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Luigi Capogrossi Colognesi - Storia di Roma tra diritto e potere, Dispense di Storia del Diritto Romano

Riassunto completo di tutti i capitoli

Tipologia: Dispense

2019/2020

In vendita dal 23/03/2020

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Scarica Luigi Capogrossi Colognesi - Storia di Roma tra diritto e potere e più Dispense in PDF di Storia del Diritto Romano solo su Docsity! La genesi della comunità politica 1. Le condizioni materiali nel Lazio arcaico Il paesaggio fisico in cui si situavano gli insediamenti umani che, agli inizi dell'ultimo millennio a.C., avrebbero dato origine a Roma e alle altre città del Latium vetus, non doveva essere molto diverso da quello odierno, solo più scosceso e segnato da maggiori e improvvisi dislivelli. La presenza di aree boschive (evocate in molti toponimi arcaici: Querquetual, Fagutal, dal nome latino delle querce o dei faggi...) e di vasti acquitrini, negli av- vallamenti, contribuiva all'isolamento delle comunità umane ivi stanziate. Le dimensioni complessive del territorio di cui discorriamo erano relati- vamente modeste. Esso era limitato a Nord dal Tevere, a Ovest dal mare, a Est dai primi rilievi che segnano il confine tra i Latini e le popolazioni sabelliche (dove si svilupperanno due centri importanti, Tivoli e Palestri- na) e a Sud, infine, dagli ultimi contrafforti dei colli Albani che si sporgono sulla grande pianura che si apre verso Cisterna, Circeo e Terracina. Nella primitiva economia dellepopolazioni laziali unruolo importante era rappresentato dall'allevamento, dove, accanto alla pecora, ebbe per molto tempo fondamentale importanza il maiale, animale particolarmente adatto a vivere dei prodotti dei boschi e allo stato semibrado. Era però già praticata anche una forma primitiva di agricoltura, legata alla coltivazione di un cereale resistente e adatto alle zone umide: il farro, oltre che all'orzo. Abbastanza antico appare anche lo sfruttamento di certi alberi da frutto, come il fico e, molto probabilmente, l'ulivo, mentre la vite avrebbe assunto maggiore rilevanza in età successiva. Sin dagli inizi dell'ultimo millennio a.C. vennero sviluppandosi, con l'incremento dei livelli economici delle popolazioni laziali, forme di cir- colazione di uomini e cose. Le principali rotte commerciali, attraversando verticalmente la pianura laziale, univano !'Etruria alla Campania: due aree di più precoce sviluppo. Uno dei pochi punti di passaggio, dove era più facile il guado del Tevere, è costituito dalla zona ai piedi del Campidoglio e del Palatino, dove ancor oggi vi sono tra i più antichi resti di Roma. Non meno importanti erano anche le vie di comunicazione dal mare verso Capitolo 1 CAPITOLO 1 l'interno: allora, infatti, il Tirreno era già attraversato da una fitta rete di traffici marittimi che contribuiva all'intenso flusso di beni tra la zona costiera degli scambi e l'entroterra, attraversando la pianura controllata dai colli Albani da un lato, dal Palatino e dal Campidoglio-Quirinale dall'altro. Ancora oggi il nome della Via Salaria, a Roma, ricorda uno di questi percorsi commerciali, relativo a un bene di fondamentale impor- tanza nell'alimentazione umana: il sale. In quest'area insistevano, sin dagli inizi dell'ultimo millennio a.C., numerosi villaggivicini gli uni agli altri e costituiti da poche capanne, la cui struttura è illustrata da alcune urne cinerarie trovate nei sepolcreti arcaici della zona. La loro aggregazione interna si fondava sulle relazioni familiari o pseudoparentali, legate alla memoria di una più o meno leggendaria discendenza comune. Queste comunità non sempre e non tutte erano destinate a evolvere verso forme cittadine, talora piuttosto ristagnando o regredendo in frammenti sparsi nel territorio. A impedirne un troppo facile e rapido sviluppo, giocava la difficoltà di assicurarsi lo sfruttamento di zone relativamente ampie di territorio. Non facile infatti, per questi piccoli gruppi d'individui, era la difesa dei loro territori e, soprattutto, non ancora adeguato era il loro dominio su una natura ostile. Ciò spiega le piccole dimensioni e la relativa povertà degli insediamenti sparsi nell'area laziale, tra IX e VIII secolo a.C. La loro quantità in un'area territoriale relativamente circoscritta non solo è confermata dalle continue e importanti scoperte archeologiche degli ultimi decenni, ma anche dalla memoria storica che ne avevano gli antichi. Sembra echeggiare questa situazione un suggestivo testo di Plinio, Nat. hist., 3.68 in cui si afferma che, in un tempo remoto, in Latio vi furono, accanto a piccole cittadine (clara oppida), dei populi, uniti da un vincolo religioso costituito dal culto di Iupiter Latiaris che si svolgeva in monte Albano, l'odierno Monte Cavo, nel cuore dei Castelli romani. Questi populi, designati unitariamente come Albenses, sono menzionati in numero di trenta (un numero altamente simbolico e multiplo di quel tre che sarà anche alla base del futuro ordinamento cittadino di Roma) e richiamati al plurale: Albani, Aesolani, Accienses... Coriolani, Fidenates ecc. Con la formazione dei primi aggregati cittadini, sia questi populi che gli oppida sarebbero stati tutti destinati «a dissolversi in età storica senza lasciar traccia» (ex antiquo Latio 53 populi interiere sine vestigiis). 2. Villaggi, distretti rurali e leghe religiose Non facile e non univoca è l'individuazione delle forme culturali e delle strutture che regolavano questi primi arcaici insediamenti la cui conoscenza è possibile solo attraverso lo studio delle tracce archeologi- che che ne sono restate, soprattutto nei modesti sepolcreti. Molte sono le informazioni che possiamo ricavare dalle tombe d'epoca arcaica, scavate nelle varie località laziali: dal trattamento del cadavere, dalle suppellettili che lo attorniano, legate alla vita quotidiana: recipienti con cibo, ornamen- ti, dalle armi per gli uomini, e dagli strumenti di tessitura per le donne. LA GENESI DELLA COMUNITÀ POLITICA 27 anche se resta incerto sino a qual punto l'agricoltura avesse già soppian- tato l'allevamento come fondamento dell'economia di queste popola- zioni. Si tratta di un passaggio importante, giacché la stessa superficie di territorio poteva, se sfruttata in forme agricole, sostenere un numero d'individui più elevato di quello che un'equivalente area a pascolo avreb- be potuto supportare. È quanto mai verosimile che sin da allora esistesse un regime di ap- propriazione individuale dei beni mobili, esteso anche al bestiame minore, pecore e suini, oltre che agli animali da trasporto e da lavoro: somari, cavalli e buoi. Analogamente dovevano già essere presenti forme limitate di pertinenza della terra, se non altro sulla capanna e sullo spazio circo- stante, ma anche, con ogni probabilità, sui primi, circoscritti campi colti- vati. Ciò, insieme alla diversa distribuzione delle risorse della pastorizia, contribuì, non solo alla già menzionata stratificazione dei singoli gruppi familiari all'interno delle varie comunità d'appartenenza, ma dovette anche differenziare la condizione relativa di queste ultime. L'accentuarsi di tali dinamiche, a sua volta, poteva in alcune situazioni ottimali dar vita a fenomeni di «sinecismo» (da due vocaboli greci, riferiti all'«abitare insieme», che già gli antichi impiegavano a indicare la formazione della città dall'aggregazione di abitati sparsi) delle minori comunità verso la più ampia forma cittadina. 