (simile ad Aristofane): questo fenomeno ha esistenza effimera a Roma e Nevio stesso pagò il suo anticonformismo. Plauto Vita. Il nome del poeta è tra i dati incerti: • Antichi. Plautus, forma romanizzata di un cognome umbro Plotus. • Moderni. Viene indicato M. Accius Plautus, forma sospetta, perché i tria nomina si usano per chi è dotato di cittadinanza romana e non sappiamo se Plauto l’abbia mai avuta). • Tesi più plausibile. Titus Maccius Plautus (Palinsesto Ambrosiano). Non è un nome gentilizio (Maccius deriva da Maccus, un personaggio dell’atellana (legame con la personalità e l’attività di Plauto). Plauto deve essersi dotato di questo nome di battaglia, che allude chiaramente al mondo della scena comica. Plauto era nativo di Sarsina (Umbria), non era dunque di origine romana, ma non apparteneva a un’area culturale italica già pienamente grecizzata ed era un cittadino libero, non uno schiavo o un liberto. La data di morte è sicura (184 a.C.); la data di morte si ricava indirettamente (tra il 255 e il 250 a.C.). La sua attività letteraria si dispiega tra la seconda guerra punica e gli ultimi anni di vita del poeta. Opere. Plauto fu autore di enorme successo e di grande prolificità. Sembra che nel corso del II secolo circolassero circa 130 commedie legate al nome di Plauto, ma ovviamente non erano tutte autentiche (rifacimenti, interpolazioni, opere spurie). Iniziò, nel II secolo, un’attività “editoriale” (edizioni alessandrine): le commedie furono dotate di didascalie, di sigle dei personaggi. La fase critica nella trasmissione fu segnata da Varrone, il quale ritagliò nell’imponente corpus un certo numero di commedie (21) sulla cui autenticità c’era un generale consenso: Amphitruo (Giove conquista Alcmena, moglie di Anfitrione, mentre è in guerra; la situazione genera equivoci. Unica a soggetto mitologico); Asinaria (riscatto di una cortigiana da parte di un giovane; rivalità amorosa tra padre e figlio); Aulularia (figura dell’avaro, pentola d’oro); Bacchides (sorelle gemelle cortigiane; equivoci sull’identità; modello: Doppio Inganno di Menandro); Captivi (rapimento e prigionia di due figli, riconoscimento; smorzatura dei toni comici e spunti di umanità malinconica); Curculio (figura del parassita, del giovane innamorato di una cortigiana e del soldato sbruffone); Casina (contesa di una cortigiana tra un padre sposato e il figlio, scoperta dei natali liberi della donna); Cistellaria (matrimonio combinato); Epidicus (classica “commedia del servo”; ragazzo irrequieto, innamoramento di due fanciulle); Mostellaria (il servo copre gli eccessi del giovane padrone facendo credere che vi sia un fantasma); Menaechmi (commedia degli equivoci; due fratelli gemelli separati alla nascita; viluppo di scambi di persona; riconoscimento finale); Miles Gloriosus (servo arguto (Palestrione), soldato fanfarone (Pirgopolinice)); Mercator (rivalità amorosa di un giovane e di suo padre); Pseudolus (schiavo miniera di inganni); Poenulus (complicate vicende di una famiglia di origine cartaginese); Persa (beffa ai danni di un lenone; il servo aiutante impersona un improbabile Persiano); Rudens (gomena, naufragio, rapimento di una fanciulla); Stichus (sviluppo modesto, debole tensione); Trinummus (giovane scialacquatore; tonalità edificanti); Truculentus (cortigiana creatrice di inganni, che sfrutta e raggira i suoi amanti; spostamento dei ruoli tradizionali; protagonista tratteggiata in modo più fosco); Vidularia (solo frammenti). Le altre commedie continuarono ad essere rappresentate e lette a Roma, ma oggi ci sono giunti solo titoli e pochissimi frammenti indiretti. La datazione è complicata. È molto difficile farsi un’idea di evoluzione della poetica plautina, che ci permetterebbe di considerare certe commedie più tarde di altre. Un’impressione ragionevole è che le commedie più ricche di ritmi variegati e ricercati sino più tarde di quelle più semplici nella stesura ritmica. Tipologia degli intrecci e dei personaggi. La grande forza di Plauto sta nel comico che nasce dalle singole situazioni, prese a sé una dopo l’altra, e dalla creatività verbale che ogni nuova situazione sa sprigionare. Le commedie sono caratterizzate da: • Fortissima prevedibilità degli intrecci e dei tipi umani incarnati dai personaggi. Plauto desidera questa prevedibilità: non vuole porre interrogativi problematici sul carattere dei suoi personaggi (no etica o psicologia). Tutte le trame si possono ridurre ad una lotta tra due antagonisti per il possesso di “un bene” (donna o denaro). La lotta si decide con il successo di una parte e il danneggiamento dell’altra (il giovane). La vittoria finale trova una piena rispondenza nei codici culturali che il pubblico già possiede. • Numero limitato di “tipi” di personaggi (servo astuto, vecchio, giovane amante, lenone, parassita, soldato vantone). Questi tipi sono inquadrati fin dai prologhi. • Plauto è libero di puntare il suo prevalente interesse su certe particolari forme dell’intreccio: • Commedia del servo. I servi crescono di statura intellettuale e di libertà fantastica (creano inganni e li teorizzano). Al centro dell’azione nelle opere più mature sta un vero demiurgo; un artista della frode, un poeta che sotto gli occhi di tutti sceneggia la vicenda. La coppia “giovane desiderante – servo aggiratore” è la più solida tematica del teatro di Plauto. Ben definita è anche la scansione temporale, che prevede tre fasi distinte: il servo medita l’inganno; agisce; trionfa. • Commedia della Fortuna. Forza onnipresente, grande valore stabilizzante, alleata o antagonista. La trama comica ha spesso bisogno di uno scatto irrazionale, di un quoziente imprevedibile. • Commedia del riconoscimento. Passano per una lunga fase di errori e confusioni di persona (“commedia degli equivoci”) e il problema dell’identità salta fuori solo nel finale. Scatto fortunoso dell’agnizione conclusiva. • Realtà iniziale e finale. In molte di queste commedie c’è uno schiavo furbo al lavoro: lavoro immorale, magari, ma svolto a fini in sé accettabili e destinato ad avere successo. Lo schiavo, da parte sua, opera su una realtà preesistente e il suo lavoro “sporco” è falsificare, confondere, cambiare connotati. Il contrasto tra messinscena e realtà non può durare per sempre: qui entra in gioco la Fortuna. Grazie alla Fortuna scopriamo che esiste una realtà più autentica e sincera della realtà “iniziale”. I modelli greci. Maestria ritmica di Plauto (numeri innumeri): gli infiniti metri sono parte integrante della sua arte, ma noi ne cogliamo solo una traccia inaridita. È questo un aspetto in cui Plauto si distacca nettamente dai suoi modelli greci (Menandro). “Riscrivere” (vertere) il contenuto di una scena passando dal codice piano e prosaico dei trimetri greci alle fantasiose armonie “cantate” è un’operazione di elevata autonomia artistica. • Plauto si preoccupa poco di comunicare il nome e la paternità della commedia greca su cui si è orientato. Il suo teatro non presuppone un pubblico così ellenizzato da gustare minutamente il riferimento a certi famosi modelli. I titoli non sono in nessun caso trasparenti traduzioni di titoli greci e l’uso di nomi degli schiavi come titolo ha ben poco a che fare con la prassi greca. • Pur attingendo ai grandi maestri della commedia attica, Plauto non ha una marcata preferenza per nessuno di essi. Di conseguenza lo stile di Plauto è intrinsecamente vario e polifonico, ma varia poco da commedia a commedia (accostando le sue opere la coerenza di stile e maniera è pronunciata: ciò significa che non si fa condizionare troppo dai suoi modelli attici). • I tratti costanti e dominanti dello stile plautino hanno in sé ben poco di attico: giochi di parole, bisticci, metafore, similitudini, bizzarri paragoni mitologici, enigmi, doppi sensi, neologismi istantanei, allusioni scherzose alle istituzioni. Questo compatto registro di stile è iniziativa originale di Plauto. • Le trasformazioni sono meno profonde per quanto riguarda le linee generali dell’intreccio, ma sono significative: ristrutturazione metrica e cancellazione della divisione in atti; completa trasformazione del • Epigrammi in distici elegiaci. Il teatro. Ultimo poeta latino a coltivare insieme tragedia e commedia. Nella produzione drammatica essenzialmente fu poeta tragico (tensione stilistica, vigorosa tendenza al patetico). Modello euripideo. È spesso oggetto di parodia, anche se la visione corrente è distorta: Ennio deve essere stato un uomo di teatro attento alle preferenze del pubblico. Il rapporto con i modelli greci non sembra puramente emulativo. Il poeta non cerca il confronto con gli originali per mostrare bravura artistica nel gioco intertestuale. • Intensificazione patetica. • Retorica della commozione grandiosa. • Vocabolario della teatralità greca di cui la scena enniana si appropria. • Esigenza teatrale ben precisa: produrre interesse nel pubblico, coinvolgerlo emotivamente, suscitare processi psicologici di identificazione. • In Ennio, nonostante le difficoltà pratiche della scena latina, poteva comparire anche il coro (“virtuali cittadini”). • Ricerca di un’identificazione tra pubblico e personaggi, nell’anonimità e comunanza del coro. Annales. Una funzione celebrativa doveva essere fondamentale in tutta l’opera di Ennio: la sua poesia è celebrazione di gesta eroiche (Omero-recente poesia ellenistica). • Progetto di celebrazione di tutta la storia romana, svolta in un unico e mastodontico poema epico. L’opera risultò, per ampiezza e respiro, diversa dai poemi celebrativi di periodo alessandrino. • Si distacca da Nevio decidendo di narrare senza stacchi e in ordine cronologico, anche se certe fasi storiche ebbero molto più risalto di altre (viene sacrificata la prima guerra punica). • Articolazione del racconto in libri è un’innovazione, intesi come unità narrative accostate in un’architettura complessiva. • Il titolo fa riferimento agli Annales Maximi e la struttura di fatto segue un ordine cronologico progressivo, ma non dobbiamo pensare che Ennio trattasse tutti i periodi con lo stesso ritmo e la stessa concentrazione. È molto più selettivo di uno storico e si occupa quasi esclusivamente di avvenimenti bellici. • Gli Annales utilizzano molto ampiamente fonti storiografiche, ma anche Omero e Nevio. Le Muse e la poetica. Sembra che Ennio avesse pianificato in origine una narrazione in quindici libri, ma per motivi non del tutto chiari, ne aggiunse altri tre. La sua opera rimase comunque contrassegnata da due grandi proemi (I e VII libro): il poeta prende direttamente parola e svela l’ispirazione e le ragioni del suo fare poesia. • Primo proemio. Attraverso la metafora del sogno, Ennio s presenta come la reincarnazione di Omero. • Secondo proemio. Dà spazio alle divinità simboliche della poesia, le Muse, che prendono piena cittadinanza con lui a Roma (non le Camene). Polemizza con i Fauni vatesque e si raffigura come il primo poeta dicti studiosus (rimanda alla raffinatezza della cultura alessandrina). Risalta l’importanza di essere stato il primo ad utilizzare l’esametro dattilico per il latino. Lo sperimentalismo enniano. Impressione di un poeta profondamente e audacemente “sperimentale” (anche se la nostra impressione potrebbe essere accentuata e in parte distorta dal fatto che una buona parte dei frammenti enniani sono citati dai grammatici tardi proprio per la loro peculiarità. • Numerosi grecismi. • Scrisse sovente esametri tutti in dattili e tutti in spondei. • Largo uso dell’allitterazione. Lo stile allitterante accompagna il pathos della situazione e dà enfasi. Lo stile allitterante era istituzionale; Ennio lo importò all’esametro, lavorando per adattare la lingua latina all’esametro e l’esametro alla lingua latina. • Neologismi onomatopeici. L’aspetto più arcaico dello stile enniano sta nell’incontro tra esametro e stile allitterante. Questo stile ripetitivo era connaturato a versi come il saturnio o il senario plautino, versi metricamente molto liberi e cono infinite possibilità di realizzazione. In questi versi l’allitterazione dava una specie di regolarità ritmica. L’esametro, invece, per sua natura e struttura, è un verso molto più uniforme e regolare: applicato all’esametro, lo stile allitterante suonava monotono e cadenzato. Ennio e l’età delle conquiste. Gli Annales fissano nel testo epico non solo i racconti di gesta ma anche valori, esempi di comportamento, modelli culturali. La visione del mondo che Ennio comunica nel suo poema è il trionfo dell’ideologia aristocratica. Gli Annales celebravano la storia di Roma come somma di imprese eroiche, dettate dalla virtus degli individui (virtù guerriere ma anche pace, saggezza, moderazione, saper pensare e parlare). È la poesia che deve portare incivilimento. Catone Vita. • 234 a.C. Nasce a Tusculum da una famiglia plebea di agricoltori benestanti; combatté nella guerra contro Annibale e fu tribuno militare in Sicilia. • L’homo novus praticò tutte le cariche del cursus honorum fino al consolato. • 191 a.C. Importante missione diplomatica in Grecia. • Fu accusatore in una serie di processi politici contro esponenti degli Scipioni. • 184 a.C. Esercita la carica di censore, presentandosi come campione delle antiche virtù romane contro la degenerazione dei costumi e il dilagare di tendenze individualistiche parzialmente influenzate dalla cultura ellenistica. Accanto e parallelamente alla polemica contro il lusso dei privati, Catone esaltava la ricchezza e la potenza dello Stato (promozione di un vasto programma di edilizia pubblica). La censura di Catone rimase celebre la sua intransigenza (rigore moralistico). Il suo atteggiamento gli procurò molte inimicizie. • 155 a.C. Ottiene l’espulsione di tre filosofi di Atene giunti a Roma come ambasciatori. • 153 a.C. Nel corso di una visita a Cartagine si convince che la sopravvivenza di Roma era legata alla distruzione della sua antica rivale. Si fa quindi promotore della terza guerra punica. • 149 a.C. Muore senza vedere la distruzione di Cartagine. Opere. • Orazioni. 150 orazioni, abbiamo pochi frammenti. • Origines. Opera storica in sette libri composta in vecchiaia. • De Agri Cultura. Conservato interamente, 170 brevi capitoli. • Praecepta ad filium Marcum. Serie di operette indirizzate al figlio (retorica, medicina, arte militare). • Carmen de moribus. Prosa ritmica. • Apophthegmata. Raccolta di detti memorabili o aneddoti. Gli inizi della storiografia senatoria. Catone ostenta disprezzo per l’annalistica romana in lingua greca: inizio della storiografia in latino. È un modo dignitoso per occupare il proprio otium (vigoroso impegno politico): largo spazio per le preoccupazioni relative alla dilagante corruzione dei costumi; rievocazione delle battaglie personalmente condotte in nome della saldezza dello Stato. Catone accoglie nelle Origines le proprie polemiche politiche, e vi riportava proprie orazioni (forse è anche autocelebrazione?). Egli tendeva a privilegiare la storia contemporanea, alla quale era dedicata quasi la metà (3 libri su 7) di un’opera che si rifaceva molto addietro, dalle stesse origini di Roma. Nel tentativo di soffocare sul nascere il culto “carismatico” delle grandi personalità, Catone elaborò una concezione della storia di Roma che insisteva soprattutto sulla lenta formazione dello Stato e delle sue istituzioni attraverso i secoli e le generazioni. La creazione dello stato romano era vista come l’opera collettiva del populus Romanus stretto intorno alla classe dirigente senatoria. Non ci sono dunque nomi di condottieri: Catone intende oscurare il prestigio delle gentes con quello della res publica. Per certi versi le Origines mostravano una notevolissima apertura di orizzonti: interesse etnografico e storico per le popolazioni italiche e per i popoli stranieri. De Agri Cultura. L’opera consiste in una serie di precetti esposti in forma asciutta e schematica, di grande efficacia, con tono precettistico e sentenzioso. Nel proemio indica nell’agricoltura un’attività acquisitiva, che vari motivi di opportunità sociale consigliano di preferire ad altre. L’agricoltura è sicura e onesta; è con l’agricoltura che si formano i buoni cittadini e i buoni soldati. • Costituisce una precettistica generale del comportamento del proprietario terriero, nelle vesti del pater familias. • Lo stile è scarno e conciso, ma colorito da espressioni di saggezza popolare e campagnola. • Patina arcaizzante (allitterazioni, omeoteleuti, ripetizioni). • Brutalità dello sfruttamento degli schiavi. • Il rigore catoniano non è la saggezza pratica di un contadino ingenuo e incorrotto, ma rappresenta il risvolto ideologico di un’esigenza genuinamente pragmatica: trarre dall’agricoltura vantaggi economici e accrescere la produttività del lavoro schiavistico ad essa applicato. • Tratti salienti dell’etica catoniana, costitutivi del mos maiorum: • Virtù come parsimonia, duritia, industria. • Disprezzo per le ricchezze. • Resistenza alla seduzione dei piaceri. La battaglia politico-culturale di Catone. Lo stile oratorio di Catone era vivace e ricco di movimento (rem tene, verba sequentur). Ostentato rifiuto della tecnica retorica di matrice greca, che va interpretato alla luce della costante polemica catoniana contro la penetrazione a Roma del costume e della cultura greca. Di lettere greche non era ignaro: la tecnica retorica di matrice greca era sapientemente dissimulata in modo da dare all’uditorio l’impressione dell’immediatezza vivace. Personalmente impregnato di cultura greca, Catone non combatteva tanto quella cultura in sé, ma certi suoi aspetti “illuministici”, di critica dei valori e dei rapporti sociali tradizionali, motivo di un’azione corrosiva sulle basi etico politiche dello Stato romano. C’era il pericolo che l’imitazione di certi costumi ellenizzanti potesse mettere in pericolo l’unità e la coesione interna dell’aristocrazia, portando all’affermazione sopra gli altri di personalità di prestigio eccezionale (contrasto al sorgere di eccessive disuguaglianze economiche all’interno della classe dirigente. C atone probabilmente si propose il compito di elaborare una cultura che, mantenendo radici ben salde nella tradizione romana, sapesse accogliere gli apporti greci, senza tuttavia farne aperta propaganda. Terenzio Vita. • Originario di Cartagine, nato nel 185, sarebbe giunto a Roma come schiavo di un senatore, a pochi anni di distanza dalla seconda guerra punica. • Tutte le fonti antiche sottolineano i suoi stretti rapporti con Scipione Emiliano e Lelio (suoi protettori). • Terenzio sarebbe morto nel 159, nel corso di un viaggio in Grecia intrapreso con scopi culturali. Opere. Sei commedie, integralmente tramandate a noi: • Andria. Modello: Menandro. Storia di una fanciulla abbandonata e allevata da una cortigiana. Innamoramento di un giovane, già fidanzato. Agnizione finale. • Hecyra. Modello: Apollodoro di Caristo e Menandro. La trama ruota attorno al personaggio della suocera, che si adopera per appianare le gravi incomprensioni tra i due sposi (no modello stereotipato). • Heautontimorumenos. Modello: Menandro. Vecchio che si autopunisce per aver spinto il figlio ad arruolarsi in Asia, ostacolando le nozze. • Eunuchus. Modello: Menandro. Travestimento da eunuco, intrighi amorosi. • Phormio. Modello: Apollodoro di Caristo. Parassita Formione, matrimonio. Riconoscimento finale. La produzione epica nel periodo che va dall’età degli Scipioni a quella di Cesare ci appare totalmente dominata dall’esemplarità di Ennio. Il genere continuerà ad essere praticato senza soluzione di continuità: seguendo il filo delle attestazioni indirette, sarebbe possibile ricostruire una continuità di poemi epici a tema storico che va da Ennio fino a Lucano. Gli esponenti delle nuove scuole poetiche considerano questo genere come una sopravvivenza statica, vacua e polverosa. Non bisogna tuttavia pensare che l’epica storica continui a riproporre la vecchia formula enniana senza rinnovarsi mai (es. Varrone Atacino, imbevuto di alessandrinismo). Il genere continuò a vivere perché sostenuto da precise esigenze: la poesia epica storica continua ad essere il miglior legame tra letteratura e propaganda, tra letteratura e potere. Lucilio Vita. La data di morte (102 a.C.) è sicura. Quella di nascita probabilmente è il 168/167 a.C. Lucilio era di una distinta e florida famiglia originaria di Suessa Aurunca, nella Campania settentrionale. La sua biografia giovanile è legata al circolo scipionico. È il primo letterato di “buona famigli” che conduce una vita da scrittore, volontariamente appartata dalle cariche pubbliche e dalla vita politica. Opere. Trenta libri di Satire (titolo incerto), di cui abbiamo 1300 versi in frammenti. Comprendevano componimenti in esametri, in distici, in metri giambici e trocaici. L’uso dell’esametro (segno di provocazione ironica, in quanto al “verso eroico” venivano adattate una materia quotidiana e una dizione colloquiale), diventerà in Orazio l’unico verso prescritto per la satira. La satira. L’indipendenza di giudizio, la verve polemica, l’interesse curioso per la vita contemporanea, qualità che la tradizione li riconosce, si adattano bene all’immagine di un cavaliere colto e benestante, che non vive del proprio lavoro letterario. Le origini della satira sono controverse, così come quelle del nome. Per quanti apporti culturali greci la satira abbia accolto (la stessa struttura aperta del genere incoraggiava innesti e mescolanze), l’impulso letterario (inteso come ricerca di un genere letterario disponibile a esprimere una voce personale del poeta) è specificatamente romano. La grande importanza storica di Lucilio sta nell’essersi concentrato esclusivamente sul genere della satira (nuovo pubblico, culturalmente avvertito). Ha preso in mano questa forma di poesia varia e personale, perfezionandone la sua espressività. Nei 30 libri Lucilio affronta uno spettro ampio di argomenti (parodia e implicazioni critico-letterarie). Non possiamo dire quanto fossero legate ad un programma unitario; l’impegno politico di Lucilio può essere stato discontinuo e oscillante, ma è chiara l’esistenza di un programma letterario decisamente unitario e innovativo, sostenuto da una personalità di vivace anticonformismo. La sua poesia rifiuta un unico livello di stile, si apre in tutte le direzioni: amalgama il linguaggio elevato dell’epica, rivissuto come parodia, e i linguaggi specializzati che finora restavano esclusi dalla poesia latina (medicina, gastronomia, diritto, politica, retorica, sesso). In questa prospettiva Lucilio è quanto più vicino al realismo moderno offre la letteratura latina. La critica del poeta batte con vivo umorismo sui più diversi aspetti della vita quotidiana. Non manca un impegno educativo, intimamente legato alla critica sociale e all’anticonformismo. La disarmonia dello stile di Lucilio è certamente una scelta mediata, rivolta ad un preciso programma espressivo, che fonde insieme vita e arte. Parte 