Scarica Linguistica generale appunti primo semestre e più Appunti in PDF di Linguistica Generale solo su Docsity! LINGUISTICA GENERALE Prof.ssa M.C. Gatti I Semestre Giov. 6/10/11 Cosa ci proponiamo? Cos’è la Linguistica Generale? In che senso possiamo parlare di una dimensione generale? È necessaria una consapevolezza del mezzo comunicativo. Rifletteremo su un’esperienza: osserviamoci in azione. Porteremo a galla un sapere non saputo. Tutti costruiamo eventi comunicativi nella molteplicità delle lingue: capiremo le dinamiche costitutive profonde di questi eventi. Lo scopo è una consapevolezza delle dinamiche che attuiamo quando costruiamo eventi comunicativi. Rifletteremo sulle dinamiche costitutive della comunicazione verbale (= umana), la quale privilegia sopra tutto le lingue. Indicheremo i fattori costituivi di questa azione. Il dire è un fare con le parole, è un’azione. Guarderemo alla comunicazione verbale nella prospettiva di ciò che ci consente di intrecciare le azioni nella realtà, e possiamo farlo attraverso la mediazione della comunicazione verbale. La comunicazione come azione → dall’azione comunicativa all’interazione. Attraverso parole possiamo intrecciare azioni nei contesti della realtà in cui ci troviamo a vivere. Questi eventi comunicativi presentano un aspetto sorprendente e per certi versi paradossale. Noi lo problematizziamo (< pro bàllo = «mettere davanti agli occhi»). Una raffica di suoni, un evento fisico è capace di veicolare sensi, significati, messaggi, eventi non fisici. Questo è l’aspetto più sorprendente del linguaggio. Come accade questo passaggio che attuiamo? I supporti fisici veicolano dei contenuti che sono ad un altro livello, al livello della sensatezza. Come attuiamo questo passaggio nel quotidiano? Questo crea stupore nello scienziato, in colui che osserva questo fenomeno. Analizzeremo i fattori costituivi di queste evento. Quando comunichiamo lasciamo che i nostri interlocutori ricostruiscano il senso. Ci appoggiamo prevalentemente alla semiosi, ma noi comunichiamo molto di più lasciandolo intendere e ricostruire al nostro interlocutore. Vd. Anna Karenina: comprendere e comunicare con le iniziali delle parole. Questo è possibile laddove c’è un minimo di condiviso esperienziale fra gli interlocutori. La comunicazione vive di un paradosso: ci devono essere due alterità, due diversità, e dall’altra parte ci deve essere, nello stesso tempo, un minimo di condiviso (common ground). Accanto alla semiosi, utilizziamo spesso questi processi che si appoggiamo agli «impliciti discorsivi» (inferenza). Usiamo parole, semiosi, ma anche processi inferenziali che ci permettono di ricostruire quei momenti che sono impliciti nei discorsi. Nesso sorprendente fra la comunicazione verbale, la speech community e la cultura di quella comunità. Le lingue sono osservatori sulla realtà. Parliamo tutti della stessa res, ma ciascuna res offre diverse mappature, diverse focalizzare nel descrivere la stessa realtà. Le lingue hanno una dimensione fortemente intrecciata alla cultura → nessi culturiologici. Rifletteremo, a partire dalla provocazione del greco logos (ragione + discorso + linguaggio) e dalle sue molteplicità accezioni, sul nesso fra linguaggio, eventi comunicativi e la ragionevolezza. I Greci avrebbero potuto benissimo coniare due parole diverse per dire «ragione» e «linguaggio», ma loro percepivano un nesso profondo fra la ragione e l’uso del linguaggio. Avevano ragione? Se si, in che senso? I nostri discorsi sono intrisi di ragionevolezza, sono profondamente logici. Come avviene l’intreccio delle parole? Si combinano a caso? Come avviene questo intreccio? Possono combinarsi solo se hanno una predisposizione logica→ principio della composizionalità. 1 Proprio perché il discorso umano ha un nesso profondo con la ragione, vedremo come proprio la ragionevolezza del discorso ci permette di convivere nelle nostre società civili. La democrazia vive sul consenso dei cittadini, il quale avviene attraverso la comunicazione. Quando l’uso della comunicazione è autentico e costruisce un consenso sano? Quando è perverso, e costruisce la manipolazione? Dinamiche della persuasione e della manipolazione. Vedremo alcune strategie manipolatorie (es. regimi totalitari del Novecento). II Semestre: affondo sull’organizzazione delle lingue che noi utilizziamo. Questi eventi comunicativi sono prodotti per comunicare e che sfruttano, come strumento, le diverse lingue storico-naturali. Quali sono i vari reparti del sistema linguistico? Vedremo lessico, morfologia e sintassi, che interagiscono con l’intonazione e l’ordine delle parole. Vedremo poi le parti del discorso e faremo emergere il loro potere comunicativo. Qual è il potere comunicativo delle singole parti del discorso, delle parole che usiamo? Prenderemo infine in considerazioni la dimensione testuale. Rifletteremo sulle dinamiche profonde dei testi per fare di voi, accanto a dei professionisti della comunicazione, dei «comunicazionisti» (→ responsabilità civile di fronte alla società). È assumersi la responsabilità di conoscere le dinamiche profonde della comunicazione per intervenire quando essa potrebbe andare in crisi. Bibliografia. Testi che serviranno per tutto il corso. Esame orale finale. Appunti del Corso da integrare coi capitoli del Manuale segnalati. Rigotti-Cigada, La comunicazione verbale, Apogeo. Differenza fra Frequentanti e non. L’ipotesi descrittiva della comunicazione verbale, il «modello» è stato elaborato con la tradizione che ci precede. Non siamo una cattedrale nel deserto. Abbiamo verificato le loro proposte, le abbiamo sfidate, e ci siamo chiesti se descrivano a pieno la nostra esperienza di parlanti oppure no. I riferimenti ai linguisti che ci hanno preceduto (medaglioni storici) è in vendita all’Ufficio Fotocopisteria. Testi raccolti da Principi di teoria linguistica di Rigotti. Dispensa storica: Testi per il Corso di Linguistica Generale. Saggi allegati alla Pagina Virtuale. Rigotti è il maestro della scuola di Linguistica generale della nostra Università. Il primo articolo è suo, Verità e persuasione. Rigotti, La retorica classica come prima forma di teoria della comunicazione. Rigotti, Towards a tipology of manipolative processes. Rigotti, La dinamica della persuasione. La manipolazione. Gatti, La negazione in prospettiva semantico-pragmatica. Le dinamiche dello scope. È per il II Semestre. Nel Corso Monografico vedremo ciò che noi facciamo quando utilizziamo la negazione, che ha un forte potere comunicativo. I Frequentanti porteranno un numero di capitoli ridotto da questa monografia. Gatti, La grammatica del lessico. Nel lessico c’è una sistematicità, una grammatica, aspetti dinamici che possono essere ricondotti a una specie di grammatica. Qui è applicata all’italiano. In questo Corso faremo continui riferimenti alla molteplicità delle lingue che possedete in quest’aula. Voi siete poliglotti! Faremo riferimenti contrastivi. Copriremo il parco delle lingue di specializzazione. All’esame verremo interpellati su esempi propri delle nostre lingue: noi di Lettere anche sulle lingue classiche. Distinzione fra Frequentati e non. La frequenza è libera, con rivelazioni random. Faremo anche dei momenti di laboratorio, in cui analizzeremo testi tipologicamente diversificati. L’esame sarà sia teorico che applicativo. Forse pre-appello a Maggio. Consigliato dividere l’esame in due momenti (8 CFU per Lingue). Non ci sono catenacci, ma il I Semestre è propedeutico a quello del II Semestre. I voti non scadono. Quest’anno non ci 2 tecnologiche (es. multimedialità che ha permesso alla comunicazione di diventare così capillare e pervasiva), e quindi anche quell’ambito della comunità scientifica che si occupa delle «scienze tecnologiche». Costellazione delle scienze che si occupano della comunicazione. Noi ci collochiamo nell’ambito delle «scienze linguistiche e semiotiche». Ven. 14/10/11 Metodo con cui lavoreremo in questo Corso: non voglio convincervi, né imporvi di ripetere quello che dico. L’Università è un luogo in cui si allarga la ragione. È un’ipotesi di verifica della comunicazione linguistica con la vostra esperienza di parlanti nativi. Non è un sapere astratto: non siamo una cattedrale nel deserto! Noi sfidiamo e verifichiamo la nostra tradizione passata. Il comunicazionista. Lo scopo di un Corso di LG nel percorso curriculare di ciascuno di noi è di dare un valore aggiunto a una competenza linguistica solida. È fare di voi dei comunicazionisti. È diverso dal comunicatore. Comunicatore = speaker televisivo, politico che ammalia, maestro in senso lato. Non è detto che il comunicatore sia anche un comunicazionista, in quanto il comunicazionista è chi possiede, conosce a fondo in modo sistematico le dinamiche costitutive della comunicazione. È una consapevolezza sistematica delle dinamiche che stanno alla base della comunicazione, conoscendo le quali sa intervenire in favore di una comunicazione efficace e felice. Sa anche intervenire, grazie a questa sua conoscenza delle leggi nascoste che dominano il processo comunicativo, in quei momenti in cui la comunicazione va in crisi. Con questo valore aggiunto, pensiamo che sarete fra brevissimo in grado di assumervi quella responsabilità civile (la società vi sta aspettando!) per cui dovete rispondere in quei momenti in cui la comunicazione va in crisi. Il comunicazionista ha una competenza fatta di due ingredienti: conoscenza delle dinamiche della comunicazione; conoscenza dei contesti comunicativi nella società in cui viviamo da cui emerge una domanda di comunicazione. Una teoria dei contesti comunicativi è già stata anticipata, ante litteram, nella Retorica di Aristotele, là dove il filosofo parla dei vari ambiti (politico, giuridico e valutativo) in cui l’oratore deve essere in grado di costruire un discorso sano, capace di costruire un consenso autentico. Come dare competenza sui contesti comunicativi? Questa è la ratio della presenza dei profili curriculari. Comporta lavorare su più livelli. Tre esempi in cui la comunicazione, entrata in crisi, richiede l’intervento del comunicazionista. (1) In un’interazione comunicativa di tipo dialogico uno scapolo dica: «Mia moglie è un’ottima cuoca». È un messaggio insensato. Perché? Dove sentite distrutto, destituito, leso il fondamento della sensatezza? Uno dei requisiti della comunicazione verbale è che sia sensata. La sensatezza dei nostri messaggi sussiste quando si rispettano dei fondamenti, delle leggi della comunicazione. Questo soggetto parla di una non-realtà come se fosse realtà. Già qui emerge che uno dei momenti in cui la comunicazione va in crisi è quando viene leso uno dei fondamenti della sensatezza, che è «il messaggio deve avere rapporto con la realtà». (2) In metropolitana ci si avvicina un tizio che ci dice «Mio cugino è farmacista». Non basta dire che è inadeguato. Qualcosa è sensato quando è ragionevole, quando ha ragioni d’essere adeguate. Il tizio non parla di una non-realtà, ma di una sua realtà: per lui il messaggio è vero. Se avesse parlato ad 5 un amico il processo comunicativo sarebbe stato perfetto: il messaggio sarebbe stato pertinente al suo interlocutore. È insensato perché un annuncio di questo tipo non era pertinente al ricevente, che non conosceva quel tizio. La comunicazione va in crisi (comunicazione insensata) quando è destituito, leso, distrutto un altro pilastro della comunicazione, un altro fondamento della sensatezza, «il rapporto con l’altro». Un messaggio ha senso quando ha rapporto con la realtà e quando è in rapporto con l’interlocutore. Deve sempre essere un «senso per (qualcuno)» il senso della nostra comunicazione. (3) Film La strada di Fellini. Il protagonista, Zampanò, possessore di un circo, interpella Gelsomina, la donna amata, e le chiede di farle advertising per il suo circo equestre ambulante. Dovrà dare tre colpi di tamburo e dovrà poi esclamare a gran voce «È arrivato Zampanò». In italiano, in questi casi, si ricorre, dal punto di vista della dinamica sul testo, a una dislocazione sulla destra. Gelsomina fa una dimostrazione ed esclama «Zampanò è arrivato». Zampanò fa su tutte le furie, e il pubblico ride. C’è una differenza dal punto di vista del potere comunicativo. Gelsomina ha distrutto il messaggio e l’intenzione comunicativa che doveva avere il messaggio. Se il nome è in prima sede, si dà più importanza al verbo. Questo è il rema del testo. L’avere semplicemente cambiato l’ordine delle parole, aver messo ‘Zampanò’ in posizione di tema, cioè in prima posizione o topic, rende l’informazione già condivisa: è qualcosa che appartiene già alla conoscenza condivisa degli interlocutori → posizione tematica. L’informazione è già nota, ‘vecchia’: l’apporto informativo nuovo è il suo arrivo. Nel messaggio originale Zampanò era in posizione rematica, dislocato sulla destra (il ciclo equestre per antonomasia è quello di Zampanò!). (4) Messaggio pubblicitario che reclamizzava un orologio cronometro. La headline, il messaggio, diceva: «Il successo è una sfida mentale». Il visual rappresentava una gara agonistica con messa a rischio della vita. Si tratta di una gara di nuoto in cui un nuotatore gareggia con concorrenti non umani ma squali. C’è la messa a repentaglio della vita. La casa pubblicitaria tradusse in inglese il messaggio in inglese, mantenendo inalterato il visual: «Success. It’s a mind game». Game e non sfida distrugge la sinergia del messaggio pubblicitario fra la componente iconica e quella non iconica. La traduzione ha distrutto la profonda logicità che c’era nel messaggio pubblicitario in lingua italiana. Avviciniamoci al primo punto che ci fa scoprire la logica profonda della comunicazione. Cos’è la comunicazione? Emergerà la logica del munus. Le definizioni di comunicazione sono molteplici. È una nozione sovra-definita (condivisione, trasmissione, mezzo, interazione, messaggio). La parola è «scambio»! Il cuore della comunicazione è lo scambio. Perché la comunicazione è uno scambio? Non diamo per scontato nulla! Def. scientifica di comunicazione secondo due metodi: insieme degli eventi comunicativi; somma degli eventi comunicativi. In matematica possiamo definire i numeri pari. Definizione induttiva → 2, 4, 6, 12, 88, 120, nesimo. Altra definizione del numero pari: 2x = y. Questa regola è un meccanismo che, applicato ricorsivamente, ci dà la totalità dei numeri pari → definizione deduttiva. Usciamo dalla matematica. Analogamente possiamo definire la comunicazione in modo induttivo (somma, elenco degli eventi comunicativi) oppure possiamo definirla come ‘regola’ in senso lato, come quel meccanismo che descrive la competenza del parlante che sta alla base di tutti gli eventi comunicativi che costruirà nella sua attività di parlante. 