3. La fondazione di Roma Nel quadro di questi nuovi fermenti, appaiono i primi centri inse- diativi unitari di un certo rilievo che potremmo definire, con vecchia terminologia, «città in formazione». In quest'epoca vari insediamenti laziali, tra cui Ariccia, Palestrina, Tivoli assunsero una fisionomia diversa ed una maggiore importanza di quella dei villaggi dell'età precedente. Tra queste realtà protourbane va annoverato anche il sinecismo dei vari villaggi situati sul Palatino, che a sua volta si protendeva verso i colli vicini dell'Esquilino e del Celio, ma che tendeva anzitutto a saldarsi con l'altro grande sistema costituito dal Quirinale e dal Campidoglio. Che il nucleo originario della città fosse da identificarsi sul Palatino, era chiaro già alla memoria storica dei Romani2. Soprattutto, con la fusione dei villaggi del Palatino con quelli del Quirinale-Campidoglio, si accentuò l'importanza strategica della naturale fortificazione costituita da questi colli, anche per il già accennato controllo di uno dei pochissimi guadi praticabili del Tevere. Ed è qui, appunto, che interviene l'improvvisa accelerazione di pro- cessi già avviati, di contro a fenomeni di ristagno e inadeguatezza. Esem- plare di questi ultimi è la vicenda del centro legato al leggendario mondo 2 A tale colle infatti si ricollegano le leggende e i più antichi riti religiosi, oltre ai ri- cordi legati alla coppia dei gemelli salvati dalle acque del Tevere: dalla cosiddetta «casa di Romolo», al fico «ruminale», sino al percorso effettuato dai Luperci, nella corrispondente cerimonia religiosa, percorso che seguirebbe l'antiquissimum pomerium (Geli., 13.14.2), il confine sacro della città, tracciato dallo stesso Romolo. 28 CAPITOLO 1 delle origini laziali: Alba Longa, su cui si tornerà più avanti (cfr. par. 5). Centro federale di una più dilatata (e perciò, sotto il profilo del consoli- damento urbano, meno consistente) entità politico-religiosa, esso ha una sua indubbia identità, e tuttavia appare meno capace d'evolversi verso le forme cittadine rispetto ai livelli rapidamente conseguiti dalla più recente «città» di Roma, ma anche di altre città come Ariccia, Tivoli e Praeneste. L'elemento reale che soggiace alla tradizione leggendaria della «fon- dazione», in quel mitico 21 aprile del 753 a.C., consiste nell'accelerata affermazione di una realtà nuova. Al di là della leggenda, è questo il messaggio degli antichi: una «nascita» come rottura. Anche per questo è significativo che le aggregazioni cittadine non seguissero pedissequamente gli schemi territoriali costituiti dai preesistenti collegamenti religiosi. Si possono intuire così le tracce, sopravvissute solo in arcaiche tradizioni religiose, di altre forme aggregative, alternative al percorso unificatore che prevalse e che portò all'esistenza di quella Roma arcaica, con quella configurazione territoriale che la storia ha conosciuto 3 Con il prevalere di questa particolare aggregazione avviata verso la forma cittadina, il nucleo, anch'esso vagamente «politico», di tutte le altre era destinato a essiccarsi, dissolvendosi di fronte alla forma storicamente vincente della polis. Allora, con gli spazi per la vita della comunità e per l'assemblea cittadina, per i luoghi dei culti e per la sede del rex, nascono anche la politica e le istituzioni. Questa rilevanza dei processi intervenuti nella seconda metà dell'VIII secolo a.C. si perde nella prospettiva di molti storici moderni, che tendono ad abbassare la data della piena definizione dell'ordinamento politico cittadino. Né i dati archeologici né l'insieme dei riferimenti presenti nella pur ricca tradizione relativa alle origini di Roma giustificano tuttavia, a mio parere, una valutazione del genere. Certo, solo nel corso del tempo, la fisionomia politica della città prenderà definitiva consistenza, ma questo non legittima l'idea che la città come forma istituzionale autonoma, in continua costruzione e in continua modificazione, non esistesse sin dalla seconda metà dell'VIII secolo a.C. Quello che a noi interessa è cercare di cogliere il momento in cui si può individuare un nuovo e autonomo centro di funzionamento e di «autoinnovazione» sovrapposto alle sue stesse componenti, a segnare uno spartiacque fondamentale nella storia arcaica. Proprio sotto il profilo di una storia istituzionale diventa rilevante l'esistenza di qualcosa non riconducibile agli antichi villaggi e ai sistemi parentali o tribali, e che non è mera somma «confederale» di questi per- ché in grado di disciplinarli al suo interno, procedendo autonomamente verso la sua ulteriore costruzione. D'altra parte le indicazioni unanimi degli antichi e, soprattutto, quanto sappiamo delle successive innovazioni istituzionali intervenute nell'età dei re di Roma (dal sistema delle curie all'ordinamento centuriato, dai montes e dai pagi (cfr. fine par.) alle tribù 3 DalSeptimontium, che univa i villaggi del Palatino, dell'Esquilino e del Celio, all'altra antichissima festività rappresentata dai sacra Argeorum che investe l'area rappresentata dal Celio, dal Palatino, dall'Esquilino e dal Quirinale col Viminale. Un diverso percorso ancora è quello dei Lupercali, l'altro rito or ora ricordato. LA GENESI DELLA COMUNITÀ POLITICA 29 territoriali, su cui cfr. infra, cap. 3) postula la presenza di un quadro tem- porale abbastanza ampio da permettere tale sequenza storica, nonché lo sviluppo dei corrispondenti processi sociali ed economici. Il che induce ad escludere qualsiasi consistente abbassamento della datazione tradizionale. Per questo ha un forte valore simbolico, nel ricordo degli antichi - non malgrado, ma proprio per il suo aspetto leggendario - il ruolo di Romolo. È a lui infatti che risale l'incisiva novità organizzativa della città: una «co- stituzione», come rappresentazione di qualcosa che non esisteva prima. E nella sua figura si concentra la dimensione propria del mito di fondazione: una «nascita» globale, intrecciata