2. La Tarda Repubblica La poesia neoterica Poetae Novi (neoteroi). Sprezzante definizione usata da Catone per indicare le tendenze innovatrici, il moderno gusto poetico di una corrente del I secolo a.C. (svolta decisiva). Cantores Euphorionis. Secondo appellativo. Dal poeta Euforione di Calcide, celebre per la ricercata densità e la preziosa erudizione dei suoi versi (emblema della famigerata poetica alessandrina). Poesia “nugatoria”. Il processo di rinnovamento del gusto letterario promosso dai poetae novi non è che un aspetto del generale fenomeno di ellenizzazione dei costumi. Una manifestazione vistosa dell’attenzione rivolta alla cultura greca per soddisfare le esigenze di un gusto più raffinato è nella comparsa di un nuovo tipo di poesia, di tono leggero e dimensioni brevi, destinata al consumo privato e dedicata all’espressione dei sentimenti personali. Il carattere ludico di tali componimenti era implicito nello stesso termine greco che li designava (paignia = nugae) (natura disimpegnata, di semplice intrattenimento, mancanza di pretese). • È una poesia frutto dell’otium, dello spazio sottratto agli impegni civili e dedicato alla lettura e alla conversazione dotta. • La rivendicazione delle esigenze individuali accanto agli obblighi sociali si manifesta anche nell’interesse per i sentimenti privati, come l’amore. • La ricerca di elaborazione formale rivela un gusto educato dal contatto con la cultura e la poesia alessandrina. Poesia neoterica. Maggiore consapevolezza. • Tipo di poesia che colloca al centro dell’esistenza l’otium e i suoi piaceri. • Culmine di una tendenza sensibile nella cultura latina: crescente disinteresse per la vita attiva e contemporaneo affermarsi del gusto dell’otium. La rivoluzione del gusto letterario è accompagnata da una più generale rivolta di carattere etico che la sostanzia e mostra la crisi dei valori del mos maiorum. • Il rifiuto della vita impegnata si riflette nel diffondersi dell’epicureismo. Con una differenza: per gli epicurei l’eros è una malattia insidiosa; per i neoteroi è il sentimento centrale della vita e forma un nuovo stile di vita, ispirato al culto delle passioni e dalla dedizione alla poesia che di esse si alimenta. • Alla pratica poetica vera e propria si accompagna un’attività critico-filologica (supporto e verifica). • Il travaglio della forma, la cura scrupolosa della composizione, il paziente lavoro di lima sono il tratto distintivo primario della nuova poetica callimachea. • Polemica con l’epica tradizionale: nuovi generi, più adatti al callimachismo (epigramma, epillio). Danno modo al poeta di far sfoggio della propria erudizione e di attuare raffinate strategie compositive. • Sperimentalismo linguistico. I poeti preneoterici. • Quinto Lutazio Catulo. Autore di opere storiche, autobiografiche, oratore ma soprattutto poeta. Introduce nella poesia latina epigrammi di stampo greco. Attorno a lui si raccolse un gruppo di letterati accomunati da questo nuovo orientamento letterario (non un circolo vero e proprio). • Valerio Edituo, Porcio Licino, Volcacio Sedigito. • Levio. Erotopaegnia. Miti della tradizione epica e tragica, con carattere lusivo e ricercatezza leziosa. • Mazio e Sueio. Mimiambi e idilli. I poeti neoterici. • Valerio Catone. Rinnovamento critica alessandrina. Severo maestro del gusto. • M. Furio Bibaculo. Aspri epigrammi contro augusto. • P. Terenzio Varrone Atacino. Continuò la poesia di stampo enniano, ma aderì al nuovo gusto poetico. Libera traduzione delle Argonautiche di Apollonio Rodio. Tipo di epica a stampo erotico e psicologico. • Cinna. Zmyrna. • Licinio Calvo. Oratore e poeta (epigrammi di invettiva politica. Catullo Vita. • 84/85 a.C. Nasce a Verona (Gallia Cisapina), da famiglia agiata. • Giunge a Roma, dove conosce e frequenta personaggi di spicco dell’ambiente politico e letterario ed ha una relazione d’amore con Clodia (Lesbia). • 57 a.C. Si reca in Bitinia come membro dell’entourage del governatore Gaio Memmio. In occasione di questo viaggio visita la tomba del fratello, morto e sepolto nella Troade. • 55 a.C. Muore, a soli trent’anni. • Le notizie biografiche derivano soprattutto dai suoi carmi. Opere. 116 carmi (2300 versi) raccolti in un liber, che si suole suddividere in tre sezioni: • Nugae. Componimenti brevi e di carattere leggero (metro vario). (1-60). • Carmina docta. Numero di carmi limitato ma di maggiore estensione e impegno stilistico (metri vari). (61-68). • Epigrammi. Distici elegiaci. (69-116). È controversa la questione relativa alla composizione del liber: qualcuno attribuisce al poeta stesso la responsabilità dell’ordinamento della raccolta; altri no (alcuni carmi sono stati esclusi). I carmi brevi. Al progetto neoterico di recupero della dimensione intima, dei sentimenti privati, risponde in modo evidente quella parte della produzione poetica di Catullo che si suole indicare come “carmi brevi”, cioè l’insieme dei polimetri e degli epigrammi, in cui l’esiguità dell’estensione rivela già in se stessa la modestia dei contenuti (occasioni e avvenimenti della vita quotidiana) e favorisce il paziente lavoro di cesello (e la ricerca della perfezione formale). Ne risulta un’impressione di immediatezza, di vita riflessa. • La celebrata spontaneità catulliana è la veste che questa poesia si costruisce, ma è un’apparenza ricercata e ottenuta grazie ad un ricco patrimonio di dottrina: anche i componimenti che sembrano più occasionali, riflesso immediato della realtà, hanno i loro precedenti letterari. • Il destinatario di ogni carme è per lo più il rappresentante di una cerchia raffinata e colta (di conseguenza si attende un prodotto letterario che abbia veste stilistica e fattura formale di livello adeguato). • Entrano nel complesso impasto stilistico precise risonanze letterarie dissimulate più o meno sapientemente in una parvenza di slancio passionale o di immediatezza giocosa. • Solide strutture formali costituiscono l’ordito su cui si inscrive il gioco apparentemente tutto libero del poeta. • Lo sfondo della poesia di Catullo è costituito dall’ambiente letterario e mondano della capitale. Lepos, venustas, urbanitas sono i principi che fondano questo codice etico e insieme estetico, che governa comportamenti e rapporti reciproci ma ispira anche il gusto letterario e artistico. • Campeggia e risalta la figura di Lesbia, protagonista indiscussa della poesia catulliana (rievoca Saffo, alone idealizzante) • Gioie, sofferenze, tradimenti, abbandoni, rimpianti, speranze, disinganni scandiscono le vicende di questo amore che è vissuto da Catullo come l’esperienza capitale della propria vita. • L’eros è centro dell’esistenza, valore primario. All’amore e alla vita sentimentale Catullo trasferisce tutto il suo impegno, sottraendosi ai doveri e agli interessi propri del civis roman. • Il rapporto con Lesbia, nato essenzialmente come adulterio, come amore libero e basato sull’eros, nel farsi oggetto esclusivo dell’impegno morale del poeta tende a configurarsi, paradossalmente, nelle aspirazioni di Catullo come un tenace vincolo matrimoniale. Le recriminazioni per il foedus d’amore violato da Lesbia sono un motivo insistente sulla bocca del poeta, che accentua il carattere sacrale del concetto appellandosi alla fides e alla pietas. Cerca di fare di quella relazione irregolare un aeternum sanctae foedus amicitiae, nobilitandola con la tenerezza degli affetti familiari, ma l’offesa ripetuta del tradimento produce in lui una dolorosa dissociazione tra amare (componente sensuale) e bene velle (componente affettiva). La speranza di un amore fedelmente ricambiato si accompagna alla consapevolezza di non aver mai mancato al foedus d’amore con Lesbia. I carmina docta. Lepidus, novus, expolitus. Presentando il suo libello nel carme dedicatorio, Catullo oltre ai caratteri materiali ed esteriori ne definisce indirettamente anche quelli interni, i criteri di una nuova poetica ispirata a brillantezza di spirito e raffinatezza formale (ascendenza alessandrina e callimachea). Brevità, eleganza e dottrina sono i canoni a cui Catullo aderisce senza riserve. Dottrina e impegno stilistico sono particolarmente evidenti nella sezione dei carmi che, per tale motivo, sono noti come “dotti”, in cui Catullo sperimenta anche nuove forme compositive e si mettere in discussione i fondamenti culturali dello stato romano, che della religio aveva fatto un essenziale elemento di coesione. Epicuro è stato il primo uomo a liberare gli uomini da enormi sofferenze morali (appassionata celebrazione di Epicuro). Lucrezio recupera il suo senso intimo della religiosità, intesa come capacità di vivere serenamente e contemplare ogni cosa con mente sgombra dai pregiudizi. Il corso della storia. Lucrezio dedica un’ampia parte dell’opera alla storia del mondo, del quale era stata anzitutto chiarita la natura mortale e anche all’origine della vita sulla terra e alla storia dell’uomo (V libro). Gli uomini si sono generati dal terreno umido e dal calore. Conducevano una vita agreste, al di fuori di ogni vincolo sociale (la natura forniva il necessario). Fra le tappe del progresso umano che Lucrezio tratta, quelle positive (la scoperta del linguaggio, quella del fuoco, dei metalli, della tessitura e dell’agricoltura), sono alternate ad altre in senso negativo (come l’inizio ed il progresso dell’attività bellica o il sorgere del timore religioso). Caso e bisogno materiale sono i fattori di avanzamento della civiltà. È evidente il desiderio del poeta di contrapporsi alle visioni teleologiche del progresso umano: la natura segue le sue leggi, nessun dio la piega ai bisogni dell’uomo. Il progresso materiale, fin quando è stato ispirato al soddisfacimento dei bisogni primari, è valutato positivamente, mentre le riserve di Lucrezio si concentrano sull’aspetto di decadenza morale che il progresso ha portato con sé: il sorgere dei bisogni innaturali, della guerra, delle ambizioni e cupidigie personali ha corrotto la vita dell’uomo. A questi problemi l’epicureismo è in grado di fornire una risposta invitando a riscoprire che “di poche cose ha davvero bisogno la natura del corpo”. Epicuro aveva prescritto di evitare i desideri non naturali e non necessari, e di badare solo al soddisfacimento di quelli naturali e necessaria. Progetto sociale di Epicuro e Lucrezio: il saggio abbandoni le inutili ricchezze, si allontani dalle tensioni della vita politica, si dedichi a coltivare lo studio della natura. L’interpretazione dell’opera. Confusione tra la figura storica dell’autore e l’immagine del narratore: le due figure non devono essere sovrapposte meccanicamente. La tensione dell’autore è sempre rivolta a conseguire il convincimento razionale del suo lettore, a trasmettergli i precetti di una dottrina di liberazione morale nella quale egli stesso profondamente crede. È indubbio che nel poema hanno una loro parte anche le descrizioni a tinte fosche, violentemente drammatiche: alla base di questi quadri fortemente espressivi del poema è radicata l’inclinazione a ricercare un registro stilistico elevato ed efficace, che accoglie e “brucia” nella grandezza di uno stile sublime elementi propri della diatriba e della satira. Problema del pessimismo in Lucrezio. Lucrezio ripete molto spesso che la ratio da lui esposta è foriera di serenità e libertà interiori. Lucrezio offre al suo lettore la possibilità di guardare tutt’intorno con occhio indifeso e invita all’accettazione consapevole di ogni cosa in quanto esistente. Ma questo stesso razionalismo, a tratti, mostra i suoi limiti. L’autore insiste sul fatto che la morte non sia nulla per l’uomo: tutto questo però non basta ad eliminare l’angoscia dell’uomo di fronte all’idea che la sua vita deve avere un termine, ed è proprio a questo punto che Lucrezio si irrigidisce: il supporre che il non essere mai nati non sarebbe stato un male per l’uomo, l’invito al carpe diem, contrastano vivamente con la precisa, approfondita descrizione dell’uomo in preda all’angoscia irrazionale che Lucrezio stesso ci offre verso la fine del libro. Alcuni critici non hanno esitato a proporre l’immagine di un Lucrezio intimamente dissidente nei confronti di un sistema filosofico dall’aspetto troppo sereno: in realtà, è indice di una dimensione di insoddisfazione amara della sua personalità poetica, della sua energia di profeta ardente fino all’entusiasmo, un segno oggettivo di una interiorità tormentata. Lingua e stile di Lucrezio. Lo stile doveva piegarsi al fine di persuadere il lettore. Si spiegano in questa luce: • Frequenti ripetizioni (di termini tecnici della fisica epicurea, nessi logici di grande uso). • Termini fissi per consentire al lettore di familiarizzarsi con un linguaggio non facile. • Alla lingua latina mancava la possibilità di poter esprimere certi concetti filosofici e Lucrezio si trovò costretto a ricorrere a perifrasi nuove, coniazioni, calchi diretti dal greco. • La povertà della lingua non si estendeva però al di fuori del lessico strettamente tecnico: Lucrezio sfrutta una gran mole di vocaboli poetici che la tradizione arcaica gli fornisce • Intensissimo uso di assonanze, allitterazioni, costrutti arcaici, effetti di suono propri del gusto espressivo- patetico dei più antichi poeti di Roma. Arcaismi: infiniti passivi in -ier; prevalere della desinenza bisillabica - ai al genitivo singolare della prima declinazione. Lucrezio dimostra di possedere una vasta conoscenza della letteratura greca (Omero, Platone, Eschilo, Euripide, Tucidide, Callimaco, Antipatro). Il tratto distintivo dello stile lucreziano va individuato nella concretezza dell’espressione. Evidenza e vivacità descrittiva, visibilità e percettibilità degli oggetti intorno a cui si ragiona, “corporalità” dell’immaginario: effetti obbligati che derivano dalla mancanza di un linguaggio astratto già pronto. Paradossalmente l’espressione trae da ciò un guadagno formale: si fa vivida in quanto deve supplire i vuoti verbali ricorrendo a una gamma vastissima di immagini ed esempi esplicativi. Le immagini non restano solo mezzi destinati ad illustrare in modo comprensibile l’argomentazione astratta: diventano un risvolto emozionale di un discorso intellettuale che sceglie di farsi soprattutto descrizione di grande efficacia poetica. Al contrapporsi di cose umili e grandi, di statico e dinamico, corrisponde nell’espressione il contrasto efficace tra le movenze di una lingua viva e colloquiale e la scelta di uno stile grande e sublime. Anche se i livelli di questo stile sono molti e diversi, il registro che gli unifica è uno solo e continuo: è il registro dell’enthusiasmos poetico posto al servizio di una missione didattica vissuta con ardore eccezionale. Il risultato è uno stile severo, capace di durezze e di eleganze, pronto alla commozione e alla meraviglia ma anche all’invettiva profetica. Cicerone Vita. • 106 a.C. Nasce ad Arpino, da agiata famiglia equestre. Compie studi di retorica e filosofia a Roma. Inizia a frequentare il foro. Stringe con Attico un’amicizia destinata a durare tutta la vita. • 89 a.C. Presta servizio militare nella guerra sociale agli ordini di Pompeo Strabone. • 81 a.C. Debutta come avvocato e difende la causa di Sesto Roscio (conflitto con il regime sillano). • 79-77 a.C. Compie un lungo viaggio in Grecia e in Asia: studia filosofia e retorica e perfeziona la sua eloquenza (Molone di Rodi). Al ritorno sposa Terenzia. • 75 a.C. Questore in Sicilia. • 70 a.C. Sostiene trionfalmente l’accusa dei siciliani contro Verre e si conquista fama di oratore. • 69 a.C. Edile. • 66 a.C. Pretore. • 63 a.C. Console. Reprime la congiura di Catilina. Dopo la formazione del primo triumvirato i suo astro inizia a declinare. • 58 a.C. Esilio con l’accusa di aver messo a morte senza processo i complici di Catilina. Richiamato a Roma, vi ritorna trionfalmente l’anno successivo. • 56-51 a.C. Tenta una difficile collaborazione con i triumviri e continua a svolgere attività forense. • 51 a.C. Governatore in Cilicia, ma accetta di malavoglia di allontanarsi da Roma. • 49 a.C. Allo scoppio della guerra civile aderisce con lentezza alla causa di Pompeo. Dopo la sua sconfitta ottiene il perdono di Cesare. • 45 a.C. Muore la figlia Tullia. Inizia la composizione di una lunga serie di opere filosofiche, mentre il dominio di Cesare lo tiene lontano dagli affari pubblici. • 44 a.C. Dopo l’uccisione di Cesare torna alla vita politica e inizia la lotta contro Antonio. Dopo il voltafaccia di Ottaviano (che si stringe in triumvirato con Antonio e Lepido), il nome di Cicerone viene inserito nelle liste di proscrizione. • 43 a.C. Viene ucciso dai sicari di Antonio. Opere. • Orazioni: Pro Roscio Amerino (80); Verrinae (70); Pro lege Manilia (66); De lege agraria (63); Pro Murena (63); Catilinariae (63); Pro Archia poeta (62); Pro Sestio (56); Pro Caelio (56); Pro Milone (52); Pro Ligario (46); Philippicae (44-43). • Opere retoriche: De inventione (84); De oratore (55); Brutus (46); Orator (46); Topica (44). • Opere politiche: De re publica (54-51); De legibus (52). • Opere filosofiche: Academica (45); De finibus bonorum et malorum (45); Tusculanae disputationes (45); De natura deorum (45); De divinatione (44); De fato (44); Cato maior de senectute (44); Laelius de amicitia (44); De officiis (44). • Epistolario: Ad familiares (16 libri); Ad Atticum (16 libri); Ad Quintum fratrem (27 lettere); Ad Marcum Brutum (2 libri di autenticità controversa). • Opere poetiche (solo frammenti): Juvenilia; Aratea (traduzione in esametri dei Fainomena di Arato di Soli); De consulatu suo; De temporibus suis; Marius; Limon. • Opere in prosa perdute: Consolatio; Hortensius; De gloria; De virtutibus; De auguriis; De consiliis suis. • Traduzioni: Timeo e Protagora di Platone; Economico di Senofonte. Tradizione e innovazione nella cultura romana. Cicerone è il personaggio del mondo antico che conosciamo meglio: attraverso le sue opere varie, ma anche attraverso il ricco epistolario che spesso permette di riannodare le fila tra le esperienze personali e la loro rielaborazione in opere destinate ad un pubblico più vasto. È un personaggio particolarmente interessante per la posizione che occupa nella cultura romana e per il valore straordinario della sua esperienza intellettuale: protagonista e testimone della crisi che porta al tramonto della repubblica, elabora un progetto etico-politico nel vano tentativo di porvi rimedio. Al proprio progetto politico-sociale Cicerone ha cercato di dare concretezza di applicazioni pratiche anche con adattamenti, talora opportunistici, alla situazione contingente, ma procedendo negli anni e nelle delusioni, ha progressivamente sentito sempre più forte la necessità di riflettere sui fondamenti della politica e della morale. Il fine delle sue opere filosofiche è lo stesso che ispira alcune delle orazioni più significative: dare una solida base ideale, etica, politica a una classe dominante il cui bisogno di ordine non si traduca in ottuse chiusure, cui il rispetto per la tradizione nazionale non impedisca l’assorbimento della cultura greca. Gran parte dell’opera di Cicerone può essere letta come la ricerca di un difficile equilibrio tra istanze di “ammodernamento” e necessità di conservazione dei valori tradizionali. Dietro la vicenda intellettuale di Cicerone si profila una società attraversata da spinte contrastanti e laceranti: improponibile la rigidità morale delle origini, ma il distacco dalle virtù e dai valori che avevano fatto la grandezza di Roma mette in forse la sopravvivenza dello Stato repubblicano. L’egemonia della parola: carriera politica e pratica oratoria L’attività oratoria di Cicerone si intreccia indissolubilmente con le vicende politiche di Roma nell’ultimo cinquantennio della repubblica. I primi successi e il processo di Verre. • Pro Roscio Amerino (80). Accusato di parricidio dagli assassini del padre, nelle liste di proscrizione sillane (per poterne acquistare le cospicue proprietà terriere). Nella difesa doveva cercare di coinvolgere il meno possibile Silla (lodi di maniera). Cicerone si fa portavoce di quella parte della nobiltà che, pur apprezzando l’operato di Silla della parte “democratica e popolare”, si doleva di aver pagato con ciò la delega del potere nelle mani di un solo uomo. Lo stile oratorio non è ancora maturo (asianesimo allora alla moda: cadenze vivaci e sonore, neologismi e lussureggianti metafore), ma lo è la capacità ritrattistica (felice vena satirica). Successo. • Verrinae (70). Verre aveva sfruttato la provincia di Sicilia con incredibile rapacità. Cicerone raccolse le prove in tempo brevissimo e al dibattimento non fece in tempo ad esibire l’imponente massa di prove e di testimonianze: dopo pochi giorni Verre, schiacciato dalle accuse, fugge e viene condannato in contumacia. L’Actio secunda, non pronunciata, viene pubblicata successivamente (documento storico di primaria importanza per conoscere l’amministrazione romana delle provincie). Vittoria su Quinto Ortensio Ortalo (difensore di Verre, asianesimo esasperato): vittoria in campo letterario (piena maturità espressiva). Eloquenza secca e scarna (atticismo), ma periodare armonioso, architettonicamente complesso, sintassi duttile, fraseggio conciso e martellante. La gamma di registri è dominata con piena sicurezza. Il progetto di concordia dei ceti abbienti. • Pro lege Manilia (66). Progetto di legge del tribuno Manilio (concessione a Pompeo di poteri straordinari su tutto l’Oriente: provvedimento necessario per l’urgenza di affrontare in modo efficace la minaccia Mitridate). Punto di massimo avvicinamento alla politica dei populares, indirizzata a gratificare e a corrompere le masse cittadine con elargizioni e a prevaricare sull’autorità del senato. Più che gli interessi del popolo (con il motivo dei tributi dall’Oriente), Cicerone difendeva quelli dei pubblicani (appalto imposte), gruppo leader dell’ordine • Flectere (muovere le emozioni attraverso il pathos). Ai tre fini corrispondono i tre registri stilistici che l’oratore dovrà saper alternare (umile, medio, elevato o patetico). Storia dell’eloquenza e polemiche di stile. Polemica nei confronti della corrente atticistica, i cui sostenitori rimproveravano a Cicerone di non avere preso sufficientemente le distanze dall’asianesimo. • Brutus (46). Dedicato a Marco Bruto (uno dei principali rappresentanti delle tendenze atticistiche). Disegna una storia dell’eloquenza greca e romana, dimostrando doti di storico della cultura e di fine critico letterario. Il carattere fondamentalmente autoapologetico del Brutus spiega come la storia dell’eloquenza culmini in una rievocazione delle tappe della carriera oratoria dello stesso Cicerone. L’ottica in cui Cicerone guarda al passato dell’oratoria è quella di una rottura degli schemi tradizionali che contrapponevano i generi di stile cui asiani e atticisti erano tenacemente attaccati. Le varie esigenze, le diverse situazioni richiedono il ricorso all’alternanza