6 Queste due definizioni vi sembrano diverse, ma opposte? No, una comprende l’altra → sono due sguardi diversi, ma complementari sullo stesso fenomeno. Si integrano. Però entrambe le definizioni ci lasciano ancora all’esterno del segreto della comunicazione. Giov. 20/10/11 Sulla pubblicità del cronometro (Il successo è una sfida mentale). Sfida = challenge. Il corredo semantico di questa sfida è amplissimo, e può emergere la messa a repentaglio della vita. Game, nei vari contesti d’uso, non manifesta mai un’accezione di questo tipo. Entriamo nel segreto della comunicazione. Siamo ancora sul Cap. 1. Qual è la natura ultima, la dinamica costituiva ultima della comunicazione? Cosa si fa quando si comunica? Le definizioni di «comunicazione» sono molteplici → nozione sovradefinita. Gli studiosi perlopiù definiscono la comunicazioni secondo due grandi approcci: somma degli eventi comunicativi → definizione induttiva (elenco di occorrenze + generalizzazione); definizione deduttiva → si propone una regola, un meccanismo, una ‘grammatica’ che, applicata ricorsivamente, dà la totalità. Si parte dalla procedura che costruisce il fenomeno (es. 2x = y). Emerge la procedura nascosta, la logica segreta, il segreto. Sono approcci irrelati o in nesso fra loro? Si tratta di due sguardi complementari sullo stesso oggetto. Possiamo definire la comunicazione a partire dal meccanismo che, applicato ricorsivamente, permette di produrre gli eventi comunicativi. Le definizioni induttive e deduttive sono due sguardi che si integrano, anche quando l’oggetto è la comunicazione. Approccio cui si sono rivolti un gruppo di studiosi della comunicazione. Partire da un’osservazione della parola «comunicazione» con un’analisi di tipo etimologico. L’etimologia è il momento in cui ricostruiamo il percorso (affascinante e complesso) con cui un popolo ha costruito le sue parole, le sue categorie. Quando parleremo di «parole» useremo il termine «categoria» (sinonimi). Le parole sono categorie, cioè un’etichetta che il parlante utilizza per rappresentare la realtà. Etim. «categoria» → agorà (katà agorèuo), piazza del dibattito in pubblico. È un’entità che si usa per parlare della realtà. Katà = «a ridosso di». Categoria, come sinonimo di parola, indica gli strumenti che i parlanti costruiscono per poter parlare a ridosso della realtà, per poter descrivere la realtà. Quando ricostruiamo il percorso fatto da un popolo per costruirsi le sue parole spesso scopriamo lo sfondo della parola, il suo sfondo semantico, il suo significato profondo, il suo corredo cromosomico. Non sono un vezzo accademico, ma la possibilità di vedere come un popolo ha costruito la sua categoria per parlare di quella determinata realtà. «Comunicazione». Come mai è stata costruita questa parola? – La comunicazione e la logica del munus. Com-munico. Le due mm in italiano si sono assimilate. Sono rimaste in altre lingue → ted. kommunizieren; franc. communiquer. Il termine latino com-munico, attraverso communio, rimandava a communis. Questa parola ha a che fare con la dimensione del mettere qualcuno in comune. La comunicazione è un processo che serve per mettere in comune, per mettere un altro – colui con cui comunico – a parte di, fargli condividere qualcosa. Dissezioniamo il termine. Com- rimanda al cum latino. Cosa è successo nelle lingue germaniche e in quelle slave la struttura del termine latino. Ted. mit-teilen (si tratta di un calco: è stato creato riproducendo la struttura costitutiva del 7 La comunicazione intesse la vita umana e civile: di comunicazione vive la democrazia, che si fonda sul consenso. Per ottenerlo, il politico ricorre alla comunicazione. Anche l’educazione avviene attraverso la comunicazione. Quando si usano le parole, quindi, si esercita un potere. La comunicazione persuasiva: il potere delle parole. Questo potere si può esercitare in modo sano (e allora persuadiamo), altrimenti in modo perverso (manipoliamo). Passeremo dalla comunicazione persuasiva alla manipolazione. Cosa vuol dire usare le parole esercitando un potere? Che cos’è il potere? Potestas/potere (termine per noi connotato moralmente, negativamente più spesso). Per l’uomo latino il «potere» era un termine neutro. Significa la possibilità (facultas) di far fare qualcosa. Quindi questa azione di per sé non è negativa: dipende dai fattori da cui si parte! Era una vox media. Né connotato in positivo né in negativo. Poteva avere due fondamenti: 1. vis; dolus/inganno → se a fondamento del far fare qualcosa a qualcuno si assume la violenza (forza fisica o inganno); 2. auctoritas →it. «autorevolezza». Autorità non coincide con autorevolezza. «Augusto»: aggettivo quasi sacro usato per descrivere personaggi che avevano fatto crescere la comunità civile. Diceva il rispetto che nasce nei confronti di colui che ha fatto crescere la comunità civile. Augustus ha a che fare con auctoritas → verbo augeo, «far crescere». Autorevolezza è di chi, dopo averti messo nella realtà, ti mette in mano anche gli strumenti per crescere. Auctor, per i Latini, era chi esercitava questa autorevolezza. Auctores = genitori (ci mettono al mondo e ci fanno crescere). I nostri primi auctores sono i genitori. È possibile far fare qualcosa a qualcuno a partire da un atteggiamento diverso dalla forza fisica o dall’inganno. È un far fare qualcosa a qualcuno per il desiderio di farlo crescere. Noi tutti possiamo fondarci, quando comunichiamo, sul primo fondamento (→ comunicazione perversa) o sul secondo (quando vogliamo far crescere → comunicazione che mette capo alla «persuasione», e non più alla «manipolazione»). Persuasione. È una caratteristica di tutta la comunicazione: non esiste una comunicazione non persuasiva! Es. manuale di Macroeconomia. Anche il manuale cerca assenso e consenso. Anche in comunicazioni scientifiche o accademiche c’è una dimensione persuasiva. Nella nostra cultura, la persuasione è vista con sospetto. Noi moderni – e questo viene dal Novecento – abbiamo la cultura del sospetto! Da dove è nato questo sospetto? Perlopiù la persuasione è considerata imbroglio, inganno, seduzione → fenomeno che emerge quando interviene un bello che però inganna (il bello ha un compito: portare l’uomo al compimento. Questo è il bello autentico). Il bello che ti frega non ti permette di compierti. La seduzione è il processo che scatta con un bello non autentico che non ti compie. Il primo uomo accusato di seduzione fu chiamato seductor ille (Mt. 27). I Farisei leggono come inganno (suavis) il messaggio salvifico di Gesù, la promessa della Resurrezione. Suavis vuol dire «rispondente», «dolce» cioè «corrispondente alle esigenze ultime, costitutive». Proverbio: ‘Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio’. Cristallizzazione della cultura del sospetto. Vd. mito di Ulisse e le Sirene (miti = racconti che comunicavano delle verità generali). Qual è la verità del mito delle Sirene (Odissea XII)? È messo a tema il problema della persuasione. Cos’è ciò che salva l’uomo da quella comunicazione non autentica che è la seduzione/manipolazione? Il mito è tutta una metafora. 10 Giov. 27/10/11 Abbiamo scoperto la dinamica costitutiva della comunicazione: ha a che fare con la logica del munus. Nella comunicazione ci scambiamo dei beni, i sensi. I sensi dei messaggi sono dei beni che aprono delle responsabilità (commitments). Accenno al nesso profondo fra comunicazione e commercio → parola chiave della comunicazione: «scambio». Nella teologia pagana di Mercurio, dio della comunicazione (mediatore) e del commercio, vediamo adombrato il nesso fra la comunicazione e il marketing. Ermete, nel mondo greco, era caratterizzato più dalla dinamica della interpreazione (ermeneutica) → scambio fra sensi e testi. Nuovo aspetto: la comunicazione persuasiva. La comunicazione è tutta persuasiva: da quella che crea consenso (politica democratica) a quella cui ci appoggiamo nell’educazione (comunicazione pedagogica intergenerazionale). In che senso la dinamica persuasiva è qualcosa di positivo? La manipolazione è un uso perverso della dinamica della persuasione. Quando si usano le parole si esercita un potere. «Potere» → lat. potestas. Per noi spesso ha una connotazione negativa, ma a ben vedere, per i nostri predecessori antichi, il termine era neutro (vox media): «far fare qualcosa a qualcuno», che può esercitato su due fondamenti diversi: (a) a partire dalla violenza fisica o dall’inganno; (b) a partire dal desiderio di far crescere che caratterizza l’auctoritas («autorevolezza»). Problematicità che apre la persuasione: noi siamo figli della cultura del sospetto. C’è il rischio dell’inganno, dell’inquinamento della nostra mente pura. Questo problema ha una storia antica. Il problema fu trattato già in antichità. La nostra matrice è greco-latina: è la nostra tradizione. Il tema della persuasione ha avuto una lunga storia, che è già adombrata nel mito delle sirene. Come ci si salva da quella comunicazione non autentica, quella comunicazione del bello che non porta al compimento ma seduce? Come ci salva dalla comunicazione seducente? La seduzione è una dinamica che scatta da una cosa bella che inganna. C’è un bello che attrae che inganna: è un bello non autentico. C’è invece una bellezza (quella autentica!) che porta al compimento dell’io. Nel mondo greco la paìdeia («educazione») avveniva attraverso i miti. Sono racconti che dicono verità ultime, sull’esperienza. Mito di Ulisse e le Sirene. Ulisse era stato messo in guardia da Circe su due pericoli: Scilla e Cariddi e l’isola delle Sirene. Vede un praticello verde su cui biancheggiano le ossa dei marinari che prima di lui sono stati attratti dalla seduzione del canto delle Sirene e questa seduzione li ha portati al non compimento di sé. Ulisse va velocemente con la mente al ricordo di Penelope e di Telemaco, che invano lo aspetterebbero a casa qualora lui subisse la stessa fine di quei marinai morti. Mette la cera nelle orecchie dei compagni, si fa legare con una fune all’albero maestro della nave. Significato metaforico: Omero pone in veste poetica il problema seguente; come si fa a salvarsi da quella comunicazione che non ti fa crescere ma che ti inganna? Le Sirene sono metà donna e metà pesce: sono la metafora di qualcosa che ti frega. Il canto è parola e suono: le sirene sono il bello ingannevole, neanche donne a tutti gli effetti. La cera nelle orecchie dei compagni è il tentativo di Ulisse di salvarli dalla seduzione negativa dal canto delle Sirene. È una soluzione pertinente per risolvere il problema? Rimane il problema della persuasione. I deboli salviamoli dalla comunicazione perversa escludendoli! È la logica dello struzzo. Siamo tutti esposti alla comunicazione che, a volte, mette capo a una manipolazione: non possiamo salvarci da una comunicazione di questo tipo escludendoci da essa. Ulisse è l’alternativa per affrontare questo problema. La fune è il simbolo del legame: in greco «fune» è desmòs (radice dell’it. «deontologia» = codice comportamentale). Le due parole sono legate dal vb. greco dèo = «lego». La fune serve per segare Ulisse, per creare un legame. Diviene trasparente il significato metaforico della fune: ciò che salva Ulisse ultimamente dalla seduzione del canto delle Sirene è un legame, che è metafora del legame alla sua donna e al figlio che lui ricorda mentre si avvicina all’isola. Questa è la 11 risoluzione al problema: ciò che salva Ulisse è il legame ai suoi effetti familiari. Ciò che salva dal potere perverso delle parole è il legame. Oltre a dèo, i Greci usavano to dèon per dire «il dovere». Tutti noi percepiamo i doveri in modo formale. È significativo che il termine «dovere» abbia la radice del termine «legame». Sinonimo di «dovere» è «obbligo», che ha una radice che rimanda a ob-ligare («legare tutto intorno»). Cosa ci fa capire questo nesso fra legame e obbligo? Emerge un aspetto del dovere che noi non prendiamo generalmente in considerazione. Il dovere non nasce da un formalismo ma, se ha a che fare col legame, è stato percepito, quanto è stata coniata la categoria, come un comportamento che scaturisce da un legame, da una appartenenza. Gli obblighi sono dei comportamenti che nascono da una appartenenza. Pensate che riduzione che viene attuata quando si usa la parola oggi! La sua ricchezza semantica è stata ridotta. Questo problema, posto a livello poetico da Omero, fu ripreso nel grande momento di riflessione sulla comunicazione che è la retorica antica. Spesso essa si riduce all’aspetto delle figure retoriche, che sono strategie comunicative. La retorica, invece, è nata per riprendere e risolvere questo problema che era stato posto in termini poetici già da Omero. Cosa vuol dire che ciò che salva da un potere delle parole perverso è un legame? Come mai la retorica si pone questo problema? Con un flashback andiamo al passato, e collochiamoci nel mondo greco del V sec., quando nasce la retorica (in fase di democrazia). In fase di monarchia, infatti, non c’è la necessità della retorica, di conoscere quali sono le dinamiche dell’esercizio del potere della parola, in modo tale che questo esercizio sia sano. La retorica nasce quando il potere deve misurarsi con la libertà dei cittadini. Come fa il potere a misurarsi con la libertà dei cittadini? Attraverso la libertà di espressione → il potere si misura con la libertà dei cittadini perché deve ottenere consenso, in modo che i cittadini demandino ai rappresentati dee potere la governance. Nel V sec. il cittadino aveva la necessità fisica di dominare le dinamiche del discorso rilevante dal punto di vista comunitario. Dovevano saper dominare le dinamiche della comunicazione persuasiva perché dovevano intervenire in tre momenti → bisogno di competenza delle dinamiche del discorso che crea consenso in ambito: giuridico-processuale; politico-deliberativo-decisionale; valutativo. In ambito giuridico, quando si svolgevano i processi, gli imputati non godevano come noi oggi dell’ausilio di un avvocato difensore: dovevano costruirsi il discordo di difesa e difendersi personalmente, ottenendo da soli il consenso degli accusatori per scagionarsi dall’accusa. Non era semplice! Per cui nasce una professione per aiutare i cittadini imputati: nasce un tecnologo della parola: il logografo → nasce un vero e proprio mercato della parola. Si vende il discorso di difesa dietro lauto compenso. I processi di decision making venivano svolti nell’agorà, nella piazza pubblica. Qui i cittadini convenivano quando bisognava deliberare se intraprendere una certa azione oppure no a partire dal bene che poteva derivare da questa decisione alla vita consociata → ecclesìa comune. C’erano dei momenti in cui la comunità civile era invitata in agorà per valutare le gesta di un personaggio o dell’intera comunità civile → si creavano i panegirici, con cui si lodavano le imprese che avevano influito sulla vita comune e avevano fatto crescere la convivenza civile. In questi tre ambiti era necessario gestire il discorso che crea consenso → nascono i mercati della parola. Saggi dell’Aula Virtuale (Verità e persuasione, La retorica classica come prima forma di teoria della comunicazione, Towards a Tipology). Nascono nel mondo greco le botteghe dei retori, tecnologi della parola, che insegnavano a costruire i discorsi capaci di creare consenso. Advertising sulle botteghe: «Qui si impara a prendere un discorso perdente e si impara a farlo vincere, qui si impara a prendere un discorso vincente e a farlo perdere». 