al carattere illegittimo e fuori dell'ordine dei due gemelli, il loro salvataggio dalle acque e la lotta fratricida. Associata a questo evento appare la distribuzione di tutta la cittadinan- za nelle tre tribù dei Ramnes, Tities e Luceres, ciascuna suddivisa in dieci curie, suddivise a loro volta ognuna in dieci decurie. Un sistema piramidale di distribuzione prioritariamente finalizzato alla guerra, giacché ciascuna curia avrebbe dovuto fornire alla città cento uomini armati e dieci cava- lieri, dando così luogo alla primitiva legione di tremila fanti e assicurando il complessivo organico di trecento cavalieri (indicati con la forma arcaica di celeres). Il coerente sistema ternario a base di tale architettura attesta il carattere artificiale della costruzione così realizzata. Questa «nascita», tuttavia, si presenta in termini ambivalenti. Da una parte, come si è detto, una rottura rispetto alla fase precedente. Ma una novità che raccoglie e organizza, fondendole, realtà preesistenti. Lo abbia- mo visto anzitutto parlando della città come il risultato della fusione dei villaggi preistorici del Palatino e poi del Quirinale, con le loro tradizioni, pratiche sociali, identità. Su tutto ciò si avrà modo di tornare più ampia- mente (cfr. infra, cap. 2, parr. 5 s.). Per ora limitiamoci a constatare come tali processi siano evocati dalla presenza di molteplici frammenti della tradizione antica, pressoché dimenticati: piccoli elementi che stentano a inserirsi nel processo di armonizzazione del nostro quadro di conoscenze, facendo intuire una storia tortuosa, fatta di tensioni e conflitti, di svolte violente e improvvise. Tra questi è di notevole importanza la traccia consistente di un primi- tivo sistema territoriale della città legato ad una suddivisione in montes, di carattere urbano, ed in strutture periferiche costituite da un insieme di pagi. Sussiste il ricordo di alcuni nomi di essi, significativamente rap- portabili a quello di alcune gentes, quasi espressioni territoriali della loro consistenza. 4. Le strutture familiari e le più ampie aggregazioni sociali In effetti nella riflessione sulla storia antica, è dato di cogliere l'idea già presente nei filosofi greci, e sempre ripropostasi, secondo cui la città sarebbe stata il punto d'arrivo di un processo di crescita della società uma- na, il cui inizio sarebbe da identificare nella famiglia naturale: il padre e i suoi più diretti discendenti. Di qui la possibilità di cogliere un elemento comune sia alla più piccola cellula della società umana, la famiglia, sia alla 32 CAPITOLO 1 significato che dovettero assumere quei vincoli parentali o pseudoparentali che ne avevano costituito il tessuto connettivo. La nuova comunità si era formata, assorbendo i minori villaggi e fondendo insieme i loro territori e i loro abitanti. Le strutture sociali che ne erano state il fondamento non vennero meno con la costituzione della città: si dovettero però ridefinire. Esse infatti non potevano più derivare la loro identità dall'unità inse- diativa o dall'autonomia politica del villaggio stesso. Così il riferimento alle origini e al sepolcro comune, i riti ed i culti ancestrali, il richiamo al loro stesso territorio d'origine divennero l'elemento qualificante dei vari gruppi integrati nella città. I gruppi che si erano fusi, lungi dal dissolversi, conservarono la loro autonoma struttura all'interno della più ampia co- munità, distribuendosi nei nuovi e omogenei contenitori costituiti dalle curie. Essi vennero poi individuati mediante l'uso generalizzato del nomen, secondo lo schema che sarà proprio delle gentes in epoca storica. A questa trasformazione mi sembra dunque si possa far riferimento per cercare le origini di quell'organizzazione gentilizia, così caratteristica della società romana nel corso della sua storia. Tali fenomeni contribuirono a fissare, se non ad accentuare, la strut- tura piramidale della società primitiva, rendendo più evidente il dualismo interno che forse era già affiorato nei villaggi precivici. Mi riferisco alla presenza delle gentes detentrici di risorse e di terre, in seguito identificate con la primitiva aristocrazia, e ad un insieme di individui relativamente al margine, sovente da quelle dipendenti come «clienti». Questo vertice aristocratico fu in seguito indicato dai Romani con il termine patrizi o, addirittura, con lo stesso termine che connota il capo famiglia: patres. Ad esso contrapposto si definisce nel corso del tempo, con sempre maggiore chiarezza, il ceto dei «plebei». In effetti, sin dai primi tempi, aveva dovu- to far parte della comunità cittadina anche una miriade d'individui non appartenenti ai gruppi gentilizi, solo in parte legati a questi da un vincolo di dipendenza costituito dalla clientela. Sul fondamento anche economico di tale distinzione avremo modo di tornare più ampiamente nei prossimi capitoli. Per ora mi limito a far presente come l'importanza originaria delle forme di allevamento, in alternativa allo sfruttamento agrario del territorio romano, potrebbe indurre ad immaginare che su di esse si fondasse almeno in parte la supremazia della primitiva aristocrazia. D'altra parte, sebbene sia probabile che molte delle terre intorno a Roma appartenessero alle antiche gentes, va tenuto presente come le fonti antiche facciano chiaramente risalire alle origini cittadine anche le prime forme di proprietà individuale della terra. È infatti attribuita a Romolo la distribuzione a ciascuno dei suoi seguaci di un lotto di terra di due iugeri, circa mezzo ettaro, indicato con il nome di heredium. 5. La città delle origini come sistema aperto Tutti conoscono la leggenda del ratto delle Sabine, che evoca comun- que il ricordo di un confronto-scontro tra la comunità latina del Palatino e quella sabina del Quirinale. Esso si concluse, com'è noto, con la loro LA GENESI DELLA COMUNITA POLITICA 33 fusione, sino addirittura alla duplicazione della regalità con le due figure di Romolo e del sabino Tito Tazio, segnando il primo grande balzo in avanti nella storia di Roma. Al di là della leggenda, anche in questo caso si può cogliere un'indicazione preziosa intorno a un carattere proprio della Roma delle origini. Che, lungi dall'apparire in forma monolitica, viene costruendosi con elementi eterogenei, se non contraddittori. Latini e Sabini, poi Etruschi sono componenti diverse che, fondendosi nel nuovo organismo politico della città, contribuirono a staccarla da uniformi radici etnico-culturali e a «modernizzarla», trasformandola in una realtà nuova. Tali fusioni appaiono dunque riproporre e accentuare il carattere di Roma come «ponte», vincolo strategico e punto di controllo dei collegamenti e delle comunicazioni di più