di registri diversi e il successo dell’oratore di fronte all’uditorio è il criterio fondamentale in base al quale valutare la sua riuscita stilistica. La grande oratoria senza schemi ha il suo modello principale in Demostene (anch’egli attico, ma di tendenze ben diverse da quelle di Lisia e Iperide). • Topica. Ultima delle sue opere di retorica. Ispirato dall’opera omonima di Aristotele: topoi ai quali può far ricorso l’oratore alla ricerca degli argomenti da sviluppare nel discorso. Non sono utilizzabili solo nell’oratoria, ma anche per il filosofo, lo storico, il giurista, il poeta. Un progetto di stato • De Republica. Modello: dialogo platonico. Ci lavora dal 54 al 51. Cicerone si proiettò nel passato per identificare la migliore forma di stato nella costituzione romana del tempo degli Scipioni. Il dialogo si svolge nel 129 (nella villa suburbana di Scipione Emiliano); Lelio è uno dei principali interlocutori. Il dialogo ci è pervenuto in condizioni frammentarie, pertanto la ricostruzione della trama è ardua. • Nel primo libro Scipione parte dalla dottrina aristotelica delle tre forme di governo (e degenerazione: cfr. Polibio). Scipione mostra come lo stato romano dei maiores si salvasse da quella necessaria degenerazione per il fatto di aver saputo contemperare le tre forme fondamentali (non in proporzioni paritetiche: all’elemento democratico Scipione guarda con antipatia e l’elogio del regime misto si risolve in un’esaltazione della repubblica aristocratica dell’età scipionica). Il princeps dovrà armare il proprio animo contro tutte le passioni “egoistiche”, principalmente contro il desiderio di potere e di ricchezza: è questo il senso del disprezzo verso tutte le cose umane che il Somnium Scipionis addita ai reggitori dello Stato. L’ideale è tuttavia di difficile realizzabilità. • Il II libro si occupa dello svolgimento della costituzione romana. • Il III libro trattava della iustitia. • Il IV libro si occupava dell’educazione dei cittadini e dei principi che devono regolare i loro rapporti. • Nel V libro Cicerone introduceva la figura del rector et gubernator rei publicae (princeps). Cicerone sembra pensare a una élite di personaggi eminenti che si ponga alla guida del senato e dei boni, e si raffigura il ruolo del princeps sul modello di quello che nella repubblica romana aveva ricoperto proprio Scipione Emiliano (all’interno dei limiti della forma statale repubblicana). • Nel VI libro il dialogo si conclude con la rievocazione da parte di Scipione Emiliano, del sogno in cui tempo addietro gli era apparso l’avo, Scipione Africano, per mostrargli la piccolezza e l’insignificanza di tutte le cose umane e rivelargli tuttavia la beatitudine che attende nell’aldilà le anime dei grandi uomini di stato. • De legibus. Modello del dialogo platonico. Sono conservati i primi tre libri e frammenti del IV e del V. L’azione è nel presente, interlocutori sono Cicerone, suo fratello Quinto e Attico. I personaggi sono caratterizzati con naturalezza e realismo: Quinto è raffigurato come un ottimate estremista, Cicerone come un conservatore moderato, Attico come un epicureo che quasi si vergogna delle proprie opzioni filosofiche. • Nel primo libro espone la tesi stoica secondo la quale la legge non è sorta per convenzione, ma si basa sulla ragione innata in tutti gli uomini ed è perciò data da dio. • Nel secondo libro espone le leggi che dovrebbero essere in vigore nel migliore degli stati (ma non legislazione utopistica, bensì tradizione legislativa romana, che ha i suoi punti di riferimento nel diritto pontificio e sacrale). • Nel terzo libro parla dei magistrati e delle loro competenze. Una morale per la società romana Nel 45 i lavori filosofici si infittiscono, in coincidenza con eventi dolorosissimi della vita di Cicerone (morte della figlia, esclusione dalla vita politica, solitudine). • Hortensius. Perduto, esortazione alla filosofia. • Academica. Problemi gnoseologici. Scetticismo pragmatistico che si preoccupa principalmente di garantire la possibilità di una conoscenza probabile. Ribadisce la necessità di guardarsi da errori opposti, di evitare sia il dogmatismo radicale, sia il radicale scetticismo. Più saggio è il metodo che si sforza di definire le condizioni reali dell’esperienza umana e di avvicinarsi al vero attraverso le apparenze e la probabilità. • De finibus bonorum et malorum. Tratta questioni etiche, in cinque libri (3 dialoghi). Nel primo è esposta la teoria degli epicurei, confutata; nel secondo c’è un confronto tra la teoria stoica e quella accademica e peripatetica; nel terzo la teoria eclettica di Antioco di Ascalona (più vicino a Cicerone). Cicerone riconosce che lo stoicismo forniva la base morale più solida all’impegno dei cittadini verso la collettività, ma si sentiva lontano da Catone per cultura e gusti: il suo rigore etico è anacronistico, scarsamente praticabile in una società che era andata incontro a radicali trasformazioni. • Tusculanae disputationes. Dedicate a Bruto e ambientate nella villa di Cicerone a Tuscolo. 5 libri, punto di massimo avvicinamento di Cicerone alle tesi dello stoicismo più rigoroso. È condotta in forma di dialogo tra Cicerone e un anonimo interlocutore, sui temi di morte, dolore, tristezza, turbamenti dell’animo, virtù come garanzia della felicità (summa dell’etica antica). Cicerone cerca una risposta anche ai suoi personali interrogativi (di qui la profonda partecipazione emotiva, stile solenne e intensità lirica). Definisce il metodo che segue nel trattare problemi di maggiore importanza: astenendosi egli stesso dal formulare un’opinione precisa, si sforza di esporre le diverse opinioni possibili, e di metterle a confronto per vedere se alcune siano più coerenti e probabili di altre. • De natura deorum. 3 libri. Confutazione della tesi epicurea dell’indifferenza degli dei rispetto alle cose umane. • De divinatione. 2 libri. Esitazione tra la denuncia della falsità della religione tradizionale e la necessità del suo mantenimento al fine di conservare il dominio sui ceti sociali inferiori, facilmente strumentalizzabili per la loro credulità. • De fato. Incompleto. • Cato Maior de senectute. Nel personaggio di Catone il Censore, Cicerone trasfigura l’amarezza per una vecchiaia la quale, oltre al decadimento fisico e all’imminenza della morte, sembra soprattutto temere la perdita della possibilità di intervento politico. Cicerone ha modo di rifugiarsi in un passato ideale, di eludere la propria inattività. Il personaggio appare addolcito e ammansito. Nella sua vecchiaia si armonizzano in maniera perfetta il gusto per l’otium e la tenacia dell’impegno politico. • Laelius de amicitia. Più combattiva è l’atmosfera (accompagna il rientro di Cicerone sulla sfera politica). Dopo la morte di Scipione (129), Lelio intrattiene i propri interlocutori sul valore dell’amicizia, rievocando l’amico scomparso. Amicitia era soprattutto creazione di legami personali a scopo di sostegno politico. Il dialogo muove sulla traccia delle scuole filosofiche greche, alla ricerca dei fondamenti etici della società nel rapporto che lega tra loro le volontà degli amici. Sforzo di allargare la base sociale delle amicizie al di là della cerchia ristretta della nobilitas: a fondamento dell’amicizia sono posti valori come virtus e probitas riconosciuti a vasti strati della popolazione. La fiducia in un rinnovato sistema di valori, in cui l’amicizia occupi un ruolo centrale, deve servire a cementare la coesione dei boni, ma l’amicizia propagandata non è solo politica: si avverte in tutta l’opera un disperato bisogno di rapporti sinceri. Rimane aperto lo iato tra una concezione elevata della morale e della virtù e l’imprescindibile realtà della prassi politica (ambiguità). • De officiis. Trattato di elaborazione rapidissima. Cicerone cerca nella filosofia i fondamenti di un progetto di vasto respiro, indirizzato alla formulazione di una morale della vita quotidiana che permetta all’aristocrazia romana di riacquistare il controllo sulla società. Base filosofica: stoicismo moderato di Panezio (minuziosa casistica necessaria a regolare i comportamenti quotidiani dei membri dei gruppi dirigenti). Funzione pedagogica. La cultura romana era tradizionalmente avversa al pensiero filosofico e speculativo, nel quale vedeva un’indebita evasione dai doveri verso lo stato e la collettività (assolvere questi doveri era impossibile senza aver assorbito e meditato la riflessione filosofica dei Greci). • La virtù fondamentale era costituita dalla socialità, in cui alla tradizionale virtù cardinale si affiancava la beneficienza (collaborare positivamente al benessere della comunità, mettere a disposizione dei concittadini la persona e gli averi del singolo, ma non fino alla largitio, la corruzione e la demagogia: non deve essere al servizio delle ambizioni personali). • La magnanimità è una virtù signorile che scaturisce da un naturale istinto a primeggiare sugli altri e risplende nella capacità di imporre il proprio dominio. A suo fondamento c’è un disprezzo quasi ascetico per tutti i beni terreni. Può divenire la passione specifica della tirannide e ritorcersi contro la res publica e l’egemonia senatoria. • Compito della ragione è di controllare gli istinti, di trasformarli in virtù, svuotandoli di quanto in essi c’è di egoistico e tendenzialmente prevaricatorio. L’istinto può mettersi al servizio della collettività e dello stato. La dialettica di ragione e istinti esprime anche la contraddizione tra la naturale aggressività che il populus Romanus deve dimostrare verso le nazioni soggette e la necessità di non lasciar prevalere tali tendenze aggressive al proprio interno. • Decorum. Temperanza, appropriata armonia dei pensieri, dei gesti, delle parole. L’autocontrollo che Cicerone caldeggia persegue un fine ben determinato: l’approvazione degli altri, che il decorum permette di conciliarsi con l’ordine, la coerenza, la giusta misura nelle parole e nelle azioni. • Cicerone non rifugge dall’addentrarsi in una minuta precettistica relativa ai comportamenti da tenere nella vita quotidiana e nell’abituale commercio con gli altri (“galateo”). • Il concetto di decorum permette di fondare anche la possibilità di una pluralità di atteggiamenti e di scelte di vita: legittimazione di scelte di vita anche diverse da quella tradizionale del perseguimento delle cariche pubbliche (ad es. quella di dedicarsi esclusivamente ad affari economici, ad una vocazione intellettuale o scientifica). Dei mutamenti intervenuti (molteplicità di figure sociali) la filosofia non può che prenderne atto: suo compito specifico resta quello di ritessere la trama dei valori, di trasformare e rendere più duttile l’antico modello, in modo da far sì che le nuove figure emergenti non ne restino escluse. Lo sforzo di Cicerone si muove nel senso di ripensare tutto il corpus di metodi, riflessioni, teorie, cresciuto entro le scuole filosofiche ellenistiche per ricomporlo in un blocco di senso comune. Egli intende offrire alla classe dirigente romana un punto di riferimento, nella prospettiva di ristabilirne l’egemonia sulla società. Si pone questioni che riguardano i fondamenti stessi della crisi sociale e tenta di escogitare soluzioni di lungo periodo. La sua originalità non sta nei contenuti, quanto nella scelta dei temi, del taglio degli argomenti, perché nuovi e originali sono i problemi che la società pone: si tratta di ricucire le membra lacerate del pensiero ellenistico per trarne una struttura ideologica efficacemente operativa nei confronti della società romana. L’eclettismo filosofico di Cicerone obbedisce alle esigenze di un metodo rigoroso, che si sforza di stabilire tra le diverse dottrine un dialogo dal quale sia bandito ogni spirito polemico (atteggiamento intellettuale di aperta tolleranza, spuntarsi della vis polemica, rinuncia a qualsiasi asprezza nel contraddittorio, tendenza a presentare le proprie tesi solo come opinioni personali, uso insistito di formule di cortesia, attenzione a non interrompere l’altrui ragionamento). C’è un caso in cui il contraddittorio e la confutazione, pur senza scadere nella zuffa, si fanno talora più violenti e indignati: l’eclettismo ciceroniano mostra una chiusura radicale verso l’epicureismo. I motivi dell’avversione ciceroniana verso l’epicureismo sono due: • Conduce al disinteresse per la politica. • Esclude la funzione provvidenziale della divinità e indebolisce i legami con la religione tradizionale. Cicerone prosatore: lingua e stile Problema: inadeguatezza della lingua romana a “rendere” la terminologia filosofica dei greci. Opzione di Cicerone: puristica (=evitare il grecismo). Di conseguenza: costante e accanita sperimentazione lessicale nella traduzione dei termini greci (molte parole nuove, basi del lessico astratto destinato a divenire patrimonio della tradizione culturale europea). L’attenta scelta delle parole era di importanza estrema per il raggiungimento della chiarezza espressiva. dei vizi dei contemporanei era l’altro risvolto dello sguardo commosso e nostalgico (tematiche della predicazione popolare dei filosofi ellenistici). Gli argomenti dovevano essere molto vari (dalla mitologia all’attualità romana, dalla polemica letteraria alla critica politica), e alla varietà di soggetti corrispondeva una varietà di registri e di tonalità di stile, nonché di metri. Strutturalmente è caratterizzata dal prosimetro (irregolare successione di prosa e verso all’interno della narrazione che è del tutto abnorme alla pratica consueta: effetto di forte straniamento). La sostanziale integrazione del verso nel contesto narrativo è una particolarità strutturale della menippea che permetteva di sperimentare un’ampia gamma di livelli e registri stilistici. Il virtuosismo varroniano si traduce in un’esauribile creatività verbale di stampo plautino. Ma autentico segnale di genere è il ricorso ad una folla di stilemi greci (ricco vocabolario di termini tecnici o aulici, amalgamato dall’intenzione costante della parodia). Nella ricerca comica della menippea sta inscritto anche un continuo effetto metaletterario: il testo satirico guarda ironico ai modelli della poesia “grande” e alle regole secondo cui sono costruiti. • Antiquitates. Trova illustrazione e ordine quasi tutto il patrimonio della civiltà latina. Rassegna sistematica della vita romana, nelle sue connessioni con il passato. • Antiquitates rerum humanarum. Quattro esadi con un libro introduttivo (25 libri) (uomini, luoghi, tempi, cose). Fissati con autorevolezza alcuni punti fermi delle origini di Roma. • Antiquitates rerum divinarum. Cinque triadi con un libro introduttivo (16 libri). Varrone distingue tre modi di concepire la divinità: ■ Teologia “favolosa” (racconti mitologici e rielaborazioni poetiche). ■ Teologia “naturale” (teorie filosofiche sul divino). Deve restare possesso esclusivo degli intellettuali della classe dirigente, perché potrebbe minare il concetto di “santità” delle istituzioni statali. ■ Teologia “civile” (concepisce la divinità nel rispetto di un’esigenza politica, utile allo Stato). Varrone riprende dalla teologia stoica questa sistemazione della religione, ma la piega ad interessi attuali (necessità politica di conservare il patrimonio culturale della religione romana). La struttura dell’opera mostra come per Varrone la religione, con i suoi culti e i suoi rituali, fosse una creazione degli uomini. • De origine linguae Latinae. • Imagines o Hebdomades. Ricerca biografica. Settecento ritratti figurativi di uomini famosi di ogni categoria, sia romani che greci, accompagnati ciascuno da un epigramma che caratterizzava il personaggio. Grazie alla sua opera, cessavano di essere il privilegio di una ristretta aristocrazia. • Quaestiones plautinae e De comoediis Plautinis. Commento linguistico-grammaticale dove affronta il problema delle numerosissime commedie che erano attribuite a Plauto. Compila un catalogo sistematico, dividendo in tre gruppi le commedie tramandate sotto il nome di Plauto: sicuramente spurie (90), incerte (19) e sicuramente plautine (21) (quelle a noi pervenute). • Orationes, Laudationes, De iure civili. • De philosophia. • Logistorici. 76 libri di dialoghi in prosa su argomenti filosofici e storici con duplice titolo (Cicerone?). Svolgono argomenti morali illustrandoli con esempi tratti dalla storia e dal mito. • Disciplinae. Opera della vecchiaia. 9 libri in cui Varrone organizzò tutto il sapere della scienza antica in una forma che condizionò il futuro ordinamento degli studi nell’Europa occidentale. Distinzioni delle arti liberali: trivium (grammatica, dialettica, retorica) e quadrivium (geometria, aritmetica, astronomia, musica). Concezione storica di Varrone. La storia è soprattutto storia i costumi, di istituzioni, di “mentalità”: è la storia collettiva del popolo romano sentito come un organismo unitario in evoluzione. Solo nel quadro di questa vicenda collettiva i magni viri trovano il loro posto e hanno diritto alla memoria dei posteri. Idea che lo Stato romano fosse creazione del popolo intero attraverso le generazioni Cornelio Nepote Vita. • 100 a.C. Nasce nella Gallia Cisalpina. • Si stabilisce a Roma m non ricerca cariche politiche, preferendo dedicarsi a una vita di studi. A schiudergli le porte della buona società fu probabilmente Tito Pomponio Attico. Ebbe rapporti con Cicerone. • 27 a.C. (post). Muore sotto il principato di Augusto. Opere. • Chronica. Opera di cronografia (perduta). Esposizione sistematica della cronografia universale, con particolare attenzione al sincronismo tra gli avvenimenti della Grecia, di Roma e dell’Oriente. • Exempla. (Perduta). • De Viris Illustribus. Raccolta di biografie in 16 libri (ci è pervenuto un libro sui comandanti militari stranieri e le biografie di Catone e Attico). Valori tradizionali e relativismo culturale nelle biografie di Cornelio Nepote. Grande raccolta di biografie costruita con l’intento di fare di questo genere letterario il veicolo di un confronto sistematico tra civiltà greca e romana. Cornelio Nepote raggruppava i suoi personaggi secondo categorie “professionali” (re, condottieri, filosofi, storici, oratori, grammatici): ogni categoria doveva occupare due libri ed era costruita sul raffronto sistematico tra romani e stranieri (apporto originale di Nepote). Si è pensato che l’intento fondamentale di tale confronto fosse di suggerire la superiorità dei Romani in ogni campo, ma quanto ci rimane dell’opera di Cornelio non pare aduggiato da pregiudizi nazionalistici. Il progetto di Nepote è semmai sintomatico di un’epoca in cui i Romani incominciano a interrogarsi sui “caratteri originali” della loro civiltà, ad aprirsi all’apprezzamento dei valori di tradizioni diverse (“relativismo culturale” moderato, tuttavia banale perché è finalizzato a dare ragione di costumanze divergenti, non a propagandare un’incondizionata adesione agli usi stranieri). Nel complesso è uno scrittore mediocre: la qualità dell’esecuzione non può dirsi pari al progetto. Il suo merito maggiore è quello di aver influenzato le Vite Parallele di Plutarco. La relativa semplicità dello stile e il carattere sbrigativamente sommario di parecchie biografie hanno portato a supporre che si rivolgesse ad un pubblico culturalmente poco preparato. Cesare Vita. • 100 a.C. Nasce a Roma da una famiglia patrizia di antichissima nobiltà. In gioventù, essendo imparentato con Mario, viene perseguitato dai sillani. • Dopo la morte di Silla torna a Roma dall’Asia: carriera forense e politica. • 60 a.C. Primo triumvirato. • 58 a.C. Proconsolato della Gallia romanizzata. Intraprende l’opera di sottomissione dell’intero mondo celtico, presentandola come un’operazione soprattutto difensiva e preventiva (conquista per sette anni), grazie alla quale si procura un vastissimo potere personale. • 49 a.C. Guerra Civile, dittatura e consolato. • 44 a.C. Viene assassinato da un gruppo di aristocratici di fede repubblicana, preoccupati per le tendenze autocratiche e regali che Cesare andava dimostrando. Opere. Opere conservate: • Commentarii de bello Gallico. • Commentarii de bello civili. Opere perdute: • Diverse orazioni • De Analogia. Un trattato su problemi di lingua e di stile. • Vari componimenti poetici giovanili, una raccolta di detti memorabili e un poema sulla spedizione in Spagna. • Anticato. Un pamphlet contro la memoria di Catone Uticense. Opere spurie: • Ottavo libro del De bello Gallico. Composto da Aulo Irzio, luogotenente di Cesare. Andamento sobrio e scarno, rispetta in modo più aderente la tradizione stilistica del commentarius (anche se il genere non era molto stabile). • Bellum Alexandrinum (Aulo Irzio), Bellum Africum (patina arcaizzante), Bellum Hispaniense (sporadiche ricercatezze di stile su un fondo linguistico popolareggiante e colloquiale). Resoconti degli ultimi avvenimenti della guerra civile, composti da ignoti ufficiali di Cesare. Il commentarius come genere storiografico. Commentarius = hypomnema = tipo di narrazione a mezzo tra la raccolta dei materiali grezzi e la loro elaborazione nella forma artistica tipica della vera e propria storiografia. • Opere composte per offrire ad altri storici il materiale sul quale impiantare la propria narrazione (ma nessuno avrebbe osato provarsia riscrivere quanto Cesare già aveva detto). • Sotto la veste dimessa, il commentarius andava avvicinandosi alla historia. • Cesare usa un’ammirabile sobrietà nel conferire al proprio racconto efficacia drammatica. In questa direzione va anche l’uso della terza persona, che distacca il protagonista dall’emozionalità dell’ego e lo pone come personaggio autonomo nel teatro della storia. Le campagne in Gallia nella narrazione di Cesare. Commentarii de bello Gallico (7 libri). • Coprono il periodo dal 58 al 52 a.C. • Fasi alterne della sistematica sottomissione della Gallia (i pesanti scacchi vengono attenuati e giustificati, ma non nascosti). • Elvezi, tribù galliche, popolazioni sulla costa atlantica, popoli germanici, Britanni, insurrezione generale guidata da Vercingetorige (Averni). • Tempi di composizione incerti: secondo alcuni sarebbe stato scritto di getto nel 51/52; secondo altri è stata una composizione anno per anno, nei periodi in cui erano sospese le operazioni militari (si spiegano così le contraddizioni interne e la sensibile evoluzione stilistica). • Evoluzione stilistica: dallo stile scarno e disadorno del commentarius vero e proprio in direzione di concessioni progressivamente maggiori a taluni ornamenti tipici della historia (uso del discorso diretto, maggiore varietà di sinonimi). La narrazione della guerra civile. Commentarii de bello civili (3 libri). • Eventi del 49 e del 48 a.C. • Tempi di composizione e pubblicazione sono ancora più incerti. L’opera appare incompiuta (lasciata in sospeso la narrazione della guerra di Alessandria). • Dall’opera affiorano le tendenze politiche di Cesare, che non si lascia sfuggire le occasioni per colpire