12 lavora sull’implicito, sull’occulto: l’ingannevolezza non è immediatamente evidente. Bisogna verificare la rispondenza in me e la ragionevolezza del discorso. C’è un nesso fra l’apporto di Aristotele alla retorica col mito di Ulisse e le Sirene? Avevamo detto che il legame che salva Ulisse è ripreso in una versione più teoretica da Aristotele. Qual è il nesso? A che condizione un logos è persuasivo in modo autentico? Ciò che garantisce che un messaggio sia persuasivo in modo sano e autentico è un legame che questo messaggio deve avere, il legame che deve avere con la realtà nella sua verità, con la verità della realtà. Persuade autenticamente un messaggio caratterizzato da veridicità, che quindi interpella la ragione, che dovrà scoprire, verificare attraverso un lavoro, la corrispondenza di questo discorso alle esigenze della sua ragione. Il sospetto che noi moderni percepiamo rispetto alla persuasione nasce da un’idea diffusa dai «filosofi della ragione debole» (es. Vattimo). C’è l’idea che quando ti si chiede di aderire, l’adesione interpelli una ragione debole. Poiché l’adesione chiede una mossa dell’animo, serpeggia l’idea che la persuasione abbia a fondamento un uso della ragione depotenziata, una ragione debole. Si aderisce col cuore! l’adesione chiede una mossa dell’affezione che aderisce. Noi moderni abbiamo un’idea di ragione che ha separato le due componenti costitutivi della ratio: (1) la ragione, quando conosce, prende atto dell’oggetto → dimensione del riconoscimento. La ragione non può fare a meno del reale; (2) momento dell’adesione. Si conosce qualcosa che si ama! Va pensata come a un pezzo di ferro attratto da una calamita, la realtà! La ragione conosce aderendo alla realtà! Che la ragione sia fatta anche di adesione, di dimensione affettiva, è documentato in alcune espressioni per dire l’imparare a memoria: in ingl. si dice to learn by heart, in fr. apprendre par coeur. L’adesione è un momento costitutivo della ragione, quindi la comunicazione persuasive chiede certamente la mossa del riconoscere e l’aderire, ma questa è una mossa della ragione. La persuasione chiede un’adesione che chiede la ragionevolezza. È un chiedere di starci a qualcosa, e ti propone le ragioni per lo starci. La ragione è fatta di intellectus e di affectus. Aristotele, inoltre, dimostra che la comunicazione persuasiva interpella la ragione a 360°, non una ragione depotenziata. I procedimenti che usiamo in argomentazione nella comunicazione persuasiva sono costruiti in un modo molto simile ai procedimenti che noi usiamo in ambito logico, quando dobbiamo dimostrare. Dice Aristotele che c’è un parallelismo (antistrophìa) fra i procedimenti che si usano in logica per dimostrare e i procedimenti che si usano per persuadere argomentando. Ne presentiamo alcuni. La nostra ragione si muove secondo due modalità: 1. può procedere dall’universale al particolare → metodo deduttivo: sillogismo → in questo procedimento la ragione parte da una premessa maior, qualcosa di universale, e deduttivamente, ci porta al particolare, la premessa minor. Ne discende la conseguentia: arriviamo necessariamente a concludere quanto concludiamo. È un procedimento logico che non apre spazio ad adesione: il sillogismo è un procedere della ragione cogente (= non lascia spazio alla nostra libertà, alla mia adesione o no). La premessa maior («Tutti gli uomini sono mortali») non può stare in altro modo: è evidente! Nel sillogismo la premessa maior è evidente! È assurdo chiedere le ragioni: l’evidenza si dimostra da sé. È «anapodittica», è incontrovertibile, è così! È evidente alla ragione di tutti. In ambito persuasivo non possiamo usare sillogismi costruiti così: useremo un procedimento vicino al sillogismo, ma è il «sillogismo retorico» (entimema, con radice di thymòs, «animo»). Per suscitare l’adesione, il sillogismo dovrà smuovere l’animo dell’interlocutore. Per questo quando persuadiamo, dice Aristotele, usiamo degli entimemi, che sono dei sillogismi costruiti in un certo modo per cui salvano la dimensione dell’adesione, hanno una specificità retorica. Es. di entimema della comunicazione quotidiana. «Luigi è pazzo. Va a 100 Km in centro città». Sono due segmenti. Se sostituiamo il punto con una congiunzione il legame è chiarissimo: «perché» (causale). È un connettore, è la marca linguistica che ci fa scoprire la relazione logica che si instaura 15 fra i due enunciati. È una spia che consente di ricostruire la relazione logica che chiameremo «connettivo». Spesso si parla di connettivi come di congiunzioni. Ma in LG distinguiamo fra connettore e connettivo. Il connettore è la strategia di manifestazione della relazione profonda, logica, semantica che è il connettivo. L’espressione viene proposta per giustificare che Luigi è pazzo. È enunciato assertivo, ma è un fatto o dice qualcosa d’altro? «Luigi è pazzo» è una valutazione su Luigi che potrebbe essere opinabile. È una tesi, e le tesi sono quegli enunciati in cui non si parla di un’evidenza, di qualcosa che è evidente, altrimenti non andrebbe giustificata. È necessario giustificare quando abbiamo qualcosa di non evidente, che potrebbe stare in altro modo: sono le tesi. Come è strutturato questo entimema? Si cerca di persuadere interpellando la ragione dell’interlocutore, proponendogli una mossa di tipo deduttivo. Gli entimemi sono procedimenti strutturati in modo simile al sillogismo, ma sono sillogismi retorici, cioè abbreviati. In questo caso è taciuta la premessa maggiore. Bisogna aderirvi con una deduzione veloce. L’entimema è un ragionamento deduttivo che parte, in quanto sillogismo retorico, da una premessa maior, che nel caso dell’entimema è però taciuta. C’è un indizio che permette di ricostruire la premessa maior, e la conclusione normalmente coincide con la tesi. Su cosa fa leva chi pronuncia questo entimema per persuadere l’interlocutore? Bisogna far leva su qualcosa che è già presente nell’interlocutore e cui lui aderisce naturalmente. Si parte, quindi, da un’adesione naturale che c’è in noi a qualche principio condiviso «almeno dai più saggi della comunità». Si parte da un’adesione di qualcosa di condiviso e, con un transfert di adesione, di arriva ad aderire a un caso particolare. Ogni entimema parte da una premessa taciuta che è un principio che fa parte del nostro commonground. Alla base di questo entimema sta il principio «Chi va a 100 km in centro città è pazzo». Questo principio fa parte del commonground, del condiviso fra l’argomentante e il destinatario (che è un decisore). L’endoxon crea l’aggancio al commonground cui fanno riferimento l’argomentante e il decisore. Fa parte della doxa, dell’opinione comune, quindi nell’entimema la premessa maior è un endoxon, un momento del sillogismo condiviso dalla doxa non manifestato. Si può individuarlo immediatamente con una ricostruzione. Premessa minor: «Luigi va a 100 Km in centro città». Il sillogismo retorico tace perlopiù la prima premessa. Non è un sillogismo che squaderna tutte le sue mosse. L’endoxon «Chi va a 100 km in centro città è pazzo» è un principio evidente, apodittico? No, ci sono dei casi in cui è concesso (es. ambulanza). Si tratta di una premessa che contiene qualcosa di opinabile, non incontrovertibile. Bozza di un discorso di mediazione di BUSH che costruiva i suoi discorsi con uno staff che proveniva dalla Scuola di Retorica della G. Washington University. Scrisse questo discorso quando mandò l’allora Segretario di Stato in Medio Oriente per mediare nel conflitto arabo-israeliano. Tenuto il 4/4/2002 al Rose Garden dopo l’attacco alle Twin Towers. L’impianto dei discordi di Bush è classico, retorico. Troviamo una momento, l’exordium, in cui abbiamo la presa di contatto col pubblico. Seguiva poi la narratio di un evento che crea climax, suspance, attesa nel pubblico. Qui si narra di un attacco kamikaze. È l’acme dell’attenzione, suscita attesa. Segue poi la fase argomentativa (argumentatio) e infine l’epilogo (conclusio). Scaricare nell’Aula Virtuale il testo originale e quello analizzato e chiosato. Entimema: «non è possibile negoziare coi terroristi perché hanno come obbiettivo la morte della controparte». Qual è il punto su cui Bush fa leva in noi per portarci ad aderire? Cos’è una negoziazione? Nasce quando c’è un conflitto. Perché ci sia negoziazione ci deve essere un conflitto di interessi fra due controparti, che non riescono a vedere, rispetto a un bene, la possibilità di una condivisione. La negoziazione porta a far vedere che è possibile uscire dal conflitto in una vittoria per entrambi. Presuppone, quindi, che ci siano le due controparti in conflitto. 2. può procedere dal particolare all’universale → metodo induttivo → generalizzazione. 16 Giov. 3/11/11 Persuade autenticamente un discorso ragionevole, un discorso ancorato alla realtà, alla verità della realtà. Aristotele analizza le strategie usate nella dinamica persuasiva, che interpella una ragione non debole, ma all’opera. Segnala nella Retorica (in nuce qui sono enucleati i fattori costituitivi della comunicazione persuasiva) il parallelismo fra processi logici e strategie argomentative. Si persuade con argomenti che fanno brillare la ragione e che chiedono di verificare la loro ragionevolezza. Avevamo visto che la ragione procede in due grandi modi: o per via deduttiva o per via induttiva. Col sillogismo siamo in ambito dimostrativo: dall’universale al particolare. È cogente, necessario: non ha una specificità retorica. invece, se la ragione procede allo stesso modo, quando si muove deduttivamente, in ambito persuasivo dovrà costruire una strategia che lascia spazio alla dimensione dell’adesione ragionevole. Se in logica usiamo i sillogismi, in argomentazione si usano quei sillogismi abbreviati che sono gli entimemi. Sottende una ragione che si muove deduttivamente, ma lascia spazio alla dimensione dell’adesione, a una strategia che smuove l’animo e chiede l’adesione del destinatario. La ragione dell’uomo si muove in certi casi in modo inverso. A volte si parte dal particolare e ci si eleva all’universale → induzione. L’induzione è il processo con cui si creano i saperi, si ampliano le scienze. Spesso si costruiscono su ipotesi condotte su vie induttive. Es.: Gatto 1: ha la coda. Gatto 2: ha la coda. Gatto 3: ha la coda. Nesimo gatto: ha la coda. Allora formuliamo un ipotesi: Tutti i gatti hanno la coda. È qualcosa di creativo. Il sillogismo non è creativo: porta inevitabilmente a una certa conclusione, non porta a novità. La generalizzazione costruisce invece qualcosa di nuovo, un’ipotesi che arricchisce il nostro sapere. Però → basta incontrare un elemento della realtà che contraddica questa ipotesi per affermare che l’ipotesi è falsificata. Es: il gatto dell’isola di Man non ha la coda. Occorrerà riformulare una nuova ipotesi. Se la ragione si muove allo stesso modo in ambito argomentativo, se procede per induzione non costruisce generalizzazioni ma exempla. L’exemplum funziona così: come in passato certi eventi A hanno dato luogo a B (A → B, con → che si legge «implica»), generalizzando possiamo ancora dire che un certo evento A dia luogo a B. Le strategie entimematiche vengono utilizzate a volte nei discorsi politici, e molto frequentemente nei testi promozionali. Aristotele + linguisti contemporanei (Scuola di Praga; Hawstin, How to do things with words; Searle: il dire come azione; Goffmann: sfaccettature che si possono riconoscere nel mittente e nel destinatario) → suoi ruoli di mittente e destinatario. Normalmente parliamo di mittente e di destinatario. È possibile sia nel mittente che nel destinatario individuare delle sottospecificazioni. Questo può essere utile sia per testi scritti che per testi orali. Goffmann segnala che quando abbiamo il mittente, possiamo precisare ulteriormente i ruoli da lui svolti: se il discorso è orale e fatto in pubblico, il mittente è un vocaliser, un «prestavoce», è colui che presta la voce al discorso. È l’oratore! Nel nostro caso è Bush. In certi casi il vocaliser è coincidente con la fonte autoriale. Qui Bush è anche autore del discorso, cioè è formulator. Stese il discorso coadiuvato dal suo staff, legato alla Scuola di Retorica della Washington University (es. Condoleeza Rice); 17 Questo orologio è di alta qualità? → tesi messa in discussione. È svizzero → argomento. Domanda: a quale punto della tesi si aggancia l’argomento? Qui l’argomento interpella un altro aspetto, non la materia. È la qualità? Gli Svizzeri rispetto al manufatto orologio sono una qualità? Sì, perché loro sono produttori rinomati. Per Aristotele è la «causa efficiente». 1. Aspetto della tesi che l’argomento chiama in causa; la causa efficiente, il produttore dell’orologio. 