Scarica Linguistica generale - programma del primo semestre (appunti+libro, fino al capitolo 4.5) e più Sintesi del corso in PDF di Linguistica Generale solo su Docsity! La linguistica generale è la coscienza del parlante - la lingua è un “sapere non saputo”. L’indagine linguistica Molte indagini hanno aspetti non accessibili all’osservazione, tuttavia stanno dietro ai dati osservabili (lato nascosto della realtà). La comunicazione verbale è ciò che ci permette di intrecciare azioni, creare “joint actions”. La linguistica generale e il suo oggetto Le lingue parlate oggi sono tantissime, per tale motivo si parla sempre di più di poliglottia (conoscere più lingue) dei parlanti. Nessuno di noi parla solo una lingua. Alla lingua madre si aggiungono altre lingue, quali l’inglese, definita lingua franca, in quanto ci permette di comunicare oltrepassando i confini. All’italiano potrebbe affiancarsi anche il dialetto, definito una vera e propria “lingua”. Il giurista, tra le lingue parlate nel territorio nazionale, ne utilizza una e la inserisce nell’albo delle lingue ufficiali. Le lingue non sono soltanto tante, ma anche sensibilmente diverse l’una dall’altra. ❏ andare (italiano) - to go (inglese) - aller (francese) - ir (spagnolo) ❏ mano (italiano) - ruka (russo) - kist’ ❏ gehen vs fahren (tedesco) ❏ idti/chodit’ echat’/ezdit’ (russo) L’oggetto della linguistica è costituito dal linguaggio umano. Tale materia si interroga sugli eventi comunicativi (atti realizzati per interagire), che si producono per comunicare e privilegiano una lingua storico-naturale. Le lingue storico-naturale sono gli strumenti che ci permettono di interagire. L’uomo utilizza una serie di elementi che rientrano nella comunicazione paraverbale (gesti, movimenti del volto). La cinesica studia i gesti del corpo che vengono utilizzati nel processo comunicativo. La comunicazione che avviene attraverso l’utilizzo della lingua (verbale) va, naturalmente, distinta da quella paraverbale. Non si possono separare tali aspetti, poiché nell’esperienza sono uniti. La comunicazione: pervasività e complessità La comunicazione è pervasiva (si diffonde in campi e aspetti un tempo estranei). Se si considera l’agorà del mondo greco (antica piazza, luogo della comunicazione in pubblico) e quella innovativa, dunque internet, notiamo subito che sono nettamente diversi; quest’ultimo è diventato un fenomeno pervasivo che ci ha raggiunto fino a casa. La comunicazione è caratterizzata da un tratto di complessità, poiché coinvolge dimensioni di tipo linguistico-semiotiche. Vengono comunicati soggetti individuali o che vivono in una comunità. Per tale motivo la comunicazione coinvolge anche le dimensioni psicologiche, socio-culturali (culture, tradizioni) e antropologiche. La comunicazione interpella la comunità scientifica: scienze linguistiche-semiotiche, scienze umane e scienze tecnologiche. Tutte queste disciplini sono angolature da cui ci si interroga sulla comunicazione. Il comunicazionista non coincide con il comunicatore (colui che sa comunicare perfettamente in pubblico), infatti, egli è un professionista che, conoscendo le leggi nascoste della comunicazione verbale, si assume di fronte alla società civile la responsabilità della buona comunicazione. La comunicazione verbale può andare in crisi per diverse ragioni: ● di natura testuale: basato sulla costruzione del testo - mettere il soggetto sulla destra (informazione nuova) es. La strada di Fellini: <<è arrivato Zampanò!>> o <<Zampanò è arrivato!>> (mettendo il nome sulla sinistra si indica che è un’informazione già conosciuta); ● per destituzione dei fondamenti della sensatezza: deve esserci un rapporto con la realtà es. Mia moglie è un ottima cuoca! (detto da uno scapolo) Uno dei fondamenti della sensatezza è il rapporto che il senso deve avere con l’altro, con l’interlocutore. es. Mio cugino è farmacista (detto da uno sconosciuto) Pertinenza. Inter-esse involvement. Notizia vs informazione. Latest news, <<Queste sono le notizie per oggi>>. Tra informazione e notizia c'è una grandissima differenza: l’informazione è un dato informativo; la notizia è un messaggio che suscita interesse nell’altro. Il comunicazionista sa intervenire tutte quelle volte in cui la comunicazione si inceppa. Infatti è in grado di valutare la qualità della comunicazione e migliorarla. Capitolo 1: Lo scambio comunicativo Un primo accostamento al concetto Il termine comunicazione deriva dal latino communicatio, vale a dire il nome del verbo communico. Se dovessimo dare una definizione di comunicazione, possiamo affermare che si tratta di uno scambio di eventi comunicativi. Tale termine in altre lingue diventerà: to communicate in inglese, communiquer in francese, kommunizieren in tedesco, общаться in russo. Da communico ricaviamo communio. Tale termine contiene -cum, vale a dire “con” o “assieme a”, ma anche la radice -munus, che presenta 2 significati: “dono” e “compito”; es. hai voluto un dono? adesso hai una responsabilità (un vero e proprio compito). Il termini munus lo ritroviamo anche in: municipium, matrimonionum, patrimonium, munifico, remunerare, munire, munizione, con il valore di “qualcosa che spetta” “che tocca a ”. Si pensa che tra i significati fondamentali della parola munus (dono-bene-compito) ci sia una connessione. Infatti basti pensare ad un oggetto prezioso, il quale avrà bisogno di cure. Oppure un ragazzo, Davide in questo caso, riceve come regalo dal padre una moto. Questo “bene” impone naturalmente degli obblighi a carico del ricevente: il casco, l’assicurazione, il parcheggio. Gli obblighi cambieranno da caso a casa, ma saranno sempre presenti. Nella cultura italiana determinati regali richiedono una cura specifica: se ci viene regalata una scatola di cioccolatini, siamo tenuti ad aprirla e offrirne uno al donatore. Gli obblighi sono validi anche per gli oggetti della comunicazione, quelli che chiamiamo “messaggi”. Infatti il bene che passa da una parte all'altra in un atto comunicativo è il senso di quanto viene detto, che porterà ad un cambiamento nel destinatario. Il bene infatti creerà implicazioni, obblighi e responsabilità. Il termine responsabilità , ha la stessa radice di risposta, in latino -response-responsare: la responsabilità è il comportamento ideale di chi riceve un bene; la risposta, invece, è il comportamento di colui al quale viene rivolta una domanda: nasce uno scambio. Gli atti linguistici non sollecitano soltanto “risposte”, ma portano anche comportamenti diversi e quindi responsabilità. es. Luigi confida un segreto a Stefano (si è innamorato di Laura), pertanto questo tipo di comunicazione richiede da parte di Stefano discrezione riguardo l’informazione ricevuta. es. Al contrario quando la segretaria dell’università riceve gli orari dei corsi di un prof. deve trasmettere l’informazione agli studenti interessati , in quanto questo tipo di comunicazione implica l’obbligo di diffondere il messaggio. es. Chiara comunica all’amico Andrea una sua preoccupazione, creando in lui il “dovere” di partecipazione implicato dalla loro amicizia. In molte lingue, a partire dal latino, è presente un termine che significa sia “benvoluto” (dear in inglese) che “caro” (expensive). Il termine latino -carus in italiano sarà “caro” e avrà un doppio significato (una persona importante, ma al tempo stesso qualcosa di costoso); cher in francese, dorogoj in russo; teuer in tedesco. Ciò indica che qualsiasi bene ha un valore, interessa e sta a cuore. I due significati si coinvolgono a vicenda. Le parole nel tempo subiscono dei mutamenti di significato, anche per quanto riguarda la loro strategia di presentazione. effetti di tali gesti e sa come intervenire, grazia alla sua esperienza e professionalità, la dove la comunicazione si inceppa. Se la professionalita si limita a ricercare l’efficacia della comunicazione, la democrazia resta a rischio. Le riflessioni su questo rischio da parte di Socrate, Platone e Aristotele puntavano sulla costruzione di un modello di comunicazione pubblica che voleva adattare efficacia e ragionevolezza. Nacque così il “corpus” dottrinale della retorica classica: il primo modello di comunicazione pubblica. Ovvero un modello che per alcuni aspetti continua a essere un punto di riferimento significativo. La democrazia ateniese, che si è sviluppata intorno all’agorà, aveva favorito la nascita delle prime importanti forme di teorie della comunicazione. Queste teorie, però, erano diverse dalla comunicazione moderna. Bisogno far emergere due aspetti che caratterizzano la comunicazione contemporanea da quella antica. Emerge una rilevanza economica. Per l’antico poeta romano Ennio, la comunicazione del sapere era un “donare luce” che arricchiva il destinatario senza impoverire il mittente; mentre per i moderni questo non è vero, in quanto in molti contesti, dopo che ho comunicato, il mio sapere splende meno. La trasmissione del sapere costa proprio come qualsiasi altro bene. Molta comunicazione viene, dunque, definita un commercio, dove la merce scambiata ha costi di produzione e valori d’uso. La comunicazione moderna è coinvolta anche da una sofisticata tecnologia che riguarda la disponibilità di media tradizionali e nuovi, che hanno investito su tutti sugli aspetti comunicativi: come quello interpersonale, sociale, politico, economico e naturalmente quello che rappresenta la nuova “agorà”, vale a dire internet. Per entrambi gli aspetti, il comunicazionista è diventato una merce più richiesta sulla pubblica piazza. Comunicazione verbale e tradizione delle scienze linguistiche La comunicazione si realizza attraverso testi o messaggi linguistici, ovvero testi che si costruiscono con strutture linguistiche. Il riferimento all’uso delle strutture linguistiche non esclude i testi, che utilizzano strutture semiotiche diverse, ad esempio visive o gestuali, ma viene anche privilegiata l’attenzione al segno verbale. Qui l’aspetto importante non sono le lingue, ma l’uso delle lingue nella comunicazione. Tale approccio coinvolge le scienze della comunicazione, vale a dire scienze che puntano a dar ragione alla comunicazione: ❖ scienze che analizzano l’organizzazione interna dei messaggi (linguistica, semiotica..); ❖ scienze che studiano i soggetti individuali e collettivi che sono coinvolti e le loro comunità di riferimento (psicologia, sociologia..); ❖ scienze che mettono a tema le sfere di interesse che sono all’opera nell’interazione comunicativa (economia, politica, teologia..); ❖ scienze che analizzano le diverse organizzazioni e i diversi luoghi di interazione in cui la comunicazione si realizza (economia aziendale, marketing..); ❖ scienze che studiano le tecnologie della comunicazione tradizionali (stampa, radio, telefoni..). La comunicazione verbale nasce dall’incontro della tradizione delle scienze linguistiche con le scienze della comunicazione. La comunicazione verbale è lo studio della correlazione delle strutture del messaggio verbale o testo con la funzione comunicativa. Vista la centralità dell’oggetto considerato e l’estensione della comunicazione verbale, i temi e i problemi studiati dalla comunicazione verbale coprono uno spazio rilevante tra le scienze della comunicazione. Capitolo 2: Verso un modello della comunicazione verbale Oltre alla retorica classica, alcuni importanti contributi giunsero dalla linguistica e dalla teoria dell’informazione, proponendo un modello che sottolinea il rapporto tra comunicazione verbale e azione umana: rapporto che già Platone portava in luce nel Cratilo affermando che il dire è un fare. Il modello della comunicazione verbale è incentrato su quei fattori che la caratterizzano come “verbale”, ovvero un’attività compiuta dall’uomo attraverso la parola (in latino verbum). Ci chiediamo spesso quale strumento si trova dietro la possibilità di produrre messaggi e che permette l’interazione umana; la risposta è semplice: i modelli della comunicazione. Il modello comunicativo della retorica classica La comunicazione verbale era studiata nell’ambito della retorica, vale a dire lo studio della tecnica di produzione di un discorso o testo con funzione argomentativa. Aristotele mette in evidenza che i 3 fattori costitutivi di ogni discorso sono il parlante, il discorso e l’ascoltatore. La retorica classica, nasce con l’esercizio del potere democratico: l’autorevolezza del cittadino coincide con la sua capacità di ottenere consenso tramite un discorso che esibisce le proprie ragioni. Inoltre, la retorica classica fu il primo modello della comunicazione verbale (teoria della comunicazione) grazie al quale vennero emersi i fattori fondamentali della comunicazione persuasiva. Essa può essere ricondotta a un grande processo → quando comunichiamo attraverso le parole, esercitiamo il potere della parola. La persuasione è diversa dalla manipolazione: decodifichiamo la persuasione come l’inganno, qualcosa di negativo, influenzata dalla cultura novecentesca del sospetto. ad es → <<fidarsi è bene, non fidarsi è meglio>>, i proverbi fissano il sospetto nei confronti della persuasione; ad es. Nel vangelo di Matteo i farisei non riescono a credere alla promessa della risurrezione di Gesù, proprio perché la persuasione viene letta come inganno. La retorica classica insegnava al cittadino come costruire un discorso che fosse capace di creare un senso; in pratica insegnava le dinamiche della comunicazione in pubblico. Non esiste un modello unico della comunicazione verbale, per questo ne sono stati proposti diversi. Ciascuno di essi si focalizza su un aspetto particolare. Ad esempio il modello di Shannon si concentra sulla teoria dell’informazione. I modelli della comunicazione verbale vengono proposti in sede linguistica. Molto spesso si afferma che “tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare; ciò non può essere considerato vero, perché il “dire” ci permette di creare joint actions. Infatti quando parliamo, creiamo speech actions. Quando parliamo siamo in grado di esercitare un potere: sia sano che perverso (legato alla manipolazione). Con il termine potere, dal latino -potestas (potere-facoltà) ci si può riferire a: essere in grado di fare; disporre di risorse (fisiche, naturali..) per raggiungere un obiettivo specifico; qualcuno che riesca a esercitare il suo volere sugli altri; a una relazione verticale tra due individui; essere capaci di fare qualcosa; una sorta di autorità esercitata in modo positivo o negativo. Tra i diversi significati, purtroppo, vi è anche quello di avere il controllo di qualcuno o di qualcosa, ma al tempo stesso imporre la propria autorità sugli altri. In questo senso nasce una vera e propria accezione negativa. In latino si aveva anche un'accezione neutra. Il termine -auctoritas diveniva negativo se si partiva dalla forza/violenza/inganno. La democrazia si configura come organizzazione civile in cui “il potere del discorso” è l’unica forma ammessa di potere, in quanto all’interno della comunità viene sostenuto il principio che l’unico modo accettabile di far fare ad altri (esercitare il potere) è ottenere il consenso attraverso la comunicazione. Il sistema democratico esclude il ricorso alla violenza o alla minaccia. Per esercitare il potere, bisogna persuadere i cittadini della bontà di un’iniziativa: dunque, “potere” significa essere in grado di far fare agli altri attraverso un discorso persuasivo. Il potere (-potestas) può riguardare la violenza e dunque l’inganno, ma anche l’auctoritas, con cui un soggetto ti mette nella realtà e ti da gli strumenti per crescere (augeo, augere, augustus: genitori). Un potere autorevole si esercita attraverso la comunicazione verbale, con processi argomentativi che costituiscono la “pratica condivisa della ragione” e che conducono alla persuasione. La persuasione presuppone che un interlocutore aderisca all’argomentazione perchè ha un interesse positivo che lo muove, oltre a riconoscere in proprio la ragionevolezza dell’argomentazione che gli viene proposta. Il potere può agire con violenza, minacciando l’interlocutore per ottenere un consenso che è solo esteriore. C’è anche una forma di violenza che si esercita attraverso la parola, tipica dei sistemi totalitari.. In questo tipo di contesto politico, la comunicazione pubblica si presenta molto frequentemente sotto una forma persuasiva, ma in realtà manipola gli interlocutori: il cittadino spesso non è in grado di difendersi dalla falsità e viene ingannato, ovvero indotto ad agire secondo gli scopi del potere e contro il proprio interesse. Colui che viene manipolato, viene privato della capacità di giudizio. Il recupero di un rapporto autentico con la realtà attraverso una pratica sana della comunicazione può risultare faticoso, ma anche definitivamente compromesso. La manipolazione stravolge la natura della comunicazione intesa come “scambio di beni”. Auctoritas infatti significa proprio esercitare una benevolenza sull’altro. Tale termine è collegato all’aggettivo “Augustus” (Cesare, Romolo): epiteto degli imperatori romani; chi veniva chiamato così aveva fatto crescere la comunità civile attraverso le proprie opere; era anche un figura autorevole e di grande rispetto. Nel mito di Ulisse e delle sirene (Canto XII)→ Ulisse incontra la maga Circe, la quale lo mette in guardia delle sirene e dal loro canto seduttore e persuasore. Ulisse riesce a salvare i compagni (deboli di legami) costringendoli ad inserire nelle orecchie della cera per toglierli dal potere della comunicazione e si fa legare all’albero maestro della nave con una fune. Infatti è presente il mito della fune: ciò che lo salva è stato proprio un legame; non cede alla seduzione perché pensa a Telemaco e Penelope (dunque legami familiari). Da désmos deriva -deo che significa proprio legare, mentre -deon obbligare (deontologia). Con -obligare/obligatio ci si riferiva a legare tutto insieme (un obbligo che ha a che fare con un legame). Mentre in italiano, ad -obbligo gli diamo una connotazione negativa. Nella Grecia antica l’educazione era veicolata dai miti, vale a dire racconti che si riferivano a verità sull’esperienza umana. La retorica (ars bene dicendi) è l’arte del persuadere e del “parlare in pubblico”, ma anche la metodologia di come procedere nella costruzione di un discorso persuasivo e far crescere l’interlocutore. Il termine “persuadere” deriva da -suadeo, suadere, suavis (dolce, soave). La retorica si occupa del dire: dicere vs loqui ↓ ↓ comunicazione quotidiana senza rilevanza sociale arte di parlare in pubblico e affrontare un discorso rilevante dal punto di vista sociale Nella Grecia del V secolo la retorica nasce con la democrazia, poiché chi ha delle responsabilità elabora delle proposte che vengono discusse. Infatti la democrazia si basa sulla costruzione del consenso (comunicazione persuasiva sana). Il cittadino, grazie alla retorica, doveva saper tenere discorsi in pubblico: in ambito giuridico, politico ed epidittico. ❖ politico: il cittadino doveva essere in grado di dominare le dinamiche della comunicazione e della retorica nell’Agorà in politica; La retorica classica segnala che la comunicazione persuasiva ha una parola chiave con molteplici significati (termine polisemico) -pistis/fides (in fede/fiducia), non traducibile