la vecchia classe dirigente, rappresentata come una consorteria di corrotti. Satira sobria per svelare le basse ambizioni e i meschini intrighi dei suoi avversari. • Non si trovano tuttavia i punti precisi di un programma di rinnovamento politico dello Stato romano: Cesare aspira soprattutto a dissolvere di fronte all’opinione pubblica l’immagine che di lui dava la propaganda aristocratica, presentandolo come un rivoluzionario. Vuole mostrarsi come colui che si è sempre mantenuto nell’ambito delle leggi. • Il destinatario della sua propaganda è lo strato medio e benpensante dell’opinione pubblica romana e italica. È uno strato sul quale la propaganda fa sentire pesantemente il suo influsso, ma che dal partito aristocratico può anche essere sganciato: proprio questo è il tentativo che Cesare intraprende. Il Bellum Iugurthinum: Sallustio e l’opposizione antinobiliare. È largamente indirizzato a mettere in luce le responsabilità della classe dirigente aristocratica nella crisi dello Stato romano. La guerra contro l’usurpatore numida acquista rilievo sullo sfondo della rappresentazione della degenerazione della vita politica. Sallustio introduce al centro dell’opera un excursus che indica nel regime dei partiti la causa prima della dilacerazione e della rovina dello Stato. Il bersaglio principale di Sallustio è la nobiltà. Il quadro è deformante: al fine di rappresentare la nobiltà come un blocco unico guidato da un gruppo corrotto, Sallustio trascura di parlare di parti dell’aristocrazia non coinvolte. • Mario. Il giudizio è ambivalente. L’ammirazione è limitata dalla consapevolezza delle responsabilità che in futuro Mario si sarebbe assunto nelle guerre civili. • L’aristocrazia è inquinata dall’affermarsi del proletariato militare • Giugurta. Sallustio non nasconde la propria perplessa ammirazione per l’energia indomabile che è sicuro segno di virtus, anche se corrotta. La personalità di Giugurta (a differenza di Catilina) è rappresentata in evoluzione: la sua natura non è corrotta fin dall’inizio, ma comunque non ha scusanti o attenuanti. Le Historiae e la crisi della Res Publica. Impresa di vasto respiro, forma annalistica. Alcuni frammenti sono particolarmente ampi: quattro discorsi e un paio di lettere (una di Pompeo e una di Mitridate). Dalle parole di Mitridate emergono i motivi delle lamentele dei popoli soggiogati e dominati da Roma. Il solo motivo che i Romani hanno di portare guerra a tutte le altre nazioni è la loro inestinguibile sete di ricchezze e di potere. • Sono presenti parecchi frammenti di carattere geografico ed etnografico. • Dipingono un quadro a tinte cupe (corruzione dilagante). • Si accentua il suo pessimismo: dopo l’uccisione di Cesare e la frustrazione delle aspettative in lui riposte, lo storico non ha più una parte dalla quale schierarsi. Stile. Stile fondato sull’inconcinnitas (no simmetria, ricercatezza, studio), arcaizzante ma innovatore: • Uso di antitesi, asimmetrie, variationes. Concatenazione delle frasi di tipo paratattico. • Effetto di gravitas austera e maestosa, immagine di meditata essenzialità di pensiero (patina arcaizzante). • I pensieri si giustappongono come blocchi autonomi di una costruzione. • Estrema è l’economia dell’espressione. • Alla condensazione del discorso, reso essenziale, reagisce il gusto per l’accumulo asindetico di parole quasi ridondanti. • L’allitterazione frequente dà colore arcaico, ma potenzia anche il senso delle parole. • Il suo andamento spezzato è del tutto anticonvenzionale e lessico e sintassi contrastano il processo di standardizzazione che si stava verificando nel linguaggio letterario. • L’esigenza di sobrietà e austerità imponeva la rinuncia a tutta una serie di effetti drammatici tipici della “storiografia tragica”. • La limitazione approda ad una drammaticità più intensa proprio perché più controllata. Epistulae e Invectiva. Opere eccessivamente arcaizzanti, contenuti prevedibilmente scontati: irrisione violenta di Cicerone e suggerimenti a Cesare. Sembra verosimile giudicare queste operette come il frutto delle scuole di retorica della prima metà del I secolo d.C. Parte 3. L’età di Augusto Virgilio Vita. • Nacque presso Mantova nell’ottobre del 70 a. C., da piccoli proprietari terrieri. • I luoghi dell’educazione sono Roma e Napoli, dove forse ha frequentato il filosofo epicureo Sirone. (Le Bucoliche denunciano chiaramente frequentazioni epicuree). • La datazione delle Bucoliche è da collegare agli avvenimenti del 41, quando nelle campagne mantovane ci furono confische di terreni, destinate ai veterani di Filippi; Virgilio riecheggia il dramma di contadini espropriati. E’ certo che le Bucoliche non recano traccia di quello che sarà il grande amico e protettore, Mecenate; mentre vi ha rilievo la figura protettiva di Pollione. • Tutta la vita di Virgilio è povera di eventi esterni e raccolta su un tenace lavoro poetico. • Dal 29 in poi il poeta fu tutto assorbito dalla composizione dell’Eneide: l’opera fu pubblicata per volere di Augusto (che pare seguisse lo sviluppo del lavoro). • Virgilio muore nel settembre del 19 a.C. e fu sepolto a Napoli. Opere. • Bucolica. Dieci brevi componimenti in esametri (829), chiamati anche egloghe e composti fra il 42 e il 39. • Georgica. Poema didascalico in quattro libri di esametri (2188) completati nel 29. • Aenèis. Poema epico i 12 libri in esametri: in totale poco meno di 10.000 esametri. L’opera fu edita dagli esecutori del testamento. Restano, a segnare la mancanza dell’ultima mano, qualche incongruenza e qualche ripetizione compositiva, nonché alcuni versi incompleti. • Appendix Virgiliana. Testi in gran parte spuri (solo alcuni componimenti della raccolta Catalepton appartengono quasi sicuramente alla sua produzione giovanile). Fonti. Oltre alle notizie ricavabili dai testi autentici, abbiamo una serie di Vitae, tardoantiche, il cui nucleo risale all’attività biografica di Svetonio: la più famosa di queste Vitae si deve a Elio Donato, grammatico del IV secolo. Tutte le opere autentiche sono commentate sin dal secolo I d.C. Bucoliche Sino alla pubblicazione del libro della Bucoliche, Teocrito era stato l’autore greco meno frequentato dalla cultura romana, che così fortemente urbana si rivolgeva ad altri modelli. La poesia degli Idilli, è tutta rivolta alla ricostruzione nostalgica e dotta di un mondo pastorale tradizionale. Protagonisti dell’azione erano i pastori e insieme a loro un paesaggio ricco ma statico: tutto sospeso in una vita quotidiana rarefatta ma illuminata dalla poesia. L’incontro di Virgilio con questo genere, che è anche un mondo immaginario, fu straordinariamente felice. Imitare Teocrito significò, alla fine, una sorta di simbiosi che non ha precedenti nella letteratura romana, e neppure forse veri continuatori. Il risultato non si può ridurre ad un semplice processo imitativo. Non esiste, in pratica, una singola egloga che sta in rapporto “uno a uno” con un singolo idillio. La presenza di Teocrito è stata risolta in una trama di rapporti talmente complessa che la nuova opera sta alla pari con il modello. In questo senso le Bucoliche – così neoteriche per dottrina, stilizzazione, culto della poesia – sono davvero il primo testo della letteratura augustea. Già ne interpretano l’esigenza di fondo, “rifare” i testi greci trattandoli come classici. Il libro delle egloghe. Il titolo d’insieme Bucolica, “canti dei bovari”, racchiude il tratto fondamentale di questo genere, che rievoca uno sfondo pastorale in cui i pastori stessi sono messi in scena come attori e anche creatori di poesia. Al singolare si preferisce il termine egloga (“poemetto scelto”). Nessun altro libro poetico a noi noto, prima di Virgilio, esibisce lo stesso livello di complessità architettonica e di unitarietà. • Egloga 1. Dialogo tra Titiro e Melibeo (contrasto di destini, problema delle confische). • Egloga 2. Lamento d’amore del pastore Coridone. • Egloga 3. Tenzone poetica tra due pastori (canto amebeo). • Egloga 4. Canto profetico per la nascita di un fanciullo che vedrà l’avvento di una nuova felice stagione cosmica. • Egloga 5. Lamento per la morte di Dafni, eroe pastorale divinizzato. • Egloga 6. Il vecchio Sileno canta un catalogo di scene mitiche e naturalistiche, in chi viene consacrato poeticamente Cornelio Gallo. Dichiarazione di poetica all’uso alessandrino. È la più alessandrina delle egloghe (simbologie della poetica alessandrina). • Egloga 7. Melibeo racconta in prima persona una gara tra due poeti. • Egloga 8. Dedicata ad Asinio Pollione, gara di canto: lamento di Damone e pratiche magiche di una donna innamorata (due storie infelici). • Egloga 9. Dialogo tra due pastori-poeti con richiami alla campagna mantovana e alle espropriazioni. I confini del genere bucolico. Il carattere miscellaneo della raccolta di Teocrito aveva consacrato una certa varietà di temi: contiene incursioni nel mondo delle città, e anche poesie celebrative, e una certa varietà di ambientazione. Virgilio sfrutta al massimo queste aperture. Da un lato, alcuni spunti permettono di acclimatare le egloghe al paesaggio italico, dall’altro vi sono accenni a un particolare paesaggio ideale, l’Arcadia. Vi sono molte allusioni a questo mondo beato di pastori nella cultura greca anteriore, ma il mito dell’Arcadia come terra delle poesia deve moltissimo a Virgilio. L’altro, più sostanzioso, contributo alla tradizione bucolica sta nel libero riuso di spunti biografici. Il dramma dei pastori esuli nelle egloghe I e IX contiene certamente un nucleo di esperienza personale. Negli anni 42-41 confische di terre a favore di veterani colpirono Mantova e Cremona. Secondo la tradizione biografica antica, Virgilio era stato dapprima spossessato anche egli, poi reintegrato nella proprietà ad opera di personaggi influenti: Asinio Pollione. Intorno a questo nucleo, che sembra accettabile, si sviluppò poi tutta una ricostruzione storica, una sorta di romanzo allegorico: dietro a tutte le figure del mondo pastorale, interpreti antichi e moderni, hanno visto una ridda di allusioni storiche. Ma ciò che importa, è cogliere l’originalità di ispirazione con cui Virgilio “legge” attraverso il linguaggio bucolico l’epoca delle guerre civili, come nella celebre IV egloga. Come annuncia l’esordio (paulo malora canamus) il poeta si solleva oltre la sfera pastorale per cantare un grande evento. Chi è il puer che con il suo avvento riporta l’età dell’oro sul mondo in crisi? L’identificazione tardoantica del puer con Gesù Cristo è solo la più coraggiosa delle tante congetture avanzate. L’egloga si inserisce nelle aspettative di rigenerazione tipiche dell’età di crisi fra Filippi e Azio, ed ha un chiaro parallelo nell’epodo XVI di Orazio. Due sono i filoni culturali che nutrono questa poesia visionaria: le poesie in onore di nozze e di nascite; Virgilio poi ha attinto anche da fonti non poetiche, dove si mescolano influssi filosofici e presenza di dottrine messianiche, aspettative di una salvatore. L’egloga è datata al consolato di Asinio Pollione, 40 a. C. L’ipotesi migliore è che il bambino fosse atteso in quell’anno, ma non sia mai nato. In quell’anno molte speranze seguivano il patto di potere fra Ottaviano e Antonio; Antonio prendeva in moglie la sorella del primo. Il matrimonio durò poco e non vi furono figli maschi. Nella egloga X Cornelio Gallo è presentato come poeta d’amore, ma si tratta di un componimento bucolico. Tipicamente bucolico è lo scenario dell’Arcadia, così come l’idea che la poesia possa medicare le ferite d’amore avvicinando l’uomo alla natura. Ma Virgilio non rinuncia ad allargare l’orizzonte; Gallo è rappresentato come l’incarnazione di un’altra poesia: il canto elegiaco, che è anche una scelta di vita. Gallo provato dall’amore infelice cerca rifugio nella poesia dell’amico. Il confronto di questi due mondi permette a Virgilio di rendere omaggio a una grande amico, ma anche di precisare a fondo la propria personale dimensione poetica. Nel complesso, le Bucoliche rivelano il maturare delle scelte di vita dell’autore. La poesia è vissuta come un rifugio contro i drammi dell’esistenza; la vita ritirata dei pastori accoglie stemperate tonalità epicuree. Nel genere bucolico il canto d’amore è consolazione e riconciliazione con la natura. Lo scenario bucolico riassorbe e media in sé il contrasto di modelli. Georgiche Nel 38 le Bucoliche sono ormai completate, e già Virgilio ha un nuovo influente protettore: Mecenate. Quest’ultimo non chiede nessuna partecipazione diretta alle fortune del partito di Ottaviano, ma la sua influenza è evidente in una nuova generazione di opere poetiche, come le Georgiche di Virgilio. La composizione gli costò quasi 10 anni di lavoro; nel 29 a. C. il poema era giunto ad uno stadio definitivo. L’opera presuppone una straordinaria ricchezza di letture: grande poesia greca (Omero, gli alessandrini, i tragici), e romana (Lucrezio, Catullo…), anche fonti tecniche in prosa, e trattati filosofici d’ogni tipo. Un lungo processo compositivo denunciato anche dalla scalatura delle allusioni storiche disseminate nell’opera. Il finale del I libro evoca un’Italia in preda alle guerre civili, in cui l’ascesa di Ottaviano è solo una speranza insidiata da molti pericoli; in molti altri luoghi del libro il poema mostra già il principe trionfatore dell’universo pacificato. Virgilio ha voluto inglobare nel suo poema, accanto alla vittoria del nuovo ordine, anche le lacerazioni che lo hanno preparato. Le Georgiche come poema didascalico. Come già per le Bucoliche (ma in maniera meno intensa), Virgilio parte da un aggancio immediato con la poesia greca ellenistica, di autori (Arato, Nicandro, Eratostene) vissuti fra III e II secolo, che avevano compiuto una svolta di gusto e di poetica entro la tradizione del genere didascalico. Spesso questi • Il viaggio di Enea non è un ritorno a casa come quella di Odisseo; è fondamentalmente un viaggio verso l’ignoto. • La guerra di Enea non serve a distruggere una città, ma a costruirne un nuova (l’antenata di Roma). Questa complessa trasformazione non ha precedenti nella poesia antica. Si potrebbero distinguere i diversi livelli nel rapporto di trasformazione. • L’Eneide è innanzitutto una particolare contaminazione dei due poemi omerici. • In secondo luogo, vi è anche una continuazione di Omero. Infatti le imprese di Enea fanno seguito all’Iliade – il libro II di Virgilio racconta l’ultima notte di Troia che nell’Iliade veniva solo profeticamente intravista – si riallacciano all’odissea - nel III libro Enea segue in parte la traccia delle avventure di Odisseo, affrontando pericolo che l’eroe greco ha già attraversato. Virgilio riprende l’esperienza dell’epos ciclico: la catena di narrazioni epiche che “integravano” la poesia di Omero in una sorta di continuum. • In terzo luogo, l’Eneide racchiude in sé una sorta di ripetizione di Omero. La guerra nel Lazio è spesso vista come una ripetizione della guerra di Troia; alla fine però, nella nuova Iliade i Troiani sono vincitori ed Enea uccide il capo avversario, Turno, come Achille uccide Ettore. Ma si vede bene che la ripetizione è anche superamento di Omero. La guerra porta alla costruzione di una nuova unità. Alla fine, Enea riassume in sé l’immagine di Achille vincitore e, soprattutto quella di Odisseo che dopo tante prove conquista la patria restaurando la pace. Questo ci riporta all’altra intenzione di Virgilio: “lodare Augusto partendo dai suoi antenati”. Il poema si stacca dal presente per una distanza quasi siderale: gli antiche ponevano un intervallo di 400 anni fra la distruzione di Troia e la fondazione di Roma. Gli eventi dell’Eneide sono trattati come “storici”, ma non si tratta, tecnicamente parlando di storia romana. Questo spostamento permette a Virgilio di guardare il mondo di Augusto da lontano; l’Eneide è attraversata da scorci profetici che conferiscono alla storia un orientamento “augusteo”, ma non cessa di essere omerica. Infatti sono omeriche le tecniche narrativa che permettono a Virgilio di guardare da lontano la Roma augustea. • Nell’Iliade Zeus profetizza il destino degli eroi e la distruzione di Troia; nell’Eneide Giove profetizza non solo il destino di Enea ma anche la futura grandezza di Augusto che riporterà finalmente l’età dell’oro. • Nell’Odissea Odisseo scende verso l’Ade e ottiene uno scorcio sul suo destino, nell’Eneide Enea impara dal regno dei morti non solo il suo personale futura, ma anche i grandi momenti critici dello sviluppo di Roma. Si sperimenta così un difficile equilibrio fra la tradizione dell’epos eroico e il bisogno di un’epica storico-celebrativa. La leggenda di Enea. Il momento di sintesi fra dimensione omerica e dimensione augustea fu dato da Virgilio da una vecchia leggenda. L’Italia conosceva una serie di “leggende di fondazione” collegate alla guerra di Troia; fra queste storie acquistò particolare peso la leggenda di Enea. Tra la fuga di Enea da Troia in fiamme e il Lazio antico si creò ben presto un collegamento. Tra il II e il I secolo la sua figura acquistò crescente fortuna, e per ragioni politiche. • Il mito dell’origine troiana dei Romani ne traeva sostegno: il più nobile eroe troiano sopravvissuto sarebbe stato connesso, per via genealogica, a Romolo. Questo permetteva alla cultura romane di rivendicare una sorta di autonoma parità con i Greci, nel tempo i cui Roma egemonizzava il Mediterraneo greco. I Troiani erano consacrati dal mito omerico come grandi antagonisti dei Greci; da Roma sarebbe nata la loro rivincita (anche Cartagine venne opportunamente ricollegata alla leggenda di Enea tramite la regina Didone). Così Roma legittimava il suo nuovo potere attraverso uno sfondo storico profondissimo. • Inoltre, attraverso la figura del figlio di Enea Ascanio/Iulo, una nobile casata romana, la gens Iulia, rivendicava per sé nobilissime origini. Qui venne a saldarsi il cerchio tra Virgilio Augusto e l’epica eroica. L’Eneide svolge la leggenda di Enea dall’ultimo giorno di Troia sino alla vittoria di Enea e alla fusione di Troiani e Latini in un unico popolo. • I libro. Giunone scatena una tempesta che decima le navi di Enea e lo costringe ad approdare in Africa, presso Cartagine. L’eroe trova una buona accoglienza presso Didone, che chiede al suo ospite di narrare la fine di Troia. • II libro. Il racconto di Enea (padre Anchise, Penati, figlio Ascanio, moglie Creusa). • III libro. Il racconto di Enea (peripezie meravigliose verso l’Occidente e morte di Anchise). • IV libro. Tragica storia dell’amore di Didone. Abbandonata da Enea, che deve seguire il corso voluto dal Fato, Didone si uccide, maledicendo Enea e profetizzando eterno odio tra Cartagine e i discendenti dei troiani. • V libro. I Troiani fanno tappa in Sicilia. Giochi funebri in onore di Anchise. • V libro. Giunto a Cuma, in Campania, Enea viene spinto a consultare la Sibilla e guadagna l’accesso al mondo dei morti. Lì incontra una parte del suo passato: Deifobo, Didone, il pilota Palinuro, Anchise. Anchise gli schiude il futuro (il mondo dei morti cela in sé anche gli eroi del futuro). • VII libro. Fortificato dalla visione e dagli avvertimenti del padre, Enea sbarca alla foce del Tevere e riconosce da segni prestabiliti la terra promessa. Instaura un patto con il re Latino. Giunone lancia contro il patto il demone della discordia. La moglie di Latino e il principe rutulo Turno, promesso sposo della figlia di Latino, fomentano la guerra. Si rompe il patto con Enea e va in fumo il matrimonio dinastico tra Enea e Lavinia, figlia di Latino. Lavinia, nuova Elena, è al centro della discordia. • VIII libro. Enea, per consiglio divino, risale il Tevere con un piccolo distaccamento. Nel luogo dove sorgerà Roma trova l’appoggio di Evandro, re di una piccola nazione di Arcadi. Insieme al figlio di Evandro, Pallante, Enea trova poi un potente alleato: una coalizione etrusca avversa a Turno. Descrizione dello scudo di Enea. • IX libro. Il campo troiano si trova in una situazione critica (successi di Turno). Il sacrificio di Eurialo e Niso in spedizione notturna non dà esito. • X libro. Enea con gli alleati irrompe sulla scena e sposta la bilancia della guerra. Turno uccide Pallante e lo spoglia del balteo (cfr. Patroclo). • XI libro. Enea piange per la morte di Pallante. Le sue offerte di pace non hanno successo. Turno tenta ancora la sorte delle armi. Morte della troiana Camilla. • XII libro. Provato dagli insuccessi, Turno deve accettare il duello decisivo con Enea. La battaglia riprende, ormai è certa la vittoria dei Troiani. Giunone si riconcilia con Giove e ottiene che nel nuovo popolo non resti più traccia del nome troiano. Enea sconfigge Turno in duello; esita se risparmiargli la vita, ma scorgendo su di lui il balteo di Pallante, in uno slancio di indignazione lo uccide, Il poeta ha profondamente ristrutturato i dati tradizionali sulla venuta di Enea nel Lazio. La guerra è stata rappresentata da Virgilio come scontro fra Troiani e Latini; coalizzati questi ultimi con numerosi popoli italici: i primi invece con gli Etruschi e con una piccola popolazione greca stanziata nel Lazio. Nessun popolo è radicalmente escluso da una contributo positivo alla genesi di Roma; persino i greci, tradizionale nemici dei Troiani, forniscono un decisivo alleato, l’arcade Pallante; e soprattutto si prestano come la più nobile preistoria di Roma. L’Eneide è perciò un’opera di denso significato storico e politico; non è però un poema storico. Il taglio dei contenuti è dettato da una selezione “drammaturgica” dal materiale (no quadro completo della biografia di Enea), che ricorda più Omero che Ennio. Il nuovo stile epico. La più nuova e grande qualità dello stile epico virgiliano sta nel conciliare il massimo di libertà con il massimo di ordine. Virgilio ha lavorato sul verso epico, l’esametro, portandolo insieme al massimo di regolarità e al massimo di flessibilità. • La ricerca neoterica aveva affermato dure restrizioni nell’usare le cesure, nell’alternanza tra dattili e spondei, nel rapporto tra sintassi e metro. • Virgilio plasma il suo esametro come strumento di una narrazione lunga e continua, articolata e varia. La struttura ritmica del verso si basa su un ristretto su un ristretto numero di cesure principali, in configurazioni privilegiate. Si ha così quella regolarità di fondo che è indispensabile allo stile epico. Nello stesso tempo, la combinazione di cesure principali e di cesure accessorie permette una notevole varietà di sequenze. E la frase si libera da qualsiasi schiavitù nei confronti del metro. L’allitterazione diviene in Virgilio un uso regolato e motivato: sottolinea momenti patetici, collega fra loro parole chiave, produce effetti di fonosimbolismo… Le tradizioni del genere epico richiedevano un linguaggio elevato, staccato dalla lingua d’uso. È naturale quindi che l’Eneide sia l’opera virgiliana più ricca di arcaismi e di poetismi. • Alcuni arcaismi sono omaggio alla maniera di Ennio, o alla