2. La qualità della causa efficiente è determinante per la qualità del prodotto. La dinamica è analoga a prima, ma è diverso il punto di osservazione. Struttura dell’endoxon: Premessa maggiore (riferimento alla doxa) → Gli orologiai svizzeri sono noti per essere produttori di orologi di alta qualità. Crea l’aggancio al commonground cui fa riferimento l’argomentante e il decisore. Premessa minore → Questo orologio ha come causa efficiente/produttori orologiai svizzeri. Conclusione → Questo orologio è di alta qualità. Osserviamo ora brevi discorsi (promozionali e non) cercando di far emergere la loro struttura entimematica. (1) Questa casa è solida. È tutta di cemento armato. Individuazione dei due segmenti in cui si struttura questo discorso argomentativo. La tesi è «La casa è solida». Fa appello a un principio condiviso che fa parte del nostro commonground. L’argomento è «È tutta di cemento armato». Si aggancia a quale aspetto della tesi? Alla sua solidità, ovvero alla sua materia («causa materiale»). Qpcm → qpp. Ricostruiamo l’endoxon. Premessa maggiore → Il cemento armato è un materiale solido. Premessa minore → Questa casa ha come causa materiale il cemento armato. Conclusione → Questa casa è solida (= tesi). (2) Questa piazza è molto bella. L’ha progettata il Bernini. Punto di aggancio dell’argomento alla tesi: Il Bernini è la causa efficiente di Piazza San Pietro. Implicazione logica fatta fare al destinatario: qpce → qpp. Ricostruiamo l’endoxon: Premessa maggiore → Il Bernini è un bravo architetto. Premessa minore → Questa piazza è progettata dal Bernini. Bernini è la causa efficiente di questa piazza. Conclusione → Questa piazza è molto bella. (3) Peter è preciso. È tedesco. È un entimema con una tesi e un argomento. Aspetto della tesi chiamato in causa dall’argomento: nesso d’appartenenza di un individuo alla specie. Appartenenza di un certo token («occorrenza») al type («specie»). L’individuo eredita le stesse qualità della specie. Nell’immaginario tedesco i Tedeschi sono generalmente considerati precisi. Premessa maggiore → I Tedeschi sono una specie caratterizzata dalla proprietà della precisione. Premessa minore → Peter è un individuo che appartiene alla specie dei Tedeschi. Conclusione → Peter è preciso. (4) John è tirchio. È uno scozzese. Dobbiamo qui inserire nell’endoxon qualche correttivo per stemperare il pregiudizio. Come la tesi è interpellata dall’argomento? Ancora dal punto di vista del nesso fra individuo e specie. 20 Premessa maggiore → Gli Scozzesi sono una specie nota per la loro proprietà di essere tirchi/specie che ha perlopiù la proprietà di essere tirchi. Premessa minore → John è un individuo che appartiene alla specie degli Scozzesi. Conclusione → John è tirchio. La persuasione mette a tema un affidarsi. Mappa lessicale che evidenzia che esiste un ampio gruppo di parole, un ampio campo semantico che ha a che fare con la dimensione della fiducia. Sottopunto: «Il lessico dell’affidabilità». Premessa: in che senso la dimensione della fiducia interviene nell’agire? Guarderemo poi in che senso interpella la costruzione delle conoscenze? Conclusione: per persuadere si chiede un’adesione. C’è un lessico che fa capire che la dimensione dell’affidarsi è un tutt’uno con l’esistenza umana. Se sto male, mi affido all’experteese del medico. Se voglio un abito, mi affido a un sarto. In epistemologia (= «discorso sull’episteme, sulle scienze», osserva la natura e l’origine della conoscenze). Le conoscenze epistemiche sono di tipo dimostrativo. Ma la maggior parte della nostra vita non si fonda su conoscenze epistemiche (es. Teorema di Pitagora, C.V.D.). Ci sono conoscenze non epistemiche, senza fondamento dimostrativo. Tu ti ricordi di essere nato l’11 agosto del 1990? La data di nascita è una nostra conoscenza, fa parte del nostro commonground, ma noi non ce lo ricordiamo! Che tipo di conoscenza è? Avviene per pistis, per credito dato a qualcuno. A → B ← C. B è intermediario, dice ad A qualcosa di C, è testimone di C. È l’argomento per autorità, ex auctoritate. Una conoscenza di questo tipo comporta l’attendibilità del testimone. Bisogna validare la fonte, verificare l’affidabilità della fonte. In epistemologia, queste conoscenze vengono definite «credenze» (= conoscenze attraverso una fonte di cui abbiamo verificato l’attendibilità). Sono conoscenze indirette. A volte nella realtà si verifica che la conoscenza di un dato che per pochi è diretto per la maggior parte delle persone è indiretta. Es.: pinguini al Polo Sud. Aristotele: la dimensione della pistis è interpellata in ambito comunicativo. C’è un lessico che dimostra quanto la fiducia sia rilevante nella nostra esistenza. Osserviamo diacronicamente dalla radice indoeuropea. Nell’Ottocento, nella prima fase della riflessione linguistica, si è svolto un lavoro storico sulle lingue, confrontando le varie lingue fra loro, e si capì che è possibile ricostruire una proto-lingua da cui si sono sviluppate, in diacronia, le parole che noi utilizziamo attualmente. *BHIDH- = «far fare qualcosa a qualcuno». Era un suono probabilmente aspirato. *BHEIDH- Gli esiti sono in ambiti dell’esistenza umana connotati dal tratto della fiducia. Ambito politico: lat. fides («reciproca fiducia») su cui si fonda la convivenza umana. La fiducia reciproca era paragonata al rapporto fra fratelli. Si è fratelli quando si ha un padre. Loro onoravano Juppiter, che era il garante di questa fides che fondava la reciproca intesa fra gli uomini. Era chiamato fidius, garante della fides. Chi viola, distrugge la fides, è per-fidus, «perfido». Se la fides è il collante della comunità civile, quando la fides diventa stabile nasce il foedus, il «patto» che si instaura fra gli appartenenti della comunità civile. Il foedus è alla base del termine che indica la Confederazione Elvetica in tedesco (Eid genessenshaft, «convivenza fondata su un giuramento»). Altro ambito in cui interviene la fides: economia. 21 Es. fido bancario, fideiussione, federalismo, federazione, federale etc. De Bello Civili: presso questo popolo nulla erat fides: non c’era nessuno a prestare fiducia a Cesare, a fargli un credito. Fides indica anche la fiducia alla base dell’operazione economica del fido bancario (si fa quando c’è una fiducia nei confronti di colui a cui si fa il fido). Fideiussione = il debitore deve restituire il denaro al creditore, e si ha questo processo per cui interviene un terzo che garantisce presso il creditore il pagamento degli interessi da parte del debitore. Perché accanto a «fido» in italiano noi usiamo anche «credito»? La radice indoeuropea qui interagisce con la radice di credo, costituito da due elementi: cre- ha a che fare con crescere, do ha a che fare con dare. Credo = «darsi, affidarsi per crescere». Noi non usiamo credere in ambito finanziario, ma i Latini dicevano credo tibi pecuniam («far credito», «prestare») → da qui deriva la presenza in italiano di «credito». Federalismo = tendenza delle parti a stare insieme sulla base di un contratto. Ambito matrimoniale: fede (fides) nuziale. Nelle lingue germaniche e slave continua con qualche mutamento: la radice *BHIDH-/*BHEIDH- ha sviluppato una accezione di costrizione che mancava alla radice indoeuropea. Continua nel tedesco bitten («esortare»), con un tratto più forte, quasi di costrizione (ti chiedo, ma mi devi assolutamente rispondere!). Lingue slave: russo beda («costrizione», «necessità»). Se si vive in uno stato di costrizione, si vive in uno stato di povertà (bednyi, «povero»). Verbo podebit’ («vincere», «sconfiggere»), da cui podeba. Osserviamo il potere della parola esercitato in maniera perversa, esercitato a partire dalla vis. Mette capo alla manipolazione. Faremo emergere alcune strategie manipolatorie per poterle riconoscere nei testi. Già Aristotele diceva che con gli stessi ingredienti si possono formare farmaci ma anche veleni. Bisogna conoscere i sofismi, quei ragionamenti fallaci, manipolatori per far emergere le dinamiche della manipolazione. Ricerca svolta in collaborazione con l’ILS (Istituto Linguistico-Semiotico, Lugano) sulle strategie manipolatorie nei regimi totalitari. È possibile lavorare su tre tipi di testi che hanno a che fare con le diverse fasi di avvicendamento di un regime totalitario. Il regime ha fasi di vita, e c’è una serie di testi in cui l’ideologia al potere pone le sue basi fondative («testi fondativi»). I testi fondativi si analizzano nella prima fase del regime totalitario. Nella fase successiva, l’i-deologia deve raggiungere la totalità della comunità («testi mediatici» o di propaganda). Infine, ci sono dei testi a cui un regime si appoggia nella fase della storia di un regime che coincide con la perpetuazione dell’ideologia al potere, una perpetuazione intergenerazionale (testi scolastici/educativi, dizionari → Orwell, 1984: new speack del Big Brother). Giov. 10/11/11 Per una tipologia dei processi manipolatori. Se la retorica prende in considerazione le ragioni della forza probatoria del discorso (= che fondano la forza persuasiva del discorso), essa non potrà esimersi dal prendere in considerazione anche le dinamiche manipolatorie. Questi sono i risultati di una ricerca svolta sulla manipolazione a partire dai testi prodotti dai regimi totalitari. Si considerano le tre fasi di sviluppo del regime totalitario: 1. fase in cui viene posta la definizione dell’ideologia al potere → testi fondativi; 22 Ven. 11/11/11 Presupposed content = significati impliciti. Fra questi, alcuni si collocano a monte del nostro dire (i presupposti). Accomodamento ai presupposti (presupponitional accomodation) = aderire ai significati presupposti che il messaggio di cui siamo i destinatari comporta. C’è una ragione logica e ce n’è una psicologica. I presupposti fanno parte del common ground. Sui presupposti esercitiamo un controllo critico minore → è lì che possiamo intervenire violando le presupposizioni. Es.: Ti dico che esiste Luigi, ti dico che esiste Roma. Luigi è partito per Roma → testo costruito in modo non pertinente. Molte delle informazioni sono ridondanti. È un processo di decostruzione del testo, esplicitando tutti i presupposti su cui esso si fonda. La comunicazione non procede più. Mettere in luce i presupposti, sottoporli a critica viene letto come un tradimento dell’appartenenza alla weness, la comunità cui noi apparteniamo. Le presupposizioni fungono da test di fedeltà. Quindi → si possono utilizzare delle strategie manipolatorie (Frege, «la volontà del popolo») coi sintagmi nominali. Col nome la cosa esiste! Possiamo usare nomi e sintagmi nominali per far passare l’esistenza di cose discutibili. Non esiste un denotato di volontà universale. Esiste il mandato elettore, una recensione delle singole volontà. I sensi sono linguistici, sono i significati delle parole che noi usiamo per attestare l’entità, mentre il denotato ha a che fare con la realtà extra-linguistica. Altro gruppo di strategie manipolatorie che riprendono un istinto umano: nell’uomo c’è l’istinto a riferirsi alla totalità. È una dimensione antropologica, che viene recuperata dalle strategie manipolatorie. È una dimensione imprescindibile del soggetto umano. C’è una tensione a riferirsi al tutto. La ragione dell’uomo ha questa apertura alla totalità: non si accontenta di qualcosa di meno della totalità dei fattori. Questo istinto naturale, questa tensione umana è chiamato a fondamento di quelle strategie manipolatorie che si basano sulla «fregatura della totalità». Ci sono strategie che Ci presentano una parte e la fanno passare per il tutto. Riflettiamo su «parziale» e «particolare». Quale differenza c’è? Parziale è non completo, deficitario. Particolare è specifico. Il «particolare» è consapevole di essere parte: è quella parte che è consapevole di essere parte. È consapevole del suo statuto teorico, e non ha nessuna pretesa di essere la totalità. «Parziale» è una parte che, pur essendo parte, ha la pretesa di passare per il tutto. Le strategie manipolatorie fanno passare una parte come se quella parte fosse il tutto. Sono caratterizzate da una dinamica manipolatorie vicina alla dinamica dello sbaglio, dell’errore. Lo sbaglio è sempre un abbaglio: la luce si focalizza su un elemento e non prende in considerazione la presenza degli altri elementi, dimentica la totalità di quel contesto. La dinamica della manipolazione è stata definita anche «peccato retorico»: si sceglie un bene piccolo e si rifiuta un bene grande. Esempi. Questa dinamica era alla base di questo topos (= mossa argomentativa) che si usò quando, per andare contro Stalin, l’Europa si alleò con Hitler: «Il nemico del mio nemico è mio amico». È vero questo? Supponiamo che si sia L1, un ladro di bicicletta. Arriva L2 che ruba la bicicletta a Ladro 1. L2 è nemico del mio nemico, di L1. Possiamo dire che L2 è nostro amico? Il nemico del mio nemico non è mio amico. Ragioni/dimostrazione (fregatura della totalità): 25 L’Europa condivideva con Stalin, aveva in comune con lui un nemico. Avere un nemico in comune è avere qualche ragione in comune con Stalin. Ma la manipolazione fa passare la condivisione di una parte di ragioni come se fosse la condivisione di tutte quelle ragioni che fanno di un soggetto un amico, come se fosse la condivisione della totalità delle ragioni per cui posso dire «Tu mi sei amico». La storia ha dimostrato che era una condivisione di ragioni particolari. Stessa dinamica alla base delle operazioni di agenda setting: è necessaria nei notiziari o nei giornali. In questa operazione c’è in agguato il pericolo della manipolazione (in Towards c’è l’espressione «This is the news for today», derivata dall’analisi del telegiornale). C’è una bella differenza fra «notizia» e «informazione». Quando abbiamo una notizia (news) e quando un’informazione? Sono equipollenti? L’informazione è qualcosa di non diverso da un mero dato che permette di aggiornare un data base, un archivio dati. La notizia ha qualcosa di più (‘Ho da darti una bella notizia!’). ‘Mio cugino è farmacista’ per Rigotti era un’informazione: lui non era caratterizzato dal tratto dell’interesse. La notizia ti interessa, ti coinvolge: ne va di te (< intersum). È qualcosa di «pertinente» (termine tecnico). Crea involvment, «coinvolgimento». Se è vero che ogni notizia è un’informazione, non si dà che un’informazione è una notizia. I Tg terminano dicendo «Queste sono le notizie». Il processo di agenda setting consiste in questo: nell’ambito degli eventi capitati nella giornata si selezionano quelle considerati notizie, considerati significati per il target, per il destinatario. Abbiamo notato un solo caso, di un telegiornale italiano, in cui lo speaker disse: «Queste sono le notizie riguardanti i fatti che oggi abbiamo selezionato per voi». Nell’agenda setting si prende una fatta e la si fa passare coma la totalità dei fatti pertinenti. Dagli anni ’60 in avanti si nota che oggi le notizie selezionate sono quasi limitate solo alla politica nazionale. Alcuni fatti di alcuni contenenti non sono mai presenti nei nostri notiziari. Ma sono veramente i fatti significativi per noi quelli presentati dal radiogiornale? Il Tg non può mai presentare la totalità dei fatti. Ma spesso fanno passar ei fatti selezionati come le news. «Tentazione della torta» (Cake temptation). C’è a volte la tendenza a manipolare presentando alcuni beni come se fossero beni statici, come se fossero delle torte, come se fossero una fixed pie. Es. risorse di una nazione o di un’azienda: ‘la fetta che tu hai l’hai tolta a qualcuno. Facciamo giustizia’. La torta ha un limite, un confine: è un bene statico. È il principio dell’invidia alla base del giustizialismo: facciamo giustizia, io ridistribuirò la risorsa. Il concetto di invidia è infantile (bimbo a cui nasce il fratellino: non intuisce che c’è la possibilità di partecipare a una risorsa – l’affetto dei genitori – che è per tutti, abbonda). Il bene viene presentato come se fosse torta, statico. Invece, è sempre possibile (come è possibile preparare una seconda torta) che le risorse disponibili di una certa nazione/impresa non è la totalità delle risorse possibili, è sempre possibile aumentare, accrescere le risorse. «Istinto di appartenenza» (o «appartenenza al branco»). Naturaliter l’uomo è appartenente. «Se non sei così, sei dei nostri». Questa strategia fu usata nel ’56, quando vi fu l’invasione dell’Ungheria, e si leggeva: «I carri armati fanno del gran male, però ti assicuro che in questo caso fanno molto bene. Se non la pensi così, non sei dei nostri». Il rischio è l’esclusione dall’appartenenza. Oppure: «Non sarai mica uno di quelli che credono ancora che…»: è una minaccia di inclusione in quel famigerato gruppo di quelli che pensano che… In questo l’appartenenza è vista come negativa. Quindi: (A) Istinto umano di riferirsi alla totalità. Topos: «Il nemico del mio nemico è mio amico». Operazione di agenda setting: this is the news for today. Cake temptation. Istinto di appartenenza: «Se non la pensi così, non sei dei nostri». «La volontà del popolo» → accomodamento ai presupposti (denotato). 