ampio respiro. Ma, per ciò stesso, come momento d'incontro tra storie diverse ed eterogenee. Questo aspetto, confermato nel tempo dalla sua costante apertura verso flussi eterogenei, segnerà in profondità, con il carattere della suc- cessiva crescita, la fisionomia politica e le fortune di Roma. Fu questo a mio avviso il fattore determinante che, già sotto i suoi primi re, le permise di sopravanzare rapidamente le altre comunità del Latium vetus6 in via d'evoluzione verso le forme cittadine. Con i vantaggi conseguenti: militari anzitutto, ma anche in termini di sviluppo economico-sociale. La città delle origini appare pertanto come un laboratorio dinamico dove si sperimentano nuove forme organizzative, ma dove, soprattutto, maturano le premesse per una sempre più chiara concezione della comunità. E qui dobbiamo tornare a riflettere rapidamente su un carattere difondo del mondo precivico dei villaggi già richiamato in queste pagine. Si tratta del suo fondamento parentale, su cui a ragione, soprattutto gli storici dell'Ottocento hanno insistito. Ne conseguiva che, come in ogni gruppo chiuso, le forme pur inevitabili di circolazione e d'integrazione individuale, al loro interno, avvenissero mediante meccanismi assimilativi fondati sulla finzione di un vincolo di sangue, di fatto inesistente. Una circolazione ristretta, dunque, e processi di crescita e d'integrazione che incontravano un limite fortissimo in questo carattere familiare: il gruppo sociale presupponeva un «padre», un comune antenato ed era circoscritto ai soli suoi discendenti, veri o fittizi. Qui è la differenza radicale della più fluida fisionomia che caratteriz- za la città sin dai suoi inizi: che ha un «fondatore», non un «padre» ed è quindi in grado d'incorporare soggetti diversi senza necessariamente inglobarli in un vincolo di parentela. Ed è qui che «la politica» opera tendenzialmente in modo eversivo verso la predominanza del sangue e dell'appartenenza familiare. Mentre, nelle strutture precedenti, l'inseri- mento del nuovo individuo avviene nella sua trasformazione in «parente», nella città essa avviene con la sua integrazione nelle istituzioni: come «cittadino», membro del populus, partecipe del comune diritto. È bene anche sottolineare come queste mie considerazioni relative alla «città antica» siano essenzialmente riferite a Roma. La vicenda delle 6 In tal modo gli scrittori più tardi indicavano le più antiche città latine - denotate anche come dei prisci Latini - in seguito legate a Roma dal /oedus Cassianum (cfr. infra, cap. 4, par. 1), per distinguerle dalle successive colonie latine. 34 CAPITOLO 1 poleis greche è infatti, sotto questo profilo, abbastanza diversa. Gelose depositarie di una tradizione di lignaggi, esse in genere sono state molto riluttanti a estendere la propria cittadinanza anche a estranei. Un fatto che non sfuggì agli stessi osservatori antichi, che trovarono in ciò proprio un motivo profondo di debolezza nella storia pur splendida di queste città 7 Questo mutamento - determinante per la storia futura, e fondamentale legato per le nostre società - a sua volta, rompendo il mondo chiuso del villaggio e della famiglia, dilatava eccezionalmente gli spazi per la circo- lazione. Com'è attestato già dalla designazione del successore di Romolo: anch'esso un personaggio semileggendario. Numa non era membro della città, provenendo dalla città sabina di Cures: ma la sua estraneità non fu un fatto dirimente (come non lo sarà neppure per Tarquinio Prisco e Servio Tullio, la cui origine straniera non impedì di divenire re di Roma). E in tutta la storia successiva noi incontreremo l'eco di queste migrazioni, della facilità con cui Roma assorbì nuovi gruppi di cittadini, addirittura dell'ascesa di alcuni di essi al vertice della comunità. È un'apertura che costituisce un meccanismo fondamentale per l'accelerazione del processo di crescita cittadina. Ancora in età imperiale, i Romani non solo ne aveva- no viva consapevolezza, ma ad essa si rifecero, riproponendo, in mutate condizioni, di nuovo logiche simili per la vita del loro ordinamento. L'immagine tradizionale della città antica, forgiatasi a partire dal XIX secolo, ha sempre insistito sull'esclusivismo di tale organismo e sulla sua tendenziale chiusura all'esterno. E, in effetti, man mano che le sue strutture vennero rafforzandosi, dovette accentuarsi la distanza tra «chi è dentro» e «chi è fuori», tra il cittadino e lo straniero. Questo carattere, di Roma come in genere delle città del mondo antico, ha fatto immaginare che la condizione originaria di tali comunità fosse uno stato di «naturale» ostilità delle une con le altre, che avrebbe impedito ogni tutela dello stra- niero fuori della sua piccola patria. Oggi siamo molto più cauti in propo- sito, potendosi piuttosto immaginare che questo reciproco esclusivismo, questa chiusura della città all'esterno si siano imposti progressivamente, in parallelo al rafforzamento strutturale del nuovo corpo politico. Due fenomeni in strettissima relazione tra loro, che non costituiscono un dato di partenza. Solo alla luce di tali premesse possiamo comprendere la reale natura dei fatti richiamati dalle fonti antiche. E che consistono, pressoché per l'intera età monarchica, nel modo abbastanza singolare in cui si conclusero molti degli scontri di Roma con altre città (o altri insediamenti la cui strut- tura cittadina era ancora in via di consolidamento, come nel caso di Alba Longa). È quanto abbiamo visto già a proposito della lotta tra la Roma del Palatino e la comunità sabina del Quirinale, risoltasi nella loro fusio- ne. Un processo che si ripeté nel corso dei successivi conflitti: la vittoria dell'una comunità sull'altra significava infatti la scomparsa della città vinta e l'assorbimento della sua popolazione nella città vincitrice. In tal modo Ed è questo, anche, uno dei motivi di fondo per cui sono restio, a usare, nelle pagine che seguono, soprattutto per Roma, l'espressione tanto diffusa di «città-stato». Ma si veda quanto ho già esposto nella prefazione al volume. Le strutture della città Capitolo 2 1. La chiave di volta delle istituzioni cittadine: il «rex» Vari elementi incorporati nella tradizione antica attestano la presenza di un re al vertice della città primitiva. Esso costituisce un fattore dinami- co nel processo di unificazione politica, sovrapponendosi agli ancestrali legami tribali e di sangue, anche se nella sua figura sopravvivono elementi arcaici. Le sue radici preistoriche traspaiono, oltre che nel suo carattere carismatico, nella forte accentuazione religiosa. Un aspetto destinato a influenzare a lungo la fisionomia del potere istituzionale romano. Ancor più significativa è l'assenza, in questa