in italiano. Tutti i termini che si originano da -pithos, rappresentano l’adesione che si produce nel destinatario, vale a dire la felicità dell’atto retorico. Un termine polisemico ha più significati. Infatti tale termine interpella la dinamica della comunicazione. Un processo di comunicazione persuasiva coinvolge tutti i fattori presenti nel processo comunicativo: un mittente (credibilità/ethos), un destinatario (benevolenza/pathos) e messaggio/logos (verità). Il mittente deve essere credibile; questa credibilità si fonda sul suo comportamento. Naturalmente il mittente Interpella anche il destinatario, che deve essere benevolente es. Un giudice benevolente sicuramente giudicherà in modo diverso, rispetto ad un giudice che odia; non che non sarà oggettivo nel riconoscere i reati del deputato, ma potrebbe stabilire delle attenuanti. La benevolenza è una disposizione dell’animo. La comunicazione persuasiva ha lo scopo di aderire al messaggio. Il termine “pistis”non interpella solo mittente e destinatario, ma anche il messaggio, il quale rappresenta un legame con la verità: il mittente non deve essere solo credibile, ma è fondamentale che il egli formuli un messaggio aderente alla realtà. deve esserci un legame con la realtà. La “pistis” è un termine polisemico con più significati, interpella nella comunicazione tutti i fattori del processo comunicativo. La comunicazione è un messaggio che passa da un mittente all'altro. Il messaggio è un elemento fondamentale costituito da una parola chiave legata alla realtà-verità, ed è proprio questo che permette di creare una comunicazione persuasiva sana. Il legame salva dalla manipolazione, come mostra nel canto di Ulisse e le sirene. Aristotele segnala, mettendo a tema la dinamica della pistis/fides, il mittente e il destinatario, integrando anche il messaggio (vero), che abbia un senso e che sia “legato” alla realtà. La manipolazione sgancia il contenuto del messaggio dalla realtà. La persuasione è un processo che chiede di aderire, ma in modo ragionevole, mostrando le ragioni per cui vale la pena starci. Il momento dell'adesione rappresenta la fase in cui aderiamo tramite l’affezione e l’intelletto (affectus: metafora del cuore e intellectus: ratio/ragione). Il cuore è la sede degli affetti. L’affectus e l’intellectus sono alla base della ragione: valutiamo il contenuto del messaggio e le ragioni fornite per poter verificare la ragionevolezza all'adesione del contenuto del messaggio. Nelle nostre lingue per dire imparare a memoria diciamo → to learn by heart / apprendre par coeur. Attraverso la dimensione affettiva si aderisce; attraverso la dimensione cognitiva vengono valutate le ragioni. È negativo legarsi al preconcetto, come fossimo già giunti ad una conclusione, ad un giudizio. Il termine “Affectus” indica proprio la capacità di lasciarsi colpire dall’oggetto. A volte si hanno dei pregiudizi, però, se si è coerenti con la realtà, ci si accorge che vengono sconfessati, poiché cambiamo idea. Il destinatario è un decisore: aderisce e trattiene il bonum (bene) e allontana il male. La retorica parlava del destinatario come un giudice che vaglia con il setaccio la ragione dal contenuto del messaggio per verificarne la verità. Si persuade attraverso argomenti che fanno brillare (arguere) la verità; l’impegno che apre la comunicazione persuasiva, è un impegno critico. La critica è proprio una dinamica di uso della ragione per verificare la corrispondenza ultima dei contenuto proposti dai messaggi (esigenze del cuore e della ragione). Aristotele ci mostra o procedimenti che si usano quando argomentiamo e hanno un rapporto di parallelismo e di antistrofia tra gli strumenti in ambito della logica e in ambito argomentativo. Quando si persuade, sia mittente che destinatario, usano la ragione. Il termine antistrofia deriva dal teatro greco e rappresenta una parte del canto che seguiva una strofa; crea un vero e proprio rapporto di parallelismo tra strofa e antistrofe. Ragione-logica-argomentazione La ragione umana ha due modi di procedere: dall’universale al particolare (quando dalla ragione ci spostiamo dal generale al particolare; definito modo deduttivo); e dal particolare al generale. La ragione deriva da una legge universale: secondo Socrate tutti gli uomini sono mortali (dato evidente). Questo rappresenta la premessa al sillogismo. La regione si muove in maniera deduttiva e parte da un principio generale. es. dal generale al particolare: Tutti i canidi sono carnivori (premessa maggiore-principio generale, questa premessa ha una natura anapodittica, dal latino -apodeiknymi, non è necessario dimostrarlo). es. la volpe è un canide (premessa minore) es la volpe è un carnivoro (conclusione logica) Quando la ragione si muove deduttivamente produce una struttura argomentativa che si chiama entimema; dal latino -thymos: deve smuovere l’anima del destinatario e suscitare la sua adesione. La ragione può procedere anche in modo induttivo: dal particolare al generale. es. si osserva un gatto che ha la cosa; successivamente si osserva un gatto 2, un gatto 3.. si suppone dunque che tutti i gatti hanno la coda → si parte da un caso particolare (a un modo di essere) e si giunge alla generalità. Si parla anche di: caso di quantificazione. Abbiamo esteso una proprietà da uno a tutti. Le generalizzazioni sono spesso utilizzate in sede scientifica per definire fenomeni: ad esempio vengono utilizzate nelle scienze naturali per definire leggi naturali, basta però la scoperta di un caso, per falsare la legge e sarà necessario riformularla. La ragione che si muove in modo induttivo chiama in causa l'expectum. Nel sillogismo (data una premessa maggiore e una premessa minore, si giunge ad una conclusione; la premessa maggiore è esplicitata nel ragionamento). L’entimema (definito sillogismo retorico abbreviato, ma anche metodo comunicativo per persuadere) è una struttura che per persuadere, deve smuovere l’animo del destinatario e portarlo all’adesione. Deve avere una specificità retorica; non esplicita tutti i messaggi. La premessa maggiore non contiene un principio apodittico, ma una verità a cui aderiscono, in modo naturale, i più saggi della comunità. Quando si costruiscono i messaggi si ricorre a parole ( e segni) e alla semiosi (processo con cui si costruiscono i segni): es. Enrico invita Mario al suo matrimonio! (interviene la semiosi; non tutto ciò che il parlante vuole comunicare viene esplicitato con parole/segni; i significati li lascia nei messaggi e li lascia inferire, dal latino -inferos, per far si che vengano ricostruiti). Dobbiamo ricostruire il rapporto tra Enrico e Mario (amici-parenti-conoscenti). Molto di quello che comunichiamo viene lasciato implicito. Tolstoj presenta un dialogo in cui i due sono innamorati, c’è un condiviso così ampio che interagiscono L’ineferenza (deduzione) caratterizza la comunicazione e interviene anche nell'ambito della comunicazione persuasiva (entimemi); non tutti i messaggi sono esplicitati. Viene taciuta una parte (la premessa maggiore in questo caso). es. Luigi è pazzo. Va a 100 km in centro città (entimema). Dà una ragione alla sua presa di posizione. È presente una tesi ed un argomento. La tesi è il momento in cui il parlante prende una posizione sulla realtà. Il parlante ci invita ad aderire alla tesi, facendo riferimento ad una adesione che è nei più saggi della comunità (come afferma Aristotele). C’è un limite di velocità, non si può violare. Abbiamo ricostruito gli indizi nel messaggio (pazzo); vi è un'adesione naturale. L’adesione naturale che viene ricostruita, prende il nome di endoxon, in quanto contiene un principio condiviso dalla doxa (principio condiviso dall’opinione pubblica). Dato che il principio è condiviso rientra nel common ground , elemento fondamentale, che rappresenta la condivisione di principi e credenze necessari per far si che funzioni la comunicazione. L’endoxon è il punto che crea l’aggancia tra chi argomenta e il destinatario. Premessa maggiore: Chi va a 100 km. in centro città è pazzo; Premessa minore: Luigi va a 100 km in centro città; Conclusione: Luigi è pazzo. Utilizzo di entimema in ambito politico Ad esempio è possibile analizzare una bozza di mediazione del conflitto arabo-israeliano, utilizzata quando il presidente Bush inviò il suo segretario per cercare un accordo. La mediazione è un caso particolare di negoziazione ( dal latino -negozium), vale a dire trattative su base argomentative. Presuppone un conflitto di interessi tra due controparti. Tra i due confliggenti deve intervenire una terza figura che deve essere al di sopra delle parti (terzietà). Il mediatore è un creativo che riesce a far vedere qualcosa che le altre parti non vedevano, vale a dire un win-win: vale a dire la possibilità di uscire dalla controversia con un guadagno per entrambe le parti. Perché scatti la negoziazione devono esserci due controparti che entrano in conflitto (confliggenti). Grazie ad alcuni studiosi è possibile individuare alcune stratificazioni del mittente e del destinatario: il mittente invia un messaggio al destinatario. Il mittente presta voce al testo e lo comunica oralmente. Nel discorso chiamato in causa, Bush è il mittente, dunque prende il nome di vocalizer (ha prestato la sua voce per formulare il discorso). Bush non è soltanto il mittente, ma anche formulator, insieme ai suoi collaboratori, che lo hanno aiutato a stilare il discorso. Inoltre emerge anche la responsabilità esercitata dall’atto comunicativo, in quanto un mittente È sempre responsabile dei propri atti comunicativi, dunque Bush è anche un principal: a volte parla in nome dell’America, a volte a nome del mondo civile, altre volte in nome di presidente degli USA. L’uditore è coinvolto anche da alcune stratificazioni: il puro uditore può dividersi in uditore non legittimato (overhearer/eavesdropper) o legittimato, come in questo caso che è il pubblico. Il mittente invia un messaggio al destinatario. Bush ha come uditore tutto il mondo, però possono esserci anche uditori casuali. A volte Bush si rivolge ai palestinesi, guidati da Arafat, ai leader degli stati arabi (allora fiancheggiati dal terrorismo), ad Israele ( guidata da Sharon), ai cittadini/elettori americani e alle potenze mondiali. Il destinatario è uno stakeholder (krités nella retorica classica), il quale deve prendere una decisione rispetto a un messaggio che lo ha raggiunto. Bush formula richieste diverse a tutti gli stakeholders che dovranno essere dei respondent, dovranno prendersi delle responsabilità dalle risposte fornite. Il discorso tenuto a Rose Garden il 4 aprile del 2002 è un testo politico con un impianto classico (Bush e i collaboratori hanno competenze argomentative improntate sul modello della retorica classica). Tale impianto classico è evidente nella struttura (-esordium, direbbero i latini): si inizia con la narrazione di un evento, seguito dall'argomentazione e il discorso termina con un epilogo. La tesi è un enunciato assertivo, in quanto contiene una valutazione verificabile nel contenuto. È importante osservare la presenza di connettori che collegano la tesi con l’argomento. Il punto in cui viene formulato l'entimema è: <<no nation can negotiate with terrorists, for there is no way to make peace with those whose only goal is death>>. ↘ It’s not possible to negotiate with terrorist Bush affermava che poteva esserci una possibilità di speranza: in quanto potevano essere riconosciuti i diritti degli israeliani. Nasce una speranza che chiede un commitment (responsabilità). C’è un'alternativa su cui si trova il mondo civile. Quando si analizzano testi manipolatori si parte da dati empirici: testi che sono stati prodotti durante o regimi dittatoriali e che accompagnano le varie fasi di sviluppo per giungere al potere. Un messaggio è manipolatorio quando piega/distorce (to twist) la visione della realtà nel destinatario, impedendogli un atteggiamento sano, rispetto ai suoi processi decisionali (decision making). Analizzare i processi manipolatori è un'operazione complessa, poiché opera in modo occulto: vale a dire sugli aspetti del messaggio meno evidenti, sui quali esercitiamo un controllo critico minore. La manipolazione opera sui punti nascosti, su cui esercitiamo un controllo logico minore. Esistono manipolazioni che intervengono sulla violazione delle presupposizioni. Le presupposizioni sono significati taciuti, ovvero degli impliciti. Il sostantivo “presupposizione” fa scattare dei presupposti di esistenza; quando si usa un nome, la cosa a cui il nome si riferisce, viene definita come esistente. es. Luigi parte per Roma→ il nome fa scattare un significato che esiste. Oppure: sai che Luigi esiste-sai che Luigi esiste ed è partito per Roma?. L’esistenza che scatta dal nome è un presupposto (significa taciuti, non esplicitati, si nascondono). Se esplicitassimo delle presupposizioni risulteremmo maleducati, in quanto rappresentano elementi ovvi in un processo comunicativo. es. gatto è un entità che si può rappresentare con una X; dopo si possono fornire le caratteristiche che caratterizzano l’essere gatto, dopo la X vi sono : (tale a ) P1x^ P2^ P3x Il gatto è entità (X) caratterizzata da un tratto P1(essere vivente, non umano) P2 (felino) P3 (mammifero). Formula logica: E (quantificatore esistenziale, usato per indicare l'esistenza di..)x: P1x^ P2^ P3x Formula logica Ex: P1x^ P2^ P3x I nomi hanno un forte potere comunicativo: quando si usa il nome, si fa riferimento a qualcosa che esiste nell'immaginario collettivo. Nel 1892 Gottlob Frege nel suo testo mise in guardia sull’uso manipolatorio di espressioni denotative, come “la volontà del popolo”. La volontà del popolo è un'espressione denotativa. Per capire cosa volesse dire, bisogna circoscrivere il concetto di denotato. es. Leopardi è il poeta nato a Recanati. es. Leopardi è l’autore che scrisse “A Silvia”! Con entrambe le frasi sono stati individuati gli stessi referenti. Il denotato referente è sempre lo stesso. Gottlob Frege, attraverso due elementi, mette in evidenza lo stesso astro (lo stesso denotato). es. Morgenstern (stella del mattino-Lucifero) e Abendstern (stella della sera). Le due stelle corrispondono allo stesso astro (Venere). Se si parla della volontà di un popolo, si tratta di una generalizzazione. Non esiste una volontà universale, ma volontà individuali. In certi testi, soprattutto nei regimi dittatoriali, si leggeva che la volontà del popolo è la lotta di classe: fa passare l’idea che esista una volontà universale. La manipolazione fa passare come esistente qualcosa la cui esistenza è incerta. Quando nel discorso scattano i presupposti, in noi destinatari avviene un processo di presuppositional accommodation, ovvero aderiamo ai presupposti. Quando formuliamo messaggi ci sono sempre asserted content (esplicitati nel messaggio) e presupposed content. Sul contenuto presupposto esercitiamo un controllo minore, per questo è facile essere manipolati e difficile scoprire il momento in cui veniamo manipolati. Sempre più spesso siamo esposti al fenomeno delle fake news, le quali hanno efficacia perché vi è una scarsa autocoscienza del parlante nelle dinamiche dei processi comunicativi. Le presupposizioni fanno parte del common ground (insieme di principi e valori condivisi tra il mittente e il destinatario). Per far nascere una comunicazione devono esserci soggetti diversi. Quando si appartiene ad una comunità linguistica, alla speech communities, che condivide tutti questi elementi, l’io può dire noi. Aderire alle presupposizioni rappresenta un test di fedeltà nei confronti della comunità; infatti, rifiutare i presupposti rappresenterebbe il tradimento di una weness (un gruppo, una speech communities). Le strategie manipolatorie possono operare anche su istinti umani che si riferiscono alla totalità. Prendono una parte e la fanno passare per il tutto. L’uomo ha un desiderio di totalità. Sono strategie che ci fanno capire che la manipolazione è un peccato di tipo retorico. Nel 1940 si usò questo topos(mossa retorica): il nemico del mio nemico è mio amico. Si usò questa espressione quando l’Europa per sconfiggere la Germania di Hitler, decise di allearsi con la Russia (con Stalin). Parti di ragioni condivise (avere un nemico in comune) vengono passare come la totalità delle ragioni che si condividono con un nostro amico. Questa strategia manipolatoria si ritrova anche in operazioni di agenda setting (operazioni in cui si mettono in agenda le notizie che vengono presentate dal telegiornale). Nell’ambito della totalità degli eventi che hanno popolato la giornata, ne viene seleziona una parte, proprio perché non è possibile riportare tutto. Si conclude spesso con l’affermazione <<queste sono tutte le notizie per oggi>>. Un’informazione è un dato che potrebbe aggiornare un database; una notizia è un evento/informazione significativa che riesce a coinvolgere e dunque, a realizzare un involvement. es. Supponendo che si ha una bicicletta: arriva il ladro 1 e ruba la bicicletta; il ladro 2 la ruba al primo. Il ladro 1 è il nostro nemico, così come il ladro 2 sarà il nemico del nostro nemico. Di conseguenza sono entrambi nostri nemici. Si può dunque affermare, che il nemico del nostro nemico non è nostro amico. La strategia della “cake temptation” è un’altra strategia manipolatoria, usata quando si parla di risorse (beni dinamici) che vengono presentate come se fossero statiche (fixed pie); questa strategia è stata sfruttata da alcuni regimi totalitari. L’idea che questi vogliono trasmettere si basa sul fatto che se si hanno in mano delle risorse, saranno state rubate agli altri, e quindi sarà necessario guadagnare potere per ridistribuirle. Il giusto approccio sarebbe far aumentare le risorse (senza redistribuirle). Un’altra strategia manipolatoria è quella che si basa sull’istinto di appartenenza, può essere usata in senso positivo e negativo. es. Se non la pensi così non sei dei nostri→ qui, si fa leva sull’istinto di appartenenza che viene sfruttato in termini positivi <<se non la pensi così sei escluso>>. Questa espressione venne usata nel 1956 in seguito all’invasione dell’Ungheria, in cui nelle piazze vi erano numerosi carri armati e così le testate giornalistiche affermarono che <<i carri armati fanno bene, se non la pensi così non sei dei nostri>>. In questo caso l’appartenenza al gruppo viene giocata positivamente. es. Non sarai mica uno di quelli che credono ancora che… Viene minacciata la possibilità di poter includere un dato individuo in un determinato gruppo. Un’altra strategia manipolatoria è la polarity temptation (tentazione della polarità), usata in ambito politico e sociale (all’interno di gruppo sociali e politici). Il mondo viene diviso in due parti: il bene e il male. es. Noi siamo i buoni… loro sono non buoni: cattivi Noi: qualità positive (good guys); voi: qualità negative (bad guys). Negare un aggettivo come “buono” non comporta un significato negativo, ma può avere più valori. È una strategia che scatta da un'interpretazione errata della implicazione che comporta la negazione di un aggettivo (buono o non buono: in questo caso la negazione viene interpretata in modo errato). Questa manipolazione gioca su un errore linguistico. Buono e