26 (B) Polarity temptation: trattare in un certo modo, come se fossero polari, alcune opposizioni che non sono polari. Ha a che fare con «paradigmi». Esempi. Prendiamo i colori. Nel paradigma (= insieme) cromatico abbiamo giallo, rosso, blu, nero… È una serie di elementi che stanno fra loro in un rapporto di alternatività: sono alternativi. È un paradigma «multiplo», perché contiene molti elementi. «Questa giacca è nera»: è un enunciato assertivo → escludiamo dal nostro piccolo testo – che contiene un elemento del paradigma cromatico – tutti gli altri elementi previsti dal paradigma dei colori (quasi, li neghiamo). «Questa giacca non è nera»: l’enunciato è negativo: neghiamo un predicato (il modo di essere, il colore nero), e il testo ora è come aperto a tutti gli elementi che prima avevano scartato. La ragione umana è caratterizzata dal tratto della possibilità, dalla categoria della possibilità. Quando neghiamo un predicato, apriamo il testo a tutte le altre possibilità (la giacca può essere o… o… o… → nesso di disgiunzione). Disgiunzione degli elementi alternativi contenuti nel paradigma semantico. Quando si nega un predicato appartenente a un paradigma multiplo, la negazione di questo predicato comporta l’apertura alla totalità degli altri elementi previsti dal paradigma. Nelle nostre lingue, abbiamo più paradigmi. Osserviamo ora i paradigmi a struttura polarizzata (o «antinomie» o «opposti polari»). Le opposizioni polari creano attorno a sé dei paradigmi: paradigmi a struttura polarizzata (es. lampada on-off: guardiamo questa opposizione polare dentro il paradigma che contempla i modi di essere della lampada). Es. sposato-celibe: appartiene a un paradigma semantico che prevede due possibilità. Quando un paradigma contiene solo due alternative, parliamo di «paradigma binario». Gli elementi contrari sono dei contraria immediata (dicevano i medioevali). Basta fare il «test del grado»: è possibile una gradualità o no? Una lampada è più o meno accesa? È un uomo più o meno sposato? L’asserzione esclude dal testo gli altri elementi previsti dal paradigma. «Questa luce non è accesa». La negazione apre il testo agli elementi esclusi dall’asserzione. Prima, essendo il paradigma multiplo, si apriva la possibilità a una disgiunzione di elementi. Anche qui il testo si apre a possibilità alternative, ma è una sola! Nei paradigmi polari binari, quando neghiamo un elemento, un estremo dell’opposizione, il testo si apre all’altro estremo dell’opposizione. La negazione di un estremo dell’opposizione implica l’affermazione dell’altro. Altre opposizioni polari: bianco-nero amico- nemico ricco-povero buono-cattivo. Come prima acceso-spento, anche bianco-nero circoscrive un paradigma a struttura polarizzata (come fanno le altre opposizione sopra). Ma non è più un paradigma binario: abbiamo un vasta gamma di colori fra bianco e nero, ma non sempre siamo in grado di indicare con un lessema. Non abbiamo tante lessicalizzazione, cioè un termine/parola unica che individui il valore scalare intermedio. Le sfumature di colore fra bianco e nero sono moltissime, non c’è solo «grigio». Nel caso di buono-cattivo non abbiamo una lessicalizzazione che ci dica un grado intermedio: dobbiamo usare perifrasi. Es. «Questo non è bianco» oppure «Non sei buono». Negando un estremo di questa opposizione, si afferma tout court «Sei cattivo»? Non necessariamente. È una delle possibilità. Se siamo in un paradigma a struttura polarizzata non binario ma «scalare», la negazione di uno dei due estremi dell’opposizione non comporta necessariamente l’affermazione dell’altro estremo. 27 Secondo modello. Scienze linguistiche. Saussure. La semiosi è stata messa in luce nei suoi fattori costituitivi da Saussure, fondatore dello Strutturalismo → segna la nascita della Linguistica come disciplina sincronica. Anche in Saussure non c’è a tema la comunicazione verbale. Egli parla di linguaggio che permette a un mittente e a un destinatario di produrre un messaggio, ma non parla di comunicazione verbale! Saussure ha formulato il suo modello come circuit de la parole («circuito della parola», ma lett. «circuito del discorso», meglio «circuito del messaggio»). Secondo Saussure tutto il messaggio consiste nel fatto che abbiamo un mittente che produce segni che vengono inviati a un destinatario il quale è in grado di interpretare i segni. Fattori costituitivi: mittente e destinatario. Il mittente è in grado di produrre segni; il destinatario è in grado di interpretare i segni. Come mai sono in grado di scambiarsi un messaggio verbale? Perché condividono la stessa competenza linguistica: entrambi possono scambiarsi messaggi (produzione e interpretazione di segni) perché sono accomunati da una conoscenza della lingua, perché condividono un codice, la semiosi, i segni di quella lingua. Rispetto a Shannon, notiamo come differenza macroscopica il fatto che qui compaiono gli interagenti, le soggettività umane → relazione intersoggettiva. Ma ancora non compare la nozione di comunicazione e lo scopo comunicativo. Questo aspetto emerge per la prima volta in un autore poco menzionato. Normalmente si dice che è Jakobson che ha segnalato che il linguaggio è uno strumento che permette la comunicazione, ma lui si rifà a Karl Buhler (1934, Sprachtheorie). Karl Buhler. Dice che occorre riflettere anzitutto sul segno: parte dal segno linguistico e colloca il segno in un fascio di relazioni, in tre fasce di relazione, mettendolo in rapporto (1) con l’emittente, (2) con il ricevente e (3) col livello oggettuale (il livello della realtà). Dice Buhler che il segno instaura relazioni con questi tre elementi del processo comunicativo. Rispetto all’emittente, il segno è un «sintomo» e svolge la funzione di «espressione» (fa emergere qualche cosa da parte del mittente → effetti sintomatici. È sintomo in quanto utilizzato da un soggetto umano – il mittente – ma ha funzioni diverse in base a chi si sta rivolgendo nel processo comunicativo). In rapporto al ricevente, questo segno viene colto come «segnale», svolgendo una funzione di «appello». Il segno, però, entra in questo triplice fascio, per cui è anche in rapporto col livello degli oggetti. Rappresenta il livello della realtà, e abbiamo quindi a che fare con un «simbolo» e ha una funzione di «rappresentazione». Il simbolo è il segno che attesta la realtà, la documenta e la descrive. Emerge la rilevanza del segno come strumento che serve a permettere un processo comunicativo fra un mittente e un destinatario. Jakobson riprende Buhler, ed è lui l’autore a cui dobbiamo la prima elaborazione del processo comunicativo visto nei suoi fattori costituitivi. Roman Jakobson. Fa parte di una scuola strutturalista, la Scuola di Praga. Riprende l’idea di segno come strumento usato per la comunicazione. Siamo a inizio Novecento, dopo che, nell’Ottocento, la Linguistica aveva preso una strada diacronica. N.B. La riflessione sulla lingua è antica quanto l’uomo. La Linguistica assume statuto di disciplina autonoma nell’Ottocento, epoca orientata alla storia (→ storicismo). L’approccio dell’Ottocento alla lingua è diacronico (→ indoeuropeo). Con Saussure e lo Strutturalismo si cambia l’orientamento, e si segnala che, se vogliamo capire come funzione veramente la lingua, dobbiamo osservare segmenti di lingua contemporanei → sincronia. Jakobson, per sottolineare il suo modello e segnalare la sua rilevanza, afferma che il linguista interessato alla comunicazione verbale e al suo funzionamento, non deve porsi la domanda rispetto al weshalb 30 («perché» abbiamo questa parola, come si è sviluppata intorno al tempo → a Praga la lingua franca era il tedesco!), dobbiamo porci la domanda rispetto al wozu («scopo», a cosa serve il linguaggio). Quindi → il principio del modello di Jakobson è teleologico: osserva il linguaggio in rapporto alla sua finalità. Segnala che la comunicazione è un processo complesso, da individuare nelle sue funzioni. Individua i fattori imprescindibili perché si dia il processo comunicativo. Mittente che invia un messaggio a un destinatario. Il messaggio si riferisce a un contesto (= denotato, referente). Il messaggio deve essere verbalizzabile, «suscettibile di verbalizzazione» (= deve essere tradotto in una lingua che noi parliamo). È necessario che mittente e destinatario condivano un codice (= lingua storico-naturale utilizzata da una determinata comunità linguistica, quella in cui avviene il processo comunicativo). La comunicazione avviene attraverso un contatto, che indica il canale della comunicazione (es. aria durante la lezione; filo del telefono). A ciascun fattore della comunicazione verbale corrisponde una funzione comunicativa o testuale. Funzione comunicativa corrispondente al mittente → emotiva (esprime la sua attitude, la sua posizione rispetto alla realtà, «patemica», la sua einstellung). Linguistica e poetica, 1958 (Dispensa storica, pg. 42-48: da portare all’Esame). Destinatario → funzione conativa. Contesto (denotato/referente) → referenziale. Messaggio → poetica. Jakobson è riuscito a spiegare la poetica in una concezione linguistica unitaria. Spesso è stata trattata separatamente dalla spiegazione scientifica della comunicazione: è una delle funzioni del linguaggio. Contatto/canale → fatica. Codice → metalinguistica. Ogni messaggio che noi costruiamo è orientato in modo prevalente a uno dei sei fattori della comunicazione. Ci sono messaggi che sono orientati prevalentemente al destinatario (es. advertising). Diario: prevalentemente orientato a colui che stende il diario (mittente). Le 6 funzioni sono compresenti nel messaggio. Se ho un messaggio promozionale, certamente avrà una funzione referenziale (si riferirà il prodotto pubblicizzato); ha un mittente (agenzia pubblicitaria, copy); avviene attraverso un canale, ma è orientato in modo particolare al destinatario. Svolge una molteplicità di funzioni, ma svolge una funzione dominante. Ciascun messaggio svolge sempre una funzione dominante, e questa funzione dominante coincide con l’orientamento prevalente di questo messaggio. Dizionario/Grammatica: funzione metalinguistica. «Pronto?»: funzione fatica → serve per gestire il canale, per entrare in contatto. Saussure > Buhler > Jakobson. Prospettiva pragmatica. Svolta ulteriore. Quando noi parliamo comunichiamo, ma questo dire è un agire → Pragmatica. Ven. 18/11/11 31 «Svolta pragmatica» = osservazione alla comunicazione verbale vista come strumento che ci consente di intrecciare le nostre azioni nella realtà. Rielaborazione dei modelli precedenti→ ulteriore caratterizzazione dei ruoli dei partecipanti. Es. Bush: specificazione del mittente e del destinatario (Goffmann). La Pragmatica riprende la riflessione degli antichi: il dire è un fare con le parole. Ci sono autori che inaugurano una nuova prospettiva, di tipo pragmatico. Questa corrente linguistica ha fatto frutto dei principali risultati della Teoria dell’Azione. John Austin. È normalmente il primo autore considerato esponente della svolta pragmatica. Viene dalla Gran Bretagna. How to do things with words, 1962. Traduzione in italiano in modo efficace: Quando il dire è fare (Marietti). Austin segnala che, in una prima fase, che se osserviamo i nostri eventi comunicativi, a volte utilizziamo il nostro dire per rappresentare la realtà, per asserirla. Ma ci sono casi in cui succede qualcosa di qualitativamente diverso. Es. «Lei è licenziato»: col proferimento di questo enunciato si attua il licenziamento. Ci sono azioni che accadono attraverso il dirlo, il modo con cui avvengono è la formulazione linguistica, il proferirle. Es. promessa del matrimonio; ti battezzo; ti prosciolgo; varo della nave. Proprio perché l’azione avviene dicendola, abbiamo degli usi nel linguaggio che sono «performativi» (to perfom = realizzare, attuare). Accanto a usi del linguaggio di tipo performativo, abbiamo invece degli usi che non fanno accadere l’azione (es. «Oggi piove») → usi constativi. L’essere umano ha la possibilità, attraverso il dire, di far accadere la realtà. L’essere umano appartiene alla prerogativa della comunicazione dell’Essere: quando l’Essere comunica, fa accadere la realtà. Quando anche utilizziamo i constativi, compiamo azioni. Possono anche essere atti assertivi, enunciati assertivi → azione che rappresenta la realtà attraverso il linguaggio, la attesta. È un’azione. Ogni uso che noi facciamo del linguaggio è in qualche modo performativo: sempre compiamo un’azione. Speech acts = espressioni che sono atti attraverso cui compiamo azioni di tipo diverso, ma pur sempre azioni. Quando i parlanti formulano uno speech act, compiono tre azioni: (1) Atto locutorio o locutivo → l’enunciato ha un contenuto, veicola un significato, ha un contenuto proposizionale («proposizione» = contenuto degli enunciati). L’atto locutivo si riferisce al contenuto proposizionale, al contenuto che noi esplicitiamo attraverso uno speech act («Paolo fuma abitualmente»). (2) Atto illocutorio o illocuzione o forza illocutoria → in italiano basta l’intonazione per passare da un assertivo a un interrogativo («Paolo fuma abitualmente?»). I nostri enunciati hanno una forza = azione che viene svolta con quel preciso speech act. Es. asserzione, comando, interrogazione, promessa etc. (3) Atto perlocutorio o perlocutivo → con gli speech acts otteniamo degli effetti pragmatici nel contesto comunicativo. Questi effetti che si producono nella realtà fanno parte della perlocuzione. Esempi di illocuzione: «Paolo fuma abitualmente» → atto assertivo. «Chiudi la porta!» → atto direttivo (comando/minaccia). «Ti prometto una ricompensa» → atto commissivo: promessa, che implica un commitment, un impegno a realizzare. In questi esempi cambia la forza illocutoria. John Searle. 