tragedia arcaica. Ma una forte percentuale del lessico virgiliano consta di termini non marcatamente poetici. • La novità sta nei collegamenti fra le parole: frontem rugis arat “ara la fronte di rughe”; lux aena “luce di bronzo”. Questo tipo di elaborazione del linguaggio quotidiano non ha precedenti nella poesia latina: il pensiero corre piuttosto a Sofocle o a Euripide. La sperimentazione sintattica lavora su di un lessico che sa mantenersi semplice e diretto, però rinnovato nei suoi effetti: le parole subiscono un processo di “straniamento” che dà rilievo al loro senso contestuale. • Il nuovo stile epico sa anche piegarsi ad una serie di requisiti tradizionali. Nella narrazione – sin da Omero – azioni ricorrenti e ripetute si prestano a ripetizioni verbali. Epiteti stabili, “naturali”, accompagnano oggetti e personaggi quasi a fissare il loro posto nel mondo. Virgilio accetta questa tradizione: l’Eneide dà largo spazio a procedimenti “formulari”. • La tendenza è conservare questi moduli insieme caricarli di nuova sensibilità. Gli epiteti, ad esempio, tendono a coinvolgere il lettore nella situazione e spesso anche nella psicologia dei personaggi che sono sulla scena. La narrazione suggerisce più di quello che dice esplicitamente. • Caratteristica fondamentale dello stile epico di Virgilio è dunque l’aumento di “soggettività”: maggiore iniziativa viene data al lettore (che deve rispondere agli stimoli), ai personaggi (il cui “punto di vista” colora a tratti lazione narrata), al narratore (che è presente a più livelli nel racconto). Questo aumento di oggettività rischierebbe di disgregare la struttura epica del racconto se non venisse in più modi controllato. La funzione oggettivante è garantita dall’intervento del poeta, che lascia emergere nel testo i singoli punti di vista soggettivi, ma si incarica sempre di ricomporli in un progetto unico. Le ragioni dei vinti. Lo sviluppo della soggettività interessa anche l’ideologia del poema virgiliano. L’Eneide è la storia di una missione voluta dal Fato, che renderà possibile la fondazione di Roma e la sua salvazione per mano di Augusto. Il poeta è garante e portavoce di questo progetto; in questo senso, Virgilio si assume in pieno l’eredità dell’epos storico romano: il suo poema è un’epica nazionale, in cui la collettività deve rispecchiarsi e sentirsi unita. Ma sotto la linea “oggettiva” voluta da Fato si muovono personaggi in contrasto; la narrazione si adatta a contemplarne le ragioni in conflitto. • Cartagine. Per Virgilio la guerra con Cartagine non nasce da una differenza: riportata al tempo delle origini, la guerra è nata da un eccessivo e tragico amore fra simili. Didone è vinta dal destino, ma il testo accoglie in sé le sue ragioni e le tramanda. • Turno. La guerra che Enea conduce nel Lazio non è vista come un sacrificio necessario. I popoli divisi dalla guerra sono fin dall’inizio sostanzialmente simili e vicini fra loro. La guerra è un tragico errore voluto da forze demoniache: è in sostanza una guerra fratricida. Turno è disarmato e ferito e invoca pietà; Enea lo uccide solo perché, in quell’attimo cruciale, la vista del balteo di Pallante lo travolge in uno slancio d’ira. Così, nell’ultima scena dal racconto, il pio Enea assomiglia al terribile Achille che fa vendetta su Ettore. L’Iliade termina, invece, con un Achille pietoso, che si ritrova uguale a Priamo. • Coinvolgimento del lettore. I lettori devono insieme apprezzare la necessità fatale della vittoria, e ricordare le ragioni degli sconfitti; guardare il mondo da una prospettiva superiore e partecipare alle sofferenze degli individui; accettare insieme l’oggettività epica, che contempla dall’alto il grande ciclo provvidenziale della storia, e la soggettività tragica, disputa di ragioni individuali e di relative verità. Orazio Vita. • Quinto Orazio Flacco nacque il dicembre del 65 a.C. a Venosa, una colonia romana al confine tra Apulia e Lucania. La sua famiglia era di modeste condizioni, il padre era liberto, ma ottiene comunque una istruzione di primo livello. • Attorno ai vent’anni Orazio si recò in Grecia a perfezionare gli studi. Lì si arruolò nell’armata di Bruto, come tribuno militare. Dopo Filippi poté tornare a Roma grazie ad un’amnistia. Intorno al 38 Virgilio e Vario lo presentarono a Mecenate che lo ammise nel suo circolo letterario. • Nel 33 Mecenate gli dona un podere nella campagna sabina, che gli darà tranquillità economica e gli assicurerà un apprezzato rifugio dagli affanni e dalle scomodità della vita romana. • Muore nell’8 a.C. due mesi dopo Mecenate. Opere. • Epodi. 17 componimenti (composti tra il 41 e il 30). Il nome rimanda alla forma metrica: epodo è il verso più corto che segue a un verso più lungo, formando con esso un distico. Orazio li chiama iambi facendo Le Odi I presupposti letterari e culturali della lirica oraziana. La lirica oraziana non può essere intesa a prescindere dal rapporto organico con la tradizione greca. Se negli Epodi Orazio si dichiarava erede di Archiloco, per quel che riguarda la produzione lirica egli rivendica orgogliosamente il titolo di Alceo romano. Ma simili dichiarazioni possono essere fraintese facilmente dal lettore moderno: esse rimandano in realtà a un rapporto di imitatio che significa soprattutto obbedienza alla lex operis (le regole che organizzano il genere letterario in cui il poeta vuole operare) e quindi del decorum letterario. L’imitazione, com’è intesa da un poeta latino, è una componente del linguaggio poetico e non un ostacolo all’originalità della creazione. Il rapporto con Alceo: Orazio è orgoglioso di averne divulgato per primo i modi: perciò egli ha diritto all’apprezzamento che spetta a colui che apre vie sconosciute. Nel richiamarsi ad Alceo, Orazio approfittava dell’autorità del suo modello per avvalorare la coniugazione di componenti diverse nel suo mondo lirico: l’attenzione alle vicende della comunità e un canto più legato alla sfera privata. • Alceo come sappiamo dai rinvenimenti papiracei, era stato anche poeta gnomico: a lui è dunque naturale collegare la forte componente moraleggiante della lirica oraziana. • Un tratto caratteristico del modo in cui Orazio intende il rapporto con la lirica greca arcaica, e con Alceo, è la ripresa evidente (a volte quasi un citazione che serve da motto): poi però il poeta procede in maniera sua propria e il modello viene quasi dimenticato. • Ma i versi di Alceo erano espressione degli amori e degli odi di un aristocratico, impegnato in prima persona nelle aspre lotte politiche della sua città. In Orazio invece l’interesse per la res publica è vivace, ma è quello di un intellettuale che dopo un effimero coinvolgimento nelle tempeste civili, vive al riparo dei potenti signori di Roma. Per Orazio la poesia come ristoro dall’impegno, come pausa in mezzo alle battaglie, era poco più che un’immagine letteraria. L’altro grande rappresentante della lirica eolica, Saffo, ha lasciato una traccia minore nella poesia di Orazio. Più significativo il debito nei confronti di Anacreonte (grazia delicata ed elegante, malinconia per la giovinezza perduta). Un ruolo notevole è svolto anche dalla lirica corale, è in particolar modo fra i lirici corali Pindaro. La ricerca oraziana del sublime, soprattutto nella poesia di argomento civile, sembra nutrirsi di suggestioni provenienti da Pindaro: periodi ampi, di andamento impetuoso, solenne gravità della gnome (la sentenza breve e concettosa di valore morale). Il richiamarsi di Orazio alla lirica greca arcaica aveva indubbiamente le caratteristiche di una precisa scelta programmatica ed esprimeva la volontà consapevole di distinguersi dall’alessandrino dei neoterici. Ciò non significa naturalmente che Orazio non sia poeta “moderno” e che la sua lirica prescinda dall’esperienza ellenistica. Da qui viene un vasto repertorio di temi, immagini, situazioni. Ma, come l’esempio di Alceo poeta civile incontrava in Orazio una esigenza attuale di attenzione appassionata per le vicende della res publica, così neanche la poesia alessandrina è pura suggestione letteraria: essa è la “forma” della vita quotidiana di Roma metropoli ellenizzata: una mondanità fatta di amori, feste, danze, poesia. Temi e caratteristiche della lirica oraziana. È consolidata l’immagine di Orazio poeta dell’equilibrio sereno, del distacco dalle passioni, della moderazione; ci fa intuire il ruolo centrale che nella lirica oraziana è svolto dalla meditazione e dalla cultura filosofica. Non si tratta tuttavia di una vera e propria ricerca fondata sull’osservazione critica degli altri, bensì una raccolta meditazione su poche fondamentali conquiste della saggezza (soprattutto epicurea). • Il punto centrale è la coscienza dalla brevità della vita, che comporta la necessità di appropriarsi delle gioie del momento, senza perdersi nell’inutile gioco delle speranze, dei progetti o delle paure (carpe diem). Il saggio affronterà gli eventi, quali che siano, e saprà accettarli: egli conta solo sul presente, che cerca di cogliere nella sua fugacità, e si comporta come se ogni giorno della sua vita fosse l’ultimo. Il carpe diem non va frainteso come un banale invito al godimento: in Orazio (come in Epicuro) l’invito al piacere non è separato dalla consapevolezza acuta che quel piacere stesso è caduco, come caduca la vita dell’uomo. • Questa meditazione può talvolta tradursi in un canto della propria serenità: la felicità dell’autàrkeia, la condizione del poeta-saggio, libero dai tormenti della follia umana benedetto dalla benedizione dagli dei. E tuttavia saggezza, equilibrio, l’aurea mediocritas di chi sa fuggire tutti gli eccessi e adattarsi a tutte le fortune non sono un possesso sicuro, acquisto una volta per sempre. Orazio non ignora la forza attraente delle passioni, conosce le debolezze dell’animo. La saggezza si scontra con i dati immutabili della condizione umana: la fugacità del tempo, la vecchiaia, la morte; nessuna saggezza ha la capacità di annullare tanto peso negativo. • L’altro polo della lirica oraziana, la poesia impegnata sui temi civili e nazionali, risulta per molti versi lontano dai temi “privati”; pur se in Orazio, a differenza della lirica neoterica, tutta la sfera privata aspira sempre a una validità generale, ad esprimere la condizione complessiva dell’uomo. Orazio ha saputo innestare spunti nazionali, suggestioni provenienti dall’epica e dalla storiografia. • La lirica civile conosce la celebrazione, l’encomio, l’ufficialità, ma non può essere liquidata come propaganda in versi. Anzitutto perché sa approfittare dell’ampiezza e della flessibilità di quella stessa ideologia per evitare chiusure dogmatiche ed esaltare il sublime della magnanimità: ad esempio l’ammirazione per la virtus anche nel più odioso dei nemici (Cleopatra che affronta la morte impavidamente). • Anche la lode del principe in genere sfugge alle movenze cortigiane dell’encomio ellenistico, per dar voce alla sincera ansiosa gratitudine nei confronti del pacificatore dell’Impero. Dell’ideologia augustea, la lirica civile oraziana condivide, l’impostazione moralistica: la crisi era derivata dalla decadenza dei costumi, dall’abbandono di quel coerente sistema di antichi valori eticopolitici e religiosi che aveva fatto la grandezza di Roma. Questa poesia moralistica può incontrare a tratti la ricerca morale “oraziana”: nella critica del lusso, di stravaganze e follie, nell’ammirazione per l’autosufficienza della virtus. • La polarità è naturalmente una semplificazione, che finisce per oscurare la varietà della poesia lirica di Orazio: varietà che corrisponde alle diverse categorie in cui si articolava la lirica greca. Abbiamo così i carmi conviviali (che rimandano a quelli di Alceo): inviti, descrizioni dei preparativi, con il tradizionale apparato del simposio ellenistico-romano (vino, fiori, musica). • Quasi un quarto delle Odi possono essere classificate come “erotiche”: ma l’amore viene analizzato come un rituale il cui canovaccio è piuttosto scontato. • Ben rappresentato nella lirica oraziana è anche l’inno: le differenze con la lirica greca sono cospicue, perché la lirica oraziana è priva del legame con un’occasione e un’esecuzione rituale: dell’inno conserva spesso formulario e andamento, ma è intessuto di riferimenti e sviluppi di carattere letterario. • Ma non sempre però è facile collocare un’ode oraziana in un tipo ben definito, perché il poeta ama contaminare, in uno stesso componimento, categorie liriche diverse. Esistono poi temi ricorrenti che attraversano i carmi. • La campagna è di solito stilizzata secondo il modulo del locus amoenus, un gradevole paesaggio italico, che ospita il convito, il riposo, la semplice vita rustica. • Ma i luoghi più propriamente orazioni sono quelli individuati dallo spazio limitato e racchiuso del piccolo podere personale: caro perché noto e sicuro, inattaccabile perché appartato e modesto. Questo spazio privilegiato funziona nel testo come una figura simbolica dell’esistenza del poeta e della sua esperienza poetica. L’angulus trova in Orazio nuove funzioni, diventa il nucleo generativo di molta poesia in quanto si associa ad altri due temi: al tema della morte soprattutto al tema dell’amicizia. • L’amicizia nella Odi ha un ruolo fondamentale. • Importante è anche il motivo della vocazione poetica: il vates si sente in rapporto con le Muse e le altre divinità ispiratrici (Bacco, Apollo). La perfezione dello stile è uno dei marchi caratteristici della lirica oraziana, debitrice della lezione di Callimaco. • La semplicità e l’essenzialità guida anche la scelta dell’aggettivazione, il moderato impiego delle figure di suono, la cautela delle metafore e delle similitudini. La sintassi ama le ellissi, l’iperbato, l’enjambement. • Collocare accortamente le parole nel verso vuol dire seguire una strategia che, mentre lega le parole nella tessitura della frase, alcune le accosta, altre le allontana e lascia che si richiamino fa distanza; sicché parole usuali, ricevendo una propria evidenza, vengono percepita come se fossero “nuove”. Un aggettivo, staccato dal proprio sostantivo dislocato in un punto della sequenza metrico-ritmica che lo metta in rilievo trova una sua risonanza originaria. Orazio stesso, teorizzando, ricordava tra i procedimenti più efficaci questo semplice artificio della callida iunctura. • La massima economia di inventività linguistica per avere il massimo di espressività: il suo stile di composizione confida piuttosto su nuove analogie, preferisce affidarsi a nitide corrispondenze testuali: strutture ben disegnate, in cui le singole parole per azione reciproca riacquistano intatta la propria energia comunicativa (effetto di sobrietà e limpidezza classica, il che non significa sempre secondo simmetria: variatio). Le Epistole: progetto culturale e anacoresi filosofica Orazio ritorna all’esametro della conversazione. Dovette essere difficile per gli antichi commentatori orazioni inventare una formula critica che sapesse distinguere le Epistole dalle due raccolte di Satire. Non era forse il poeta, in fondo, a chiamare sermones entrambe le opere, accomunate così da una stesso registro stilistico? Il giudizio antico, mentre riconosce, sapientemente anche la vocazione mimico-drammatica delle Satire, sottolinea la specifica configurazione epistolare dell’opera più tarda. Del carattere di queste epistole nessuno crede naturalmente a una vera funzione privata. Ad ogni modo, la componente epistolare assicura al sermo oraziano una intonazione più personale, nonché la varietà di modi e atteggiamenti che è richiesta dall’attenzione nei confronti del destinatario. Dal punto di vista formale le Epistole erano quasi certamente una novità. Erano ben note trattazioni filosofiche sotto forma di epistole in prosa. Ma una raccolta sistematica di lettere in versi come quella di Orazio è probabilmente sperimentazione originale. La satira era appartenuta essenzialmente ad un ambiente cittadino, che corrispondeva ai bisogni sociali del genere in quanto apriva all’opera spazi di circolazione fra ceti colti. Tutte le orazioni, al contrario, presuppongono lo spostamento verso una periferia rustica che risuona di memorie filosofiche. Ripropone il traguardo del De rerum natura lucreziano: l’angulus trascrive nel lessico oraziano l’esperienza dei sapientum templa serena proposta da Lucrezio ai suoi lettori. La raccolta elabora un discorso didascalico che rinnova il poema lucreziano mutuandone tratti significativi. Il rapporto autore-lettore, vivo e drammatico nel De rerum natura, viene imposto dall’evidenza di un impianto educativo tutto rivolto verso l’ingiunzione e l’esortazione. Ecco che così il rapporto autore-lettore diventa esso stesso tema del discorso fino ad assumere le forme della consapevolezza meta-letteraria. Le differenze dalle Satire: manca ad esempio alle Epistole quell’aggressività comica che, ancora per Orazio, era la marca evidente del genere satirico. La riflessione morale non procede ora attraverso una osservazione critica della società contemporanea, ma anzi sembra prendere coscienza sempre più netta delle proprie debolezze e contraddizioni: l’equilibrio fra autàrkeia e metriòtes appare ormai irrecuperabile. Al tempo stesso, Orazio non sembra più in grado di costruire un modello di vita soddisfacente. La rinuncia alla vita sociale e all’ottimismo etico è simboleggiata dalla fuga da Roma verso il raccoglimento della campagna sabina. Alle aporie della ricerca morale sembra da collegare lo spazio notevole ora raccordato al tema diatribico dell’insoddisfazione di sé, dell’incostanza, della noi angosciosa e impaziente. L’inquietudine è presentata come una specie di male del secolo. Alla esibita debolezza della propria posizione etico-filosofica fa riscontro – quasi paradossalmente – una accresciuta impostazione didascalica del discorso oraziano. La forma epistolare stessa corrisponde in qualche modo alla posizione di un intellettuale eminente e rispettato, che è interlocutore e anche punto di riferimento della élite sociale augustea. Questo aspetto didascalico si accenta nelle epistole del II libro e soprattutto nell’Ars Poetica. La società augustea è anche una società di letterati e di amanti della letteratura: i problemi di critica letteraria, di poetica e politica culturale sono fra quelli di più viva attualità. Augusto è l’interlocutore primario (implicito ed esplicito) di questi discorsi sull’arte e sulla letteratura. Restava aperta (ed urgente agli occhi del principe) la questione del teatro latino. Tale questione è centrale nelle epistole letterarie di Orazio: nella 2,1, in un specie di disputa “degli antichi e dei moderni”, Orazio si schiera decisamente dalla parte di questi ultimi, in nome del principio callimacheo dell’arte colta e raffinata. L’Ars poetica sembra tuttavia orientare la sua analisi dell’arte e della poesia sui problemi della letteratura drammatica. Egli comunque resta fedele nell’ars ai suoi principi, predicando un “arte raffinata (v.291: si raccomanda dei perfezionare con il labor limae), colta (leggere e rileggere i grandi modelli greci), attenta (i principi fondamentali: coerenza e decorum)”. Nel quadro di queste riflessioni Orazio ha occasione di disegnare preziosi tracciati di storia della cultura e della letteratura sia greca che romana, nonché di aprire interessanti squarci sulla “vita quotidiana” del letterato romano. L’elegia Il periodo di massima fioritura dell’elegia come poesia d’amore è nella seconda metà del I secolo a.C. Complessa e difficilmente individuabile è la sua formazione. L’opera di Antimaco di Colofone costituisce un nodo di grande importanza nello sviluppo di questo genere: la vicenda personale gli serve per rievocare e narrare diversi miti di amore tragico, istituendo una connessione tra autobiografia e mito (modello per gli ellenistici). Le origini dell’elegia latina è inserito nei circoli mondano-letterari della capitale e legato a una donna elegante e spregiudicata, Cinzia. Entra in contatto con Mecenate e il suo circolo, legami stretti con Ovidio. Muore poco dopo il 16 a.C., molto giovane. Opere. Di Properzio possediamo 4 libri di elegie. • I libro (Monobiblios) (28 a.C.). 22 elegie. Il libro si apre nel nome di Cinzia e il fascino della donna colta e raffinata sul giovane innamorato dà vita a tutte le elegie del primo libro. La componente autobiografica non si affianca all’interesse per la società civile e per il nuovo assetto politico che Ottaviano andava costruendo a Roma. • II libro (25 a.C.). 34 elegie, il libro reca una traccia vistosa dell’incontro con l’ambiente ufficiale di Mecenate, cioè il rifiuto della poesia epica-celebrativa. Cinzia è sempre al centro del libro, ma già si insinua l’omaggio poetico al principe e ai suoi trionfi. • III libro (22 a.C.). 25 elegie. Libro dominato dalla figura di Cinzia, ma con l’ombra del distacco definitivo (discidium). Compaiono motivi legati alla fortuna e all’ideologia del regime augusteo. Attenzione nuova per la moralità antica (indizio del percorso che il poeta stava compiendo verso la sua “integrazione difficile” al regime. • IV libro (16 a.C.). 