cattivo si possono identificare come aggettivi contrari, i cosiddetti compari, antonimi e individuano un paradigma. Il paradigma è un insieme di elementi che possono stare fra di loro in un rapporto di alternatività: rosso, giallo, bianco.. (paradigma semantico). Ad esempio l’aggettivo rosso si può inserire in un paradigma, che contiene tutti gli elementi cromatici conosciuti. es. Questo vestito è rosso → si può mettere un qualsiasi altro elemento (colore) in quanto potrebbe starci bene. Tale esempio si può considerare come un testo brevissimo, in quanto coincide con un solo enunciato. Il testo esclude tutti gli altri elementi contenuti nel paradigma cromatico, eccetto quello espresso nel testo (rosso). È come se dicessimo che può essere O verde O blu O giallo: quando si negano gli elementi del paradigma multiplo, il testo si apre a tutte le altre possibilità (allora sarà, potrà essere…). Negando apriamo il testo alla disgiunzione degli elementi alternativi. Spinoza segnalò che quando in noi attuiamo una determinazione e se osserviamo il rapporto tra il testo e gli elementi del paradigma cromatico, notiamo che il testo esclude tutti gli altri elementi. La determinazione è una negazione. I paradigmi si chiamano anche paradigmi semantici in quanto contengono elementi (parole: aggettivi) con un significato. Con “semantismo” ci riferiamo al significato della parola. “Semantico” significa che ha un nesso con il significato. Gli aggettivi: acceso-spento; sposato-celibe/scapolo→ sono elementi che stanno tra di loro in un rapporto di opposizione. Tali termini individuano gli estremi di una opposizione: opposizione polare, si tratta di elementi polarizzati. Rappresentano dei contrari. Gli elementi polari fanno anche parte di un paradigma es. Acceso o spento→ una lampadina può essere o accesa o spenta; es. Una persona può essere o celibe o sposata; Si tratta di un paradigma binario, poiché costituito da due elementi. Questi elementi rappresentano dei contrari fra i quali non vi sono elementi intermedi. Vengono definiti contrari immediati. es. La luce è accesa→ si esclude automaticamente l’altro elemento del paradigma (se è accesa non è spenta). Se si nega: questa luce non è accesa→ significa che è spenta. Dicendo “non acceso”, affermiamo “spento”. La negazione di un estremo, porta all'affermazione di un altro. Nei paradigmi a struttura polarizzata non c’è una via di mezzo, si tratta di contrari immediati. I paradigmi possono anche essere composti da altri aggettivi: es. bianco-nero→ qui si hanno sempre degli opposti-contrari che formano un paradigma particolare. Fra questi elementi si inseriscono diverse gradazioni di colore; si hanno tra i due estremi valori intermedi, che non sempre si catturano attraverso altri aggettivi (ad esempio grigio: non è né bianco né nero). Non si hanno aggettivi che indicano altri valori che si insinuano tra bianco e nero. Si parla dunque di valori scalari. Quando si usano questi aggettivi nel testo si parla contrari, anzi mediati, proprio perché a differenza del paradigma binario, sono dei contrari mediati (o contraria mediata, come affermavano gli antichi). Un valore è scalare quando presenta una molteplicità di gradazioni al suo interno. Uno dei valori intermedi, nell’esempio precedente, è il grigio. es. Questo vestito è bianco→ si escludono tutti gli altri elementi all’interno del paradigma multiplo. Se si nega “bianco”, dicendo “non bianco”, si afferma che un certo oggetto può avere diverse sfumature. Come diceva Sapir, quando noi neghiamo un estremo di un paradigma con valori scalari, la negazione potrebbe significare l’opposto (nero) ma potrebbe anche significare gli altri valori intermedi (zona intermedia del neither...nor). es. buono-cattivo→ si individuano valori scalari; se si nega un estremo, dicendo che una persone non è buona, potrebbe affermare che sia cattiva, ma anche una via di mezzo (ad esempio conoscenti). es. amico-nemico→ fra amicizia e inimicizia vi sono molteplici valori intermedi (paradigma scalare). es. ricco-povero→ si hanno dei contrari mediati, proprio perché ci sono diverse sfumature. Se qualcuno non è ricco, non significa che sia povero. Non possediamo, tranne in rari casi, espressioni linguistiche che esprimono valori intermedi. Accanto al termine creditore compare l’espressione latina -credo, formata da due radici: -cre (crescere) e -do (dare). “Credo” significa affidarsi per crescere. In latino il verbo credere si poteva costruire con il dativo (credo tibi) e con il dativo seguito dall’accusativo (credo tibi pecuniam). In italiano -credo non mantiene più l'accezione di “prestare”; però rimane nel contesto bancario con “creditore”. La radice di fides è evidente anche nell’ambito matrimoniale, con “fede” e “fede nuziale”. BHIDH continua nel tedesco “bitten”, usato con espressioni per “avere” e “chiedere” qualcosa. Questa radice ha sviluppato il tratto della costrizione in russo con termini come: “beda” (costrizione-necessità), “bednyj” (chi vive in costrizioni è povero), “robedit’/robeda (vincere). Non esiste nella comunità scientifica una definizione di comunicazione. Non esiste una definizione unica, così come non esiste un modello condiviso di comunicazione verbale. Modelli strutturalisti e funzionalisti Nel 900 sono stati proposti diversi modelli della comunicazione verbale. Basti pensare ai modelli dell’informazione (Claude Shannon) e ai modelli della comunicazione verbale. Fra i modelli della comunicazione verbale, vi saranno anche quelli sviluppati nel momento della riflessione linguistica, definita pragmatica, poiché ha guardato al nostro discorso come azione che compie l’uomo. Ciascun linguistica, con il suo modello della comunicazione, ha individuato un aspetto che permette di ricostruire i fattori costitutivi della comunicazione verbale. Il modello di Shannon è stato elaborato in sede informatica (1916-2001) ed è un modello in cui non interviene linguaggio verbale; ispirò Roman Jacobson. All’interno non ci sono interagenti umani, ma si fa riferimento alla trasmissione di informazioni. Nel processo vi è un device tecnologico (information source) che fa partire un processo comunicativo che raggiunge il receiver (ulteriore strumento tecnologico). Spiega come avviene il passaggio dell’informazione dall'information source al receiver. Il messaggio passa tramite un canale, ma bisogna considerare che potrebbero esserci dei disturbi (rumori-noise source). Il canale che unisce la sorgente al receiver ha una certa capacità. Una trasmissione priva di errori/rumori è possibile solo se la quantità di informazione comunicata è minore alla capacità massima. La dimostrazione del teorema è stata formulata in un articolo del 1948, incentrato sul rapporto tra medium e messaggio; infatti viene messa in discussione la distinzione fra “contenuto” e “mezzo”. Il mezzo è una realtà nuova che si aggiunge a quella vecchia, creando una situazione nuova. Non è il modo di comunicare ad essere cambiato con la nascita delle nuove tecnologie, ma la comunicazione stessa, che adesso include un contesto e degli interlocutori. In sede linguistica sono stati elaborati altri modelli che hanno come base una lingua storico-naturale, basti pensare a quello di Saussure. Saussure si colloca tra il 1857-1913; la sua teoria si conosce grazie al testo “cours de linguistique générale”. È il fondatore dello strutturalismo che va alla ricerca della struttura della lingua. Il modello è stato individuato come il “circuit de la parole”. La “parole” per Saussure è il circuito del discorso, ovvero la “parole” rappresenta la messa in atto da parte del parlante di una competenza linguistica. Saussure mette in evidenza che vi sono 2 interlocutori che discorrono scambiandosi segni: essi producono segni materiali che hanno una natura fonetico-acustica; ciascuno dei due interagenti è in grado anche di decodificare i segni, grazie alla conoscenza comune della lingua (langue), che lui caratterizza come un patrimonio mnemonico virtuale, ovvero una competenza linguistica che vive in sede mentale e psichica. Se non si condividesse la langue, sarebbe impossibile il processo di comunicazione. Parlare all’intero di questa dinamica significa scegliere dei messaggi adeguati: il parlante sceglie in sede mentale, regole che possano regolare i segni e messaggi, e li attiva per trasmetterli all’interlocutore, al quale si aprirà il compito di decodificarli. Emerge il concetto di codifica e decodifica, ovvero il passaggio che porta dall’ascolto di un suono alla comprensione. Si tratta, dunque, di un processo di decodifica. Il parlate dovrà passare da un intenzione argomentativa alla produzione fonetica. Il discorso viene costituito da un momento di codifica e decodifica. Il modello della codifica/decodifica è stato applicato per molti anni anche allo studio dei comportamenti umani e sociali: l’insieme complessivo di modelli è noto come strutturalismo. Il termine indica un modello in cui prevale una componente meccanica, al punto che gli interlocutori “sono parlati dalla lingua”, in quanto la loro azione è limitata all’esecuzione si segnali già esistenti. Il processo della comunicazione è caratterizzato da una componente meccanica, in quanto l’azione dei 2 interagenti si limita ad attivare segni e regole che già esistono in sede mentale (predisposti in sede mnemonica.) Umberto Eco sosterrà che questo approccio è caratterizzato dal fatto che <<i due parlanti siano parlati dalla lingua>>. I modelli della comunicazione successi hanno fatto emergere che i processi della comunicazione verbale sono molto più complessi: basti pensare al modello funzionalista, al modello di Jakobson e ad altri modelli elaborati nella svolta pragmatica. Lo strutturalismo è una corrente della riflessione linguistica, il cui fondatore fu Saussure ed è stato ripreso e rielaborato in altre discipline, ad esempio in antropologia per studiare i comportamenti umani e sociali. Si parla di strutturalismo perché l’autore inizia a porsi domande rispetto al funzionamento della lingua. La riflessione linguistica ha una fase scientifica che era legata alla riflessione filosofica. Divenne disciplina autonoma soltanto nell’800 ed era di tipo diacronica, ovvero osservava lo sviluppo delle parole nel tempo. Il concetto di segno, elaborato da Saussure, è alla base della semiosi. Per capire come una funziona una lingua bisogna collocarsi nella sincronia: non bisogna concentrarsi sull’evoluzione, ma si deve indagare sulla struttura. Saussure descrive il circuito della parola come un messaggio che parte dalla langue che vive in sede mentale e raggiunge il destinatario, che possiede a sua volta la conoscenza della stessa lingua. Il modello di Bloomfield (1887-1949) fa parte di una corrente strutturalista americana. Egli è il più importante esponente di tale corrente, autore di “language” pubblicato nel 1933. Egli osservava il linguaggio umano come uno degli aspetti del comportamento umano. L’aspetto del comportamento umano è fondamentale, in quanto vive in un ambiente caratterizzato da una corrente, definita “comportamentismo”. Il comportamentismo osservava i comportamenti umani, in termini di stimolo e di risposta. Nell’opera descrive due ragazzi: la donna vede delle mele su un albero, la vista delle stesse richiama in lei dei succhi gastrici (nasce uno stimolo che produce in lei una risposta linguistica) e un messaggio, che per lui diventa uno stimolo. Infatti, una volta compreso il messaggio, prenderà la mela per darla alla dina. Il metodo dello stimolo e della risposta è adeguato per indagare sui fenomeni fisici con una causa e un effetto. L'arco stimolo-risposta diventa problematico quando si analizzano i significati delle parole. L’uomo mangia, lavora, parla, ama, in quanto reagisce in modo meccanico a stimoli fisici. Il modello di Saussure è stato caratterizzato come “codicocentrico” perché considera il sistema linguistico come meccanismo che fa funzionare la comunicazione verbale. Il linguaggio umano è visto come un livello di comportamento che ha una certa intensità energetica. Gli strutturalisti quantificavano l’energia. Per egli i comportamenti umani possono richiedere una diverse intensità energetiche; infatti, il linguaggio richiede una quantità non particolarmente ampia di energia. Bühler elabora due modelli che documentano un approccio funzionalista, in quanto questi autori partono dalla consapevoleza che la lingua sia finalizzata alla comunicazione. Bühler elabora il concetto di lingua come “strumento per comunicare”. Il suo concetto di segno linguistico configura un modello ricco di comunicazione verbale. Egli cerca di individuare le funzioni che il segno svolge. I modelli funzionalisti fanno sempre parte di quelli elaborati in sede linguistica ed evidenziano aspetti rilevanti della comunicazione verbale. Il linguaggio non è fatto solo di segni, ma comprende anche i gesti e i movimenti del volto. Bühler ha uno sguardo funzionalista; fondamentale per la sua teoria fu “Sprachtheorie” pubblicata nel ‘34, in cui riprende la nozione di segno, osservata in rapporto al mittente, al destinatario e alla realtà. Egli guarda il segno a partire dalla funzione che svolge per il mittente che lo usa, in relazione alla funzione che svolge rispetto alla realtà e al destinatario. Inserisce il segno in 3 fasce di rapporto: in rapporto al mittente il segno agisce come un sintomo che svolge una funziona espressiva, in rapporto al destinatario (ricevente) il segno è un segnale che svolge una funzione di appello e in rapporto alla realtà si tratta di un simbolo che svolge una funziona di rappresentazione. Bühler scriveva in tedesco. In questo modello prevale la dimensione comunicativa e funzionale: il segno “serve per” svolgere diverse operazioni che portano al di là del segno stesso. Il momento interpretativo acquista un rilievo molto grande, mentre nel modello strutturalista è ridotto a una semplice corrispondenza significante/significato. Il segno diventa il nodo centrale del rapporto tra gli interlocutori e di questi, con la realtà. In prospettiva funzionalista, rappresenta il punto centrale del processo comunicativo. Serve per compiere operazioni che ci portano al di là del segno stesso. Il termine semiosi ha dentro la radice segno (ovvero semeion, dal greco) → quando si costruiscono dei messaggi ci appoggiamo alla semios (ai segni). es. casa-libro-albero, sono note come parole, ma in realtà sono segni linguistici. Un segno linguistico è un entità della lingua, composta da 2 elementi costitutivi. -Casa è una successione di suoni (chiamati anche fomi) che trasmettono dei significati (svolge una funziona comunicativa). Il segno unisce funzioni comunicative e strategie di manifestazione. Casa è la strategia di manifestazione di un significato/concetto. La parola -casa ha un significato che non ha bisogno di agganciarsi alla situazione comunicativa per far si che venga precisata. Saussure non inventò la nozione di segno, ma riprese ciò che era stato detto nel mondo antico (latini e greci). Bühler si soffermò sull’importanza della comprensione. Egli individuò, nell'ambito della semiosi (in cui operano i segni che usiamo nella comunicazione), due tipologie, ma in particolare si sofferma sulla deissi, ovvero sulla semiosi deittica. es. Io/ora: la parola -io è usata una comunicazione in cui si è mittenti. Parole come io/ora/tu cambiano di significato a seconda della situazione comunicativa in cui sono utilizzate. Chi non conosce la lingua italiana, naturalmente, non ne comprenderebbe il significato. Ci sono parole che si precisano di significato, a seconda della situazione significativa in cui sono utilizzate. C’è una parte di significato che deriva dalla categoria linguistica. Una parola è una categoria (all’interno di tale termine vi è la radice di -agorà, piazza della città greca). Una parola è come una struttura che ci permette di parlare della realtà. Una parola/segno come -io, può essere usata da ciascun mittente in diverse situazioni comunicative, infatti il termine si aggancerà a quella situazione e ne preciserà il significato. Il significato che proviene dalla parola ci chiede di individuare colui che è il mittente nella situazione comunicativa in cui la parola io è stata utilizzata. La parola io come afferma Bühler è una semiosi deittica, ovvero chiede di andare ad individuare chi l’ha utilizzata. Deissi significa proprio indicare. Le parole deittiche hanno una parte del significato che viene dalla parola e una dalla categoria, pertanto chiede di individuare chi l’ha utilizzata. Quando pensiamo a tradurre, facciamo riferimento alla traduzione da una lingua all’altra. Viene segnalato che la traduzione ha una sua rilevanza linguistica, ancor prima del rapporto tra lingue diverse. es. Ippogrifo (cavallo alato) → è una figura mitologica. es. Ambrosia (nettare degli dei); es. Casa (edificio in cui si vive). Jacobson, riprendendo Peirce, afferma che la destinazione di un segno sta nella sua trasposizione in altri segni. La destinazione di un segno sta nella sua traduzione in altri segni. La traduzione coincide con il processo interpretativo. Scopre che la traduzione è un processo che avviene già in ambito endo linguistico. Il processo interpretativo coincide con il processo traduttivo. L’autore individua la traduzione come il cuore del processo interpretativo. La traduzione ha una rilevanza linguistica, poiché prima di Jacobson, la traduzione era una prassi, mentre egli ne riesce a cogliere la portata linguistica. Fa un'obiezione a Russell, ovvero un filosofo britannico che afferma l'impossibilità di comprendere il significato di una parola, se non si ha un'esperienza extralinguistica. Egli sosteneva che se non si è mai visto il formaggio, non si sa neanche il significato. Al contrario Jacobson, afferma che anche chi non ha mai visto un formaggio può comprenderne il significato, purché venga tradotto in segni che si agganciano alla sua esperienza extralinguistica. Traducendo tale segno con “prodotto alimentare ottenuto mediante latte tagliato”; traducendolo in altri segni che hanno un aggancio con la realtà, sarà anche per loro comprensibile il termine formaggio. Analogamente, non abbiamo mai visto l'ambrosia, così come l’ippogrifo (tradotto: cavallo alato), però riusciamo a comprendere questi segni attraverso la trasposizione. La traduzione può essere caratterizzata, infatti Jacobson segnalò che ci sono diverse tipologie di traduzione. Normalmente, identifichiamo la traduzione come la trasposizione da una lingua all’altra. Ci sono 3 tipi di traduzione: 1. la traduzione endolinguistica (o intralinguistica): si ha quando interpretiamo un segno e lo traduciamo in in altri segni (si rimane sempre nella stessa lingua); 2. la traduzione interlinguistica: si ha quando si passa da un sistema linguistico (L1) all’altro (L2), facendo riferimento alle lingue storico-naturali (ad es. italiano-inglese); 3. la traduzione intersemiotica: si ha quando si passa da una struttura semiotica ad un altra. Ad esempio a partire dai romanzi, sono state realizzate delle trasposizioni filmiche, con cui si trasforma un testo scritto (sistema semiotico) in un testo filmico, in cui interviene il sistema semiotico-iconico (immagini e suoni). Oppure, alcune