32 Però → ci sono casi in cui l’intreccio delle azioni è diverso. La cooperazione. Es. soccorrere un ferito. Qui parliamo di co-agente A e di co-agente B. L’azione scatta a partire dalla medesima molla, dal medesimo desiderio. Se cooperano, hanno nel loro commonground anche la condivisione del loro desiderio di soccorrere il prossimo. Immaginano uno stato di cose che corrisponda a questo desiderio, individuano lo scopo, attivano la catena di realizzazione. Dove è la differenza fra questa ontologia della cooperazione e quella precedente dell’interazione? Qui il desiderio è lo stesso scopo! Lo scopo è comune, e questo comporta che entrambi partecipino alla medesima catena di realizzazione. Particolarità nella cooperazione: es. cucinare per una cena improvvisa un risotto in 10 min. Marito e moglie cooperano. Non cambia la struttura, ma nella cooperazione i due co-agenti hanno un desiderio comune, individuano uno scopo comune, e per realizzarlo possono attivare delle catene di realizzazioni parallele. Ma perseguono comunque lo stesso scopo. Eventi comunicativi. L’atto comunicativo come evento. Noi, con gli eventi comunicativi, scambiamo messaggi che producono sensi. Scambiamo beni tipo munus. Termine «evento»: cos’è un evento? Le parole hanno un loro corredo semantico: noi fatichiamo a dire che significato hanno le parole quando veniamo interpellati. Appoggiamoci alle lingue romanze e alle lingue germaniche. A volte dal confronto si riesce a ricostruire il significato di un termine. Per ricostruire il suo semantismo, ci appoggiamo al significato che troviamo in parole analoghe nelle lingue neolatine e a parole utilizzate nell’ambito delle lingue germaniche. Quali sinonimi useremmo per «evento»? È qualcosa che accade (avvenimento). È qualcosa di straordinario che sconvolge. Eventum < e-venio = e- è ingressivo: è qualcosa che accade improvvisamente, sorprendendoci. È qualcosa che accade, sopravviene inaspettatamente. Ted. ereignis < radice del ted. eigen «proprio», come in sich aneignen «impossessarsi». Dalla semantica germanica ricostruiamo un ulteriore semantismo: l’evento è qualcosa che accade, avviene, ci sopraffa e si impossessa di noi, producendo quindi in noi un cambiamento. Gli eventi sono siffatti: accadono, producono dei sensi (se eventi comunicativi) che sopravvengono e si impossessano di noi, ci cambiano, ci «spostano». Messaggio: scambio di segni che produce senso (che è un munus ). Senso: polisemia del termine. Aristotele: l’uomo è questo animale che inevitabilmente ha a che fare col senso, va alla ricerca dei sensi. Il senso, quindi, nell’evento comunicativo è un fattore costitutivo. Definiamo la dimensione del senso che ci interpella in modo così rilevante. È talmente rilevante che, per definirlo, dobbiamo procedere in un modo molto particolare → polisemia (numerosi contesti): L’uomo ha 5 sensi. L’udito è un senso → senso = organo percettore. In tedesco il senso «prende il vero» (wahrmehmung = «percezione»). Questa strada è a un senso → senso = direzione di percorribilità. Lei ha buon senso → senso = giudizio, ragionevolezza. La parola uomo in italiano ha due sensi: (1) essere umano (homo, mensch); (2) essere umano di sesso maschile (vir, mann) → senso = significato/accezione. 35 Questa espressione non ha senso («Mio cugino è farmacista») → paradossalmente, si riesce ad avvinarsi alla definizione del senso osservando il non-senso (insensatezza). Mia moglie è un’ottima cuoca (detto dallo scapolo) → parla di una non-realtà come se fosse una realtà. Quando un comportamento è insensato? Es. imprenditore al Polo Nord apre una filiale di un’azienda che produce freezer. È un comportamento insensato. Perché? Sono comportamenti irrazionali, non adeguati (allo scopo), irragionevoli. Probabilmente, l’insensatezza ha a che fare con la ragione. Il non senso è non ragionevole: non ha nesso con la ragione. Nel dire, quando costruiamo espressioni insensate, costruiamo espressioni che non hanno a che vedere con la ragionevolezza. Def. senso = il senso ha a che fare con la ragionevolezza. Domanda: esiste il non senso? Esiste in letteratura il teatro dell’assurdo (Ionesco, Beckett). Non-sensi artificiali su misura creati dal linguista a scopo metalinguistico. Non esistono, ultimamente, nella comunicazione non sensi. L’uomo va sempre alla ricerca del senso. Li creiamo per ragionare sul funzionamento del linguaggio. Non sono testi reali. Non-senso come tipologia testuale che si realizza nel teatro dell’assurdo. C’è una lesione delle regole linguistiche e testuali. Esiste allora il non-senso o la questione è un’altra? Decostruendo il testo, questa letteratura ci comunica un senso? Si tratta di un’insensatezza che ci ributta a un livello strategico di interpretazione molto più profondo → ci fa inferire un senso ultimo, profondo, in quanto questi testi ci vogliono comunicare il disorientamento dell’uomo moderno nella realtà in cui vive, in quanto ha perso dei punti di riferimento. Ci comunica un profondo disagio. Giov. 24/11/11 Esiste il non senso? No! Non-sensi artificiali creati su misura dal linguista a scopo meta-linguistico. Senso = dimensione rilevantissima della comunicazione. Ci siamo avvicinati a definirlo a partire dal nonsenso. Siamo usciti dalla comunicazione verbale, abbiamo osservato dei comportamenti irragionevoli, e li abbiamo classificati come insensati perché non avevano rapporto con la ragione. Nella lingua, abbiamo poi evidenziato la ricca polisemia di «senso». Negli eventi comunicativi, siamo quindi arrivati a dire che il comportamento insensato nel dire è anch’esso un comportamento irragionevole. Esiste il non-senso? Probabilmente non esiste nella realtà comunicativa. Esiste solo come esito di costruzioni di testi artificiali per scopi metalinguistici. Questi testi artificiali non sono testi reali. Non-senso come tipologia testuale → teatro dell’assurdo (Beckett, Ionesco). In realtà questi testi veicolano, anche se violano le regole costitutive della costruzione dei testi, una loro profonda sensatezza. Esprimono il disagio dell’uomo moderno che non riesce a trovare punti di riferimento nel reale. Soggetti psicotici. Sono decostruite, distrutte le regole morfosintattiche. Ma anche qui il senso c’è. Bisogna andare oltre alla prima lettura. Questi testi prodotti da soggetti psicotici veicolano il profondo disagio, la profonda sofferenza del soggetto estensore di questi testi. Il non senso non può essere l’ultimo livello di un testo. 36 Nella nostra esperienza, il non senso non esiste nella dimensione comunicativa ultima. Lo diceva anche Aristotele. Di fronte ad enunciati strani, appartenente insensati, in noi opera il principio ‘Eppure deve voler dire qualcosa!’. A volte i processi ricostruttivi sono molto rischiosi o molto audaci. Soggettività implicate nella comunicazione. In che senso il messaggio implica le soggettività, gli interagenti? I messaggi non vengono decodificati, come spesso si sente dire (→ influsso delle cibernetica sulla Linguistica). Il testo si interpreta, non si decodifica. Noi destinatari ci avviciniamo gradualmente nella ricostruzione del senso inteso dall’autore → inferenza: domina strategicamente la semiosi. È molto di più il non detto rispetto a quanto esplicitato nei testi. Il testo non si decodifica (→ idea povera: di fronte a un messaggio, si va al di là della strategia comunicativa e si trova il senso. È come se, rispetto a un regalo, si scarta il pacchetto e si ha il valore). Ma i testi sono in rapporto con dei soggetti. Il testo si costituisce in rapporto alla ragione del mittente e in rapporto alla ragione del destinatario. Anche il destinatario si mette a ridosso del testo con la ragione e continua a inferire l’intentio dicendi, l’intenzione comunicativa originaria non tutta squadernata nel messaggio. Ciò che un messaggio produce negli interagenti → il senso dei testi opera nella comunicazione producendo un cambiamento. Una volta che un evento comunicativo è stato proferito, i due soggetti coinvolti non sono più come prima. Il senso opera un cambiamento. Interviene un cambiamento in entrambe le soggettività (non solo nel destinatario!). Noi sappiamo che informazione ≠ notizia. L’informazione è notizia laddove è caratterizzata dal tratto dell’interesse, quando è pertinente per noi. Il senso opera un cambiamento, il senso deve creare involvment, deve suscitare interesse rispetto al destinatario, deve essere rispettato il principio di interesse o principio di pertinenza (Grice). Quindi → quando si costruisce un messaggio, è importante saper pertinentizzare l’informazione. È come un’operazione di marketing. Vuol dire saper cogliere quegli aspetti per cui il messaggio diventa pertinente, smuove il destinatario. La comunicazione è felice se sappiamo pertinentizzare. Senso = «ciò che opera negli interagenti un habit change» → messo a tema da Peirce. Habit = parola inglese che si rifà alla semantica latina (come il 60% dei termini inglesi, un 40% ha origine anglosassone). Habit < lat. habitus < se habere ad = «atteggiarsi», «avere un certo comportamento», «avere un certo atteggiamento». Habit = atteggiamento, attitude per i Francesi, ted. verhalthis. Quale atteggiamento viene cambiato dal messaggio scambiato nella comunicazione? Riprendiamo una distinzione di Aristotele (Ethica Nicomachea) → hèxis ≠ diàthesis. A volte il nostro atteggiamento è stabile, a volte superficiale (stato emozionale). Possiamo dire che il messaggio, il senso di un messaggio può cambiare quella posizione, quell’atteggiamento superficiale, lo stato emozionale dei soggetti coinvolti. Quanto più ha significato profondo, tanto più smuove, cambia, sposta non la posizione superficiale, bensì quella posizione stabile che noi soggetti umani abbiamo in rapporto alla realtà, il messaggio è efficace. Diàthesis = posizione rispetto alla realtà dettata da un contraccolpo immediato, uno stato emozionale. Questa posizione del soggetto umano rispetto al reale, nato come contraccolpo nei confronti della realtà che entra nel nostro orizzonte, è un livello di comportamento più superficiale. Ma noi abbiamo delle posizioni rispetto alla realtà che sono qualcosa di più della somma delle nostre emozioni → l’io, il soggetto umano, ha anche una sua posizione più stabile e profonda (la sua concezione della realtà). Gli Inglesi dicono attitude = atteggiamento stabile nei confronti della realtà. Spesso si pensa che il cambiamento sia l’effetto ottenuto nel destinatario. Es. «Chiudi la porta». Ma se il destinatario non chiude la porta, il messaggio ha prodotto un habit change in entrambe le soggettività? È cambiata la loro posizione rispetto alla realtà. Il mittente ha posto la sua autorevolezza: si è posto in un ruolo di asimmetria rispetto all’interlocutore, e ha rivestito una (almeno presunta) autorevolezza nei 37 significante (= la sua strategia di comunicazione). Es. «albero». Convenzionalità = istituzione ( institutum) creata attraverso una decisione della comunità linguistica. Quando i parlanti apprendono le correlazioni semiotiche? Anzitutto, la comunità linguistica trasmette le correlazioni semiotiche, che sono un traditum → insegnare le correlazioni semiotiche corrisponde a quel momento dell’educazione in cui si insegna ai bambini a dare il nome alle cose. Insegnare a dare i nomi alle cose ha delle implicazioni psicologiche: solo quando diamo il nome alla realtà entriamo in possesso della realtà → lo psichiatra Jean Itard curò un ragazzino 15enne trovato nel Sud della Francia e allevato dai lupi: non sapeva parlare, ma era affetto da una gravissima psicosi per cui non riusciva a fermare lo sguardo su nessuno oggetto della realtà. Era una lesione profonda della psiche: lo psichiatra non riuscì a guarirlo. È un danno profondo nel rapporto con la realtà. Non a caso a nostra L1 si chiama «lingua materna» o «lingua parentale», perché la conquistiamo nel nido familiare. Attraverso l’apprendimento della lingua passa, in modo misterioso, la dimensione dell’affetto e della benevolenza dell’adulto nei confronti del piccolo. Esperimento perverso nel Milleduecento da Federico II di Svevia, narrato da Salimbene da Parma. Qual è la lingua originaria del soggetto umano? Qual è la «lingua di Adamo»? Latino, francese, siriaco etc. Federico II affidò i neonati a delle nutrici che avevano il veto di parlare loro. Sarebbe emersa così la lingua primigenia di questi esseri. Ma questi bimbi morirono uno dopo l’altro, nonostante venissero nutriti ed alimentati. Il momento dell’educazione linguistica fa passare la dimensione del rapporto parentale, che svolge una dimensione costitutiva per il soggetto. Barra semiotica. Linea con cui si separa la successione di suoni dal concetto. La sua cancellazione comporta delle implicazioni negative. Nella semiosi il suono rimanda a un concetto, a un’intenzione comunicativa. Tutto questo segno stat pro alio, rimanda alla realtà. Ci sono dei casi in cui viene cancellata la barra semiotica, e questo mette capo a un’operazione che si chiama «equazione simbolica». È segnale di una particolare patologia. Alcuni soggetti psicotici al ristorante mangiano il menu («mangiare il menu» = ordinare) → fanno coincidere il segno con la realtà, mentre il segno, nella sua articolazione interna in suono/concetto, rimanda al reale, stat pro alio, e quindi apre la dinamica della interpretazione del segno. Bisogna individuare il denotato cui il segno rimanda. La lingua non coincide con la realtà. I segni, inoltre, hanno una cornice. Ci sono segni – non verbali – che potrebbero essere utilizzati dalla semiosi in quanto strategie di manifestazione. Es. segni iconici (arte visiva), segni gestuali. Tutti questi segni (verbali, iconici e gestuali) sono eventi semiotici. L’evento semiotico è circoscritto da una cornice, che può essere più o meno immaginaria. Nei segni la cornice è quella linea – più o meno immaginaria (immaginaria nei segni verbali: è una circonferenza) – che separa un segmento di realtà, circoscrive e delimita un ambito di realtà, quell’ambito di realtà dentro cui è all’opera la semiosi, e separa questo evento semiotico dal resto del mondo. Separa l’evento semiotico dagli eventi non semiotici. Può essere, in senso non immaginario, la cornice del quadro. Con la statua, è il piedistallo. Ci sono autori che giocano con la cornice: il piede dalla statua, per es., può uscire dal piedistallo → uscita dalla cornice. Oppure: racconti o favole («C’era una volta», «Once upon a time»). A teatro la cornice è quella linea che separa il palco (la bule) dal parterre, dalla platea: segnala che ciò che si svolge sul palco