11 elegie di maggiore impegno e maggiore lunghezza rispetto alle precedenti. Due sole elegie sono dedicate ancora a Cinzia. Le altre elegie sono una concessione, limitata e sorvegliata, alle direttive della cultura ufficiale. Non si tratta tuttavia di poesia celebrativa: seguendo la via segnata dagli Aitia, volle illustrare miti e riti della tradizione romana e italica. Nel nome di Cinzia: il primo canzoniere. Properzio si presenta come prigioniero della passione per lei e irrimediabilmente destinato a una vita dissipata. Cinzia è una donna elegante, raffinata, ricca di cultura letteraria e musicale, che vive da cortigiana negli ambienti mondani. Legarsi a una tale donna “libera” significa compromettersi socialmente. Della degradazione cui il poeta elegiaco si condanna, rinunciando alla carriera e al decoro sociale, egli fa un vanto e una rivendicazione. Il rapporto con la donna amata si configura come servitium: ma il poeta-amante rivendica orgogliosamente la sua diversità, si compiace della sua sofferenza. Dell’amore egli fa il centro e il valore assoluto della vita, e Cinzia diventa per lui la ragione unica dell’esistenza. Properzio porta all’estremo e coerentemente “teorizza” quella che era stata la rivolta di Catullo, il rifiuto del mos maiorum: scelta di vita quasi di tipo filosofico, capace di fornire l’autosufficienza interiore. Il poeta-amante fa della sua vita materia di poesia e di questa si serve come strumento per corteggiare la donna, sola arma di seduzione che il povero poeta elegiaco ha a disposizione. La scelta callimachea per la poesia “tenue” si impone anche in virtù della sua ben maggiore efficacia ai fini del corteggiamento. Eppure l’amore in Properzio, il tipo di relazione che egli idealmente persegue, non è l’amore libertino: egli sogna per sé e Cinzia i grandi amori del mito, le passioni esclusive ed eterne. Egli vagheggia i modelli e i valori della tradizione e vorrebbe configurare l’amore con lei come un foedus. La realtà naturalmente è ben altra, e il poeta elegiaco si lacera nella contraddizione di cui è prigioniero. È da questa insoddisfazione, da questa tensione irrisolta, che nasce il bisogno di fuga, di evasione nel mondo puro del mito. Il canzoniere maggiore e il distacco. Mecenate cera di orientare Properzio verso forme poetiche nuove, di guadagnarlo come collaboratore alla politica culturale promossa dal regime. Di queste pressioni, e della resistenza opposta dal poeta, troviamo tracce evidenti nella nuova e più ampia raccolta. Recusatio. Elegante ma fermo rifiuto da parte del poeta, che si dichiara impari ad affrontare la Musa sublime del poema epico-storico. L’atteggiamento di Properzio è più complesso, meno lineare: da un lato si acuisce il senso di disagio per la vita di nequitia che insinua talora la coscienza dolente di un’incompiutezza, di un’esistenza irrisolta, e dall’altro si fa più sofferto il rapporto con Cinzia. Le elegie amorose sono meno frequenti, l’atteggiamento è meno appassionato: i tratti autoironici si fanno più vistosi, il poeta guarda a se stesso con maggiore distacco, spesso con arguta leggerezza. Il distacco si rivela in un ampliamento di prospettiva, nell’accentuarsi dell’atteggiamento gnomico- didascalico. La scelta per la Musa tenue, per il rifiuto dell’epica, è ribadita, ma non più strettamente associata ad uno stile di vita (solo ragioni estetico-letterarie). L’elegia civile. Gli eventi esterni, le pressioni di Mecenate, insieme alla crisi dell’elegia erotica spingono Properzio a un diverso tipo di poesia. Non rinnega il callimachismo, non si piega alla poesia epico-storica, ma svincola l’elegia dall’eros, facendone un genere autonomo, sul modello degli Aitia. L’impegno è nuovo, ambizioso, ma la poesia civile di Properzio non avrà generalmente la pesantezza, la gravitas, la seriosità di tanta poesia nazionale. La Roma arcaica lascia spazio alla grazia, all’ironia, a una leggera e garbata comicità, a un pathos sensibile, al lirismo della poesia d’amore. L’amore non è assente nell’ultima raccolta di Properzio, e non è nemmeno assente Cinzia, che compare nella luce fosca del vizio e della corruzione, oppure torna, come ombra dopo la morte, a rievocare l’amore di un tempo e a ribadirne l’eternità tante volte proclamata dal poeta. Un aspetto importante è la rivalutazione dell’eros coniugale, l’esaltazione degli affetti familiari, delle virtù domestiche, della castità e della tenerezza. È uno dei segni più vistosi di quel processo sofferto verso l’integrazione, che accompagna la sua carriera poetica. La densità dello stile. Properzio ha fama di poeta difficile, talora oscuro. Il suo stile si caratterizza per la concentrazione, la densità metaforica, la sperimentazione costante di nuove possibilità espressive. • Ricerca attenta della iunctura insolita, spesso audace, della struttura sintattica complessa, tesa e talora sforzata fino all’oscurità. • Spesso è arduo fissare con certezza i confini tra un’elegia e la successiva. • Esordire ex abrupto, procedere per movimenti improvvisi, per scatti, immagini e concetti senza esplicitare i collegamenti, ma seguendo una logica interna e segreta. • È una forma espressiva che alterna e mescola ironia e pathos, nella sua aspra eleganza, nella complessità di atteggiamenti psicologici. Ovidio Vita. • 43 a.C. Nasce a Sulmona da agiata famiglia equestre. Frequenta a Roma le migliori scuole di retorica. • Completa gli studi con il canonico soggiorno in Grecia e al ritorno a Roma abbandona la carriera politica. • Entra nel circolo letterario di Messalla Corvino e stringe rapporti con i maggiori poeti di Roma. • Tranquillo e pieno successo, all’apice del successo lo coglie, nell’8 d.C., l’improvviso provvedimento punitivo di Augusto, che relega il poeta sul Mar Nero, a Tomi. Le cause della relegazione non sono mai state pienamente chiarite e si sospetta che dietro le accuse ufficiali di immoralità della sua poesia si volesse in realtà colpire un suo coinvolgimento nello scandalo dell’adulterio di Giulia Minore, la nipote di Augusto. • 17 o 18 a.C. A Tomi Ovidio muore. Opere. • Amores. 49 elegie in distico elegiaco. • Heroides 21 epistole in distico elegiaco. • Medea. Tragedia perduta, riscosse grande successo. • Ars amatoria. 3 libri in distico elegiaco. • Remedia amoris. • Medicamina faciei feminae. “I cosmetici delle donne”, in distici elegiaci (restano solo 100 versi). • Metamorphoseon libri. Poema epico in 15 libri, in esametri. • Fasti. Calendario poetico in distici elegiaci rimasto interrotto a metà (solo 6 libri). • Tristia. Opera dell’esilio, 5 libri in distici elegiaci. • Epistulae ex Ponto. Opera dell’esilio. 4 libri in distici elegiaci. • Ibis. Poemetto di invettive. • Componimenti di autenticità dubbia e opere perdute (poesie leggere o d’occasione, due poemetti per la morte o l’apoteosi di Augusto, di cui uno in lingua getica, la lingua che si parlava a Tomi). Una poesia “moderna”. Vastità della sua produzione e varietà dei generi poetici trattati: indizio di un diverso atteggiamento di fronte a scelte letterarie che coinvolgono o riflettono anche scelte esistenziali. • L’adesione ad un genere come l’elegia erotica non significa per Ovidio una scelta di vita assoluta, incentrata sull’amore: non vuole delimitare un orizzonte, non esclude altre esperienze poetiche. • Lo sperimentalismo che lo porterà a tentare i generi poetici più diversi senza identificarsi in nessuno di essi è la conferma più vistosa dell’atteggiamento di Ovidio, che fa della pratica poetica come tale il centro della propria esperienza. • Questa forte autocoscienza letteraria si accorda con la tendenza di Ovidio ad analizzare la realtà nei suoi aspetti più diversi, col suo atteggiamento eminentemente relativistico: adesione alle varie facce della realtà, accettazione convinta delle nuove forme di vita nella Roma dei suoi tempi. Ultimo dei grandi poeti augustei, Ovidio resta sostanzialmente estraneo alla sanguinosa stagione delle guerre civili: la pace è consolidata e cresce l’aspirazione a forme di vita più rilassate, a un costume meno severo, agli agi e alle raffinatezze che le conquiste orientali hanno fatto conoscere a Roma e che informano la società mondana della capitale (poesia elaborata che corrisponde in modo sensibile a questo nuovo gusto). Ciò avviene non solo sul piano dei contenuti ma anche, e non di meno, su quello formale: • La concezione della poesia che Ovidio ripetutamente manifesta e che si caratterizza come essenzialmente antimimetica, antinaturalistica, fortemente innovatrice. • La modernità letteraria si rivela anche nel linguaggio poetico, nello stile terso ed elegante, nella musicale fluidità del verso, nella ricchezza e audacia espressiva. Il compiaciuto estetismo, la scettica eleganza di questa poesia sono anche l’espressione di un gusto che fa della letteratura un ornamento della vita. Gli Amores. • Esordio poetico di Ovidio. • Raccolta di elegie di soggetto amoroso, che presenta i temi tradizionali del genere elegiaco (modelli: Tibullo e Properzio): poesia d’occasione di schietto stampo alessandrino, avventure d’amore, incontri fugaci, serenate notturne, baruffe con l’amata, scenate di gelosia. • Tratti nuovi: • Manca una figura femminile a cui si raccolgano le varie esperienze amorose (Corinna, la donna evocata qua e là con pseudonimo greco, è una figura tenue, dalla presenza intermittente e limitata, che si sospetta non avesse nemmeno una sua esistenza reale). • Il pathos che aveva caratterizzato le voci della grande poesia d’amore latina con Ovidio si stempera e si banalizza. Il dramma diventa poco più di un gioco, e l’esperienza dell’eros è analizzata con ironia e distacco intellettuale. • Scarsa presenza del servitium amoris (non è più la singola donna ma l’esperienza d’amore che diventa centrale). • Acquista peso la coscienza letteraria del poeta, che si manifesta nell’insistenza sulla poesia come strumento di immortalità. • L’elegia ovidiana non si presenta più come subordinata alla vita, ma rivendica il suo primato, la sua centralità nell’esistenza del poeta. La poesia erotico-didascalica. Ars amatoria, Remedia amoris, Medicamina faciei feminae: ciclo di poesia didascalica, impartire una precettistica sull’amore (esito naturale della concezione dell’eros già delineata negli Amores: dopo di che l’elegia, esaurita, non poteva che estinguersi). • Aggancio agli Amores: elegia 8 (I), dove il poeta rielabora il motivo della vecchia lena, astuta ed esperta mezzana che impartisce consigli ad una giovane donna (in luce sostanzialmente positiva, il che è una novità assoluta). La lena è progenitrice del poeta didascalico, del maestro d’amore, perché analoga è la concezione dell’eros che le due opere presuppongono. • Negli Amores, però, il poeta, vincolato dalla convenzione elegiaca, è anche amante, attore protagonista delle avventure d’amore. • 250 vicende mitico-storiche ordinate e collegate secondo un filo cronologico che subito dopo gli inizi si attenua fino a rendersi quasi impercettibile, per lasciare spazio ad altri criteri di associazione: • Contiguità geografica. • Analogie tematiche. • Per contrasto. • Per rapporto genealogico tra i personaggi. • Per analogia di metamorfosi. • Alla fluidità della struttura corrisponde la varietà dei contenuti: • Variabili sono le dimensioni delle storie narrate. • Diversi sono i tempi e i modi della narrazione. • La sapienza narrativa di Ovidio si rivela nella cura con cui sono accostate o alternate storie di contenuto e carattere diverso: catastrofi cosmiche e delicate vicende d’amore, violente scene di battaglia e patetiche novelle di amore infelice, torbide passioni incestuose e commovente eros coniugale. • Mutevolezza dello stile, ora solennemente epico, ora liricamente elegiaco, ora riecheggiante moduli di poesia drammatica o movenze bucoliche: le Metamorfosi sono anche una sorta di galleria dei vari generi letterari. • Ovidio non tende all’unità e all’omogeneità, quanto alla calcolata varietà, per mantenere la continuità della narrazione e il suo fluido dipanarsi. • La cesura tra i vari libri cade per lo più nel mezzo di vicende, per sollecitare e tenere desta la curiosità del lettor anche nelle pause del testo. • L’andamento cronologico è in genere piuttosto vago, viene continuamente perturbato dalle ricorrenti inserzioni narrative proiettate nel passato. Il racconto a incastro, gli permette di evitare la pura successione elencativa delle varie vicende (cornice). • Proliferazione ininterrotta di racconti: oltre a variare la forma di esposizione, questa complicazione della sintassi narrativa produce, col moltiplicarsi dei livelli e delle voci narranti, un effetto di vertigine, di fuga labirintica: il racconto sembra germogliare continuamente da se stesso e allontanarsi in una prospettiva infinita, in una dimensione al di fuori del tempo. • Metamorfosi. Tema unificante tra le tante storie narrate: il poeta cerca anche dignità filosofica e unitarietà alla sua opera, mediante il discorso di Pitagora che indica nel mutamento la legge dell’universo, cui l’uomo deve docilmente adeguarsi. Ma su questa eclettica filosofia della storia Ovidio non sembra molto impegnarsi, non troppo convinto pare il suo tentativo di fornire interpretazione filosofica al poema. • Anche se la metamorfosi costituisce il tema unificante, in alcune storie non compare nemmeno, e l’argomento centrale è l’amore, nell’universo del mito. • Alla dimensione mitica non corrisponde un’etica idealizzante. Il mito per Ovidio non ha la valenza religiosa che ha per Virgilio, è ornamento della vita quotidiana, il suo decorativo scenario (dimensione terrena delle divinità, passioni umane). • Il mondo del mito è il mondo delle finzioni poetiche, e le Metamorfosi sono una summa compendiaria di testi, di uno sterminato patrimonio letterario che va da Omero ai tragici greci e latini, alla vasta e molteplice letteratura ellenistica, fino ai poeti della Roma di Ovidio. Di questa sua natura complessa, intertestuale, il poema ovidiano è cosciente e orgoglioso (distaccato sorriso sul carattere fittizio dei propri contenuti, ironia sull’inverosimiglianza delle leggende: nello scettico distacco dai suoi contenuti, dal mondo della veneranda tradizione mitologica cui si ispira è il narcisistico trionfo di questa poesia, che vuole intrattenere e stupire. • Il carattere fondamentale del mondo descritto è la sua natura ambigua e ingannevole, l’incertezza dei confini tra realtà e apparenza (universo insidioso, governato da mutevolezza e errore). • La lingua e lo stile si prestano a mostrare la natura ambigua delle cose: il linguaggio rivela la sua pericolosità, lo scarto tra l’illusorietà di ciò che appare e la concretezza di ciò che è. • I personaggi agiscono ognuno seguendo un proprio punto di vista, convinti tutti di padroneggiare la realtà: il poeta solo depositario del vero, analizza questa moltiplicazione delle prospettive e rifiuta dunque l’impersonale oggettività del poeta epico (interventi a commento degli eventi, appelli al lettore). • Al carattere spettacolare di questo universo corrisponde una tecnica narrativa che privilegia i momenti salienti di quegli eventi, ne isola singole scene sottraendole alla loro dinamica drammatica e fissandole nella loro plastica evidenza (insistenza sulla percezione visiva della realtà). I Fasti. • Opera meno lontana dalle tendenza culturali, morali, religiose del regime augusteo. • Terreno della poesia civile: progetto di illustrare gli antichi miti e costumi latini, seguendo la traccia del calendario romano. • Dodici libri previsti, ognuno per un mese dell’anno (interrotto a metà a causa della relegatio). • Modello: Aitia callimachei. Veste di vate celebratore dell’idea di Roma, dotte e accurate ricerche di svariate fonti antiquarie (Verrio Flacco, Varrone, Livio). • L’adesione al programma culturale del regime resta superficiale: sullo sfondo di carattere antiquario egli inserisce materiale mitico greco o aneddotico, con frequenti accenni alla realtà contemporanea. Ciò gli permette di ovviare ai limiti imposti dalla natura del poema (arido calendario in versi). • Questa interpretazione dei Fasti tende ad alleggerire il poema da qualsiasi responsabilità verso l’ideologia augustea. Ma l’uso che Ovidio fa dello schema eziologico risulta essere assai più malizioso di quanto si era pensato: il poeta gioca con il suo compito di antiquario. Non è detto che la malizia del poeta si fermi al confine con l’ideologia auguste, senza toccarla. Quando Ovidio mette in dubbio e decostruisce il rapporto tra presente e passato, il gioco minaccia di diventare serio. È la romanità espressa dal calendario che viene insidiata e decentrata. Le opere della relegatio. Brusca frattura nella carriera poetica (accusa la separazione dalla capitale, dagli ambienti mondani). • Tristia. Cinque libri, la cui cifra comune è il lamento sull’infelice condizione del poeta esiliato. Appello alla moglie e agli amici per ottenere almeno un cambiamento di destinazione. Espressioni di rimpianto per la patria infinitamente lontana (mirano a suscitare un “movimento di opinione” che possa far concedere al poeta esiliato le condizioni mimime perché resti se stesso). • Epistulae ex Ponto. Forma epistolare in quattro libri: uso regolare delle formule proprie del genere e rimando ai destinatari menzionati espressamente, topoi ricorrenti. Analogie con le Heroides e consapevole riscoperta dell’elegia come poesia del pianto, del lamento, quasi un ritorno alle funzioni originarie che nella letteratura greca si attribuivano a questo genere. Costretto a diventare oggetto della sua stessa poesia, Ovidio proclama ora l’assoluta autenticità della sua materia poetica (e non ironizza più sulla finzione). Nella poesia, diventata più che mai la dimensione totale dell’esistenza, l’unica in grado di dare una ragione di vita e insieme un conforto, Ovidio ripone ogni residua speranza per il futuro (anche se non valse a sottrarlo da Tomi). • Ibis. Caduto in disgrazia, deve anche difendersi dagli attacchi dei suoi nemici, con un poemetto in distici esemplato sull’omonimo componimento perduto di Callimaco (contro Apollonio Rodio) e costituito da una lunga serie di invettive contro un suo detrattore. Al modello callimacheo è improntato l’impianto compositivo e il carattere cripticamente erudito del poemetto. Livio Vita. Nacque a Padova nel 59 a.C. A Roma non partecipò alla vita pubblica ma entrò in relazione con Augusto. I suoi interessi si rivolsero dapprima alla filosofia ma ben presto si concentrò interamente sulla sua opera storica. Morì nel 17 d.C. a Padova. Ab urbe condita libri. È la storia di Roma dalla sua fondazione (mito di Enea) fino all’epoca contemporanea (morte di Druso nel 9 a.C. o forse fino alla disfatta di Varo a Teutoburgo nel 9 d.C.) (titolo non suo). Comprendeva 142 libri, di cui sono conservati i libri 1-10 (prima decade, fino alla terza guerra sannitica) e 21-45 (dalla seconda guerra punica alla guerra con la Macedonia), che sono di ineguale ampiezza. Il suo progetto comprendeva 150 libri, fino alla morte di Augusto. Il naufragio di vaste parti della sua opera è probabilmente da spiegarsi con la suddivisione in gruppi separati di libri (la divisione in decadi potrebbe essere dovuta allo stesso Livio, che pubblico la sua opera per gruppi di libri, premettendo dichiarazioni introduttive). Livio ritorna alla struttura annalistica originaria della storiografia romana (no impianto monografico di Sallustio). Man mano che si avvicina alla storia contemporanea dilata l’ampiezza della narrazione, dilatazione che corrispondeva alle aspettative dei lettori (maggior interesse per le vicende recenti). Le fonti usate furono numerose (annalisti, Polibio, da cui attinge la visione unitaria del mondo mediterraneo, sporadicamente Catone). Spesso non sembra vagliare criticamente le fonti, non colma le lacune della tradizione storiografica con il ricorso a documentazione di altro genere. Si è visto in lui soprattutto un exornator rerum, preoccupato di amplificare e adornare la traccia che trovava nella propria fonte per mezzo di una drammatizzazione piena di varietà e movimento. Livio è probabilmente meno agguerrito di Tacito nell’uso delle fonti e non ha il suo razionalismo e scetticismo, ma ciò non significa che non sia uno storico fondamentalmente onesto e nemmeno che scriva in una gioiosa esaltazione del regime augusteo. Il regime augusteo non operò un tentativo di egemonia nei confronti della storiografia paragonabile a quello attuato nei confronti della poesia. Livio non era un oppositore ma nemmeno un sostenitore acritico. Patavinitas (provincialismo padovano nello stile): determinata posizione politico-culturale, legame stretto con le tradizioni repubblicane in una città di provincia dove era particolarmente sentito il mos maiorum? Non è possibile farsi un’idea di come narrasse la crisi della res publica (non si ha quella parte). Un atteggiamento del genere comunque non avrebbe destato particolari fastidi. Augusto tollerava il culto dei martiri della res publica. Su alcuni temi si poteva registrare un accordo sostanziale fra regime e storico (condanna del disordine politico-sociale degli ultimi decenni della Repubblica; accordo sulla politica augustea di restaurazione degli antichi valori morali e religiosi). Ma vi è una consapevolezza acuta della crisi che Roma ha di recente attraversato, e che lo storico non sembra considerare come risolta del tutto. Non riesce a scorgere nella vittoria di Augusto il rimedio miracoloso che aveva estinto una volta per tutte i germi di corruzione che avevano provocato il declino dello stato. La narrazione del passato glorioso è per lui un rifugio rispetto alla cura che gli apporta la narrazione di eventi più recenti e contemporanei, polemizzando implicitamente con Sallustio. Il pessimismo liviano però non è altrettanto lucido: riconosce sì il carattere epocale della crisi ma non vuole concentrare l’attenzione su di essa. Emerge con prepotenza la giustificazione dell’Impero di Roma, alla cui edificazione hanno cooperato una fortuna non diversa dalla provvidenza divina e la virtus del popolo romano (nessuno è in grado di esprimere una forza morale paragonabile a quella su cui si fonda lo stato romano). Esempi di storiografia ipotetica. Generale tendenza ad idealizzare il passato (oscuramento dell’ultimo secolo). Mostra riverenza, quasi sgomento davanti a tanto spazio di tempo e di fatti. Sente la pressione della storia, percepisce il peso e il condizionamento che le immagini del passato esercitano sulla coscienza del tempo presente (modelli di comportamento sociale e individuale). Il grandioso passato indica la via della salvezza. Stile. Livio si oppose nettamente a Sallustio. Quintiliano parla di lactea ubertas (stile ampio, fluido e luminoso, senza artifici o restrizioni, che evita ogni asperitas), di candor (limpida chiarezza). Sa conferire al proprio stile un’ammirevole duttilità e varietà (concessioni al gusto arcaizzante, remota solennità, canoni del nuovo classicismo, coloritura poetica frequente). Lascia largo spazio alla drammatizzazione del racconto, senza che esso soffochi l’impostazione pragmatica. La passione moralistica che contraddistingue la concezione liviana della storia (narrazione da condurre in termini di personalità umane e di singoli individui rappresentativi) risentiva della tradizione ellenistica (historia come attività retorica, categoria del letterario). Livio fa passare avanti alla ricerca della verità di per sé la concezione drammatica della storia. Il suo scopo diventa quello di mostrare che qualità mentali e morali hanno un impatto decisivo sugli avvenimenti. Scrivere la storia è far vivere gli uomini che la fanno. I discorsi indiretti diventano la forma espressiva capace di evocare stati d’animo. Spesso abili discorsi diretti sono composti con efficace arte oratoria. Quello di Livio è un modo arioso di rappresentare e narrare, in cui c’è più ethos che pathos, che sa associare al piacere suscitato dal racconto una certa grandezza delle raffigurazioni (suggestione di maestà epica). Livio si adeguò ai precetti storiografici di Cicerone, ma il suo periodare risulta spesso carico, affollato. Il periodo liviano è fatto per essere letto, non ascoltato. Seneca Vita. • 4 a.C. Nasce in Spagna, a Cordova. Famiglia ricca, di rango equestre. Giunge giovane a Roma (educazione retorica e filosofica. digressioni esasperano la tensione drammatica. Tendenza ad isolare singole scene come quadri autonomi. Macabro (gusto dell’orrido) e fosco. Apokolokyintosis (Ludus de morte Claudii, Divi Claudii apotheosis per saturam). Opera del 54 d.C. Parodia della divinizzazione di Claudio: sarcastico sfogo di risentimento contro l’imperatore che lo aveva condannato