opere d’arte vengono descritte mediante l’utilizzo di una lingua. Alcune scene descritte in molti testi narrativi, basti pensare all’amleto di Shakespeare, sono state trasformate in immagini (trasposizione cinematografica). Quando immaginiamo l’ippogrifo come un cavallo alato, riusciamo a capire a ciò che faceva riferimento la mitologia. Anche se non li abbiamo mai visti, la traduzione traduce il segno, il quale si aggancia alla nostra esperienza extra-linguistica di cavallo (sappiamo cos’è un cavallo e cosa sono le ali). La trasposizione in segni, traduce la parola in altri segni che per noi hanno un riscontro nell’esperienza. es. Un bambino viene portato dai genitori sempre al lago, dunque conosce bene tale entità; però, un giorno i genitori gli dissero che lo avrebbero portato al mare. Conseguentemente egli chiese loro di cosa si trattasse, dato che non vi era mai stato (nessun riscontro con l’esperienza). I genitori dissere che si trattava di un grande lago salato. Lo traducono in segni di cui lui ha già esperienza. Bisogna però considerare, che il mare si riferisce ad un'entità di cui potrà esperire nella realtà; mentre noi, non incontreremo mai gli ippogrifi. Esistono diversi modelli della comunicazione che rientrano nella svolta pragmatica, ovvero riflessione/linguistica pragmatica. I linguisti della riflessione pragmatica osservano il discorso come un’azione. Decisero di soffermarsi su angolature che finora non erano state considerata. Mettono in luce che il dire è un agire/fare che si realizza tramite le parole. Dunque non è vero il proverbio che “Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare”. Anche l’agire/il dire corrisponde a compiere un'azione. Molti autori moderni riprendono intuizioni sulla lingua che sono state sviluppate in passato. Ad esempio, negli inizi della riflessione sulla lingua (appartenente alla riflessione filosofica), Platone, nel Cratilo introdusse il tema che il dire coincide con un fare (con l’agire). La prospettiva pragmatica Nella svolta pragmatica è stato fondamentale l'apporto di John Austin (1911-1960), il quale spiega la comunicazione verbale in termine di azioni; egli è l’autore del libro “How to do things with words”, pubblicato nel ‘62 e tradotto nella maggior parte delle lingue moderne. In italiano il titolo è stato tradotto in “Quando il dire è fare”. Austin parte dall’osservazione di un fenomeno particolare: in alcuni casi pronunciare una certe espressione produce un cambiamento nella situazione reale. Austin riflette sulle nostre azioni di dire. In un primo momento segnala una distinzione: ● enunciati constativi → es. Oggi splende il sole; questi tipi di enunciati constatano la realtà (la rappresentato); ● enunciati performativi → es. Ti prometto di portarti al cinema - Lei è licenziato, con cui accadono determinati fatti. Ci sono azioni che accadono dicendole. La situazione degli interlocutori prime e dopo il proferimento del messaggio è diversa: il dipendendente prima aveva un lavoro, adesso lo ha perso! Nella prima fase, afferma che nel nostro discorso dovremmo distinguere gli enunciati performativi ( to perform: realizzare) da quelli constativi. L’evento accade dicendolo, come nel caso delle promesse: non si può promettere, se non si usa la parola. In un secondo momento, Austin rileva che tutte le nostre espressioni coincidono con azioni, anche quando si tratta di enunciati assertivi. Ovviamente ci sono anche usi performativi: es. Lei è licenziato es. Ti prometto di portarti al cinema → il mittente ha assunto un impegno, il destinatario si aspetta che il mittente faccia ciò che ha promesso. Gli usi di licenziare e promettere, vengono chiamati da Austin performativi. es. Ti battezzo Queen Elisabeth Queste azioni possono accedere soltanto dicendole, però, Austin si accorge che in qualche modo ogni discorso ci permette di compiere un'azione, come → Oggi piove / Luigi parte per Roma. Enunciati assertivi come questi permettono di descrivere la realtà. Austin, dopo aver distinto tra enunciati performativi e constativi, riformula il suo pensiero e segnala che ogni uso del linguaggio permette al parlante di compiere un'azione, vale a dire uno speech act: ogni atto del nostro dire è un atto linguistico. Quando parliamo formuliamo un atto linguistico. Austin, nella sua teoria, distingue nell’atto del dire 3 momenti: ogni momento si può articolare in 3 atti. Quando produciamo un segmento di discorso compiamo contemporaneamente 3 atti (locutivo, illocutivo e percettivo). Con l’atto locutivo si fa riferimento al momento del dire (es. Luigi ama la musica) che ha un certo contenuto. Quando compiamo un atto locutivo, compiamo contemporaneamente un atto illocutivo, con cui si fa riferimento all’azione precisa che il parlante compie con quell’atto linguistico, anche chiamato atto rappresentativo, in quanto si rappresenta la realtà. Con locuzione si intende l’azione che si compie con il discorso e la diversa azione che si realizza con un diverso tipo di atto linguistico. Quando compiamo un atto locutivo e illocutivo, compiamo anche un atto perlocutivo, ovvero gli effetti che lo speech act produce nel contesto comunicativo (contesti perlocutori) → provocando un certo effetto sul destinatario (es. Apri la porta / chiudi la finestra). Nel caso di uno speech act come comando, potremmo pensare che l’atto perlocutivo generi un effetto. Gli effetti del contrasto coincidono con l’azione compiuta da colui che svolge l'azione. Con l’atto perlocutivo si intende qualcosa di più. Quando formuliamo un ordine, il destinatario potrebbe non eseguirlo. Questo atto linguistico avrà degli effetti nel contesto, anche se non sarà l’effetto che vogliamo con il nostro comando. L’atto produrrà effetti nel contesto, in quanto dopo accadrà qualcosa: infatti, la situazione comunicativa che vede mittente e destinatario non sarà più la stessa, dato che i due soggetti coinvolti escono dall’atto del discorso in modo diverso. Il mittente può cogliere vari aspetti, ovvero che l’interlocutore non riconosce in alcuni casi l’autorevolezza di chi gli ha posto l’affermazione/domanda o può captare un segnale di ribellione momentanea. Anche se il destinatario non esegue il contenuto del comando, produce degli effetti nel contesto. es. Chiudi la porta!→ con questo atto abbiamo compiuto un atto del dire, con un certo contenuto e coincide anche con un’azione di comando; formulando un comando abbiamo compiuto un atto illocutivo, e allo stesso tempo vogliamo indurre il destinatario a compiere l’azione, ottenendo così effetti nel contesto (atto perlocutivo). es. Luigi ama la musica → enunciato assertivo, come “Oggi splende il sole”; con questi atti illocutivi si rappresenta la realtà. John Searle (1932- ) riprende il concetto di atto illocutivo e sviluppa una tassonomia completa degli illocutivi. Per l’autore, l’atto illocutivo è uno speech act di tipo rappresentativo, ovvero un’azione diversa da quella di formulare un comando. Egli riprende la teoria degli speech act e approfondisce il concetto di illocuzione. Con illocuzione si intende l’azione che lo speech act ci permette di compiere. Egli propone diverse tipologie di atti linguisti, descrivendo anche le diverse azioni che il parlante può compiere con uno speech act. A volte lo speech act può essere rappresentativo, direttivo o commissivo. Ogni atto linguistico arricchisce l’interazione e la situazione comunicativa; se formuliamo un atto linguistico, compiamo un’azione. Non è detto che i due interlocutori conoscano l’informazione: i due possono condividere o meno lo stesso contesto geografico. es. Se si messaggia con un interlocutore in un'altra località, la stessa informazione non sarà condivisa da entrambi. Si tratta di un atto informativo nuovo. es. Oggi piove, non esco a trovarti! → all’informazione conosciuta si aggiunge qualcos’altro. Esempi di atti linguistici differenti: es. Paolo fuma abitualmente → si tratta di un enunciato assertivo; con questo atto linguistico il parlante formula uno speech act (atto locutivo che da voce ad uno illocutivo) che la rappresenta la realtà e il mittente. Per Searle gli atti linguistici che rappresentano la realtà, sono atti rappresentativi. es. Chiudi la porta! → si ha la formulazione di un comando; si parla di un atto linguistico direttivo, poiché si chiede a qualcuno di fare qualcosa. es. Ti prometto una ricompensa → Searle chiama gli atti che esprimono una promessa “atto commissivo”, in quanto aprono un impegno da parte di colui che formula l’atto linguistico. Quando si formula una promessa, si genera anche l'impegno di realizzare quanto detto. In base all’atto linguistico cambia l’azione che il mittente compie: cambiando l’azione che intendiamo compiere, cambia l’illocuzione, e dunque la forza illocutoria. Paul Grice (1913-1988) è un’altro autore importante poiché osservò l’atteggiamento reciproco dei parlanti e mise a tema il principio di cooperazione. Egli propone un modello della comunicazione fondato sul principio di cooperazione, in cui mette in luce che gli interagenti (mittente e destinatario: coloro che intraprendono un atto comunicativo), cooperano, facendo emergere una cooperazione reciproca. Grice evidenzia una serie di massime della comunicazione che guidano il parlante, per far si che un intervento comunicativo sia adeguato. L’interazione avviene secondo un principio di cooperazione: i due cooperano, ovvero vanno Il messaggio è uno scambio di sensi che hanno lo scopo quello di creare un “habit change”; Il cambiamento è stato caratterizzato come “habit change”. Parlare di evento comunicativo sottolinea, che dal punto di vista del destinatario, il messaggio “arriva” come sollecitazione a lasciarsi coinvolgere. Gli eventi comunicativi sono intesi come gli eventi che i soggetti umani producono per comunicare, per trasmettere l’un altro un messaggio che porti un senso. Il senso è centrale nella comunicazione e produce un cambiamento. Senso: termine polisemico (molteplicità di significati). In italiano la usiamo per indicare una direzione: es. Questa strada è a senso unico; Se invece si parla dei 5 sensi, si farà riferimento all’organo percettore dell’uomo: es. L’uomo ha cinque sensi. L’udito è un senso; Per indicare che una persona valuta in modo ragionevole: es. Ha un buon senso. La parola uomo in italiano ha due significati: in un primo senso significa essere umano, in un altro significa essere umano di sesso maschile. La parola ha 2 accezioni. L’espressione “non ha senso” rappresenta un'eccezione molto interessante. Nel linguaggio comune tale espressione è usata solo in senso negativo. es. Mia moglia è un ottima cuoca (detta da uno scapolo); es. Mio cugino è farmacista (insensatezza); es. Mio figlio non guida: è sposato. In questi casi senso fa riferimenti ad affermazioni insensate. Il non senso si capisce dopo averlo circoscritto. es. Un produttore di freezer apre una filiale al polo Nord → comportamento insensato, in quanto irragionevole. Un comportamento è irragionevole quando è privo di ragioni adeguate. es. Si chiede al barista un caffè, ma poi va via! → comportamento senza logica, irragionevole. Il suo compito è quello di erogare i servizi richiesti dai clienti. es. Ci si trova in una casa di cura e alla porta del direttore c’è scritto << è richiesto di bussare>> → qui si mette in mostra l’insensatezza del messaggio, in quanto ogni volta un paziente passa di là. bussa. Un comportamento è insensato (non ha senso), in quanto non ha rapporti con la ragione. Il senso ha a che fare con la ragionevolezza. Un fatto ha senso quando ha un rapporto con la ragione. Ci chiediamo se esista il non-senso in ambito comunicativo. In momenti di riflessione sulla lingua si costruiscono non-sensi artificiali, ad esempio dal linguistica con scopo metalinguistico. Si tratta di testi artificiali, costruiti a tavolino. Nella realtà comunicativa esiste il non-senso? Nell'ambito della letteratura, si ha a che fare con il teatro dell'assurdo, in cui vi è una tipologia testuale del non-senso. Attraversi i testi insensati e i dialoghi complessi presenti in alcune opere, gli autori intendono comunicare un senso preciso: il disorientamento dell’uomo del 900 che non ha punti di riferimento e ha perso il senso della realtà. Essi chiedono di andare ad un livello interpretativo superiore per ricostruire il senso, partendo da un messaggio insensato. Quando sono i linguisti a inventare non-sensi artificiali, questi non sono testi reali e quindi non contengono un livello più profondo di significato. I testi dei soggetti psicotici sono un altro caso in cui sono violate le regole della sintassi, pertanto si fa fatica a coglierne il senso → nessun linguistica li caratterizzerebbe come testi insensati, poiché ci costringono ad andare oltre e cercare di comprendere il tentativo di esprimere il loro disagio profondo. Si giunge alla conclusione che l’uomo è “un animale che ha inevitabilmente senso”. Quando si parla di non-senso bisogna distinguere vari livelli: nella dimensione comunicativa il non-senso non esiste nella dimensione ultima comunicativa, perché il testo è tutt’altro che insensato e ha, al contrario, un forte messaggio da trasmettere allo spettatore. Negli esempi artificiali il non-senso si dà, ma solo come esito “metalinguistico”, in modo da spiegare alcune regole del funzionamento del linguaggio. L’uomo cerca il senso, pertanto di fronte a produzioni testuali che sembrano insensate, si ricerca la sensatezza. Per capire meglio cos’è il senso, si mette a fuoco la differenza tra informazione e notizia. es. Si avvicina uno sconosciuto e afferma che il cugino è farmacista! → non ha senso, poiché a me non interessa. Dunque, un'informazione per essere considerata notizia, deve essere pertinente per il destinatario, cioè devo riguardarlo. Si riesce a comunicare quando il destinatario si rende conto che quello che sto dicendo ha senso. Bisognerebbe lavorare sull'informazione in termini di marketing, per riuscire a vendere l'informazione come notizia per qualcuno. L'informazione deve essere oggettivamente interessante per il destinatario, Il comunicatore seleziona e comunica solo alcune informazioni che rappresentano il suo “data-base del mondo”, ovvero ciò che ritiene pertinente per il destinatario. Comunicare è agire Si ricorre alla comunicazione tutte le volte che il singolo soggetto non è in grado, sa solo, di realizzare un proprio obiettivo e cerca pertanto di coinvolgere altri soggetti (joint action). “Il dire è un fare”. infatti, quando comunichiamo agiamo. Gli autori della svolta pragmatica ripresero un'intuizione, già presente nel Cratilo di Platone, in cui si afferma che il parlare è un agire/fare. La comunicazione verbale è ciò che ci permette di intrecciare nella realtà azioni. Senza il discorso non sarebbe possibile creare interazioni. La comunicazione verbale è lo strumento che rende possibile la creazione di joint actions. Possono esserci intrecci di azioni semplici: es. Si entra in un bar e si ordina un caffè→ nasce così intreccio di azioni, poiché il bar ci fornisce il caffè, soltanto dietro il pagamento di un compenso. Si parla dunque di uno scambio caffè-soldi. Lo scambio non sarebbe possibile senza l’intervento della comunicazione. es. Mi fa per piacere un caffè → si genera uno speech act direttivo, ovvero una richiesta che invita il destinatario ad erogare un servizio. La pragmatica da voce alla “theory of action” (teoria dell’azione). La pragmatica è il comportamento umano del parlare, ovvero un evento semiotico che ci permette di scambiare azioni. L’ontologia è un fatto complesso costituito da fattori diversi, che sono in grado di far emergere la sua complessità. Dopo aver descritto l’ontologia dell’azione, in certi casi è necessario ricorrere a delle interazioni. Se i due soggetti condividono lo scopo, si realizza una cooperazione. Mentre, nel caso in cui gli obiettivi dei due agenti sono complementari, ciascuno dei due agisce perseguendo il proprio obiettivo, ma ricorre all’altro affidandosi a lui per realizzarlo: si tratta di un interazione. Gli atti comunicativi che i due soggetti si scambiano consentono loro di coordinare le proprie azioni, mostrandosi reciprocamente il beneficio ottenuto dall’interazione, cioè dall’agire secondo il desiderio dell’altro. La competizione, invece, nasce da un’azione di un soggetto che interferisce in qualche suo punto con la catena di realizzazione di un’altro. Vi sono diversi modi di intrecciare l’azione: interazione e cooperazione. Struttura dell’azione: quando si intraprende un azione vi sarà sicuramente un soggetto agente. Quando si compie un'azione, per agire, bisogna conoscere il mondo e le sue dinamiche. Non è la conoscenza del mondo ciò che fa scattare un’azione, ma al contrario è proprio il desiderio. La facoltà di immaginare “mondi possibili”, diversi da quello attualmente presente intorno a noi, dipende dalla capacità dell’uomo di sintassi, ovvero di connessione sensata e innovativa tra elementi ricavati dall’esperienza reale. Ad esempio, si ha un soggetto A (che si trova a casa) e in lui insorge il desiderio di soddisfare il gusto di bere una bevanda aromatica calda al caffè. Ogni azione scatta da un punto di origine (desiderio). A partire dal desiderio, il soggetto immagina uno stato di cose che soddisfi questo desiderio: immagina la tazzina di caffè fumante. A partir dal desiderio, identifica un interesse; immagina uno stato di cose che corrisponde al desiderio e gli permette di soddisfarlo. Questo per lui diventa lo scopo da perseguire e lo raggiunge attivando una catena di realizzazione: una serie di atti che gli permettano di realizzare l’obiettivo. In questo caso gli atti che compierà sono: recarsi in cucina, prendere la moca, mettere l’acqua nella parte inferiore, il caffè nel filtro e accendere il fuoco. Qualsiasi azione ha come punto di partenza il desiderio. Il soggetto ovviamente deve conoscere il mondo, in questo caso deve saper preparare il caffè (o con la moka o la macchinetta), altrimenti non riuscirà a realizzare il desiderio. Se non avesse saputo preparare il caffe, il suo desiderio permaneva. Quando si agisce ad una richiesta, parte anch'essa dal desiderio. Quando si analizza l’ontologia dell'azione emerge in modo chiaro quanto sia fondamentale la dinamica del desiderio. Il professor Planten segnala la natura alessitimica che caratterizza la nostra cultura, ovvero una patologia che si caratterizza con questo aspetto e rappresenta il momento in cui, il soggetto umano è bloccato nei suoi desideri e nei suoi sentimenti. L’alessitimia è una malattia che ha il parlante, il quale non permette alla parola di esprimere le mosse del suo animo. La nostra è una cultura che tende a mettere a tacere il nostro desiderio, perché potrebbe essere pericoloso. In alcuni casi, come abbiamo detto, il soggetto non è in grado di realizzare da solo il desiderio da cui è partita la sua azione. A partire dalla patologia si è iniziato ad osservare la cultura in cui siamo immersi e rende tabù la dinamica dell’espressione dei nostri desideri. La nostra cultura cerca di ridurre il livello del nostro desiderio: meno desideriamo, meno siamo preda della manipolazione. In alcuni casi scattano interazioni: es. Supponiamo di non essere a