figura, di ogni principio dinastico, quasi a negare quelle logiche patriarcali e parentali, pur così forti nella città delle origini. Non è il figlio che succede al padre in questa monar- chia, mai. Al contrario, è troppo insistita la vicenda di morte che segna la fine del monarca, a partire dall'eroe eponimo, per non cogliere traccia di logiche arcaiche (il pensiero va alla primordiale figura del «re-sacerdote»: il rex Nemorensis, destinato a durare in carica sino a che uno sfidante, uccidendolo, non lo avesse sostituito). Da quanto si è detto è abbastanza ovvio che la volontà divina avesse un ruolo fondamentale nella designazione del nuovo re: un punto su cui le fonti sono concordi. Se Romolo, il leggendario fondatore della città, consulta direttamente gli dei, interpretando i segni favorevoli - ottimo augure lo chiama Cicerone - il successore, anch'egli forse una figura convenzionale, Numa Pompilio, ascende alla carica attraverso la solenne cerimonia dell'inauguratio (destinata a persistere nei rituali romani sino a età imperiale). Secondo questo rituale l'augure, operando in relazione a uno spazio sacro appositamente determinato (il templum), tocca con la destra il capo di Numa e chiede a Giove di manifestargli, con segni sicuri, la volontà che Numa sia re di Roma. Rex inauguratus, dunque, perché carico di una dimensione sacrale, supremo sacerdote e tramite della comunità con i suoi dei. Ma non solo quello, e non solo in virtù di un volere divino: giacché nell'avvento del nuovo re intervengono sia il senato che il popolo. L'inauguratio del nuovo 38 CAPITOLO 2 re, avviene infatti dopo che questi è stato designato da un membro del senato, specificamente qualificato per la sua funzione di interrex (su cui cfr. par. 2). Dopo la sua creatio e la successiva inauguratio, il rex si sarebbe presentato al popolo riunito nella forma dei comizi curiati (cfr. par. 3), da lui stesso convocati, al fine di assumere di fronte ad essi il supremo coman- do. In tal modo i suoi governati, anzitutto il suo esercito, partecipavano alla nomina con un atto solenne che sarebbe poi sopravvissuto al regnum. Questa antica !ex curiata de imperio continuò ad accompagnare l'elezione dei magistrati superiori ancora in età repubblicana, con cui si completava il rituale dell'acquisizione dei poteri sovrani di comando. È solo un'astrazione dei moderni, non l'essenza dell'esperienza an- tica, il fatto che ci chiediamo se questi vari atti fossero o no essenziali all'insediamento del nuovo re. Così non ci interrogheremo sulla loro sequenza precisa: un punto dove non c'è accordo tra gli antichi. Come non c'è sul ruolo del populus: se cioè intervenisse effettivamente, sin dall'inizio, un vero e proprio voto, come sembra adombrare Livio. È ben comprensibile che i Romani d'età repubblicana interpretassero questa partecipazione popolare come una forma di elezione: ma si tratta di una probabile anticipazione di logiche più tarde. Sacerdote e capo militare, il rex è insieme il ductor dell'esercito ma anche, rispetto alla città, il garante della pax deorum, dove si esalta la sua funzione di custode e tutore del diritto. Colui che «sa» e «dice» le norme della città e le applica nella gestione e composizione dei conflitti interindividuali e nella repressione delle condotte criminali, a garantire l'esistenza stessa e la sicurezza della compagine cittadina. In ogni sfera della sua attività, il re fu progressivamente coadiuvato da una serie di collaboratori istituzionali. Talché egli finì col non essere mai solo nella sua azione di governo: non lo fu al comando dell'esercito, dove accanto a lui vi era un comandante militare, che lo poteva anche sostituire in questo ruolo delicatissimo. Era il magister populi (dobbiamo ricordare che populus indica anzitutto l'esercito, solo in seguito desi- gnando la comunità di cittadini con significato politico), a sua volta associato a un magister equitum, al comando della cavalleria. Non lo fu neppure nel governo civile della città, dove parrebbe che sin da allora fosse assistito da un prae/ectus urbi, il cui ruolo, nel corso del tempo, si sarebbe accresciuto, soprattutto nel delicato settore dei giudizi civili e della repressione criminale. Nella memoria degli antichi vi sono precisi riferimenti all'esistenza di leges regiae e si riportano varie norme attribuite di volta in volta ai vari re succedutisi a Roma. Non è molto probabile che, in origine, il rex, analogamente al magistrato repubblicano, sottoponesse formalmente le sue proposte all'approvazione dell'assemblea del popolo. È verosimile che, non di rado, la statuizione destinata a vincolare tutti i membri della comunità cittadina s'identificasse con il giudizio reso per un litigio tra cives. Erano solenni pronunce del rex di fronte all'assemblea cittadina, unica garanzia di pubblicità in un'epoca in cui ancora la scrittura era pressoché inesistente e un ruolo fondamentale era ancora svolto dalla memoria individuale e collettiva. Da parte di alcuni studiosi moderni si è LE STRUTTURE DELLA CITTÀ 39 insistito sul carattere «fattuale» del diritto, in questa prima età: della sua esistenza si sarebbe acquisita piena consapevolezza solo nel momento in cui esso era affermato con una decisione giudiziale. In questa sua funzione di garante e custode dei mores, il fondamento consuetudinario del diritto cittadino, e di tutore dell'ordine legale della città, il rex fu coadiuvato sin dall'inizio dal collegio pontificale (su cui cfr. par. 5). Talché appare ovvio e quasi necessario che lo stesso rex ne facesse parte. È un fenomeno abbastanza comune che, nelle forme più antiche di organizzazione giuridica, la sfera penale, con la sanzione di un insieme di condotte lesive degli altri membri della comunità, avesse particolare importanza. In Roma arcaica il peso della repressione criminale è con- fermato dal rilievo dei collaboratori del re in questo particolare settore: i duoviri perduellionis e i quaestores parricidii, competenti per la repressione di alcuni reati di particolare gravità (infra, cap. 3, par. 6). Incerto tra una dimensione magica e i primi sviluppi di un sapere tecnico-scientifico è l'altro ruolo del re, di custode del tempo, scandendo la vita cittadina. Ciò dipendeva dal fatto che, in quell'epoca, i Romani non conoscevano ancora un calendario fisso, corrispondente al ciclo annuale del sole. Le scansioni temporali e le «sfate» erano pertanto definite secondo un ca- lendario mobile, fondato sul ciclo della luna, che serviva a stabilire tutte le scadenze della vita cittadina (dalle attività comiziali, ai giorni in cui si poteva chiedere giustizia, sino alle festività che segnavano e regolavano i vari lavori agricoli). Agli inizi di ogni mese, dinanzi ai comizi convocati dal pontefice (in appositi giorni predeterminati), il re indicava le scadenze del mese, con i giorni fasti e nefasti. 