all’esilio. Morte di Claudio, ascesa all’Olimpo per essere assunto tra gli dei, ma viene condannato a discendere negli Inferi, dove diventa schiavo del nipote Caligola e poi di un liberto (ironia del fatto che i liberti lo tenevano in pugno, in vita). Lo scherno per Claudio si contrappone all’elogio del successore Nerone. Il genere è quello della satira menippea (prosimetro): impasto linguistico e stilistico (toni piani e toni parodicamente solenni). Sono presenti numerose citazioni di versi greci e latini, con intento parodico. Lucano Vita. • 39 d.C. Nasce a Cordova in Spagna (nipote di Seneca). Si trasferisce a Roma e studia presso la scuola stoica di Anneo Cornuto, dove conosce Persio. • Entra alla corte di Nerone ed è tra i suoi intimi. • 60 d.C. Recita le Laudes al Princeps. • Brusca rottura con l’imperatore (forse per gelosia letteraria o per le idee marcatamente repubblicane. Aderisce alla congiura dei Pisoni: una volta sventata, è costretto al suicidio. • 65 d.C. Muore (26 anni). Opere. • Poema epico Bellum Civile o Pharsalia (X libri, incompiuto a causa della morte di Lucano – forse dovevano essere 12). • Opere perdute: Iliacon, Catachtonion, De incendio Urbis, Medea, Saturnalia, Silvae, Laudes Neronis . I titoli sono indice di una produzione vasta e varia. Pharsalia. • Epica storica. Tema: guerra civile fratricida tra Cesare e Pompeo. Esaltazione dell’antica libertà repubblicana + esplicita condanna del regime imperiale (progressivamente in contrasto con le tendenze culturali di Nerone). • Novità: non tanto nell’argomento storico, ma nel completo abbandono dell’apparato mitologico. L’intervento divino è completamente assente. Il poema fu aspramente criticato a causa dell’assenza delle divinità, della narrazione quasi cronachistica/annalistica, dell’uso e abuso di sententiae. Queste caratteristiche peculiari sono però determinate dal fatto che Lucano si pone a confronto con l’Eneide di Virgilio. • Materiale storiografico cui fa riferimento: Livio (libri perduti) e Seneca il Vecchio (Historiae). Trama della Pharsalia. • Libro I. Proemio con argomento del poema; elogio a Nerone; motivi della guerra. Narrazione del passaggio del Rubicone, terrore nel popolo, presagi vari. • Libro II. Dibattito notturno tra Bruto e Catone Uticense su se sia giusto o meno astenersi dal conflitto oppure schierarsi con Pompeo. Viene scelta la seconda alternativa. Pompeo fugge dall’Italia. • Libro III. Sogno di Pompeo (Giulia, figlia di Cesare, minaccia sciagure); Cesare entra a Roma. Pompeo raduna gli alleati. Battaglia di Marsiglia. • Libro IV. Cesare in Spagna. Eroismo del pompeiano Vulteio. • Libro V. Consultazione dell’oracolo di Delfi: responso ambiguo e oscuro (= inutilità della religione). Pompeo si separa dalla mogie Cornelia a Lesbo (Ettore e Andromaca). • Libro VI. Sesto, figlio di Pompeo, consulta la maga Erittone. Episodio di negromanzia (un soldato richiamato in vita rivela la rovina che incombe su Pompeo. Situazione tragica. • Libro VII. Consiglio di guerra in cui Pompeo dissuade dalla guerra, ma viene sopraffatto da Cicerone. Preparativi per la battaglia di Farsalo. Orazioni di Cesare e Pompeo. Battaglia e vittoria di Cesare; fuga di Pompeo. • Libro VIII. Pompeo riprende Cornelia con sé. Va in Egitto dove spera di trovare rifugio ma il re Tolomeo lo fa uccidere. • Libro IX. Catone Uticense assume il comando dei resti dell’esercito repubblicano. Rifiuta di consultare l’oracolo di Ammone. Cesare, dopo aver visitato le rovine della Troade, arriva in Egitto e finge sdegno per l’uccisione di Pompeo. • Libro X. Cesare visita la tomba di Alessandro Magno e si pone come suo successore. Incontro con Cleopatra. Gli Alessandrini tentano una sollevazione contro Cesare. INTERRUZIONE DEL LIBRO. Il poema non è una celebrazione delle glorie dello Stato, ma una denuncia della guerra fratricida. Fondamentale è il confronto con Virgilio: la Pharsalia è un’Anti-Eneide, Lucano è un Anti-Virgilio. Virgilio è un modello da confutare e rovesciare: Virgilio ha mistificato la tirannide dell’ascesa di Augusto. Non è un’elaborazione di racconti mitici ma l’esposizione di una storia recente e ben documentata. • Fedeltà al vero storico e rinuncia all’intervento della divinità. Lucano vuole riproporre il tema storico, non velatamente come Virgilio, ma apertamente. • Rovesciamento dei personaggi, delle scene, di singole espressioni: • Profezie. Non rivelano le future glorie di Roma ma la sua rovina. • Negromanzia. (VI libro: parallelo della Catabasi di Enea nel VI dell’Eneide). • Non c’è, a differenza di Enea, un vero e proprio protagonista eroico: 3 personalità (Cesare, Pompeo, Catone): • Cesare. Malefica grandezza dominante, incarnazione del furor che si scaglia contro l’antica potenza di Roma. “Eroe nero”: seduce Lucano. È il trionfo delle forze irrazionali che nell’Eneide venivano sconfitte (furor, ira, impatientia). Incarna ferocia, crudeltà, assenza di clemenza verso i vinti. • Pompeo. La sua è una passività relativa. È un personaggio in declino (senilità politica e militare). Ciò serve a limitare la responsabilità di Pompeo nel conflitto (è la brama di Cesare, la catastrofe per Roma). Pompeo è Enea, ma con un destino avverso. È quasi una figura tragica. Profondo attaccamento alla famiglia, ai figli e alla moglie Cornelia. È consapevole della malvagità dei fati e capisce che la morte per una causa giusta è l’unica via di riscatto morale. • Catone. È consapevole da sempre di come la morte per una causa giusta sia di riscatto morale. Sfondo filosofico: Stoicismo. In Catone: crisi dello Stoicismo tradizionale, impossibilità di un’adesione volontaria alla volontà del destino, di rivolgersi al divino. La giustizia è solo nella coscienza del saggio stoico. La sua è una ribellione titanistica, Catone si fa pari agli dei, non mantiene la sua imperturbabilità. Si impegna nella guerra civile, con piena consapevolezza della sconfitta e della necessità della morte per affermare il diritto e la libertà. Evoluzione della poetica. • Visione della storia a tinte fosche. Pessimismo maturato progressivamente nella stesura del poema. Nell’elogio di Nerone e nel proemio, Nerone sembra una compensazione alla sciagura della guerra civile (nota stridente). Ma è sincerità oppure ironia velata? È un’evoluzione simile a quella di Seneca (analogia con il De Clementia e l’Apokolokyntosis) (possibile conciliazione tra libertà e principato, nella fase iniziale). Non si può distinguere una cesura netta tra primo e secondo Lucano. • Relativo mutamento di giudizio su Pompeo, ma non su Cesare. • Nel prosieguo: pessimismo radicalizzato. Stile. • Ideologia politico-moralistica invade il linguaggio: retorica (sententiae ad effetto, antitesi intellettualistiche). Ma non è vana artificiosità ornamentale. È un gesto di stile che, per ritrovare la sua autenticità, non può più affidarsi ad un’espressione semplice e diretta. • Spinta al pathos e al sublime (vicinanza a Seneca tragico). • Secondo Quintiliano: ardens et concitatus. • Incalzante ritmo narrativo dei periodi, urgenza concitata dei pensieri: si rispecchia nel continuo enjambement (la sintassi aspira ad uscire dai vincoli dello schema esametrico: eccezionale tensione espressiva del verso, che alimenta dell’impegno e delle passioni con cui Lucano ha vissuto la crisi della sua cultura). Petronio Dubbi sulla reale esistenza di Petronio: del Satyricon non si conosce con certezza l’autore, la data di composizione, il titolo e il suo significato, la sua estensione letteraria originaria, la trama, il genere letterario e i motivi del testo. Probabilmente Petronius Arbiter era un cortigiano di Nerone, del quale parla Tacito negli Annales. Nella narrazione di Tacito, si dice che muore nel 66, suicida, e che fu giudice per eccellenza della raffinatezza alla corte di Nerone (arbiter elegantiae). Ma Tacito non parla di Satyricon. Sappiamo però che l’opera deve essere stata scritta entro la fine del II secolo. Problema di datazione. Non oltre il principato di Nerone (secondo riferimenti interni). Le caratteristiche della lingua e dello stile creano problemi: sono presenti una serie di figure minori, popolane, che usano un latino profondamente diverso dal latino letterario (fonte preziosa di informazioni sulla lingua popolare). È la lingua anche dei liberti, che si distacca dal latino delle parti narrative (con un contrasto voluto). Sono presenti numerosi volgarismi (spie non di uno strato tardo, ma di uno strato basso, escluso solitamente dal linguaggio letterario). L’ambientazione è però forse precedente all’epoca neroniana. Problema della narrazione. Del Satyricon ci è rimasto un lunghissimo frammento narrativo in prosa, residuo di una narrazione più lunga. Abbiamo parte dei libri XIV e XVI e l’intero libro XV (cena). Prima della cena c’è un lunghissimo antefatto, ma non sappiamo come vada avanti. Non conosciamo il numero di libri, che per altro hanno avuto un destino complesso (mutilazioni e modifiche; l’episodio della cena ricompare solo nel XVII secolo). Il titolo è un grecismo (Satyricon (libri)). L’intreccio è di difficile ricostruzione. Trama. La storia è narrata in prima persona dal protagonista Encolpio. L’unico personaggio oltre a Gitone, che compare in tutti gli episodi del romanzo. Encolpio attraversa una successione indiavolata di peripezie, e il ritmo del racconto è variabile; talora scarno e riassuntivo, a volte lentissimo e ricco di dettagli realistici. Encolpio, un giovane di buona cultura, ha a che fare con un maestro di oratoria, Agamennone, e discute con lui il problema della decadenza dell’oratoria, ma il retore ha l’aria di un professore da strapazzo. Encolpio viaggia in compagnia di un altro avventuriero dal passato burrascoso, Ascilto, e di un bel giovinetto, Gitone; fra questi personaggi corre un triangolo amoroso. Entra in scena una matrona di nome Quartilla, che coinvolge i tre in un rito in onore del dio Priapo (ruolo importante in tutte le storie narrate da Encolpio). I riti si rivelano un pretesto per asservire i tre giovani ai capricci lussuriosi di Quartilla. Appena sfuggiti da Quartilla, i tre vengono scritturati per un banchetto in casa di Trimalcione. Si descrive con abbondanza di dettagli lo svolgersi della cena, una teatrale esibizione di ricchezza e di cattivo gusto. La scena è dominata dai liberti amici di Trimalcione e dalle loro chiacchiere. Un casuale incidente decreta la fine della cena, e libera nuovamente i nostri eroi. La rivalità omosessuale tra Encolpio e Ascilto precipita; i due, gelosi dell’amore di Gitone, hanno un violento litigio, e Ascilto si porta via il ragazzo. Encolpio, affranto, entra casualmente in una pinacoteca, e qui conosce Eumolpo, un poeta vagabondo. Eumolpo comincia con l’esibire i suoi doni poetici, recitando seduta stante la Presa di Troia, che riceve pessima accoglienza da parte dei presenti (Agamennone). Dopo una rapida serie di peripezie, Encolpio riesce a recuperare il suo Gitone, e a liberarsi di Ascilto (che scompare, a quanto ne sappiamo, dalla vicenda); ma non a liberarsi da Eumolpo, che si rivela sempre più come un nuovo aspirante alle grazie di Gitone (nuovo terzetto amoroso). Sinora l’azione si è svolta in una Graeca urbs, una città costiera della Campania: l’identificazione precisa è controversa. Encolpio, Eumolpo e Gitone lasciano precipitosamente la città imbarcandosi in incognito su una nave mercantile. Durante la rotta, il padrone della nave si rivela essere il peggior nemico di Encolpio: è un mercante di nome Lica, che ha motivo di vendicarsi per qualche precedente avventura. Con Lica viaggia una signora di dubbia moralità, Trifena, anche lei già nota a Encolpio. Un maldestro tentativo di camuffarsi produce risultati catastrofici: scoperto, Encolpio è ormai in balia della vendetta di Lica. Eumolpo tenta una mediazione, cerca di svagare i compagni di viaggio raccontando la novella della Matrona di Efeso. Interviene una provvidenziale tempesta. Il minaccioso Lica viene spazzato in mare, Trifena ugge su una barca, la nave cola a picco, e nella satira lo strumento più idoneo ad esprimere il sarcasmo e l’invettiva, nonché l’esortazione morale. La sua poesia è ispirata da un’esigenza etica, dalla necessità di smascherare e combattere la corruzione e il vizio, e si contrappone perciò polemicamente alle mode letterarie del tempo. Agli occhi di Persio la poesia contemporanea è viziata da una degenerazione del gusto che è anche segno di indegnità morale: pertanto rivendica la qualifica di rusticitas (semipaganus), contrapponendosi alla fatua ricercatezza. La sua attività letteraria si configura come una drastica operazione di chirurgia morale: radere, defigere, revellere sono il procedimento di demistificazione della realtà. Persio ricorre con frequenza al campo lessicale del corpo e del sesso (immagine ossessiva del ventre: centro attorno a cui ruota l’esistenza dell’uomo e l’emblema stesso della sua abiezione). Gusto della deformazione macabra del reale che è tipico dello sguardo allucinato del moralista. Tradizione della satira e della diatriba: tendenza a delineare tipi fissi, impressione di scolasticità. Ma ne accentua i toni forzandoli verso un barocchismo macabro. La fenomenologia del vizio è l’aspetto prevalente, relegando in uno spazio marginale la fase positiva del processo di liberazione morale (sono poche le indicazioni sul recte vivere, i precetti si riconducono allo stoicismo, che però non assume i caratteri dell’impego politico, ma di un raccoglimento interiore che è la condizione per praticare il culto della virtù). Le satire sono un ricco bacino di affluenza di modelli e autori esemplari: sermo oraziano, questioni di portata più generale, ambizioni educative, istanze pragmatiche e allocutorie pur al di fuori delle forme del genere didascalico (modello lucreziano sviluppato al rovescio). Le satire descrivono l’iter predicatorio di un maestro perennemente inascoltato, destinato a non incontrare soddisfazione ed obbedienza. Il discorso didascalico non si concede prospettive di successo, si nega la possibilità di una risposta positiva del destinatario e finisce per deprimersi in un’irosa monotonia. Indebolito il contatto con l’altro polo della comunicazione, si guadagna spazio per una letteratura dell’interiorità, per il monologo confessionale: itinerario personale verso la filosofia. Quella dell’esame di coscienza è la cifra culturale che sigla tutto il libro (tratti di un giovane che scorge il proprio male da sanare). Peculiarità dello stile di Persio: oscurità. L’esigenza realistica è all’origine della scelta di un linguaggio ordinario, comune, e del rifiuto delle sue incrostazioni retoriche (scabro, polemicamente alieno dalle sofisticazioni di levigati esotismi o arcaismi alla moda, volgarismi). Ricorre alla iunctura acris, del nesso urtante per la sua asprezza (dal punto di vista fonico e semantico), frequenti ossimori, aprosdoketon. La lingua è quotidiana ma lo stile si incarica di deformarla, istituendo relazioni insospettate fra le cose (uso audacissimo della metafora). Fra l’esigenza di naturalezza della lingua e la ricerca di audaci innovazioni espressive tende ad aprirsi uno iato, tanto che l’asserita volontà di chiarezza finisce per essere contraddetta dall’oscurità dell’artificio stilistico. La proverbiale difficoltà del suo stile non è il vezzo gratuito di un poeta scolasticamente lambiccato o la forma espressiva del rigorismo stoico cui le sue satire aspirano, ma deriva dal suo voler essere funzionale alle istanze estetiche ed etiche della sua poesia. Giovenale. Poche e incerte notizie sulla sua vita. Nato ad Aquino nel Lazio meridionale tra il 50 e il 60 d.C. da famiglia benestante (buona educazione retorica). Pare abbia esercitato l’avvocatura e si sia dedicato alle declamationes. Arrivò all’attività poetica in età matura. Visse nella disagiata condizione di cliente, privo di autonomia economica. La sua morte è posteriore al 127. Compose 5 libri di 16 Satirae in esametri. Nella I Giovenale polemizza contro le declamazioni dichiarando il suo disgusto per la corruzione morale dilagante che lo spinge a farsi poeta satirico (difficile est saturam non scribere), ma attaccherà la generazione passata. La II aggredisce chi nasconde il vizio sotto l’apparenza della virtù (omosessualità). Nella IV si narra del consiglio riunito da Domiziano per deliberare su come cucinare un rombo gigante. La V tratta di una cena e della condizione umiliante dei clienti. La VI è la feroce requisitoria contro l’immoralità e i vizi delle donne. Di fronte all’inarrestabile dilagare del vizio la musa del poeta è l’indignatio (si natura negat, facit indignatio versum) e la satira è il genere obbligato. Giovenale non crede che la sua poesia possa influire sul comportamento degli uomini, prede irrimediabili della corruzione: la sua satira si limiterà a denunciare senza coltivare illusioni di riscatto. Giovenale rifiuta di uniformarsi alla tradizione satirica precedente e rifiuta le risposte della morale diatribica, che insegna a restare indifferenti: rigetta e demistifica questa morale consolatoria con lo sdegno dell’uomo offeso dal vedere il vizio e la colpa premiati e col rancore dell’emarginato costretto all’umiliante condizione di cliente (astio sociale). Giovenale guarda al confuso spettacolo della società come a una tragedia di maschere grottesche, di fronte alla quale non gli resta che l’amara soddisfazione dell’invettiva. La sua furia aggressiva non risparmia nessuno, bersaglio privilegiato sono le donne, emancipate e libere (scempio stesso del pudore). Il suo atteggiamento verso il volgo non è democratico, è di profondo disprezzo, così come quello per i greci e gli orientali adulatori (nessuna velleità di solidarietà sociale). Tendenza all’idealizzazione del passato (buon tempo antico governato da una sana moralità): sembra il solo esito a cui l’indignazione può approdare. Negli ultimi due libri assume un atteggiamento più distaccato, mirante all’apatia stoica, riavvicinandosi alla tradizione diatribica della satira. Osservazione più generale, più pacata, rassegnata di fronte all’insanabile corruzione del mondo (ma ricompare qua e là la rabbia di sempre). Adesso che la realtà ha assunto caratteri eccezionali, che il vizio l’ha popolata di monstra, anche la satira dovrà farvi corrispondere caratteri grandiosi. Non stile dimesso, ma simile a quello dell’epica e della tragedia. Rimarrà realistica ma avrà altezza di tono e grandiosità di stile che sono conformi alla violenza dell’indignazione. Trasformazione profonda del codice formale, accostato non più alla commedia ma alla tragedia. Ricorso a solenni movenze epico- tragiche in coincidenza con contenuti bassi e volgari. Il suo realismo ha una spinta deformante, che si esplica nel tratteggiare quadri di violenta crudezza. Iperboli, toni aulici e plebei, parole alte e oscene, espressione icastica e pregnante, densa e sentenziosa. Fissità di bersagli polemici e ripetitività dei topoi moralistici (influsso delle scuole di retorica e delle declamazioni). L’epica di età flavia • 3 poeti pressoché contemporanei: Stazio, Valerio Flacco, Silio Italico. • Referente classico: Eneide di Virgilio (una sorta di rifugio e di orizzonte chiuso), con influssi ovidiani. Stazio (Publio Papinio) Vita. Nasce a Napoli nel 40/50 d.C., in seguito si trasferisce a Roma, dove è un preferito alla corte di Domiziano. Muore forse nel 96 d.C. dopo essere tornato a Napoli. Opere. • Due poemi epici in esametro: • Thebais (Tebaide). 