casa nostra, ma all’università; si è in Largo Gemelli, nel soggetto A insorge il desiderio analogo di soddisfare il desiderio di una bevanda. A partire dal desiderio, immagina uno stato di cose che sia in grado di realizzarlo. Non può attivare da solo la catena di realizzazione, pertanto entra in un luogo di interazione, definito “interaction field”, in questo caso un bar. Per raggiungere lo scopo ci si avvicina nel campo di interazione per soddisfare il desiderio: egli si rivolge ad un interlocutore (barista) con un atto linguistico, attraverso il quale chiede un caffè. L’atto linguistico fa scattare nel destinatario un’azione di risposta. Il barista lavora nel bar e con la firma del contratto si impegna ad erogare un servizio, quando gli viene chiesto. Il barista agisce dietro ad una richiesta: anche lui è un soggetto agente e anche lui agisce a partire da un desiderio, che è quello di svolgere bene il suo lavoro, onorare il suo impegno, ricevere una retribuzione e operare in un contesto che gli permette un’interazione sociale di questo tipo. La sua adesione alla richiesta del cliente è libera, ma in condizioni normali prevedibile, poiché ha accettato un ruolo preciso in un'organizzazione che offre servizi (bar). Lo speech act del cliente fa scattare nel barista una catena di realizzazione. Infatti, immaginare una soluzione originale e possibile significa saper astrarre dall’esperienza già fatta elementi particolari collegandoli in modo nuovo. Se la soluzione immaginata risulta anche desiderabile, il soggetto può predisporre e attivare una “catena di realizzazione”, cioè può disporre una serie di mosse orientate alla sua intenzione. Le unità riconoscibili all’incontro delle due “reti” non sono solo parole ma anche morfemi, disposizioni diverse delle parole, strutture prosodiche (intonazione) e sintattiche, connessioni anche implicite ecc: il valore di ciascuna unità si precisa nel testo volta per volta. Seppure indeterminati, i suoni sono riconoscibili e sistematici. Infatti. quando un bambino impara a parlare o quando si studia una lingua straniera si è comunque capaci di riconoscere il suono. È un esempio, ma in realtà ogni realizzazione sul piano fonico di unità linguistica è materialmente diversa (i suoni concreti realizzati la prima, la seconda e la terza volta che viene usato un segno, sono tre suoni concreti materialmente diversi), ma è tuttavia riconoscibile in quanto somigliante all’ immagine sonora che attraverso l’uso se ne è depositata nella nostra memoria. La faccia fonetica del segno non consiste nella sua realizzazione materiale, ma in un modello di realizzazione, che consente di riconoscere il segno. Questo modello è detto strategia di manifestazione. Soltanto attraverso i processi di astrazione è possibile risalire dal testo a regole astratte e schemi concettuali, i quali costituiscono la “spiegazione” linguistica del senso concreto che figura nei discorsi. Regoli e schemi non esistono nella realtà del messaggio, che invece rimanda sempre a un senso reale. Emerge così’ la significazione, ovvero il senso specifico che un'unità linguistica assume nel testo. Il significato, invece, rimanda alle regole e agli schemi attraverso i quali cerchiamo di spiegare la significazione testuale. La significazione dipende dal confronto tra il messaggio e la realtà. Questo rapporto, infatti, rende possibile il confronto tra lingue diverse. La semiosi rimanda a valori linguistici attivati nel messaggio. Una correlazione deve essere “interpretata” dall’interlocutore per risalire al senso del messaggio, passando attraverso la significazione, cioè il confronto tra la conoscenza della lingua e l’esperienza della realtà. I suoni che compongono ciascun testo hanno funzioni precise: l’organizzazione materiale del messaggio, fino alla sua articolazione fonetica, risponde alla funzione di veicolare i precisi valori di cui i segni sono portatori in quel contesto comunicativo. In effetti, quando abbiamo bisogno di usare una parola, dimentichiamo tutti gli altri valori che assume in contesti diversi, tranne quella specifica che ci serve. Anche se gli altri valori resanto nella nostra mente, la parola viene scelta perché capace di esprimere nel contesto quel dato valore, che è appunto la significazione. es. Un bambino si diverte sulla spiaggia → l’enunciato può alludere a un singolo bambini o ai bambini in generale. In questo caso non ci sono indicatori che permettano di distinguere le due significazioni possibili. Secondo Buhler, per ricostruire il senso che il mittente intende comunicare, il destinatario si pone in un atteggiamento da detective che gli consente di riconoscere il valore preciso che il mittente intende esprimere attivando quella struttura linguistica, a partire da inizio che egli ricava dalle altre strutture linguistiche presenti nel messaggio stesso o da altri elementi anche esterni al messaggio. La differenza tra significazione e insieme dei valori possibili emerge dal confronto tra lingue diverse. Ad esempio il francese “mouton” può corrispondere all’inglese “sheep” o a “mutton”, però, quando un francofono afferma <<J’ai mangé du mouton>>, il contesto rende certa la significazione di mouton come mutton; mentre nel messaggio <<Peut-être bien que la mouton a mangé la fleur>>; con mouton il parlante intende sheep ed esclude mutton. Sheep, a sua volta può indicare sia il plurale che il singolare: volta per volta il mittente intende una significazione precisa pu utilizzando un segno linguistico parzialmente indeterminato, che il destinatario deve interpretare. Il confronto interlinguistico tra i valori legati a ciascun segno è reso possibile da una categorialità che non dipende necessariamente da quei segni. In tal senso, la significazione evoca un tertium comparationis, cioè un elemento reale esterno alla lingua che consente il paragone interlinguistico. Risulta particolarmente interessante un esempio con il verbo italiano “affittare”, in quanto significa sia dare un tuo bene in affitto, che prendere in affitto bene altrui. In tedesco, invece, c’è distinzione. “Mieten” e “vermieten”. Non è quindi pensabile un uso che sfrutti tutte le significazioni possibili. La significazione è precisa, ma il valore linguistico (il significato) no. Affittare non ha è un valore linguistico specifico perché non è un concetto. Ci servono altri elementi del testo o del contesto per interpretare adeguatamente il messaggio. Come afferma Buhler, il linguaggio presuppone la conoscenza della realtà da parte degli interlocutori. La semiosi è quindi l’associazione fra suono e senso (strategia di manifestazioni e valori lunguistici). Riprendendo il circuit de la parole di Saussure potremmo dire che il nesso semiotico, unendo il valore linguistico ad una certa strategia di manifestazione, è il costituente essenziale della comunicazione verbale. Non è tuttavia sufficiente per spiegare in modo esauriente il rapporto tra significazione e realizzazione fonetica del messaggio. I l senso che emerge dal testo nasce dal confronto realizzato dai parlanti tra segni linguistici e situazione comunicativa. La strategia di manifestazione è una strategia di cui ci si serve per manifestare un certo valore linguistico, così come il valore è sempre valore di qualcosa, della manifestazione; allo stesso modo per Sassaure un significante deve necessariamente essere significante “di qualcosa” (un significato) e viceversa. Un evento può avere senso perchè può implicare per me qualcosa di particolare. es. Oggi c’è il sole! → implica per me che non devo prendere l’ombrello o che posso soddisfare il desiderio di godermi una passeggiata in centro. <<Essere penna>>, invece, implica che la posso usare per scrivere. In questa accezione il senso si specifica come “implicazione per me”. La semiosi è il fenomeno per cui un evento è portatore di un contenuto/significato/senso perchè grazie a una convenzione, quell’evento fisico è da me e dai miei interlocutori collegato a un contenuto, e non grazie al fatto che la natura dell’evento in se stesso faccia capire (implichi) questo significato. es. Cristina incontra Giovanni che la saluta e le dice “Ciao come va?; Cristina può replicare dicendo: <<Ma ti è scesa la voce?>> oppure può rispondere <<Bene, grazie. E tu?>>. Nella prima risposta Cristina ha preso in considerazione il senso dell’evento “enunciato proferito da Giovanni” inteso come fatto fisico, nel secondo lo ha inteso come evento semiotico. Un qualsiasi evento può essere considerato come fatto in sé, per le implicazioni che uno ne trae (se ad esempio tutti i posti in biblioteca sono occupati, Silva trae l’implicazione che deve andare a cercare altrove un posto a sedere), oppure può essere un evento convenzionale che ha un valore semiotico (per esempio un amico ha messo lo zaino sulla sedia di fianco alla propria: per gli altri significa che quel posto è occupato, mentre per Silvia vuol dire che l’amico la sta aspettando per studiare insieme. La segnaletica stradale, le frecce dell’auto, i semafori, sono tutti eventi semiotici. In realtà la comunicazione è un fenomeno molto complessivo, che opera sia in eventi che significano per implicazione sia con eventi che significano per semiosi, ma nella comunicazione verbale la semiosi ha indubbiamente una funzione fondamentale. Gli eventi non semiotici hanno senso per noi solo in quanto rientrano nel nostro universo di discorso: quando in qualche modo li trattiamo semioticamente, ovvero li semioticizziamo. La linguistica si colloca entro la comunicazione semiotica, come studio del linguaggio verbale. Per distinguere quel fare particolare che è il dire degli altri tipi di “fare”, bisogna considerare che c’è una funzione primaria concerta di certi atti, che non si riduce al valore semiotico. es. Se Luigi ha fame e la mamma gli da una brioche calda, questo gesto ha una funzione che non è semiotica. Nel momento in cui la mamma da una brioche da anche un messaggio, ma il gesto non riduce affatto a questo aspetto. La semiotica considera i segni in generale, in tutte le possibili topologie, mentre la linguistica si occupa di una classe di segni, quelli verbali. Il segno come institutum di una comunità: la convenzionalità L’insieme dei messaggi verbali costituisce il linguaggio verbale. Le lingue storico – naturali sono sistemi che consentono di formulare messaggi verbali, sono cioè sistemi semiotici segnici. Il verbo affittare non contiene nessuna connessione reale e naturale tra strategia di manifestazione e il valore correlato. L’unica ragione di questa connessione è la convenzione tra i parlanti: si dice che questa connessione è arbitraria, ma non soggettiva; è solo grazie a una stabile condivisione dell’insieme delle correlazioni semiotiche dette complessivamente lingua italiana che ci capiamo. Per questo la connessone è anche definita convenzionale. (in un’altra lingua affittare non vuole dire nulla). Nella correlazione semiotica si presenta un fenomeno molto particolare: l’oggetto fisico che rappresenta la strategia di manifestazione (il suono che sentiamo quando qualcuno pronuncia la parola albero o l’inchiostro che vediamo sulla pagina quando leggiamo questa parola) è un supporto materiale unico. Associamo intenzioni comunicative ad eventi fisici, ovvero a strategie linguistiche di manifestazione. es. casa → è il risultato del processo semiotico, con cui correliamo una successione di suoni (C-A-S-A) ad un concetto; es. albero → con la semiosi si crea sempre una correlazione semiotica. Se ripetessimo mille volte la parola albero, ciascuno di tali atti risulterebbe materialmente diverso da tutti gli altri perché le onde sonore che produciamo sono onde diverse. Dunque, la ragione per cui diciamo che si tratta sempre “delle stesse parole” non è l’identità fisica, ma l’identità funzionale: il segno linguistico non è una realtà materiale, ma piuttosto l’unione delle due realtà immateriali, e cioè strategia di manifestazione e valore linguistico. Con un’altra lingua storico naturale “tree” (inglese) si correla una successione di suono ad un concetto (T-R-E-E). Una comunità francofona correla una successione di suoni (M-A-I-S-O-N) ad un concetto. Attraverso la correlazione semiotica abbiamo creato un segno che deve essere interpretato per coglierne il senso che veicola (concetto veicolato dalla successione di suoni). Se non si comprende la lingua storico-naturale di riferimento non si ricostruirà l’intenzione comunicativa pronunciata dalla successione dei suoni. Ogni comunità linguistica, in base alla lingua, associa nella correlazione semiotica una strategia di comunicazione diversa. La prima caratteristica della correlazione semiotica è l’arbitrarietà, ovvero non c’è nessuna ragione per cui al concetto di abitazione vada associata il suono maison-house-dom: il rapporto che c’è tra il concetto e il suono è un rapporto arbitrario, termine derivante da -arbitro (capriccio). Il linguaggio verbale fa appello al sistema linguistico, vale a dire che quando usiamo questo linguaggio ci serviamo delle correlazioni semantiche di una lingua storico-naturale. Saussure segnalò quanto l’arbitrarietà sia importante. La traduzione Non c’è una ragione per cui ad un determinato concetto è associata una precisa successione di suoni, questo però garantisce la stabilità della lingua. Se il nesso tra concetto e suono non fosse arbitrario, ma ci fosse una ragione, qualcuno potrebbe dire che sarebbe più ragionevole associare ad un determinato oggetto un’altra successione di suoni. Se così fosse non ci sarebbe più la condivisione della lingua che permette agli interlocutori di comunicare e di capirsi È possibile costruire lo stesso senso avvalendosi di lingue diverse. Nella traduzione, il traduttore inoltra il messaggio ai destinatari definitivi, attuando il senso nel sistema linguistico che essi conoscono. L’autore formula il senso in un testo. Il traduttore riceve il testo e lo interpreta, recuperando il senso: a questo punto formula un nuovo testo servendosi delle strutture del sistema linguistico. Questo nuovo testo è a disposizione del destinatario effettivo, che può a sua volta risalire alla rappresentazione semantico-pragmatica, cioè al senso. Se le parole coincidessero con la realtà avremmo diverse psicosi. I soggetti psicotici fanno coincidere la lingua con la realtà, dunque se si recano al ristorante e leggono il menu, attuano un’equazione simbolica, pertanto inizieranno a mangiare il menù dal momento in cui c’è scritto “entrata”. Se si cancella il rimando alla realtà è un segnale di follia/psicosi. Possono esserci diversi tipi di semiosi: non tutti i segni sono come “casa” o “albero”, ovvero successioni di suoni che rimandano ad un concetto preciso (se usato oggi o domani il loro significato non cambia). La parola “io”, invece, si precisa di significato diverso → in questo caso interviene una semiosi diversa; così come “ora”. es. Ora splende il sole → questa situazione accade in un momento preciso (23/11/2020); se lo stesso termine si utilizza domani, si farà riferimento al momento in cui si parla (24/11/2020) del fenomeno meteorologico. In entrambi i casi “Ora” indica un momento temporale che si precisa temporalmente agganciandosi all’azione comunicativa. Si è di fronte alla deissi, derivante dal greco -deijnymi, ovvero additare, indicare.. es. Io, tu, adesso, ora, qui, così → sono termini caratterizzati da semiosi deittica. In ognuno di questi termini una parte di significato deriva dalla parola stessa (categoria) e diventa il contenuto di un'istruzione che dice “vai a prendere/individuare” colui che l’ha utilizzata. “Io” è una parola caratterizzata da semiosi deittica, in cui vi è un tasso minimo di significato categoriale, pertanto occorre individuare colui che l’ha utilizzata Sistemi semiotici verbali e non verbali Nessun segno si realizza come oggetto da solo: un oggetto può diventare segno se entra in alternativa con altri segni che dicono significati alternativi. Anche un unico oggetto fisico può creare due segni: in un codice l’assenza può da sola funzionare da significante (segno zero), l’esempio è quello del sistema binario su cui si basa tutto il linguaggio digitale. I segni non sono mai isolati, essi rappresentano sempre un insieme di significati possibili in rapporto di esclusione l’uno con l’altro. I segni si basano sull’opposizione con altri segni, ecco perché si parla di sistemi di segni. I sistemi semiotici possono essere linguistici (verbali) o non linguistici (non verbali). Un sistema non linguistico è un sistema di segni (segnaletica) che prevede un determinato numero di posizioni, ciascuna delle quali corrisponde a un messaggio prestabilito. (ex: gradi militari, segnaletica stradale ma anche i numeri arabi). Vi è un r apporto biunivoco: ad ogni segnale corrisponde uno solo messaggio e ogni messaggio corrisponde un solo segnale. es. il semaforo verde significa “è il tuo turno”: vai! I segni sono stati stabiliti in precedenza da qualcuno (arbitrarietà) e serve conoscere il sistema per comprenderli (convenzionalità). Un sistema linguistico naturale invece è diverso: in questo caso si parla di sistema segnico (o lingua). Nei sistemi di segni i messaggi non sono prestabiliti come nelle segnaletiche, ma vengono realizzati dai parlanti volta per volta. Quindi la lingua storico-naturale è un’insieme di regole astratte e schemi concettuali legati a strategie di manifestazione che servono per costruire messaggi non un insieme preordinato di segni-messaggi già fatti. Di conseguenza nei sistemi di segni il numero dei messaggi possibili è fisso: segni, significanti e significati possibili sono già tutti previsti (no composizionalità). Nei sistemi segnici: il numero dei messaggi che si possono costruire è virtualmente infinito. La povertà dei sistemi di segni è un bene perché riduce la confusione (no indeterminatezza). Le lingue si chiamano storico – naturali, perché sono vive nel tempo, subiscono un’evoluzione storica e sono un elemento naturale della vita di una persona. La capacità di parlare sta alla base della società. Nel linguaggio verbale non operano solo le parole. Ci sono altri processi che intervengono nella costituzione del messaggio verbale: cooperano con la semiosi categoriale anche la deissi, l’inferenza e l’ostensione. Deissi Categoria deriva da katà: a ridosso di; e da agoréuo: parlo. Per i deittici le parole sono categorie perché vengono viste come etichette a cui facciamo riferimento per parlare della realtà. La semiosi categoriale è ciò che lega l’immagine acustica; il valore linguistico è stabilito dalla lingua quasi Secondo la semiosi deittica, invece, il valore linguistico non è ricostruibile attraverso la conoscenza della lingua, poichè ci si basa sul contesto. Le parole deittiche sono caratterizzate da un forte tasso di realismo, poiché ricche di realtà. I deittici per funzionare richiedono una condivisione dello spazio comunicativo. es. Luigi dice che questa penna è blu - Andrea invece dice che questa penna è rossa. Alla base del nostro dire c’è il principio di non contraddizione che applichiamo inconsapevolmente. Tale principio venne individuato da Aristotele ed egli afferma che non è possibile dire che “una cosa è e non è”. Ci si chiede se gli enunciati