2. I ccpatres» Sin dall'inizio, nel governo della città, il rex fu coaudiuvato da un ri- stretto consiglio di anziani, ipatres, e dall'assemblea del popolo. Secondo l'indicazione degli antichi, con la morte del re, auspicia ad patres redeunt. Con il potere di interrogare gli dei, «tornava» al senato il supremo ruolo di governo che vi era connesso, di fatto esercitato a turno da alcuni suoi membri designati come interreges, «tra i re»: ponte, dunque, tra il vecchio e il nuovo re ancora da nominare. Tale interregnum non trova paralleli con la Grecia antica e appare esclusivamente romano; esso veniva esercitato da dieci membri del senato, per cinque giorni ciascuno. Dopo i primi cinquanta giorni, ove ancora non si fosse addivenuti alla designazione del nuovo re, si deve supporre che il comando passasse a un altro collegio di dieci patres. Il cuore del problema è costituito da quel redeunt: perché questa facoltà, costitutiva del potere sovrano, «torna», non «va» al collegio se- natorio? Vien fatto di pensare che in ciò si echeggi la struttura originaria della formazione cittadina, come aggregato di minori e più antichi orga- nismi sociali, tali da conservare anche in seguito una parte più o meno ampia dell'autonomia originaria. L'antico potere di governo dei patres delle gentes, ridotto a un ruolo pressoché residuale di fronte al rex, alla 42 CAPITOLO 2 anche se questi sacra publica pro curiis erano ormai divenuti parte della religione cittadina. Il particolarismo religioso che così si esprime rappresenta la pallida traccia di una originaria identità di questi vari gruppi (per le gentes cfr. anche infra, par. 6), attenuatasi e in gran parte riassorbita nella città nel corso di un lungo processo storico2• Nel corso di esso dovette tra l'altro attenuarsi l'originario legame di questi stessi gruppi «protogentilizi» e familiari (probabilmente, come ho già detto, riorganizzatisi come gentes solo all'interno della città) con il loro territorio d'origine. Ne è un sintomo lo spostamento materiale e la concentrazione topografica delle sedi delle singole curie (ma assume anche significato la resistenza opposta dalle curiae veteres a questo trasferimento). Allora ai vecchi culti delle curie dovettero sovrapporsi le nuove forme religiose comuni a tutta la città, che contribuirono tra l'altro a indebolire la connessione fra le singole curie e specifiche aree territoriali. Ho già accennato alla loro funzione eminentemente militare. Nella pri- mitiva costituzione romulea l'organico dell'esercito romano era dato infatti dalla somma dei contingenti fissi che ciascuna curia doveva fornire. Proprio questa rilevanza delle curie e, attraverso di esse, delle strutture gentilizie, ha favorito l'idea che il primitivo esercito romano si organizzasse secondo forme tipiche delle aristocrazie, in un sistema essenzialmente «cavalleresco». Abbiamo visto come il popolo, riunito nel comizio curiato (cioè tutti e solo i maschi adulti), partecipasse all'investitura del nuovo rex inaugu- ratus, come anche a tutte le sue enunciazioni solenni tenute, appunto, nel comizio. Dionigi, lo storico greco delle origini di Roma, fiorito anch'esso, come Livio, sotto Augusto, annovera poi tra le competenze dell'assemblea popolare anche la designazione dei magistrati ausiliari del rex. Anche in questo caso il popolo appare più atto a ricevere la notizia di delibere, che non ad approvare, con un voto, i prowedimenti proposti. Ma la competenza dei comizi si estendeva anche a una serie di atti di carattere, diciamo così, più «privato» e che tuttavia avevano diretta rilevanza rispetto alle organizzazioni familiari e gentilizie, incidendo sulla composizio- ne interna di tali strutture. Ancora per tutta l'età repubblicana una parvenza degli antichi comizi si riuniva a presenziare e ad approvare l'adrogatio con cui un pater Jamilias si assoggettava volontariamente alla potestas di un altro ' Dionigi di Alicarnasso, 2.23.5, offre un'interessante testimonianza del carattere arcaico delle cerimonie celebrate dalle curie. «Io stesso ho visto - egli così scrive - nei sacri edifici i banchetti sistemati sopra tavole di legno, davanti agli dei, in ceste e in piccoli piatti d'argilla». Questi pasti consistevano in cibi assai semplici, focacce d'orzo, primizie dei frutti, che ci riportano alla più antica realtà agraria romana. In essi si può cogliere così il sostrato profondo delle civiltà antiche, come momento di identificazione e di valorizzazione della comunità. Dionigi aggiunge che i vini destinati alle libagioni erano versati in coppe d'argilla, non già in recipienti d'oro e d'argento: per questi motivi, egli conclude, «ho molto ammirato questi uomini per aver conservato i costumi ancestrali e aver evitato la degene- razione degli antichi riti in una vanitosa opulenza». Lo storico greco aveva già ricordato come gli edifici nei quali veniva consumato il banchetto rituale avevano anch'essi il nome di curie. E proviene da Verrio Fiacco, un importantissimo grammatico d'età augustea, la notizia che quattro delle antiche curie, le curiae veteres, proprio per motivi religiosi, non poterono essere spostate nella nuova sede delle curiae novae. LE STRUTTURE DELLA CITTÀ 43 padre assumendo, a tutti gli effetti, nei riguardi di costui, la condizione di figlio3 Egualmente davanti ai comizi si effettuava la forma più arcaica di testamento (dove è forse possibile supporre che la designazione di un erede fosse il risultato indiretto della sua adozione come/ilius, efficace però solo al momento della morte del pater /amilias). Ed infine, sempre rientranti in questa categoria, vanno ricordati tutti quei prowedimenti che modificavano la condizione delle gentes (ad esempio passaggio di una gens dal patriziato alla plebe, o volontaria fuoruscita di un individuo dalla sua gens) o relativi all'ammissione di uno straniero (o di un gruppo intero). ·· Tutte le attività che incidevano sulla vita delle curie o che riguardava- no, mediante l'inauguratio dei sacerdoti maggiori, il rapporto del populus Romanus con la divinità, non potevano prescindere dalla presenza solenne del comizio. Ciò comportava già una prima forma di controllo. Certo con dei forti limiti, giacché tali assemblee non dovevano avere il potere di esprimere esse stesse la volontà della città e neppure quello di modificare o di paralizzare decisioni prese dagli organi del governo cittadino: rex e patres. Anche se, proprio nelle delibere di interesse generale (la pace e la guerra, anzitutto) il peso dell'assemblea dovette accentuarsi. Essa poteva esprimere rumorosamente la