12 libri. • Achilleis (Achilleide). Incompiuto (solo primo e inizio del secondo libro). • (De bello germanico, poema storico sulle gesta di Domiziano, andato perduto). • Composizioni occasionali (versi su commissione): Silvae (5 libri, metri vari). • Libretto per pantomimo: Agave (perduto). Silvae. • Natura occasionale e miscellanea, carattere di improvvisazione. • 32 componimenti in una varietà di metri, che spaziano dall’esametro al verso lirico. • Ogni singolo componimento ha un rigoroso schema tradizionale (carmi nuziali, di compleanno, epistole poetiche), nutrito di formazione retorica. • Ricercatezza di variazioni originali (virtuosismo). • Temi eterogenei (poemetti di ringraziamento e di lode, rappresentazione dettagliata di ambienti e personaggi della Roma contemporanea). • Carmi descrittivi e poesie cortigiane rivolte a Domiziano (impronta cortigiana e conformistica della raccolta: temi aridi ma è un dotatissimo artigiano della parola). • Committenza: società gerarchica, rete di autorevoli protettori con al centro l’imperatore. Emergono i valori che guidano questo sistema sociale: ripiegamento su vita privata e ideologia del “pubblico servizio”. Tebaide. • Tema mitologico (Eteocle vs. Polinice) e tema della guerra civile fratricida. • Modelli: • Eneide. Evidente nel numero di libri, 12, divisi in due esadi (viaggio di Polinice verso Tebe e storia di guerra). • Tragedia greca (ciclo tebano). • Ovidio (stile narrativo e metrica). • Seneca (immagine del mondo). • Contrasto tra tradizione virgiliana e inquietudini modernizzanti. • Scelta ideologica: virgiliana (salvare l’apparato divino dell’epica, rendendolo più moderno, ponendo enfasi sull’azione del fato e del destino). Ma il tema è negativo (avvicinamento a Lucano). • Divinità epiche: svuotate e appiattite come le figure umane. Sono assenti sfumature psicologiche. I pochi personaggi positivi sono schematici (ma chiusa di compensazione: trionfo della clemenza e dell’umanità di Teseo). • Ferrea necessità universale che domina la storia. • Grande quantità di eroi, trama molto complessa, ma assenza di un vero protagonista. • Assenza di riferimenti diretti all’attualità romana: ma non elude gli incubi propri della sua epoca. • Problemi (rappresentati attraverso uno scenario allucinato di fosca mitologia ancestrale): • Guerra civile tra tiranni specularmente uguali • Degenerazione fanatica e dispotica della famiglia regnante • Problema etico del vivere sotto tiranni rispettando comunque una regola morale Achilleide. Poema sulla vita di Achille (ambizioni letterarie e grandiose): audace confronto con Eneide. Il testo che abbiamo tratta solo della giovinezza di Achille. Il tono è più disteso e idillico. Valerio Flacco È il più misterioso e difficile dei poeti di età flavia (notevole raffinatezza culturale, grande elaborazione letteraria). La sua vita è del tutto ignota. Argonautica. Poema epico in 8 libri, di cui ne possediamo sette, più parte dell’ottavo. • Serie di vicende che corrispondono circa a tre quarti delle Argonautiche di Apollonio Rodio. • Modello: • Apollonio Rodio. Ma non si tratta di una mera romanizzazione, bensì di una riscrittura autonoma (abbreviazioni, aggiunte, modifiche nella psicologia dei personaggi, nel ritmo del racconto). • Vasta molteplicità di altri modelli: Omero, Virgilio, Ovidio, Seneca tragico, Lucano. • Ricerca dell’effetto, drammatizzazione, accentuazione del pathos, gusto per la brevità di espressione (per coinvolgimento del lettore). • Poesia riflessa ed elaborata (virtuosismo manieristico). • Tema mitologico, apparato divino onnipresente, impostazione morale del racconto edificante. • Stile soggettivo (dal punto di vista del personaggio): psicologizzazione del racconto. • Modo di comporre per blocchi isolati (manca di chiarezza e linearità, non ci sono coordinate spaziotemporali). • Testo narrativo difficile e oscuor, etremamente dotto (lettore ideale). • Poetica ardua e sofisticata. Silio Italico Vita. Nasce attorno al 26 d.C., è un importante uomo politico (console, proconsole). Ritiratosi a vita privata compone il suo ampio poema storico. Nel 101 viene colpito da una malattia incurabile e si lascia morire di fame. Punica. • Il più lungo epos storico latino pervenutoci. Opere. Epigrammi in 12 libri, preceduti dal Liber de spectaculis e seguiti da Xenia e Apophoreta (brevissime iscrizioni per accompagnare doni di varia natura e omaggi offerti nei banchetti dei convitati. I metri sono vari (distico elegiaco, falecio, scazonte) e anche le dimensioni dei componimenti. Gli epigrammi sono in totale più di 1500. L’epigramma come poesia realistica. A Roma l’epigramma non aveva una grande tradizione. Risale all’età greca arcaica, dove la sua funzione era essenzialmente commemorativa. In età ellenistica si emancipa dalla forma epigrafica e dalla destinazione pratica (poesia d’occasione, temi leggeri, erotico, simposiaco, satirico-parodistico, funebre). A Roma molti uomini politici amavano comporre versiculi, la poesia epigrammatica era un passatempo. Con l’opera di Marziale l’epigramma trova riconoscimento artistico. Marziale fa dell’epigramma il suo genere esclusivo, apprezzandone la duttilità, la facilità ad aderire ai molteplici aspetti del reale. È il realismo, l’aderenza alla vita concreta che Marziale rivendica come tratto qualificante della sua poesia. Il pubblico vi trovava la propria esperienza filtrata e nobilitata da una forma artistica dotata di agilità e pregnanza espressiva. È un tipo di poesia che coniuga fruibilità pratica e divertimento letterario. Marziale osserva lo spettacolo della realtà e dei vari personaggi che ne occupano la scena con uno sguardo deformante che ne accentua i tratti grotteschi e li riconduce a tipologie ricorrenti. Deformazione e grottesco sono il frutto di una tecnica di rappresentazione molto ravvicinata, un effetto ottico che focalizza singoli personaggi e tratti isolati negando loro uno sfondo, un contorno. L’atteggiamento del poeta è quello di un osservatore attento ma per lo più distaccato, che raramente si impegna nel giudizio morale. La sua è una satira sociale priva di asprezza, che di fronte allo spettacolo assurdo del mondo cui si trova ad assistere preferisce il sorriso all’indignazione risentita, e tutt’al più ama vagheggiare una vita fatta di gioie semplici e naturali, di passatempi tranquilli e affetti sinceri (idillici contorni della patria spagnola). Il meccanismo dell’arguzia. I temi degli epigrammi sono vari. Accanto a quelli più radicati nella tradizione, vi sono le vicende personali del poeta, epigrammi di polemica letteraria o sul costume sociale del tempo. Marziale sviluppa fortemente l’aspetto comico-satirico, inserendosi nella tradizione satirica romana e avvicinandosi al poeta greco di età neroniana Lucillio, da cui mutua anche alcuni procedimenti formali: la tecnica della trovata finale, della battuta brillante (tendenza a concentrare l’arguzia nella chiusa). L’epigramma acquista una fisionomia e una forma tipica, diventa un meccanismo comico costruito in funzione del fulmen in clausola. Le forme compositive sono svariate, ma in genere riconducono ad uno schema-tipo: una prima parte, che descrive la situazione, l’oggetto, il personaggio, suscitando nel lettore una tensione di attesa; la parte finale, l’aprosdoketon, che scarica quella tensione in un paradosso. Stile. Linguaggio e stile conformi, aperti alla vivacità dei modi colloquiali e alla ricchezza del lessico quotidiano (termini che designano la realtà umile e ordinaria, termini osceni - lasciva est nobis pagina, vita proba). Forme espressive molto varie (da toni di limpida sobrietà ad altri di maggior eleganza e ricercatezza). I suoi epigrammi celebrativi e adulatori sono un documento importante del linguaggio manierato in uso negli ambienti di corte. Quintiliano Vita. Nacque a Calagurris in Spagna intorno al 35 d.C., in gioventù si trasferì a Roma. Con Galba iniziò la sua attività di maestro di retorica, che ebbe molto successo (prima cattedra statale con stipendio affidatagli da Vespasiano). Morì dopo il 95. Opere. Opere perdute: De causis corruptae eloquentiae e De arte rhetorica. Institutio oratoria in 12 libri, conservatosi per intero. I rimedi alla corruzione dell’eloquenza. Problema della corruzione dell’eloquenza: • Questioni morali: diffuso malcostume della delazione, che asserviva l’eloquenza a fini di ricatto materiale e morale. • Questioni di gusto letterario: nelle virtù e nei vizi dello stile taluni vedevano l’espressione di virtù e vizi del carattere. Fu particolarmente acceso il dibattito fra i diversi orientamenti dell’oratoria: l’arcaizzante, il modernizzante, il ciceroniano. Quintiliano fu il vessillifero di una reazione classicistica nei confronti dello stile corrotto e degenerato, di cui vedeva in Seneca il maggior responsabile. Egli vede in termini moralistici il problema della degenerazione dell’eloquenza e ne addita le cause nella generale degradazione dei costumi, oltre che nel decadimento delle scuole e nella vacuità stravagante delle declamazioni retoriche. L’Institutio oratoria delinea un programma complessivo di formazione culturale e morale. I primi due libri sono propriamente didattici e pedagogici (insegnamento elementare, basi dell’insegnamento retorico, doveri degli insegnanti). I libri dal terzo al nono si addentrano in una trattazione più tecnica che esamina analiticamente le diverse sezioni della retorica. Il libro decimo insegna i modi di acquisire la disinvoltura nell’espressione (facilitas). Prendendo in esame gli autori da leggere e imitare, Quintiliano inserisce un excursus letterario sugli scrittori greci e latini (giudizi critici di carattere esclusivamente retorico). Il libro undicesimo si occupa delle tecniche di memorizzazione e dell’arte del porgere. Il libro dodicesimo affronta varie tematiche attinenti ai requisiti culturali e morali che si richiedono all’oratore e accenna al problema dei rapporti fra oratore e principe. Scopo dichiarato fu quello di riprendere l’eredità di Cicerone: nel ritorno a Cicerone si esprime l’esigenza di ritrovare una sanità di espressione che sia insieme sintomo della saldezza dei costumi. Quintiliano condanna la stravaganza modernista (polemica contro le sententiae della maniera senecana, ovvero i tratti brillanti del discorso, lo scintillare continuo di piccole sentenze che spezzano il discorso e lo rendono discontinuo e imprevedibile). Quintiliano riteneva che l’elocuzione dovesse svolgersi innanzitutto in funzione della sostanza delle cose, laddove Seneca mirava all’ascoltatore, all’esigenza di catturarne l’interesse e di guidarne le reazioni. Scontro tra due diverse istanze del discorso: • Esigenza del docere (oggettività delle cose dette, autore come unico “attore” del testo). • Esigenza del movere (carica il senso del discorso sul destinatario e fa di lui il “prim’attore” del testo). Il programma educativo di Quintiliano. All’oratore ideale si richiede una vastità culturale notevole, ma con poco spazio alla filosofia (programma di letture di autori greci e latini, disputa sulla superiorità degli scrittori antichi o dei moderni: sa distinguere ciò che deve essere attribuito specificamente al poeta e quanto all’età in cui visse). Stile. Il modello ciceroniano è reinterpretato ai fini di una ideale equidistanza fra asciuttezza e ampollosità. Ma il suo stile non è armonioso, ampio e simmetrico come quello di Cicerone (condizionamento della prosa di Seneca). In generale si deve riconoscere che il suo stile rappresenta il miglior esempio delle virtù che egli stesso raccomanda. L’oratore e il principe. Quintiliano si schierava fra quegli intellettuali che accettavano il principato come una necessità. Il suo sforzo fu di ottenere per l’oratore il massimo di “professionalità” insieme a un alto grado di dignità. L’oratore non pone in discussione il regime, ma le doti morali che deve possedere sono utili prima che al principe, alla società in generale. Quintiliano cercò di recuperare lo spazio di una missione civile altrettanto aliena dal ribellismo sterile quanto dal servilismo avvilente. Ma l’ideale propugnato da Quintiliano è un’illusione infondata. Tacito Vita. Nacque intorno al 55 d.C. in Gallia Narbonese, da famiglia forse di rango equestre. Studiò a Roma e nel 78 sposò la figlia di Gneo Giulio Agricola. Iniziò la carriera politica sotto Vespasiano e la proseguì sotto Tito e Domiziano. Sotto Traiano sostenne insieme a Plinio il Giovane l’accusa dei provinciali d’Africa contro l’ex governatore Mario Prisco. Morì probabilmente intorno al 117. Dialogus de oratoribus. Non è probabilmente la prima opera di Tacito ed è isolata rispetto al complesso della sua opera, tanto che la sua autenticità è stata contestata, soprattutto per ragioni di stile (modello neociceroniano e non severa e asimmetrica inconcinnitas delle opere storiografiche). Vi è chi sostiene che sia un prodotto giovanile legato alle predilezioni classicheggianti della scuola quintilianea. Ma è più probabile che l’insolita classicità sia da spiegarsi con l’appartenenza al genere retorico. È ambientato nel 75 o 77 e riferisce una discussione avvenuta in casa di Curiazio Materno fra lui stesso, Marco Apro, Vipstano Messalla e Giulio Secondo, alla quale Tacito dichiara di aver assistito in gioventù. Con l’arrivo di Messalla il dibattito si sposta sul tema della decadenza dell’oratoria. Messalla ne indica le cause nel deterioramento dell’educazione. Materno, portavoce di Tacito, sostiene che una grande oratoria era possibile solo con la libertà che regnava al tempo della Repubblica, nel fervore dei conflitti civili: diviene anacronistica, non più praticabile, in una società tranquilla e ordinata come quella conseguente alla restaurazione dell’Impero. Alla base di tutta la sua opera sta l’accettazione della indiscutibile necessità dell’Impero come unica forza in grado di salvare lo stato. Il principato restringe lo spazio per l’oratore e l’uomo politico, ma al principato non esistono alternative. Agricola. Dopo la tirannide domizianea pubblica questo suo primo opuscolo storico, che tramanda ai posteri la memoria di suo suocero. Il tono encomiastico richiama lo stile delle laudationes funebres. Vi è un certo spazio per digressioni geografiche ed etnografiche, che derivano da appunti e ricordi di Agricola (o dai commentari di Cesare, le notizie sulla Britannia). Ma non perde mai il contatto con il personaggio principale: la Britannia è il campo in cui si dispiega la virtus di Agricola. Tacito mette in rilievo come egli, governatore della Britannia e capo di un esercito in guerra, avesse saputo servire lo stato con fedeltà, onestà e competenza anche sotto un pessimo principe come Domiziano. Anche Agricola cade in disgrazia presso di lui. Attraversando incorrotto la corruzione altrui sa morire silenziosamente (non si sanno le cause), senza andare in cerca della gloria di un martirio ostentato (ambitiosa mors). L’esempio luminoso di Agricola indica come anche sotto la tirannide sia possibile percorrere la via mediana (apologia della parte “sana” della classe dirigente). l’Agricola si situa al punto di intersezione fra diversi generi letterari: panegirico sviluppato in biografia, laudatio funebris inframmezzata, ampliata e integrata con materiali storici ed etnografici. Pertanto risente di modi stilistici diversi (nell’esordio, nei discorsi e nella perorazione finale è notevole l’influsso di Cicerone; nelle parti narrative ed etnografiche si avverte la presenza del modello sallustiano e liviano). Germania. Al centro vi sono interessi etnografici (unica testimonianza di letteratura specificamente etnografica). Le notizie non derivano da osservazione diretta ma quasi esclusivamente da fonti scritte (Plinio il Vecchio, Bella Germaniae), di cui ne migliora e impreziosisce lo stile, ma ciò nonostante rimangono alcune discrepanze. Discussione sugli intenti di Tacito nella Germania: • Esaltazione di una civiltà ingenua e primordiale, non corrotta dai vizi di una civiltà decadente (idealizzazione delle popolazioni selvagge). • Insistendo sulla loro forza e sul loro valore guerriero Tacito intendeva sottolinearne la pericolosità per l’Impero (seria minaccia per un sistema basato sul servilismo e la corruzione). Connessione con la presenza di Traiano sul Reno: carattere non episodico delle riflessioni/preoccupazioni da cui è scaturito il trattatello etnografico. Historiae. Il progetto di una vasta opera storica era già presente nell’Agricola. La parte rimasta dell’opera tratta degli eventi del 69-70 e l’opera nel suo complesso doveva estendersi fino al 96, anno della morte di Domiziano (periodo cupo, sconvolto da guerre civili e concluso da una lunga tirannide. In 12 o 14 libri, sono pervenuti i primi 4 e parte del quinto. Il 69 è l’anno dei 4 imperatori: il principe poteva essere eletto altrove che a Roma, poiché la sua forza si basava principalmente sull’appoggio delle legioni di stanza nelle province. La ricostruzione degli avvenimenti avveniva 30 anni dopo, ma nel vivo dibatto politico che aveva accompagnato l’ascesa al potere di Traiano (parallelismo della vicenda, ma in positivo, perché Nerva fa un ottima scelta adottando Traiano). Aspetti significativi della sua posizione ideologico-politica: divorzio fra il modello di comportamento ispirato al mos maiorum e la reale capacità di dominare e controllare gli eventi. Può darsi che Tacito non approvasse la soluzione che la scelta di Traiano aveva assicurato alla crisi dello stato, ma certamente avvertiva come improrogabile la necessità di sanare la frattura fra le virtutes del modello etico repubblicano e la capacità di instaurare un reale rapporto con le masse militari. Tacito è convinto che solo il principato è in grado di garantire la pace, la fedeltà degli eserciti e la coesione dell’Impero. Il principe dovrà assommare in è le qualità necessarie per reggere la compagine imperiale, e contemporaneamente garantire i residui del prestigio e della dignità del ceto dirigente senatorio (principato moderato degli imperatori d’adozione è l’unica soluzione). Lo stile narrativo ha un ritmo veloce e vario. Tacito sa conferire efficacia drammatica suddividendo il racconto in singole scene (lavoro di condensazione). È maestro nella descrizione delle masse: timore misto a disprezzo del senatore per le turbolenze dei soldati e della feccia della capitale. Ma un disprezzo analogo lo ostenta per i suoi pari, i componenti del senato (l’adulazione che esso manifesta verso il principe cela l’odio segretamente covato nei suoi confronti). Le Historiae raccontano per la maggior parte fatti di violenza, di prevaricazione e ingiustizia: la natura umana è dipinta in toni costantemente cupi. La tecnica del ritratto mostra affinità con Sallustio: Tacito si affida all’inconcinnitas, alla sintassi disarticolata, alle strutture stilistiche slegate per incidere nel profondo dei personaggi. Ma non solo nei ritratti: ha saputo sviluppare lo stile abrupto accentuando la tensione tra gravitas arcaizzante e pathos drammatico, arricchendo il colorito poetico, moltiplicando le iuncturae inattese, ellissi, costrutti irregolari, cambi di soggetto, code a sorpresa, commenti “epigrammatici”. Annales (Ab excessu divi Augusti). Non mantiene il proposito di narrare la storia dei principati di Nerva e Traiano. La sua indagine si rivolge ancora più indietro (racconto dalla morte di Augusto a quella di Nerone). In 16 o 18 libri, forse rimasti incompleti per la morte di Tacito, non pervenuti per intero. Forse intendeva la sua opera come una prosecuzione di quella liviana (titolo) e si riallacciava alle Historie. Tacito mantiene la tesi della necessità del principato, ma il suo orizzonte sembra essersi incupito. La storia del principato è anche la storia del tramonto della libertà politica dell’aristocrazia senatoria. Tacito si oppone ad un servile consenso ma anche a coloro che scelgono l’opposta via del martirio e continuano a mettere in scena suicidi filosofici (inutilità per lo stato). Tacito conduce il lettore attraverso un territorio umano desolato, senza speranza. La parte sana dell’élite politica seguita tuttavia a dare il meglio di sé nel governo delle provincie e nella guida degli eserciti. La storiografia tragica gioca negli Annales un ruolo di primo piano, ma le tragedie non sono tanto stimolate dal • 1 a 3. Avventure del protagonista Lucio prima e dopo il suo arrivo in Tessaglia (terra di maghi). Atmosfera carica di mistero: Lucio manifesta la sua curiositas. È ospite di Milone e Panfila, una maga. Conquista i favori della serva Fotide e la convince a farlo assistere di nascosto alle trasformazioni (in un gufo), cui la padrona si sottopone. Lucio vuole sperimentare su di sé la metamorfosi, quindi Fotide gli dà un unguento ma è sbagliato e quindi Lucio diventa un asino (ma mantiene facoltà raziocinanti umane: per tornare umano deve cibarsi di rose, ma ciò avverrà solo alla fine, dopo una lunga serie di peripezie). • 4 a 7. Vicende di Lucio catturato da briganti (trasferimento in una grotta, tentativo di fuga con la fanciulla Carite e liberazione grazie al fidanzato di Carite, Tlepolemo. Queste vicende fanno da cornice alla favola di Amore e Psiche, narrata a Carite dalla vecchia sorvegliante. • 8 a 10. Tragicomiche peripezie. Lucio si trova nelle mani di sacerdoti lascivi della dea Siria, di un mugnaio fatto morire dalla moglie, di un ortolano poverissimo, di un soldato romano, di due fratelli. Lucio è testimone di tristi storie di adulteri e morte, ma è sempre spinto dalla curiositas e dalla ricerca delle rose. I due fratelli, cuoco e pasticcere, si accorgono della natura ambivalente di Lucio: Lucio fugge a Corinto dall’arena dove avrebbe dovuto congiungersi con una condannata a morte e si addormenta su una spiaggia deserta. • 11. Al risveglio avviene una purificazione rituale con preghiera alla Luna (clima mistico). Appare Iside in sogno a Lucio e gli profetizza cosa sarebbe successo il giorno successivo. Lucio mangia delle rose, diventa umano: iniziazione al rito misterico, diventa devoto di Osiride e inizia ad esercitare l’avvocatura a Roma. Problema della definizione del genere letterario: noi lo definiamo romanzo, ma abbiamo difficoltà a tracciare un vero e proprio quadro del genere “romanzo”, per il fatto che ci sono poche testimonianze. L’opera è in rapporto con le fabulae milesiae (Aristide di Mileto), a causa del carattere erotico-licenzioso, comune anche al romanzo greco, di cui le Metamorfosi conservano lo sviluppo per peripezie successive (insertae fabulae). Probabilmente la storia dell’asino- uomo è stata una fabula milesia, ma la novità originale è sicuramente l’aggiunta dell’elemento magico (volontà dell’autore di definire in termini di novità la propria opera rispetto al genere in cui si inserisce). L’intera vicenda ha l’apparenza di voler offrire una lettura di semplice svago, ma è allo stesso tempo un racconto esemplare (storia simbolica di salvazione): serietà moralistica, curiositas come elemento strutturante, che conduce Lucio alla rovinosa trasformazione dalla quale sarà liberato solo in seguito a una lunga espiazione. Alcuni episodi dell’intreccio, alcuni racconti trovano corrispondenze precise con la vicenda di Lucio, in primis la favola di Amore e Psiche (che assume un valore fondamentale nei confronti del destino di Lucio: dalla sua interpretazione deriva l’interpretazione dell’intero romanzo). Psiche è figlia minore di un re, invidiata da Venere per la sua straordinaria bellezza e data in preda ad un mostro. Dalla sommità della roccia dove si aspettava la morte viene trasportata in un magnifico palazzo, dove incontra il suo sposo, di cui ignora l’identità e che le è proibito di vedere, altrimenti ne verrebbe separata. Psiche, per la sua curiositas, spia Amore mentre dorme, ma viene scoperta ed è costretta al distacco: dolorosa espiazione, ma viene alla fine perdonata. Sposa Amore e viene assunta a dea. La favola di Amore e Psiche è il modello ridotto dell’intero percorso narrativo del romanzo, e ne offre la corretta decodificazione: • Rende più complessa la prima lettura (libri 1, 2, 3) in senso avventuristico, del romanzo: attiva una seconda linea tematica (misterica, religiosa), che si sovrappone alla prima (avventurosa), per piegare la trama verso un senso iniziatico. • La linea misterica riguarda la metamorfosi di Lucio, e le prove chi è sottoposto sono quelle di un essere che è fin dall’inizio promesso alla salvezza. • Inizialmente appare isolata dal contesto narrativo, la favola, perdendo valore sul piano interpretativo, ma viene riattivata in seguito. Alla trama di base, di derivazione folcloristica e popolare, si aggiungono elementi alessandrini e milesi, nonché elementi latini (probabile rimando ad Ovidio). Si innestano nella trama di base digressioni di vario tipo (magico, comico, tragico, epico), che denotano una volontà da parte dell’autore di sperimentare generi diversi. Il romanzo è un itinerario attraverso un mondo fatto di segni e simboli letterari, verso una liberazione nella luce e nella moralità. Vi è una presenza costante delle riflessioni dell’asino: effetto di continuità e di uniformità tra i due livelli di lettura: • Novellistico-popolare • Mitico-simbolico L’esito finale: • Identificazione di Lucio (Madaurensis) con Apuleio. • Chiave di lettura necessaria perché il romanzo sia interpretato come una storia di salvazione religiosa. • Coronamento necessario dell’opera. Fonti. Dibattito su quanto sia stato aggiunto di nuovo da parte di Apuleio (sicuramente la favola di Amore e Psiche e il finale). Gli intenti sono diversi, rispetto alle opere da cui ha preso spunto (non di mero intrattenimento): • “Lucio o l’Asino” (spurio) di Luciano di Samosata (medesimo intreccio, ma in greco, e più conciso) • “Lucio” di Lucio di Patre (perduto). Dubbi sulla sua esistenza. • Vi sono delle intersezioni tra le due opere. Luciano riprende Lucio (dibattito acceso). Lingua e stile. Generale ricerca di letterarietà: • Piena padronanza di registri diversi. • Libertà assoluta nell’accostare arcaismi, neologismi, volgarismi, poetismi, mescolandoli al lessico tecnico della scienza e dei mestieri. • Parole evocative. • Musicalità (omoteleuti, assonanze, uniformità ritmiche). • Riferimenti alla sua vasta conoscenza letteraria. La prosa apuleiana chiude il sistema retorico latino.