precedenti sono contraddittori: se parlassero della stessa penna si; ma dato che vi è una parola deittica (questa) si fa riferimento a una penna in particolare, che si trova vicino all’interlocutore di riferimento, gli enunciati NON SONO CONTRADDITTORI. I due soggetti fanno riferimento a due penne diverse. La deissi funziona nell’incontro del linguaggio con l’esperienza: è necessario conoscere la lingua per capire i deittici; ma occorre anche interpretare il deittico in rapporto alla situazione in cui viene usato. Deissi viene dal greco -deiknumi, ovvero “additare”. I deissi non corrispondono a un’idea (tipo albero), ma a un’istruzione, seguendo la quale identifichiamo un aspetto preciso del contesto o dell’esperienza. Una parola come “adesso” è un’istruzione che indica come ci collochiamo rispetto al tempo; “qui”, come ci collochiamo rispetto allo spazio (andate a identificare lo spazio in cui il discorso avviene). Le strutture deittiche appartengono a diverse classi. es. Ho dormito male. Ci sono i seguenti deittici: - io, che indica colui che parla; - ho dorm – ito, morfema del passato prossimo indica→ il tempo che precede immediatamente quello in cui si sta parlando. - Dormire e male, invece, non sono deittici, perché sappiamo che cosa vogliono dire. I deittici diretti possono essere i pronomi personali io/noi - tu/voi; così come agli aggettivi possessivi mio-tuo ecc. - I deittici personali hanno una parte che viene dalla categoria: Io→ soggetto (mittente) ed è il contenuto di una semantica che chiede di andare a prendere colui che l’ha utilizzato. Dunque, in questa categoria rientrano i pronomi personali. - I deittici dimostrativi sono aggettivi e pronomi dimostrativi. es. Questa macchina... - I deittici spaziali sono un altro tipo di deissi diretta; basti pensare a questo, quello, qui, là. Sono dunque avverbi di luogo (spesso associati a dimostrativi) e si nascondono nei verbi andare e venire. In questo gruppo rientrano anche gli aggettivi, che possono essere utilizzati anche in funzione di pronome: es. Questo-quella: si precisano di significazione, in quanto bisognerà individuare l’oggetto che si trova vicino al mittente. - I deittici temporali sono adesso, prima, oggi; “adesso” ha un significato che indica una certa contemporaneità con il discorso e si aggancia a situazioni comunicative che avvengono in momenti temporali diversi. Dunque, si tratta di parole che presentano la caratteristica di assumere significato in rapporto al contesto in cui vengono utilizzate; il significato effettivo corrisponde ad un elemento reale presente nel contesto della comunicazione. es. Adesso splende il sole! → momento ben preciso. es. Adesso splende il sole (altro momento della giornata) → il fenomeno si aggancia ad un momento diverso, ovvero all’ora del giorno in cui si manifesta l'evento. In questo gruppo, dunque, rientrano gli avverbi di tempo e, i deittici si nascondono anche nei morfemi dei tempi verbali. es. Ho - ito → indica un avvenimento che precede immediatamento quello in cui si sta parlando. - I deittici di maniera sono tali perché’ solitamente sono accompagnati da un gesto: così. es. È piccolo così → anche questo enunciato chiede di precisare il significato osservando il gesto prodotto. Nell'ambito dei deittici diretti, vi sono anche quelli testuali, con funzione importante dal punto di vista della coesione testuale. Sono i pronomi singolari e plurali di 3 persona: egli, ella, esso e essi. - I deittici testuali sono chiamati così, poiché svolgono una funzione essenziale nel testo: es. Ho visto Chiara e le ho detto che domani c’è il seminario! Possono svolgere una funzione anaforica o cataforica. I deittici diretti legati alla funzione anaforica sono espressioni linguistiche che vanno a prendere denotati che sono stati installati nel contesto che precede. Il pronome riprende il contesto che precede, vale a dire il nome proprio che rimanda ad un denotato nella realtà. I deittici testuali permettono di evitare una ripetizione, in quanto esiste una legge economica che segnala: una parola che veicola significato è inversamente proporzionale alla sua frequenza di occorrenza. In sintesi: più viene ripetuta meno è significativa. Occorre evitare le ripetizioni. I deittici testuali permettono di riprendere segmenti di testo. A volte i deittici testuali svolgono una funzione cataforica, ovvero non riprendono elementi gia utilizzati nel segmento di testo che precede, ma anticipano qualcosa che verrà detto successivamente. es. Ti telefono per dirti questo: è nato Saverio Enzo! → qui si ha un pronome dimostrativo. es. Questa penna scrive male→ questa è un deittico spaziale, in quanto serve al parlante per collocare l’oggetto nelle sue vicinanze. Mentre, nel caso di “dirti questo”, non si tratta di un deittico spaziale, ma testuale, in quanto anticipa quanto viene precisato nel testo che segue. Enzo svolge una funziona cataforica, poiché anticipa quanto seguirà nel segmento di testo successivo. Mentre i deittici testuali anaforici riprendono qualcosa già detto, i deittici cataforici anticipano qualcosa che verrà detto nel testo che segue, in questo modo i deittici realizzano la coesione testuale, ovvero fanno in modo che si instaurino denotati o che si anticipino espressioni linguistiche che seguiranno. es. Ho incontrato Maria e le ho detto questo: Luca si è sposato → “le” è un anafora, mentre “questo” una catafora. La coesione testuale è uno dei requisiti che caratterizza il testo. Il testo deve rispondere a una serie di caratteristiche, e una di queste è proprio la la coesione: combinare elementi che devono essere congrui tra di loro e predisposti a stare bene. Il testo è composto da una successione di enunciati diversi, ciascuno dei quali deve realizzare una certa coesione. Spesso ci si chiede come mai i deittici come io/noi (deittici personali) non hanno il genere grammaticale, che tuttavia è presenti nei deittici testuali egli/ella. Questa domanda ci porta a riflettere sullo spazio comunicativo e di questo tema se ne occupò un linguista, il quale sosteneva che bisogna immaginare la comunicazione come una scena, facendo dunque riferimento alla metafora della scena teatrale. Secondo questa metafora, all’interno della scena, e dunque dello spazio fisico, vi sono dei personaggi (vis a vis); io- tu indicano gli interlocutori presenti sulla scena comunicativa e il fatto di essere presenti esime dal dover specificare il loro genere. Invece, quando si ricorre a egli/ella, oltre si al mittente e al destinatario si fa riferimento ad un terzo, un soggetto diverso da loro che non fa parte dello stesso spazio comunicativo. Si tratta di pronomi singolari di prima persona. Mio corrisponde ad un aggettivo corrispondente al pronome singolare di prima persona. I deittici spaziali sono: quest’ (v.1), ovvero un aggettivo dimostrativo che corrisponde ad un deittico spaziale poiché permette al poeta di collocare l’entità di cui sta parlando (ermo colle) vicino al mittente; questa (v.2); la (v.5), indica lontananza, dunque complemento di luogo; quella (v.5), ovvero un pronome dimostrativo poiché viene sottinteso il sostantivo “siepe”; queste (v.9) - continua a descrivere il contesto geografico, collocando gli elementi in vicinanza o lontananza; quello (v.9); questa (v.10); questa (v.13); questo (v.15). In questo, caso prevalgono aggettivi e pronomi dimostrativi. Tra il v.11 e 13, l’autore riflette sull’eternità: suon di lei, ovvero un deittico testuale che realizza coesione testuale; in questo caso ha una funziona anaforica, in quanto riprende un referente instaurato precedentemente (stagione). Vi sono deittici di maniera, come così, accompagnati da un gesto in modo da precisarli di significato. Infatti, chiedono di andare a prendere, nella situazione comunicativa, il contesto in cui è stato usato il gesto compiuto dal mittente e accompagnato dall’enunciato. Nel verso 13, il “così”, è un deittico testuale, e non di maniera. Ha una funzione sia cataforica che anaforica, poiché potrebbe riprendere quanto detto precedentemente (anaforica), in quanto ha descritto l’immensità; ma anche cataforica, in quanto anticipa il co-testo che segue. In uno spazio lirico così breve l’autore ha usato 7 deittici personali e 9 spaziali; egli sapeva che il lettore sarebbe stato a distanza, ma usò lo stesso i deittici, in quanto lo immaginava presente nel suo contesto comunicativo. Ci immagina con lui ad ammirare il paesaggio che rimanda alla sensazione di infinito. Usa i deittici descrivendo ciò che ha intorno. Individuate nel testo narrativo i deittici (romanzo di Rigoni - Il sergente nella neve): ↓ I deittici personali nel testo citato sono: l’ho (r.3), pronome personale di prima persona singolare; mie (r.15), aggettivo possessivo; mi (r.16), pronome personale; mi (r.19); le (r.23); me (r.24); le (r.24); mie (r.25); mio (r.26) I deittici spaziali sono: questa (r.5), aggettivo dimostrativo; queste (r.16); sulle/sulla (r.20), preposizione articolata; queste (r.25). I deittici temporali sono: dopo, deittico con cui si aggancia ad una situazione comunicativa che sta per essere raccontata; più (r.17); adesso (r.26). Individuate nel testo narrativo i deittici (Cose di cosa nostra - Giovanni Falcone) ↓ I deittici personali sono: mi (r.9), pronome personale singolare; me (r.13), pronome personale; lui (r.15), pronome personale; lui (r.17); mio (r.18), aggettivo possessivo; I deittici spaziali: questo (r.6), aggettivo dimostrativo; lo (r.19), pronome personale; sue (r.22), aggettivo possessivo; li (r.25); questo (r. 26 e 27), aggettivo dimostrativo; I deittici temporali: sempre (r.8), termine indicante continuità nel tempo, pertanto rientra nei deittici temporali; domani (r.20); giorno seguente (r.21); ieri (r.22) I deittici testuali: gli (r.18), pronome singolare maschile; Individuate nel testo narrativo i deittici (romanzo di Hemingway - The Old Man): ↓ Nel momento iniziale del romanzo breve non vi sono interazioni tra vecchio e giovane, ma si tratta di un momento descrittivo: he (1 riga) è un pronome di terza persona singolare, ovvero un deittico testuale con funzione anaforica, poiché riprende il titolo “The Old Man”, che è già da considerare come la prima sequenza del testo; il titolo apre un compito che lo scrivente dovrà svolgere. He (rigo 1) riprende il referente instaurato nel pre-testo, ovvero nel titolo; he (2 rigo) fa riferimento ad un enunciato precedente (sempre il titolo: The old Man) e dunque, con funzione anaforica; now è un deittico temporale, in quanto fa riferimento alla contemporaneità del momento dell’enunciato; him è pronome di terza persona singolare, dunque deittico testuale; him, deittico testuale con funzione anaforica, poiché fa riferimento a “boy” (instaurato nel testo che precede); now, deittico temporale; their, aggettivo possessivo e deittico testuale con funziona anaforica (si riferisce a parents); it, pronome di terza persona singolare neutro, deittico testuale con funzione cataforica, poiché anticipa il segmento che segue (ciò che rattristava il ragazzo); his, aggettivo possessivo di terza persona; he, pronome di terza persona singolare e deittico testuale che riprende il referente instaurato precedentemente da “boy”; him, pronome di terza persona riprende “the old man”. In questo brevissimo testo vi sono differenti deittici testuali, proprio perchè perchè si ha una descrizione. I deittici sono in grado di evitare le ripetizioni e di rendere il testo coeso. After, al rigo 6, non si aggancia ad un dato giorno, non si precisa di significato e dunque, non è un deittico temporale. La riflessione linguistica è stata fondamentale poiché ci ha permesso di caratterizzare l’attiva dei parlanti. La semiosi è il primo fattore costitutivo della comunicazione, il processo che ci permette di creare correlazioni semiotiche. Quando si ricorre alla semiosi che considera il processo per costruire un segno, bisogna tornare allo strutturalismo classico fondato da Saussure. La ragione (ratio) per cui utilizziamo la riflessione linguistica è che, ci appoggiamo ai punti di arrivo della riflessione che ci precede. Alle spalle vi è una tradizione linguistica passata che abbiamo rivisitato, attraverso i differenti modelli. Grazie a questo, abbiamo la consapevolezza che la comunicazione ce è costituita da tante tessere di un mosaico, ovvero dai risultati raggiunti da numerosi autori, che hanno messo in luce elementi distinti della comunicazione verbale. Scelse la sincronia, precisando ancora una volta il metodo: quando osserviamo una lingua, questa è accompagnata da una serie di fattori esterni, detti, fattori concomitanti, nel senso che una lingua è sempre collocata in un certo contesto geografico con aspetti che saranno di pertinenza di una linguistica esterna; se invece si vuole analizzare una lingua precisa, bisogna prescindere da questi fattori esterni, e concentrarsi in una linguistica interna. es. Se volessimo comprendere il funzionamento di una sveglia, non dovremmo considera il luogo in cui si colloca, chi la usa; ma al contrario, dovremmo concentrarci sulla sveglia stessa. In questa opposizione metodologica (interna ed esterna), Saussure opera nell’ambito della lingua interna. Iniziò ad osservare i momenti costitutivi di una lingua, evidenziando che essa è costituita da due momenti: langue e parole. Si tratta di momenti costitutivi che egli definisce, facendo riferimento ad una duplice funziona di entrambe le parole. Con langue si intende un sistema di segni che viene usato dal singolo parlante e che coincide con la parole, ovvero con l’esecuzione (uso di questo sistema di segni). Saussure definì la langue come sistema di segni; avrebbe potuto definirla come “insieme”, ma in realtà il sistema dice qualcosa in più. Un sistema di elementi è un gruppo di elementi fra i quali si instaurano rapporti reciproci di solidarieta. La langue è costituita da segni che instaurano rapporti specifici che formano una sorta di solidarietà segnica. “Dans la langue tout se tient”: la lingua è un sistema di elementi legati tra di loro tra i quali si instaurano rapporti specifici. Gli elementi solidali fra di loro fanno parte di un sistema; un segno è quello che è perché vive in un sistema e si oppone a tutti gli altri. Infatti per lui il segno ha natura oppositiva. Confrontando lingua francese e italiana: nella lingua francese vi sarà il segno bois, che in italiano corrisponderà a bosco; c’è una grande differenza perché nel sistema della langue (sistema di segni) italiana, a bosco si oppongono altri segni come legno/legna e legname. Nella solidarietà segnica si oppongono altri elementi, circoscrivendo l’area semantica coperta da bosco, che ha un significato in più rispetto al significato dell’area semantica ricoperta da bois. Nella langue francese a bois non si oppongono tutti quei elementi, proprio perché bosco ha un significato più circoscritto. Leggendo il testo, accanto alla prima definizione di langue se ne da un'altra, infatti essa corrisponde ad un patrimonio mnemonico mentale condiviso da tutti i parlanti: associa la langue ad un momento sociale presente in tutti e che non si può modificare; la parola utilizzata dal singolo parlante viene associata al momento individuale. La seconda definizione riguardava l’aspetto psicologico, in quanto identifica questi due elementi con una struttura della lingua che interessa il gruppo di utenti o il singolo individuo. Dal punto di vista metodologico, egli stabilì di operare anche nell’ambito della linguistica interna, mettendo da parte quella interna. Se si osserva criticamente la seconda definizione fornita, in realtà Saussure da una definizione che lo fa ricadere in una prospettiva di linguistica esterna, rivolgendosi alla lingua legata ai suoi fruitori. Aporia significa punto contraddittorio; infatti, nella sua teoria, vi sono alcuni punti in cui contraddice quando accennato precedentemente. Procede a caratterizzare il segno linguistica, afferma che si tratta di un'entità con due facce: signifie e significant, ovvero elementi caratterizzati da un'unione inscindibile (non si possono separare). Per spiegare meglio questa sua visione, fa un paragone con il foglio di carta: se si taglia una figura con una forbice all'interno, si otterrà una figura che presenta un verso. Ritagliando la fgura non è stato separato il lato superiore da quello inferiore, questo perchè i due lati del foglio sono inscindibili, proprio come le due parti del segno. “Signifié” è il concetto, mentre il “signifiant” è la strategia di comunicazione, dunque ci aspetteremo che il significante sia una caratterizzazione fisica, me Saussure non lo definisce come qualcosa di fisico, ma come un'immagine acustica, ovvero la traccia che il segno lascia in sede psichica. Il segno unisce un concetto ad un'immagine acustica. Per Saussure anche il significante è di natura psichica. Il segno vive tutto in sede psichica: Saussure non ha inventato la nozione di segno linguistico, definita in realtà dagli stoici nella filosofia greca. Saussure riprende la nozione di segno (semeion) degli stoici, che per loro era strutturato da una parte definita semainon (significant), identificata con qualcosa di fisico e sensibile; e da un'altra, il semainomenon, identificata come qualcosa di intellegibile, che poteva essere compresa con la mente. Rispetto al segno degli stoici, Saussure introdusse una differenza che riguardava la strategia di manifestazione: il significante è di natura psichica. Saussure descrisse le caratteristiche del segno come: arbitrario (non c’è ragione per cui il concetto di casa possa essere associato ad una conseguenza di c-a-s-a), stabilito da una comunità linguistica e non esiste una ragione precisa per cui alcuni concetti vengano utilizzati, garantendo così la stabilità della lingua. Saussure segnalò un ulteriore caratteristica del segno, ossia la linearità. Il segno è lineare e questa linearità riguarda tutto il segno: sia la faccia del significante che del significato. Il segno è lineare sul versante del significante, e questo è evidente in quanto è caratterizzato da una successione di foni (suoni). Quando si articola una parola, si pronunciano i foni uno in seguito ad un altro, si può individuare un prima e un dopo. È nato un dibattito su ciò che volesse dire Saussure sul fatto che anche il significato è lineare. In sede di riflessione critica si è cercato di capire cosa intendesse dire Saussure. A tal proposito è emerso quanto segue: probabilmente Saussure si riferiva al momento della manifestazione della linearità, vale a dire all’ordine delle parole che vengono disposte sulla catena quando si costruiscono enunciati. Dunque, probabilmente, si riferiva ai diversi significati che l’ordine delle parole può veicolare: es. John loves Mary vs Mary loves John → gli enunciato presentano una differenza, anche se sono costituiti dagli stessi segni. Qualcosa cambia dall’uno all’altro: il soggetto. In inglese è fondamentale l’ordine delle parole (word order) per individuare ciò che soggetto e differenziarlo dal complemente oggetto. In inglese il soggetto ha la prima posizione nell’enunciato. Le frasi sono costituite dagli stessi segni ma veicolano informazioni morfosintattiche diverse. es. Giovanni lesse il romanzo