sua approvazione o il dissenso (si noti che il termine su//ragium, che indica in età storica il voto, originariamente si riferisce all'applauso), pur non potendo ancora condizionare le decisioni con un voto formale. Ma questo rendeva già allora possibile verificare quel consenso comune su cui si fondava, in ultima istanza, la persistente legittimità del rex e la forza della città. La partecipazione dei comizi all'insieme degli atti che investivano la vita della comunità e il suo governo attesta comunque la presenza, sin dall'inizio, di una entità politica, mai semplice accozzaglia di sudditi soggetti a un volere superiore ed estraneo. In una fase più avanzata di vita della città, verso la fine della monarchia, è possibile che i comizi curiati siano giunti a esprimere formalmente un loro voto, almeno per alcuni aspetti specifici. In tal caso la decisione dovette essere presa dalla maggioranza delle trenta curie (e in ciascuna curia essendo determinante la maggioranza dei suoi componenti). Anche se per noi è forse impossibile ricostruire con precisione il tipo di rapporto esistente tra i vari organi della città arcaica e quindi anche gli effettivi ambiti di competenza dei comizi, il punto centrale è che i vari rituali, così confusamente ricordati dalle generazioni successive dei Ro- mani, non rappresentano mere strutture sovrapposte alla comunità. Non lo è l'invocazione e l'interrogazione degli dei, che riempie un reale spazio spirituale e «culturale», non lo è l'applauso o la stessa silenziosa presenza delle curie e non lo sono i «consigli» dei patres, gli anziani detentori della saggezza politica. Tutto ciò costituisce infatti la base fondamentale di una data struttura sociale, il veicolo indispensabile per la costruzione di una comunità e, con essa, della nuova legalità cittadina. In tal modo si assicurava artificialmente la sopravvivenza di una famiglia che, altri- menti, si sarebbe estinta in mancanza di discendenti diretti dell'arrogante. 44 CAPITOLO 2 4. I collegi sacerdotali Tutti e tre gli organi costitutivi della città che ho già richiamato, rex, patres e populus, hanno sicuramente radici preciviche. Il valore innovativo della città si evidenzia qui nella loro radicale ridefinizione. In parte diversa è invece la fisionomia dell'altra componente essenziale della città: il suo patrimonio culturale. Qui infatti il carattere di continuità con il mondo precivico è più evidente. E questo vale anzitutto per la sfera religiosa dove, come osserva giu- stamente Tim Cornell, si può cogliere in modo affatto peculiare un'ac- centuata mistura di conservatorismo e d'innovazione. Questa emerge in modo immediato ove ci si volga alla struttura portante di questa dimen- sione costituita dai molteplici collegi sacerdotali, presenti sin dalla prima età monarchica. Essi costituiscono, a mio giudizio, uno degli aspetti che meglio ci fa capire la natura complessa e stratificata dell'organizzazione e dell'identità cittadina. Da un lato perché lo stesso governo della comu- nità non si esaurisce nelle istituzioni politiche, essendo per molti aspetti determinante il fattore religioso affidato all'opera di questi stessi collegi. Dall'altro perché molti di essi si saldano alle radici preciviche (alcuni addirittura in un diretto e circoscritto rapporto con singole gentes), sep- pure nel quadro di un non facile processo di adattamento che ne ha reso possibile una configurazione relativamente unitaria. È in questo contesto che le forme e tradizioni più arcaiche soprawissero a lungo, nella storia repubblicana, quando non rinverdite, addirittura, dalla grande scenografia arcaicizzante di Augusto. A tale proposito, onde comprendere il ruolo della sfera religiosa nella società romana arcaica, si deve ricordare la presenza di una molteplicità di filoni in essa confluenti. Anzitutto, importantissimi, i culti dei Penati e dei Lari (gli antenati divinizzati) propri di ciascuna famiglia, di competenza di ciascun pater /amilias, poi i culti e i riti delle gentes, delle curiae o di aggregazioni più ampie (talora più ampie della città) e infine i culti della città. Essi, insieme alla vasta stratigrafia di collegi e consorterie religiose, sia proprie di singoli gruppi, che dell'intera comunità, ci riportano ad un'età preistorica, con l'innumerevole serie di divinità che accompa- gnano i Romani in ogni aspetto ed in ogni periodo della vita. Tra i più antichi di questi collegi citeremo i Luperci Quinctiani e i Luperci Fabiani, che presiedevano all'importante rito dei lupercali, quel percorso rituale, evocativo degli arcaici legami territoriali di alcune comunità preciviche, già richiamato nel precedente capitolo. Ma non meno antico appare il collegio dei Salii, una specie di sacerdoti-guerrieri impegnati in singolari rituali di tipo magico-animistico, e dei Fratres Arvales che sovrintendevano al culto dell'antichissima dea Dia. Mentre poi i singoli luoghi della città restano legati a memorie di non meno arcaiche divinità: come quella di Semo Sancus, di origine sabina, sul Quirinale, o di Fauno sul Palatino. Nella fase successiva, di piena espansione della vita cittadina, appa- re conservare una rilevanza maggiore il collegio deiflamines, anch'esso tuttavia appartenente al più antico patrimonio religioso romano e con una fisionomia tutta particolare. Ciò è particolarmente evidente nei tre LE STRUTTURE DELLA CITTÀ 47 Il grande prestigio e il non minore potere di fatto del collegio degli auguri giustifica il numero ridotto dei suoi componenti: tre (solo in se- guito elevati a nove). Come per i feziali, anche in questo campo si venne solidificando una scienza augurale e un «diritto» augurale. Le tradizioni e le interpretazioni seguite dal collegio degli auguri vennero raccolte in vari testi, conservati gelosamente e, almeno in parte, segretamente. Così un sapere ancestrale poté conservarsi e arricchirsi di generazione in ge- nerazione. A tali collegi in genere si era prescelti per cooptazione e, per molti seco- li, vi appartennero solo elementi patrizi (questo anche nel caso dei pontefici di cui tratteremo nel paragrafo successivo). Il che getta indubbiamente una luce significativa sulla composizione del primitivo organico cittadino e sull'originario predominio aristocratico. Ma è soprattutto da sottolineare il fatto, fondamentale per la successiva storia di Roma, che solo pochissimi ruoli, tra quelli ora evocati (il più importante forse è rappresentato dal flamen dialis), presuppongano una totale «consacrazione» del sacerdote alla divinità, con la conseguente sua separazione dalla vita corrente nella città. In questo caso, in genere nominati a vita, essi sono esclusi da ogni altro diretto coinvolgimento nel potere politico. Per il