è semiosi. Cancellazione della cornice = sinonimo di follia. Casi di rappresentazioni teatrali di Otello in cui spettatori hanno ucciso l’attore che, per semiosi, rappresentava il protagonista. Fonosimbolismo: in tutti i momenti di apprendimento della lingua materna, una delle prima parole del bimbo è «mamma», un suono che è facile articolare. Il fonosimbolismo, a partire da questo fatto, potrebbe far pensare al fatto che ci sia una ragione per cui si associano dei suoni a dei concetti. Questo emerge soprattutto con le onomatopee. In questo caso, la semiosi è molto vicina al suono, ma anche in questo caso 40 non dobbiamo cadere nella tentazione del fonosimbolismo. Se analizziamo le onomatopee nelle lingue più diversificate, si osserva che anche le onomatopee sono diverse da lingua a lingua → anch’esse sono semioticizzate e culturalizzate. Altro rischio: «pansemioticismo». Costruendo i segni p-e-n-n-a associamo un suono al concetto, e tutto il segno stat pro alio. C’è la tentazione di dire che tutto è semiosi. Pansemioticismo = corrente che dice che tutto è lingua. Per cui, secondo questo approccio, sembrerebbe che non ci sia qualcosa di cui un segno è segno. I segni instaurerebbero un rimando infinito ad altri segni. È una catena infinita: un segno rimanda a un segno, questo segno a un altro etc. Implicazione → non c’è più nulla, non c’è più realtà di cui un segno è segno. I segni attestano sempre la realtà. La lingua attesta il reale, attesta l’esperienza. Rimaniamo all’interno della semiosi. Osserviamo la deissi. Ci sono parole che istituiscono un rimando diverso rispetto a casa e albero. Es.: «casa»: rimanda sempre, in qualsiasi momento sia enunciato, al concetto di «casa» (disegno). Anche nel caso di «albero». Se noi prendiamo, invece, il segno «io» (i-o), che disegnino rappresentiamo? Rimanda a qualcosa di sempre così come nei casi precedenti? Compare fra i lemmi del dizionario: troviamo un significato. Non rimanda sempre a un certo concetto. Lo rappresentiamo così: «?». Interviene in parte la «semiosi categoriale». Categoria = parola. Nella semiosi categoriale il significato è tutto indicato dalla parola, dalla categoria. È la categoria linguistica che individua il significato. In io il tasso di significato che viene dalla categoria è minimo. Il dizionario nel caso di «io» ci dice: mittente, enunciatario etc. Ma in contesti comunicativi diversi significa sempre il soggetto enunciatore, ma si precisa di significato di volta in volta in base all’aggancio alla situazione comunicativa. Termini come «adesso» ci consentono di ricostruire una parte di significato, che deriva dalla categoria (= concomitanza col momento dell’enunciazione), ma l’«ora» cambia, si sposta a seconda del momento dell’enunciazione (ora x del giorno x). È una parola, anche questa deittica = si precisa di volta in volta di significato in base al contesto enunciativo, al momento in cui viene enunciata. Quindi → possiamo dire che la deissi è un tipo di semiosi che integra, nelle parole deittiche, la semiosi categoriale. Deittico = «che integra», da deiknumi = «additare», «indicare». È una semantica istruzionale → il significato individuato dalla categoria orienta le istruzioni (es. «tu»: per il dizionario è il destinatario; quindi il significato categoriale orienta la nostra istruzione, e ci chiede di individuare in quella particolare situazione comunicativa colui che è il destinatario, il «tu»). La deissi indica segmenti di realtà che accompagnano l’atto di discorso. I deittici sono parole che si precisano di significato in quanto si agganciano all’hic et nunc della situazione comunicativa. Es.: io, tu, adesso, qui, così. Nelle parole che hanno una semiosi deittica, troviamo un nesso profondo fra la lingua e la realtà: pezzi di realtà entrano nella lingua per precisare il semantismo, il significato della parola. Nei deittici, il significato che viene dalla parola, dalla categoria, dal suono è un tasso minimo di significato → il tasso di significato più elevato è quella percentuale di significato che viene dal riferimento alla realtà, che viene presa e si introduce nella parola della lingua. Altrimenti il significato rimarrebbe impreciso, non individuato. «Questo microfono è nero». Vero o falso? Vero. Perché possiamo dirlo? Perché lo vediamo → opera il principio di non contraddizione (non posso dire che, al contempo, il microfono è rosso). Generalizziamo: perché lo vediamo? Perché, in quanto frammento di realtà, condividiamo l’esperienza, lo spazio comunicativo. Altro caso. Luigi dice: «Questa penna è blu». Andrea dice: «Questa penna è rossa». È vera la frase proferita da Luigi? E quella proferita da Andrea? Cambia il soggetto enunciatore. Luigi e Andrea indicano due oggetti diversi. I deittici richiedono una condivisione di esperienza, e funzionano perché si agganciano a una situazione comunicativa che coinvolge determinati protagonisti e ha un aggancio spaziale e una aggancio temporale. Luigi e Andrea si riferiscono a due situazioni comunicative diverse. 41 Quindi → possiamo, proprio perché i deittici sono protagonisti della situazione comunicativa (spazio e tempo), fare una tipologia dei deittici: Deittici diretti. Pronomi di prima persona (sing. e plur.) e di seconda persona. Aggettivi possessivi corrispondenti ai pronomi di I e II persona (sing. e plur.) Perché io e tu non esibiscono il genere e non ne hanno bisogno? Confrontiamo in lingue con una flessione. Vd. dopo → la natura deittica di io e tu è di deissi non testuale (gli interagenti sono vis a vis) Spaziali: questo, quello (agg. e pron.), qui, là… (in riferimento al parlante). Avv. temporali: adesso, prima, oggi… Deittici di maniera: così (magari accompagnato da semiosi gestuale). Deittici testuali: egli, ella, esso, essi. Mentre io e tu non esibiscono il genere, perché i due denotati si presentano nello spazio comunicativo (sono entità umane presenti, visibili sulla scena) e quindi esplicitarlo sarebbe ridondante, i pronomi di III persona singolare e plurale parlano di altro da me e da te, di qualcosa di altro dall’io e dal tu, qualcosa di altro al di fuori della condivisione dello spazio comunicativo. Noi, con questi pronomi, andiamo a riprendere dei referenti, delle entità che sono state istituiti precedentemente nel discorso. Permettono di realizzare la coesione del testo, permettono di riprendere il denotato/referente esplicitato precedentemente. Funzionano in modo anaforico (→ vanno indietro nel testo e riprendono qualcosa di detto precedentemente), cioè attuano prese foriche (= rimandi all’indietro) e quindi è necessario che esplicitino il genere, che non si dà nello spazio comunicativo visibile. Oltre alla funzione anaforica, i deittici testuali possono avere anche funzione cataforica = anticipano qualche referente nel discorso che verrà instaurato successivamente. Es.: «Ho visto Chiara e le ho detto che domani c’è il Seminario». «Ti telefono per dirti questo: è nato Saverio Enzo!». Questo, in analisi grammaticale, è pron. dimostrativo, e potremmo pensarlo come un deittico spaziale; ma nell’esempio il pron. dimostrativo interviene come deittico testuale con funzione cataforica, in quanto anticipa tutto ciò che viene detto nel discorso che segue. L’interpretazione dei testi non è una decodifica, ma una operazione euristica. Gli elementi forici realizzano prese foriche in avanti o indietro, in su o in giù. Uno dei requisiti dell’analisi testuale è la coesione. Deissi indiretta. Ci sono parole meno deittiche dei deittici precedenti. Pezzi di realtà extralinguistica entrano nella lingua = deissi. Tempi verbali. Es.: «Ora piove» (modo indicativo, tempo presente). Questa frase può essere stata pronunciata ieri. Teniamo solo «piove». Quando un parlante usa questo verbo al presente indicativo, descrive un fenomeno meteorologico enunciandolo. Il presente indicativo permette – come gli altri tempi verbale – di collocare gli eventi di cui parliamo rispetto al momento in cui li enunciamo. Con «piove», il fenomeno meteorologico avviene alle ore 14.10 del 25 Novembre. Lo diciamo stasera: collochiamo il fenomeno rispetto al momento in cui lo pronunciamo. L’evento si colloca in concomitanza grazie al tempo presente: lo collochiamo rispetto al momento della enunciazione. La dimensione temporale dell’evento si sposta, ma non cambia il significato di «piove». Si dice pertanto che i verbi hanno una «componente deittica». Col presente il tempo dell’evento (TE) coincide col tempo del racconto (TD). Bisogna fare il «test del contesto 0»: piove in un contesto 0 ci consente di ricostruire il significato. Con io con funziona. «Mentre andavo al cinema ho incontrato il Professore di Linguistica». In un contesto 0 posso ricostruire il significato di «andare». Quando usiamo il tempo verbale, l’evento viene 42 soggettività che esplicita una sua posizione rispetto al dictum, a ciò che viene detto, al contenuto del discorso. Esprime la sua attitude, la sua posizione rispetto al contenuto proposizionale dell’enunciato. Indica un certo grado di certezza rispetto al contenuto proposizionale. Esplicita un «atteggiamento epistemico» rispetto a quanto dice. C’è una componente di significato che si precisa andando a colui che è l’enunciatore, il mittente di quella situazione comunicativa. Fotocopia (Laboratorio di analisi dei testi). Utilizzo particolare di deittici in testi particolari. Leopardi, L’infinito. In 15 versi Leopardi utilizza una molteplicità di strutture deittiche. Molto strano! Leopardi sa benissimo che il suo lettore, anche contemporaneo, non condivide lo spazio comunicativo in cui lui si colloca. Si comporta in un modo come se il suo interlocutore fosse lì. Descrive anzitutto la situazione ambientale (questo, questa, quella) → caratterizzazione del contesto di locuzione. Svolge una riflessione romantica sulla finitezza della vita umana e sul desiderio dell’uomo di superare questa finitudine. C’è una presenza strana di deittici. Vediamoli per tipologia. Anzitutto, osserviamo che l’autore non si presenta, ma si esibisce nel testo con marche morfologiche di prima persona. I deittici qui presenti sono anzitutto personali (mi fu, io nel pensier mi fingo, io quello, mi sovvien, pensier mio, m’è dolce) → il poeta si pone nel contesto di locuzione attraverso marche morfologiche. Abbiamo individuato 7 deittici personali. Presenza insistita di deissi personale. Deittici spaziali. Quest’ermo colle → agg. dimostrativo che qui è un deittico diretto: questo individua un’entità – il colle solitario – che si colloca spazialmente vicino all’autore. È un deittico diretto a tutti gli effetti: parte di significato viene dalla categoria, ma parte chiede che sia individuato lo spazio vicino a colui che sta proferendo il discorso. Questa siepe → agg. dimostrativo deittico diretto (deittico spaziale). Di là da quella → lascia ellittico il sostantivo siepe. È pronome dimostrativo deittico spaziale diretto. Queste piante → agg. dimostrativo deittico spaziale diretto. Questa voce → come sopra. Questa immensità → vd. sopra. Questo mare → vd. sopra, deissi diretta. 9 deittici spaziali. Altri deittici: testuali. Sono molto meno per una ragione stilistica. Suon di lei → caratterizziamo anzitutto la parte del discorso: è un pronome personale di 3^ p. sing. I deittici testuali hanno la funzione di garantire la coesione del testo. Consentono di riprendere entità o denotati descritti, e quindi instaurati nel testo, con funzione anaforica o cataforica. Qui lei ha funzione anaforica (referente instaurato precedentemente e ripreso: voce). Deittici di maniera (p. es. così) → il significato dell’espressione si precisa individuando il gesto che è stato compiuto accompagnando il discorso. Il Così del v. 13 non è un deittico di maniera → l’analisi dei testi non è una decodifica! È un processo euristico di interpretazione! Il Così di v. 13 può essere sostituito con «quindi»: Leopardi ha svolto una riflessione a partire dal suggerimento che gli viene dall’ambiente circostante. E quindi il Così di v. 13 non implica che si debba ricostruire la semiosi gestuale che ha accompagnato la semiosi verbale del poeta; è un deittico, e permette di realizzare coesione testuale perché qui tira le conclusioni! È uno splendido uso di così come deittico testuale, con una funzione anaforica (→ riprende tutta la descrizione precedente svolta dal poeta). 45 Concludiamo. L’analisi dei deittici ci dice una specificità di questo testo lirico, messa a tema dal collega di Letteratura Francese e Letteratura Italiana a Brescia (prof. G. Bernardelli, Il testo lirico, Vita e Pensiero, 2002 → facoltativo). Leopardi sa bene che i fruitori di questo testo non sono presenti, ma usa questi deittici in modo particolare (sia quelli personali che quelli spaziali) come se il suo lettore fosse in presentia. Colloca il lettore virtualmente nel suo contesto comunicativo, nel suo contesto enunciativo. Inaugura uno stile discorsivo in presentia → stile comunicativo che troviamo nel testo letterario, nel romanzo. L’autore è consapevole che il suo lettore non condivide il suo momento temporale, ma lo colloca idealmente in presentia. Leopardi ha inaugurato uno stile comunicativo originale dal punto di vista pragmatico → novità per il rapporto fra mittente e destinatario, pur non essendo una comunicazione vis à vis. Il destinatario è posto virtualmente, idealmente in presentia. È come se condividesse lo spazio enunciativo dell’autore. Ecco perché i deittici diretti. Tralasciamo l’analisi della componente deittica indiretta, che vediamo adesso nell’analisi del Testo 4 (Hemingway). L’esperimento di Leopardi ha un valore paradigmatico. La sua novità la troviamo anche in testi non lirici. Se prendiamo il testo The old man and the Sea, inizia come è riportato sulla fotocopia (He was an old man). È l’incipit del romanzo: descrive il protagonista. Dal tipo di deittici capiamo anche la natura del segmento del testo (descrittivo e narrativo). Primo segmento testuale da He fino a taking a fish. Due deittici: he, che ricompare una seconda volta. È un pronome personale (personal pronoun) di 3^ p. sing. → deittico testuale con presa forica anaforica. Il titolo del libro è la prima sequenza costituiva di quel testo. Il titolo ha una funzione cataforica: apre un compito all’autore (per es. tema in classe). È la prima sequenza costitutiva di un testo: apre una domanda cui il testo dovrà rispondere. È anaforico perché riprende il titolo (referente/denotato introdotto precedentemente: The old man). Alcuni interpretano, invece, cataforicamente: il referente è a ridosso (old man), segue immediatamente. L’autore gioca su entrambe le cose. Colloca in prima sede he come aggancio al titolo, ma è anche un’apertura a quanto segue (invita il lettore alla fruizione del testo). Altro deittico diretto: now → deittico temporale. Indica una contemporaneità di ciò di cui sta parlando l’autore col momento dell’enunciazione. Seconda sequenza testuale (da But fino a week). Deittici diretti: him → deissi diretta testuale, funzione anaforica (referente instaurato precedentemente dal sintagma the old man). Secondo him: analogo. Di nuovo now. Their: agg. possessivo di 3^ p. plur. È un deittico testuale che si riferisce a parents. Segmento successivo (da it fino alla fine). It: pron. di 3^ p. sing. neutro. È un deittico testuale con funzione cataforica. Si riferisce al segmento di cotesto che segue (to see the old man coming… empty), un’infinitiva. His: agg. possess. di 3^ pers. sing. con funzione anaforica (deittico testuale). Si riferisce a old man. Proviamo ora ad analizzare la componente deittica indiretta. Fished: tempo verbale, simple past. Il tempo colloca l’evento rispetto al momento dell’enunciazione. L’enunciatore è l’autore, che descrive collocando l’evento anteriormente rispetto al momento dell’enunciazione. Il TE è sfasato anteriormente rispetto al TD. Had gone: ancora più anteriore (past perfect). Colloca l’evento in anteriorità abbastanza remota con implicazioni ancora sul presente. 