vs Il romanzo lo lesse Giovanni. In italiano l’ordine delle parole è più libero. Giovanni può essere collocato anche sulla destra. Quando si costruisce un testo è importante la disposizione delle parole. In questo testo intervengono due categoria “tema” e “rema”: Giovanni è l’entità messa a tema, dunque si intende precisare che GIOVANNI ha compiuto una certa azione; il romanzo, invece, è l’apporto informativo nuovo. Se si sposta il soggetto sulla destra, cambia l'organizzazione testuale: il romanzo diventa “tema” (ciò di cui si parla e che è condiviso) e il testo adesso afferma che il romanzo è stato letto da Giovanni, che diventa “rema” (apporto informativo nuovo). L’ordine delle parola veicola un significato diverso: in inglese l’ordine serviva ad indicare la struttura sintattica; mentre in italiano l’ordine è libero e indica l'organizzazione testuale. es. Hans las den Roman vs Den Roman las Hans → si sposta il soggetto sulla destra; il tedesco è più ricco di morfologia. Il soggetto nel secondo enunciato è rema, mentre nella prima era il tema. es. John read the book → non si può dire <<The book read John>>. Ci si chiede: come fa l’inglese a mettere il soggetto in funzione di “rema”? Semplice, si ricorre al passivo: <<The book was read by John>> oppure <<It’s John who read the book>> → il cosiddetto cleft-sentence (parole disposte in modo diverso dal “normale” per dare maggiore enfasi). TUTTE le lingue permettono di esprimere significati diversi, ma con metodi distinti. Saussure si riferiva all’ordine delle parole, in quanto momento di manifestazione della linearità, che veicola diversi aspetti del significato (morfo-sintattici, logici). Tema e rema possono essere considerate anche strutture logiche. Saussure introduce il concetto di entità e unità. Per entità si intende il segno in quanto unione inscindibile di signifiant e signifié. Ad esempio, se si taglia una sagoma in un foglio, si ottiene una forma in cui il lato è inseparabile dal verso. L’unità è l’entità in quanto delimitata nella catena fonica. Si potrebbe pensare che intenda il segno concreto nella parola, però se si continua a leggere il testo, questa unità è di natura funzionale: es. Nell'ambito dei termini ferroviari, quando si definisce il treno non si fa riferimento ad un locomotore preciso, dunque alla sua materialità, ma l’unità del sistema ferroviario viene definita con il punto di partenza, il punto di arrivo e l’orario → es. Il treno Milano-Firenze delle h 20:00. Questa unità è definita in termini funzionali, dunque in base alla funzione che il treno svolge in quel dato sistema. Quando Saussure si riferisce all’unità linguistica, non fa riferimento alla materialità. Una parola come <<fuoco>>, può essere pronunciata in modo neutro, più alterato, con tono imperativo (i soldati impongono il fuoco): si tratta della stessa unità linguistica, ma, il fatto che tutte le realizzazioni foniche fanno parte di uno stesso segno che svolge una funzione specifica nel sistema della langue, impone che non deve coincidere con nessun altro elemento nella langue. Anche la parola <<guerra>> può essere pronunciata in modo diverso. Saussure fa una analogia tra il sistema linguistico ed economico. Egli introdusse il concetto di valore che definisce come qualcosa di diverso che può essere scambiato con ciò a cui è stato dato un valore. Come in economia si scambia merce con moneta, in ambito linguistico può avvenire lo scambio tra parole e idee. Il concetto di valore linguistico nasce dal fatto che il segno, per Saussure, vive nella langue, in quanto unione inscindibile di significato e significante e si oppone a tutti gli altri segni. Il valore economico non è un'entità osservabile. Saussure creò un analogia sul gioco degli scacchi: se uno dei pezzi del gioco (cavallo di marmo) si rompe, può essere sostituito con qualsiasi altro elemento di carta o di plastica, purché questo elemento di distingua da tutti gli altri pezzi del gioco. Se questa riflessione viene osservata con spirito critico è possibile far emergere un'aporia nella nozione di <<valore linguistico>>. Per Saussure la natura oppositiva riguarda tutto il segno; è abbastanza naturale e accettabile che il significante sia di natura oppositiva, ovvero ciò che caratterizza il significante è il suo opporsi a tutti gli altri significanti (la parola c-a-s-a si oppone ad a-l-b-e-r-o), per distinguere significati diversi. La natura oppositiva, però, riguarda anche la faccia del signifié. Emerge così un circolo virtuoso. Supponendo di essere a teatro vi sono dei contrassegni che ci permettono di distinguere i cappotti: è del tutto normale accettare che ciascun contrassegno ha come natura quello di differenziarsi (probabilmente tramite un numero) da tutti gli altri. Se, invece, si dicesse che a teatro ci sono cappotti diversi per distinguere i contrassegni, si ha una contraddizione interna, dunque si può dire che Saussure non prese in considerazione un fenomeno presente nella lingua, quella della sinonimia e dell’omonimia. Sì possono dire sinonimi: stella-astro, anche se appartengono a registri diversi; si hanno due signifient diversi che permettono di esprimere lo stesso signifié, questo mette un pò crisi la natura oppositiva dei significanti. Secondo il fenomeno dell’omonimia, <<lama>> può indicare la parte del coltello per tagliare, oppure l’animale mammifero, Lama (con la lettera maiuscola) indica anche il capo della religione buddista. Il fenomeno dell'omonimia mette in crisi il fatto che vi sono concetti diversi per indicare significanti distinti, a volte è così, ma in questo caso no. L'omonimo mette in crisi la concezione Saussuriana secondo la quale anche i signficati si differenziano tra di loro per veicolare significanti diversi. Saussure pone una proiezione diretta tra il pensiero e il linguaggio. Questo è il presupposto teorico di tutta la sua riflessione linguistica. Egli caratterizzò il pensiero come una “nebulosa” e introdusse la “catena del linguaggio”. I due enunciati sono legati da un nesso logico di natura causale che non è esplicitato nel testo; si risale a questo nesso in modo inferenziale: il messaggio è veicolato senza appoggiarci alla semiosi. Supponendo che il parlante affermi <<Mio figlio non guida. È sposato>> → l’insensatezza percepita ribadisce la presenza di un nesso fra le due parte. Dopo il primo enunciato ci aspettiamo che il parlante spieghi il motivo per cui non guida, dunque, in quest caso non è pertinente ciò che ha affermato. L’inferenza è il processo con cui si completano momenti che non sono esplicitati nel messaggio. Grazie alla condivisione del common ground si possono realizzare le inferenze. es. A= I denti B= Sta finendo → i due soggetti si capiscono benissimo, usando interazioni bravi. I genitori dicono al bambino di lavarsi i denti e il bambino afferma “sta finendo”, ovvero il cartone che sta guardando. Egli ha inferito che gli hanno chiesto di lavarsi i denti ed andare a dormire. Risponde all’enunciato, omettendo una parte (soggetto), di conseguenza sta, attraverso un atto linguistico rappresentativo, rifiutando di andare a lavare i denti. Lo scambio di battute avviene con segni linguistici ridotti. L’inferenza è il processo per cui da un un'informazione ne derivò un altra, anche se questa non è esplicita. È infinitamente di più di quello che si lascia intendere rispetto a quello che si dice effettivamente. Il parlante lascia inferire tanto quanto più è esteso il common ground. Si immagini un dialogo tra due amici: il primo si lamenta di dover spesso guidare, e il secondo gli suggerisce: “ma perché non fai guidare tuo figlio?”, e il primo replica: “Mio figlio non guida. Ha quindici anni” (1). Immaginiamo che il primo interlocutore risponda: “Mio figlio non guida. È sposato” (2). La differenza tra i due dialoghi sta nel fatto che (1) si percepisce un legame tra le due sequenze della risposta, mentre in (2) non è possibile ricostruire alcun legame. In (1) tale legame non è espresso in termini linguistici eppure ne percepiamo l’assenza. Noi ricostruiamo questo legame nascosto sempre grazie all’inferenza. Le inferenze sono decisive in quanto è molto più quello che viene lasciato indovinare che quello che viene effettivamente detto. In una pagina del testo di “Anna Karenina” di Tolstoj c’è un dialogo tra i due innamorati, dove il condiviso è talmente ampio tanto da usare soltanto le iniziali della parole. es. Ecco, diss’egli e scrisse le iniziali: q, m, a, r (quando mi avete risposto); q, n, p, e, q, s, m, o, a (questo non può essere essere, questo significa mai o allora?). Ella scrisse: a, n, p, r, i, a, m (allora non potevo rispondere in modo diverso). Lei continuò a scrivere: c, p, d, e, p, l, a (Che possiate dimenticare e perdonare l’accaduto). Tolstoj esplicita un processo inferenziale di cui un autore è sempre a conoscenza. es. Piove. Non esco. → le due mosse comunicative sono coese e vi è un senso unitario. Per inferire il nesso logico occorre sostituire il segnale di interpunzione con un connettivo; ad esempio <<Piove, quindi non esco>>, tale enunciato indica il motivo per cui non esco. es. Bruto è figlio di Cesare. → si può inferire che Cesare è padre e che è più vecchio. es. A= Quando arriviamo in cima? B= Dammi lo zaino! → Ella formula una domanda, ma lui la interpreta come una richiesta di aiuto. Con l’inferenza risale al vero senso che ella vuole proferire. L’inferenza è presente anche nei testi argomentativi, come l’entimema: es. Luigi è un pazzo. Va a 100 km in centro città. → si ricostruiva la struttura entimematica; la premessa maggiore viene ricostruita inferenzialmente, così come l’endoxon. Le inferenze possono essere volute e non volute: es. A= Stasera vieni in piscina? B= Sono raffreddata! → non rifiuta l’invito. Spesso nella comunicazione vengono omesse le affermazioni negative (soprattutto nella cultura orientale). Sairle caratterizzerebbe questo speech act come un atto rappresentativo con cui ella rifiuta la proposta (in modo esplcito), però, lascia che egli inferisca il rifiuto,. es. Meridionale, però gran lavoratore! → da una semplice parola scatta un inferenza non voluta; c’è un certo pregiudizio rispetto ai meridionali. L’inferenza si fonda sul principio di cooperazione di Grice (principio di buona volontà). Nella comunicazione domina la cooperazione tra i due interagenti che vanno alla ricerca di un senso: in entrambi opera un principio e secondo loro quanto detto deve avere un senso. Si parla anche di principio di carità (principio de charité di Moeschler): i due cooperano. Tale principio opera nel destinatario che lo attiva andando alla ricerca dei sensi nascosti nel testo, ma anche nel mittente in quanto lo presupponiamo nell’opera dell’interlocutore, per questo non lo esplicitano. Grazie alla presenza dell’inferenza si capisce qual è il processo di comprensione, inteso come momento di decodifica, ovvero un procedimento euristico (di scoperta). C’è sempre in agguato il rischio dell'interpretazione. Un romanzo si legge una seconda-terza volta poiché ogni volta si inferiscono ulteriori significati. Il rischio dell’interpretazione è stato osservato dal professore Uspenskij, il quale segnala che questo rischio emerge nella doppia traduzione. Supponendo che si ha un romanzo L1 (tedesco) e che venga tradotto in una L2 (italiano); successivamente la versione italiana viene tradotta nuovamente in tedesco, così facendo si dovrebbe ottenere il testo di partenza, però, ciò non accade, in quanto in fase traduttiva il processo adottato è di interpretazione. Il traduttore interpreta e l’importante è che attui inferenze, dunque deve immedesimarsi nell’atto del parlante per essere traduttore e non traditore. es. Che bello! Ho fatto un incidente. → si possono inferire parecchie informazioni; l’espressione però, sembra contraddittoria. Si ha un esclamazione positiva e una negativa. In noi opera un principio di cooperazione e grazie a questo ricerchiamo un senso. Si attuano inferenze che cercano di giustificare il senso a questa sequenza. Questa espressione non manifesta un senso ovvio e il principio di buona volontà ci spinge a ricostruire un’inferenza più complessa. Qualcuno può ipotizzare che si tratti di ironia, che a parlare sia un masochista o che ci sia di mezzo una bella assicurazione. L’inferenza comunicativa può funzionare se il mittente dà una quantità sufficiente di indizi che permettano di giungere all’interpretazione. Le connessioni intersequenziali sono studiate dalla semantica dell’implicito. Le inferenze possono essere di due tipi: comunicative (sforzo inferenziale a carico del destinatario) e comunicate (scopo inferenziale a carico del mittente). La maggior parte delle inferenze sono comunicative, ovvero inferenze che il mittente lascia compiere a noi. es. Enrico aveva invitato Andrea al suo matrimonio → non specifica il motivo. es. Enrico aveva invitato andrea al suo matrimonio. Perciò lo conosceva → è normale, di solito non si invita uno sconosciuto. Qui l’inferenza non è costruita dal destinatario, ma dal mittente. È esplicitata!! Questa è un’inferenza comunicata, alla base del testo argomentativo. A volte l’inferenza è fondamentale nella strutturazione di un dialogo. es. A= Io non voto ancora B= Hai meno di 18 anni→ qui scatta un inferenza comunicativa in quanto A afferma di non poter votare e B inferisce che è ancora minorenne. es. Appena chiusa la porta, paolo si accorse con orrore di aver dimenticato le chiavi → si inferisce che non potrà più tornare a casa; non ha una chiave di riserva; dovrà chiamare un fabbro; vive da solo o non può essere raggiunto da qualcuno che vive con lui. Si può anche inferire che la porta precedentemente era aperta; ora Paolo si trova chiuso fuori; le chiavi sono state dimenticate all’interno. L’inferenza è decisiva in quanto interviene anche nella comunicazione non verbale, ad esempio nelle arti figurative che ricorrono ad una semiosi non verbale. Ad esempio nella Sagrada familia vi sono angeli che suonano strumenti musicali. Un angelo suona l’arpa, però, mancano le corde; è come se, con un inferenza visiva, ricostruiamo la presenza delle corde. Lo scultore afferma che un particolare su cui dovesse riflettere era quella di scolpire o meno le arpe: un'arpa senza corde non suona, ma dato che la scultura deve durare per migliaia di anni, non avrebbero resistito così a lungo. La ragione per cui non ha scolpito le corde non è solo di natura pragmatica (per resistere meglio), ma perché ritiene che la scultura non deve essere mai completata dall’artista ma da chi la osserva. Per spiegare cosa intende porta come esempio un concerto musicale: il processo inferenziale emerge anche durante i concerti, in quanto con il nostro cuore inferiamo sensi diversi, ovvero completiamo l'audizione con la percezione di aspetti non percepiti precedentemente. Egli semplificò il concetto con la semiosi verbale: la stessa cosa accade con il libro, in quanto ogni lettere riceve messaggi diversi. Dunque anche chi contempla la scultura deve essere in grado di completarla. Questo dimostra la consapevolezza presente nell’artista di questa dinamica inferenziale e di come sia pervasiva l’inferenzialità che interviene sia nella semiosi verbale che non verbale. Nella semiosi non verbale rientra anche l’udito, infatti false inferenze tra la torre di controllo e il pilota hanno comportato numerosi incidenti aerei. Ostensione Anche l'ostensione è un fattore della comunicazione; tale termine deriva dal latino ostendere, ovvero mettere avanti/far vedere. Si parla di ostensione per indicare momenti della comunicazione muti, dove è la realtà che comunica, poiché gli aspetti della comunicazione non vengono tradotti in comunicazione verbale. È la stessa situazione extralinguistica che interviene nella comunicazione e veicola un messaggio senza tradurlo con segni. Si può dire che l’ostensione è la comunicazione muta che arriva dalla realtà e comunica qualcosa visibile nel suo atteggiamento naturale. es. Immaginando di essere in piazza Sant'ambrogio ed è presente un uomo tremante e piangente → magari indossa una t-shirt; egli non comunica nulla verbalmente, probabilmente soffre perchè ha freddo: la realtà, con il suo darsi, comunica un messaggio. es. Considerando che la mamma apra la porta della stanza del figlio e comunichi <<Ma che bell’ordine!>, probabilmente sta entrando in merito ad un momento in cui la realtà stessa ha comunicato un messaggio. Poiché la stanza le “proferisce” che è in disordine, ella dice al figlio di riordinarla. In ciascun contesto si comunicano cose che in altri contesti non si comunicherebbero. Si dice solo quello che, in una certa situazione, è pertinente. Distinzione aristotelica tra héxis e diathesis: la diathesis è lo stato d’animo momentaneo (essere arrabbiati, sorpresi ecc), mentre la héxis è l’atteggiamento stabile, la disposizione permanente (convinzioni profonde, ideali, motivazioni ecc). Non si può affermare che la comunicazione modifichi sempre radicalmente i soggetti coinvolti, magari cambia la diatesi (cambiamento di atteggiamento superficiale). Tuttavia è la héxis ciò che deve cambiare in una comunicazione perché si possa dire che questa ha un senso rilevante! es. Testimonianza in tribunale. Secondo Searle,invece, la comunicazione consiste sì in un habit change, ma in quanto produce committment tra i parlanti. Sottolinea quindi, non l’aspetto psichico come Pierce, ma quello relazionale-sociale. Capitolo 3: Problemi di epistemologia e di metodo Il discorso scientifico Con “epistemologia” si intende quel discorso scientifico che assume come oggetto le scienze stesse per definirne la natura, i tipi e i rapporti. Il discorso scientifico deve essere rigoroso, e per esserlo, esso deve essere razionale, cioè esplicitare e controllare il proprio fondamento, la propria giustificazione (un discorso che non si fonda può essere vero ma non può considerarsi scientifico). In che senso deve essere razionale? Louis Hjemslev definisce per qualsiasi teoria scientifica (secondo la scienza empirica) tre requisiti. 1. Coerenza, ossia assenza di contraddizioni interne fra le proposizioni della teoria. 2. Completezza, che chiede che tutti i dati a disposizione sull'oggetto siano effettivamente spiegati. 3. Semplicità, ossia è meglio la teoria che chiede di postulare meno, vale a dire chiede un minor numero di ipotesi esplicative. Non basta, pero, che un discorso sia razionale, ma deve anche avere rilevanza, ossia avere una portata significativa per la conoscenza sistematica di un certo ambito di realtà. Non si può dirsi scientifica la conoscenza, sia pur rigorosa, che riguarda fatti o entità particolare. es. Avvocato: procedimento razionale per difendere il suo cliente → non è scientifico perché non rilevante. Se fosse di una certa rilevanza: es. Avvocato che dimostra l’estraneità della Mafia in un certo delitto storicamente importante rientrerebbe nei discorsi scientifici entro le scienze storiche. Il criterio di rilevanza va applicato caso per caso esaminando il rapporto tra particolare e contesto: per essere adeguata all'oggetto, un'ipotesi deve non solo mirare a cogliere gli aspetti più essenziali di quell'oggetto, ma mettere a fuoco la funzione dell'oggetto stesso rispetto ad un contesto più vasto. L’oggetto Possono esserci: scienze formali, come la matematica, che non hanno bisogno di un riscontro nella realtà; così come le scienze empiriche, le quali hanno bisogno di un riscontro nell’esperienza. Vi sono scienze descrittive-classificatorie e scienze ipotetiche-deduttive (ovvero scienze esplicative). Quando formuliamo una disciplina questa si occupa di un oggetto. L’oggetto può essere reale e formale. La comunicazione è un oggetto della realtà che è preso in esame da molte discipline, in quanto può essere osservata da varie angolature. La neuro linguistica si occupa del linguaggio dal punto di vista neurologico; la linguistica, invece, privilegia un altro aspetto. L’oggetto reale è qualsiasi cosa che muove il nostro interesse conoscitivo e che noi problematizziamo (dal greco pro ballo “metto davanti”). Inoltre, si manifesta con un insieme di dati. Nel nostro caso il problema è la comunicazione umana verbale. Le discipline corrispondono con l’oggetto formale: ogni disciplina pone domande precise all’oggetto reale e risponde osservandolo con un'angolatura particolare, rappresentando così, il contenuto della disciplina. L'oggetto formale è il punto di vista particolare proprio di ciascuna scienza. Ogni scienza può dire cose completamente diverse a proposito dello stesso oggetto reale, perché privilegia un certo aspetto prescindendo da tutti gli altri punti di vista possibili. L’oggetto formale è l’insieme delle risposte che l’oggetto reale dà ad un insieme particolare di domande tipiche della particolare disciplina. Riduzionismo → quando una scienza pretende di spiegare in modo esauriente la totalità di un oggetto. I dati sono indizi Tutte le scienze cercano di spiegare i dati. La domanda in noi viene formulata tramite un passaggio misterioso, ovvero con una serie di suoni che veicolano contenuti. Il passaggio da un supporto fisico ai sensi che veicola è un nesso che suscita curiosità e meraviglia. Con dato intendiamo proprio quello che ci e dato, cioè quello che ci risulta dall'esperienza. La modalità tipica secondo la quale l'esperienza ci interpella è la sua “assurdità”. Lo scienziato vuole capire la profonda razionalità di quello che si presenta problematico. Nel caso della comunicazione verbale ci troviamo davanti a un dato, formato dall’insieme delle interazioni comunicative e dei testi verbali che vengono scambiati, così che i suoni attivino eventi mentali, significati e sensi, che non hanno alcuna relazione, ma che condizionano solo i comportamenti individuali e sociali. Aristotele in un passaggio della metafisica afferma che la ricerca è nata nell'uomo a partire dalla meraviglia. Il dato che suscita in noi meraviglia viene osservato in modo da individuare eventuali spiegazioni. La filologia è una scienza descrittivo-classificatoria. Nelle scienze ipotetico-deduttive, ad esempio, il linguistica formula ipotesi sulla base di modelli che devono essere verificati con dati empirici dati dall’esperienza: se i dati coincidono significa che il fenomeno è stato verificato correttamente. La linguistica, pertanto, è una scienza esplicativa poiché spiega i dati con un metodo ipotetico-deduttivo. Quando si va alla ricerca dell’interpretazione di un dato dovremmo tener a mente che quest’ultimo è sempre un indizio. La ragione assume i dati come indizi. Quando interpretiamo un dato per capire la funzione occorre collocarlo in una totalità. Quando si prende il “pezzo” di legno o metallo (prima foto) e si inserisce nella totalità, si capisce che rappresenta una “gamba del tavolo”. Se non lo osserviamo nel tutto non riusciamo a interpretare il dato. Questo succede sempre nella realtà; basti pensare all’iceberg, poiché ciò che emerge sul mare è soltanto una parte, il resto è sommerso. Il collegamento razionale tra dato e fatto è fornito dalla teoria che spiega tutti i dati di cui disponiamo: la parte visibile e l’impatto con la parte sommersa. Se ci chiedessimo qual è il significato di “lama” dovremmo precisarlo poiché ha diversi significati a secondo del contesto di riferimento. I dati sono sempre indizi di una totalità e per far si che vengano interpretati correttamente devono essere collocati in un dato contesto. es. Due archeologi che operano in uno scavo stanno portando a galla una certa opera. Ad un certo punto c’è uno studioso che individua, a 300 km dallo scavo, una pietra azzurra che non conosce, pertanto cerca di analizzare il dato a disposizione. Riesce a ricostruire il momento storico di appartenenza e la sua componente chimico, però l’entità rimane ancora un mistero. Ad un certo punto emerge uno splendido mosaico che rappresenta un angelo bizantino. Dunque, in questo momento, lo studioso capisce che la pietra è soltanto una parte dell’iride dell'occhio dell’angelo. Soltanto quando emerge il mosaico, lo studioso riesce a comprendere la totalità a cui appartiene questa “piccola tessera”, dunque riesce ad interpretare fino in fondo il dato studiato fino a quel momento. individuano quegli aspetti che sono stati falsificati. Infatti le teorie raramente sono costituite da un solo principio, da una sola proposizione, è infatti di solito fatta di più proposizioni. Quindi una teoria scientifica non può essere né totalmente verificata né totalmente falsificata. Si potrebbe dire che l’intero sapere umano abbia carattere di provvisorietà, affermazione che non si può considerare falsa, ma che non va enfatizzata e ne generalizzata. Il livelli dell’astrazione Anche nell’ambito delle scienze, per riuscire a spiegare un certo dato dovremmo estraniarci. Dal dato all’ipotesi ci si arriva in diversi modi: a seconda di quanto lo scienziato osa allontanarsi dall’osservabile formulando un’ipotesi più o meno astratta. Il livello più basso di astrazione è la generalizzazione (gatto 1, gatto 2… tutti i gatti hanno la coda); un livello di astrazione più potente che fa conoscere qualcosa di nuovo è quello che dai dati si conoscono concetti non osservabili (ad esempio considerando “valore” in economia, nella realtà non è un’entità osservabile, ma soltanto un concetto che nasce dal confronto tra due merci con lo stesso prezzo; analogamento anche il fonema è un costrutto, ovvero un concetto non visibile); il terzo livello ci permette di scoprire, tramite i dati, le entità nascoste. es. Tornando nella nostra abitazione ci accorgiamo che la serratura è stata scassinata e la casa è in disordine. Da questo dato risaliamo al fatto che sono entrati i ladri. Dai dati a disposizione inferiamo ciò che è successo, ovvero un furto. Nella lingua questo livello di astrazione ci porta a scoprire i connettivi. es. Maria è caduta. Pietro l’ha spinta→ si percepisce un nesso di causalità, ma non abbiamo nulla tra questi elementi, soltanto una pausa espressa dal punto. Si ricostruisce un entità nascosta. Si possono distinguere 3 livelli di astrazione: 1. Generalizzazione, ossia il procedimento induttivo, dal particolare al generale. Si passa da “per un numero importante di x vale p” a “per tutte le x vale p” (dove x vale, ad esempio, “essere un gatto” e p “avere la coda”. La quantificazione è estesa da molti a tutti a partire dalle molteplici esperienze che ho avuto (di gatto). Ne ho visto prima uno, poi due, poi tre ecc con la cosa. Posso, tuttavia, incontrare gatti senza coda. Questa prima ipotesi si caratterizza per l'omogeneità categoriale tra dati e teoria: il dato presenta certe proprietà, e la teoria considera le medesime proprietà. Un esempio linguistico è rappresentato dalla formazione del plurale in inglese. È facile generalizzare che si forma con l’aggiunta di –s al lessema. Ma non è sempre vero, basti pensare a man/men, child/children ecc. Dunque, bisogna precisare l’ipotesi articolando il modello tramite i concetti (non osservabili) di varianza e di preferenzialità. 2. Quando si passa dai dati al concetto non osservabile. Bisogna ipotizzare qualcosa di nuovo (al di là dell’esperienza) per spiegare i dati. es. Si ipotizza la nozione di valore (dato non osservabile) per spiegare la scambiabilità tra alcuni precisi oggetti. Viene quindi applicato un particolare procedimento di astrazione. Per astrazione si intende, in generale, il processo di formazione di concetti a partire dall'esperienza. Astrarre significa “strappare via” il modo d'essere dall'essere che lo possiede (dal lat abs-traho). Non tutti i concetti sono applicabili a tutte le realtà: basti pensare al concetto di “intelligente”, il quale può essere applicato ad una persona ma non ad una montagna. Un esempio linguistico è rappresentato dal concetto di fonema di Nikolaj S. Trubeckoj che per primo distinse suoni e fonemi. I suoni si possono analizzare nel loro aspetto fisico (acustico) e nella loro produzione (articolazione, e si parla dunque di analisi fonetica. Ma al linguista le differenze tra i suoni interessano non per il loro aspetto fonetico, ma perché servono per costruire parole diverse. A questo livello non si parla di foni, ma di fonemi, e l'indagine linguistica che se ne occupa è la fonologia. La differenza tra fonemi non consiste solo in una differenza fonica (fisica quindi) ma interviene anche una funzione distintiva o diacritica. Ad esempio, le differenze nel pronunciare la r sono fonetiche, non fonologiche, perché il significato della parola non cambia se si pronuncia la r in modo diverso (/R/ vibrante uvulare oppure /r/ vibrante dentale). Ma se in rana sostituisco la r con la l, ottengo una parola diversa. Tali parole di differenziano sia foneticamente che fonologicamente. A Trubeckoj dobbiamo la prova della commutazione: sostituiamo un suono all'altro e verifichiamo se il significato della parola cambia. Se si, i due suoni sono fonemi (r e l di rana e lana) della lingua. Ci possono anche essere suoni uguali che esprimono fonemi diversi. 3. Il terzo livello di astrazione porta dai dati a entità nascoste Questo tipo di spiegazione è formulato a partire da indizi. es. Luigi esce, spegne la luce, chiude a chiave, dopo qualche ora torna e la porta e aperta e la luce accesa. Insospettito da questi indizi, Luigi ipotizza che qualcuno aveva la chiave ed è entrato. L’audacia dell’ipotesi è molto forte: si tratta di un essere che non si conosce. Con la generalizzazione si estende a tutti quello che abbiamo visto essere di molti; con l'astrazione si mettono in luce proprietà o entità nascoste a partire da indizi. “Spiegare” significa attribuire alla parte la funzione che essa ha nel tutto, anche quando il tutto resta nascosto. Come “nasce” una teoria La scienza, per ritenere valida una teoria, deve essere in grado di spiegare tutti i dati per cui è stata formulata. Se successivamente lo scienziato trova un dato in contraddizione, questa viene falsificata totalmente. Una teoria non viene totalmente falsificata, poiché non è costituita da un solo principio, ovvero da una sola proposizione, ma da molteplici. Dunque, una teoria scientifica non può essere nè totalmente verificata né totalmente falsificata. I livelli più alti di astrazione nella comunicazione verbale sono toccati dalle inferenze comunicative. È il caso dei connettivi non manifestati. Qui si ipotizza su “qualcosa” che deve essere necessariamente presente per produrre/comprendere il senso di un testo. es. Mio figlio non guida. Ha 18 anni. → il collegamento tra i due enunciati non è un dato osservabile: si ipotizza, dunque, che qualcosa c’è, ma è nascosta. L’inferenza toglie la contraddittorietà dei dati. C’è una contraddizione, fino a che non si ipotizza l’esistenza di qualcosa che ne dia ragione. Capitolo 4: Il rapporto tra il linguaggio e ragione Il lògos Quando formuliamo messaggi veicoliamo sensi. La nostra attività di parlanti è ricca di ragione. Il termine logos è stato usato dai greci per indicare 3 significati: discorso / parola (atto di parola) / linguaggio; ragione; e calcolo. Per i greci i tre significati erano relati fra di loro. Ma lógos e omonimico o polisemico? L’omonimo è il fenomeno per cui si hanno parole che veicolano significati totalmente diversi, la stessa strategia di manifestazione e lo stesso signifiant. Esempio di omonimia: lama 1 lama 2 lama3 → parte contundente del coltello / lama / nome proprio del capo della religione buddista. Si tratta di omonimi, poiché hanno significati completamente diversi, non c’è nessun nesso tra la parte del coltello e l’animale mammifero. Altro esempio è: fiera1 fiera2 fiera3 → indicano significati irrelati tra di loro. Una parola si dice polisemica quando da un significato originario ne sviluppa un altro, collegato a quello precedente. es. carta → si indica l’entità che diventa supporto per la scrittura ed è un materiale prodotto dalla cellulosa: la carta può essere utilizzata anche con <<carta dei diritti umana>> → in questo caso non si individua un significato legato al materiale, ma si coglie il significato di “testo redatto”. Carta è una parola polisemica, cioè i due “carta” veicolano due significati diversi. es. Carta di Fabriano → veicola il significato originario da cui si sviluppa anche il significato di “testo redatto su..” es. Capo → inizialmente indicava l’estremità del corpo umano, e poi altre realtà come “capotavola” e “direttore-dirigente”. Anche qui si ha una polisemia. I greci percepivano che il termine fosse polisemico, ovvero che ci fosse un nesso tra ragione e calcolo, e tra ragione e discorso. Il nesso tra ragione e calcolo è evidente anche in noi, in quanto il calcolo è percepito come l'applicazione della ragione. La parola lògos ha dato filo da torcere ai traduttori latini, poiché, a differenza dei greci, non avevano parole per indicare discorso/ragione/parola. Infatti, Cicerone nel “De officiis” tradusse logos con una endiadi, ovvero con due parole. Per tradurre logos il latino deve ricorrere a “ratio” et “oratio”. Logos continua in italiano nel termine linguaggio, ma anche attraverso espressioni come “glottologia” e “zoologia”, dove logia è un suffissoide, il quale svolge una funzione grammaticale di suffisso che permette di formare un derivato. La glottologia è il discorso sulla lingua. “Logia” indica proprio il discorso. Al di fuori del greco non si ha un termine che permetta di coprire queste due accezioni. Nella lingua italiana non si usa più il termine di ragione inteso come calcolo, tranne in alcune espressioni come “Palazzo della Ragione” (municipio - luogo in cui si svolgono anche i calcoli poiché vi è l’amministrazione). In latino “a rationibus” era il ragioniere, ovvero il funzionario che si occupava ai calcoli dello stato. I sensi come organi percettivi relativi a dimensioni particolari e la ragione come organo relativo alla realtà nel suo insieme Per capire cos’è la ragione occorre far riferimento agli organi percettori. Ad esempio, la vista permette di metterci in rapporto con il mondo delle forme e dei colori; altro organo percettore è l’udito che ci mette in rapporto con il mondo dei suoni, ovvero un’altra parte della realtà. Vista e udito mettono in relazione due percezioni diverse: colore e suono. Si può dire <<Luigi cammina>> ma non <<Il sasso cammina>>→ non tutte le entità possono essere selezionate da un modo di essere. Dunque, nella buona formazione di un discorso, dobbiamo distinguere, oltre al livello di grammaticità, anche il livello più profondo della coesione logico-semantica, ossia la congruità . Alla base della combinazione significativa delle parole (composizionalità) sta il principio di congruità. Il principio di congruità è il principio che domina la costituzione del senso. Gioca sul nesso predicativo- argomentale. Dice quali sono i criteri ammessi da un significato. La congruità condiziona la sensatezza (la capacità di far riferimento alla realtà), che pero non va confusa con la verità: un discorso falso è sensato, quindi congruo. Una costruzione è congrua anche se è contraddittoria, ha quindi comunque senso anche se inconsistente!!! es. “questo numero è pari e dispari” es. “ti prometto di pagarti ma non mi impegno” A differenza di “questa montagna è intelligente” che non ha senso! La virtualità ha sede nella lingua. es. Il bambino es. dorme Se queste due entità si intrecciano si ottiene il logos → <<Il bambino dorme>>. Non si tratta di una somma. Si passa da singoli segni ad una rappresentazione di una scena, ovvero di un frammento possibile di mondo. Attraverso la composizionalità l’essere umano rappresenta frammenti di un mondo virtuale. Con l’enunciato precedente viene ricostruito uno stato di cose che possono essere riscontrate nella esperienza. Se attraverso la verifica nell’esperienza abbiamo un segmento di esperienza descrivibile in questi termini, usciamo dalla virtualità alla attualità: la nostra rappresentazione di un mondo virtuale diventa la rappresentazione di un mondo virtuale. Se però si dice <<Il cavallo corre sulla spiaggia>> e con la verifica nell’esperienza non si da un frammento di esperienza descrivibile in questi termini, il linguaggio apre all’uomo la possibilità della menzogna. Uspenskij ha segnalato che il lignaggio umano apre la possibilità di mentire proprio perchè rappresentato da libertà. Il momento creativo della lingua rispetta la libertà dell’uomo rispetto alla realtà; si può parlare di una non-realtà come se fosse realtà: si mente! Non si può combinare qualsiasi modo di essere con qualsiasi parola-argomento. es. Luigi cammina → si es. L’acqua cammina → no es. La gioia cammina → no “Camminare” è un modo di essere che seleziona parole-argomento che indicano entità animate/umane, ma non l’acqua e la gioia. Un’altro modo di essere è “intelligente”: es. L’uomo è intelligente → si es. Fuffy è intelligente → si es. Questa parete è intelligente → no es. Questo libro è intelligente → si Supponendo che un architetto dica che <<Questo muro è intelligente, separa la zona notte da quella giorno >> → si può attribuire “intelligente” alla parete, in quanto la parete è stata progettata dall’uomo attraverso la ragione. Si viola la congruità quando si dice <<L'acqua cammina>> poiché si seleziona il modo di essere con un’entità che non è pertinente-congrua, dunque si ha un insensatezza. L’insensatezza non è dicibile, non crea testo: es. Questa montagna è intelligente. L’insensatezza non deve essere confusa con la contraddizione. La contraddizione scatta quando si viola il principio di non contraddizione. es. Ho mangiato una pasta alla carbonara ma sono digiuno → non è coerente, dunque contraddittorio. es. Questo numero è pari e dispari La contraddittorietà può essere detta. Il principio di non contraddizione (pnc) è un principio che sta alla base del nostro modo di pensare, ragionare e parlare. Afferma che una cosa non può essere e non essere nello stesso tempo e sotto il medesimo aspetto: es. Supponendo che una bici sia nera e successivamente la dipingiamo di rosso → non può essere nera e non nera nello stesso momento e sotto il medesimo aspetto. es. Nella stessa bici, su un punto, vi è logo dell’azienda produttrice con scritte in rosso→ se si considera un solo punto della bicicletta può essere nello stesso momento rossa. Tale principio è stato messo in luce da Aristotele e non può essere considerato falso. Quando si cerca di confutarlo, il principio di non contraddizione viene utilizzato lo stesso, in quanto è primitivo.