46 Taking: è una forma che non ha un verbo compiuto. Dobbiamo quindi svolgerla. Proviamo a sostituire il without con un verbo compiuto → and he had not taken a fish. Con le forme in –ing bisogna analizzare la componente deittica. It made the boy said: forma di simple past, da tradurre in italiano con «rattristava», «rendeva triste». Rispetto al momento del discorso, l’evento è collocato anteriormente, ma con implicazioni sul presente. Conclusione: c’è prevalenza, in questo testo, di deittici diretti testuali (di 3^ persona) → capiamo l’andamento testuale del romanzo. Qui l’andamento non è dialogico, ma descrittivo-narrativo. L’autore ci sta presentando una terza persona non presente nello spazio comunicativo. Il mittente/autore usa pronomi di terza persona singolare che servono per parlare di colui che non è né io né tu, né noi né voi, e che non sta nella scena dello spazio comunicativo. Giov. 8/12 e Ven. 9/12/11 PONTE IMMACOLATA. Giov. 15/12/11 Fattori costitutivi della comunicazione verbale: gli eventi comunicativi si appoggiamo prevalentemente alla semiosi (categoriale o deittica). Gli eventi comunicativi non vivono solo di semiosi → inferenza. Etimologia di «inferenza», deverbale dal lat. in-fero, «porto dentro». Noi integriamo ciò che viene esplicitato nei testi mediante una ricostruzione di significato. Due esempi: «Mio figlio non guida. Ha 5 anni» → senso unitario (to make sense). In base a cosa si ricostruisce? In parte attraverso la semiosi. Solo alla semiosi? Qual è la ragione per cui percepiamo un’unità di senso, per cui le due sottosequenze non sono staccate fra loro? «Ha 5 anni» giustifica la prima sequenza (questo non avviene nell’esempio sotto!). In termini linguistici: il legame non è manifestato semioticamente/linguisticamente (c’è un punto fra la prima e la seconda sottosequenza). Non sempre il messaggio veicola significato appoggiandosi alla semiosi. La ragione semantica che unisce le due parti è ricostruita attraverso un ragionamento che ci fa portar dentro qualcosa → processo inferenziale. Il rapporto logico-semantico che collega le due sottosequenze che nesso è? Proviamo a sostituire il punto con una marca linguistica: connettore causale («perché»). Con questo connettore il nesso che si instaura è un nesso causale. Non sempre la comunicazione veicola il senso appoggiandosi alla semiosi! Spesso ci fa attuare processi inferenziali con cui ricostruiamo i cosiddetti «impliciti discorsivi». «Mio figlio non guida. È sposato» → non veicola un significato unitario. Noi sentiamo l’assenza di senso e abbiamo la percezione che ci sia una lesione, qualcosa di violato. 47 Questo esempio esplicita una inferenza comunicativa che diventa comunicata. Le inferenze comunicative possono passare, perlopiù in un dialogo, da comunicative a comunicate, e possono essere usate nel procedere del discorso (per es. dialogico). Esercizio. «Appena chiusa la porta, Paolo si accorse con orrore di aver dimenticato le chiavi». Cosa inferiamo? È una porta a scatto. La casa è di Paolo. Paolo è fuori casa. Paolo non può rientrare in casa per una molteplicità di ragioni. «con orrore» → quella rimasta in casa è l’unica chiave che Paolo possiede. C’è un’impossibilità a reperire un altro mazzo di chiavi (= non facile reperibilità di un ulteriore mazzo). Prima la porta era aperta. Le chiavi sono state dimenticate all’interno. In un momento precedente all’azione Paolo aveva intenzione di prendere le chiavi. Presumibilmente non è facile reperire altre chiavi con altri mezzi (telefonare, portiere etc.). Ostensione = altro fattore costitutivo della comunicazione verbale. I fattori costitutivi della comunicazione verbale operano perlopiù in sinergia (noi li isoliamo cronologicamente per ragioni didattiche). L’ostensione avviene in tutti quei momenti muti della comunicazione. La realtà comunica un senso attraverso il suo semplice esibirsi/esserci/mostrarsi. Perché si parla di ostensione? «Ostensione» è deverbale da ob-stendo, «metto davanti», «faccio vedere». Ci sono dei momenti di comunicazione in cui la comunicazione non si traduce in segni verbali o appartenenti ad un codice gestuale → la comunicazione qui è muta! Per cui è la situazione extra-linguistica tout court che interviene e veicola un significato per il suo semplice esibirsi, esserci, mostrarsi ai nostri occhi. La realtà si comunica nel suo semplice mostrarsi a noi. Si lascia vedere a noi nel suo «atteggiamento», nella sua posizione. Esempio 1. Vediamo un uomo in mezze maniche tremante e piangente → non comunica niente verbalmente, non si rivolge a noi usando una semiosi verbale, eppure ci comunica qualcosa! Lui si lascia vedere a noi nel suo «atteggiamento» senza proferire parola. Esempio 2. Ironia di chi, aprendo la porta di una stanza, esclama: «Ma che bell’ordine!». È sensata questa espressione? Sì, perché il parlante formula il messaggio perché c’è stato un previo momento di comunicazione: lo spalancarsi della porta ha permesso alla realtà extra-linguistica di esibirsi e di comunicare un senso di disordine (in modo muto). Confronto ostensione-deissi. Ostensione = interviene la realtà col suo esserci. Deissi = altro momento in cui interviene la realtà nella comunicazione verbale (ci sono parole come io diverse da casa in quanto casa rimanda a un qualcosa di sempre così, un pattern, mentre io è un parola caratterizzata sì da semiosi categoriale, ma il significato vero della parola si precisa nell’hic et nunc della situazione comunicativa. In questo modo io si riempie di significato). Che differenza c’è per quanto riguarda l’intervento della realtà? Come la realtà interviene nei due fenomeni? Il punto è che nella deissi interviene la lingua: è una comunicazione, quella deittica, fondata sulla semiosi. Ma il significato veicolato dalla semiosi si precisa di volta in volta agganciando segmenti di realtà. L’ostensione, invece, è una comunicazione muta: nell’ostensione comunica solo la realtà senza intervento alcuno della semiosi verbale e della lingua. 50 I fattori della comunicazione verbale interagiscono, e a volte c’è una problematicità di confini. Es. 1: sorriso. È ostensione o semiosi gestuale? → Aneddoto dell’antropologo (realmente accaduto). Un antropologo europeo va a trovare un suo amico antropologo cinese. Gli apre la porta la figlia dell’antropologo cinese, la quale gli comunica il decesso del padre col sorriso. Poi lo accompagna sulla tomba e scoppia in lacrime. Il sorriso iniziale della figlia cinese è ostensione o semiosi gestuale? Ogni cultura ha delle regole che determinano i comportamenti comunicativi. Quella cinese, come quella giapponese (ma non solo!) sono culture che tendono ad esprimere in modo non diretto un sentimento o una emozione → i Cinesi controllano maggiormente l’espressione della dimensione emozionale. Il sorriso della figlia cinese è semiosi gestuale. Ella sta seguendo un codice gestuale dettato da una certa cultura. Non è il suo atteggiamento naturale, che emerge invece al cimitero! Es. 2: attore sulla scena che sorride. A teatro c’è la cornice, lo steccato che separa il palco dal parterre. Dobbiamo tenere conto della situazione comunicativa: quella dell’attore è semiosi gestuale perché l’attore simula. L’attore sorride sul palco in quel momento perché sta seguendo un copione che gli indica di sorridere. È un atteggiamento convenzionale che non ci dice la posizione naturale di quell’uomo: egli impersona un altro personaggio, e il suo atteggiamento, quindi, è legato alla convenzionalità. C’è un po’ di frode in questo. Excursus. «Rappresentazione teatrale» nelle lingue germaniche → spiel in tedesco, play in inglese. In italiano gioco deriva dal lat. iocus, nel senso, però, del latino ludus. Noi usiamo gioco per dire ludus. Cos’è il ludus? È un’attività governata da regole (quindi ordinata) con cui creiamo un sospiro rispetto alla fatica dell’attività quotidiana. Col gioco prendiamo le distanze dal quotidiano: intraprendiamo un’attività ordinata che spesso imita/simula attività reali. Proprio perché ludus indica questa attività che simula la realtà, lentamente il termine ludus è passato a significare «inganno» accanto a «gioco» → radice dell’it. illudere = buttare in un ludus, nell’inganno, far cadere nella frode. Capiamo così perché il sorriso dell’attore sulla scena ha della frode: è legato alla convenzionalità del copione. Per questo le rappresentazioni teatrali sono semiosi: vengono designate col termine che nelle lingue germaniche indica anche il gioco. PROFILO STORICO. Snodo storico della riflessione di Saussure, fondatore dello Strutturalismo e padre della semiosi. Dispensa storica: pp. 5-28 (integrare gli appunti). Perché la ratio di questo profilo? Perché ci occupiamo della riflessione linguistica che ci precede? Per una rivisitazione del passato, per un confronto con la tradizione. Poniamo domande critiche per vedere quanto le proposte precedenti rispondono alle domande che noi poniamo alla comunicazione verbale. A volte le validiamo, a volte le integriamo. Il lavoro con la tradizione è un lavoro a 360°. Goethe: «Quello che hai ereditato dai padri, riguadagnatelo (= verificalo, sottoponilo a criticità: risponde alle tue esigenze costitutive?) per possederlo realmente». Questo è il lavoro cui impegna il nesso di ciascuno di noi con la propria tradizione. Nascita della Linguistica. Quando è nata la riflessione sulla lingua? È antica quanto l’uomo, in quanto l’uomo, così facendo, riflette su di sé, riflette su quel momento emblematico in cui parla (è la cifra caratteristica dell’uomo). Pag. 5, § 1 Dispensa storica. 51 Nell’Evo Antico la Linguistica coincideva con la filosofia (come anche la psicologia rientrava in ambito filosofico). Ad un certo punto queste riflessioni sono diventate contenuti di discipline autonome → nasce la Linguistica, la scienza linguistica. Esiste tutta una Linguistica pre-scientifica. Data di inizio convenzionale → si esce dalla Linguistica prescientifica e si entra nella Linguistica in quanto scienza autonoma col 1816: pubblicazione di un certo testo di Franz Bopp. Titolo: «Sul sistema di comunicazione del sanscrito a confronto con quello del latino, del persiano e della lingua germanica». Il titolo è la cifra di questa prima fase della riflessione scientifica → Ottocento = periodo con un orientamento prevalente, lo Storicismo (= sguardo storico). Per questo la Linguistica nasce, in questo periodo, come scienza storica, con un approccio alla lingua di tipo diacronico. Si privilegia la prospettiva storico-comparativa → fatti della lingua studiati nella loro evoluzione nel tempo. Confrontando le lingue fra loro, si cerca di ricostruire una proto-lingua = lingua originaria da cui le varie lingue sono derivate (indoeuropeo). Si parla, pertanto, di Linguistica storico-comparativa. L’indoeuropeo è la proto-lingua, la matrice originaria. Sempre nell’Ottocento avviene un’inversione di rotta. Precursori dello Strutturalismo. Ora viene messo a tema la struttura delle lingue, il loro funzionamento → cambio di sguardo: nasce un interesse rispetto alle lingue osservate nel loro funzionamento. Strutturalismo = corrente linguistica che ha un rappresentante significativo: Saussure. Prima di Saussure, però, separatamente da lui, ci sono linguisti che in questo periodo, senza aver letto Saussure, hanno svolto riflessioni sulla lingua, privilegiando l’interesse per la struttura ( pag. 9, § 2 Dispensa storica): 1. Baudouin de Courtenay (1845-1929); 2. Kruszewski. Sono entrambi polacchi, appartenenti a una scuola linguistica del mondo russo (Mosca). 1. In un suo testo mette a tema la fonetica = scienza che si occupa dei suoni. La fonetica ha un duplice oggetto: osserva i suoni da un punto di vista fisico, fisiologico, e li caratterizza a partire dall’uso delle parti dell’apparato fonatorio-articolatorio; si occupa anche del suono dal punto di vista del suo ruolo nella comunicazione, della sua funzione, perché altrimenti un suono non è diverso da un rumore come quello di una penna che cade sul tavolo. Allora il suono diventa pertinente dal punto di vista linguistico, assume una prospettiva strutturale: a de Courtenay interessa la struttura delle lingue e come il suono opera nella struttura del discorso linguistico. In un saggio dedicato al Fonema, mette a tema questa nuova nozione di «fonema». Il suono può essere «fono» (se visto nel suo aspetto fonico-articolatorio) oppure «fonema» (se considerato dal punto di vista della funzione che svolge all’interno della lingua). Cosa ci consente, nella nostra attività di parlanti, di articolare miliardi (come per es. a)? Per quale ragione possiamo illimitatamente articolare i suoni? Cosa abbiamo di prima dell’apparato fonatorio? L’usignolo staccato dal nido canta, ma il bimbo senza il nido familiare non parla: è necessaria la convivenza, il rapporto col nido familiare perché il bimbo impari ad articolare i suoni. Però → c’è nell’uomo qualcosa che gli consente di articolare i suoni: non è un bieco innatismo, anche se noi parlanti abbiamo qualcosa di prima a livello mentale/psichico che ci permette di articolare i suoni dal punto di vista fisico. Ciascun parlante può articolare fisicamente miliardi di volte un determinato suono perché ha in sede psichica un fonema, cioè «un’unità fonetica viva sul piano psichico». Il fonema è il prototipo che ci consente una realizzazione acustica per n volte di quel determinato fono. È un prototipo di a, e, p, g, t etc. 52