resto, invece, i ruoli sacerdotali sono assunti da ordinari cittadini che non dismettono i loro correnti interessi e la partecipazione alla vita della città, non richiudendosi così in una casta separata, portatrice di valori diversi da quelli della polis. Si sfiora in tal modo un tema assai importante relativo alla precoce «laicità» dell'ordinamento romano. È un aspetto che segna una delle fondamentali diversità delle società greco-italiche dalla storia di molte altre società orientali, maggiormente connotate in senso teocratico. La relativa debolezza della diretta gestione del potere da parte dei collegi sacerdotali in Roma, anche dei più im- portanti come quello degli auguri o quello dei pontefici (sia ben chiaro: non dei loro singoli membri), appare direttamente collegabile alla forte preminenza di un'aristocrazia guerriera ed al precoce affermarsi del peso politico dell'esercito cittadino. Di qui anche la fisionomia del rex, ben di- versa dalla forma ierocratica delle monarchie dell'Oriente mesopotamico e dalla figura dei faraoni egiziani. In verità io credo abbia giocato notevolmente il carattere patriarca- le delle primitive forme religiose romane, dove il rapporto con il sacro partiva anzitutto dalla religione domestica amministrata da ciascun pater familias. Il nuovo ruolo cittadino non modificò radicalmente questi pre- supposti, facendo confluire molte funzioni religiose, anzitutto nei titolari del potere legittimo sulla comunità: i magistrati e il senato, e nei collegi sacerdotali. Ciò che, appunto, ci permette di cogliere l'essenza del pro- cesso formativo della città e, insieme, individuare l'intima relazione tra le istituzioni politiche e la sfera religiosa. Diversamente da quanto sovente si scrive, il nucleo della religione ancestrale non era destinato a dissolversi, dando luogo a un diffuso e precoce scetticismo. Esso si è piuttosto «tra- sferito» a livelli nuovi, articolandosi in una pluralità di dimensioni. Per questo mi sembra inesatta l'interpretazione così diffusa sin dall'Ottocento della religione romana come un fatto secondario rispetto agli sviluppi della 48 CAPITOLO 2 cultura cittadina. Al contrario, la fisionomia unitaria dell'ordinamento, come ben ci ricorda John Scheid, è passata anche attraverso la costruzione degli dei cittadini legata alla funzione unitaria dei templi e dei grandi culti collettivi, oltre che al ruolo dei collegi sacerdotali. 5. I pontefici Tratto da ultimo il collegio pontificale, il più importante ai fini nostri. Sebbene in nessun modo possa considerarsi diverso dai collegi esaminati nel precedente paragrafo, ho ritenuto di parlarne separatamente per il suo ruolo affatto particolare nella formazione e nello sviluppo delle forme giuridiche e dei saperi a esse relativi. Il carattere di questo collegio risalta nella sua autonomia e forza inno- vativa, almeno per quanto concerne il campo privilegiato della sua azione, costituito dalla sfera giuridica. Aspetti forse meno evidenti in molti degli altri sacerdozi precedentemente ricordati, dove più accentuato appare il loro legame con la forza ancestrale della tradizione. Anche l'opera dei pontefici si realizza invero nella memoria e nella conservazione, e tuttavia essa più d'ogni altra svolse una funzione eminentemente e sempre più innovativa. Non solo per la probabile partecipazione dei pontefici al com- plesso e oscuro processo di selezione delle tradizioni ancestrali, fuse nel nuovo contenuto religioso e istituzionale della città. Ma soprattutto perché poi, nel corso di un ampio arco di tempo che travalica l'età dei re, essi non si limitarono a registrare e trasmetterne la memoria, ma intervennero su di essa con una continua attività d'interpretazione e d'innovazione. È ai pontefici che risale l'elaborazione delle prime logiche interpretative e delle prime tecniche analitiche, applicate a questo insieme di costumi e pratiche giuridiche e religiose. Essa segna l'inizio della straordinaria avventura della scienza giuridica romana, evidenziando, in modo quasi emblematico, la singolare capacità romana di gestire il passato in funzione del futuro, di usare il materiale antico per costruire nuove realtà. Il collegio, istituito da Numa, era presieduto, almeno in età repub- blicana, dal pontefice massimo: figura di notevole prestigio nella società romana e ambita ancora negli ultimi tempi della repubblica. Ne doveva far parte - ignoriamo in quale posizione - lo stesso rex, all'epoca del suo potere, giacché, in età successiva, ne sarà membro il rex sacrorum, la sua pallida reliquia. Il collegio era composto originariamente da cinque membri, tra cui i tre /lamines maggiori destinati, come il pontefice mas- simo, a restare in carica tutta la vita. Più tardi, in età repubblicana, i suoi componenti furono elevati a tredici. Il pontefice massimo aveva una superiore autorità di controllo su tutte le forme della vita religiosa romana: è difficile dire tuttavia quanto questa posizione derivasse dall'espropriazione di competenze originariamente attribuite al rex e quanto fosse invece il risultato di un'effettiva divisione di ruoli risalente all'età monarchica. È comunque certo originaria la ge- nerale funzione di consulenza esercitata dal ponti/ex maximus nei riguardi del rex (oltre che, forse, alcune funzioni vicarie) con un ruolo particolare LE STRUTTURE DELLA CITTÀ 49 • per ciò che concerne i comizi calati4 Soprattutto questo rapporto di col- laborazione si coglie in tutta una serie di cerimonie religiose (sacrifici a protezione della città, voti e promesse alle singole divinità per allontanare pericoli incombenti, consacrazione di luoghi assegnati alla divinità), oltre che nell'enunciazione del calendario di cui si è già parlato. Ma, come ho già accennato, è soprattutto in relazione alla conoscen- za e applicazione delle primitive norme che disciplinano la vita della comunità cittadina che si può apprezzare il peso eccezionale esercitato da tale collegio nella storia di Roma. Assistendo e orientando il rex nella conoscenza, interpretazione ed applicazione delle norme che regolavano la vita della città, esso condizionava l'intero tessuto sociale garantendo la pacifica convivenza tra i singoli cittadini e i vari gruppi familiari e gentilizi. In tal modo avrebbe preso consistenza, nel tempo, una forma embrionale di rapporti che potremmo definire, anticipando, di «diritto processuale», di «diritto privato», nonché il vasto sistema della repressione criminale. E i pontefici, appunto, raccolsero e conservarono queste primitive regole di comportamento e il modo di gestire gli inevitabili conflitti al fine di pre- servare la pace sociale. Una funzione, com'è evidente, che da sola sarebbe stata sufficiente a spiegare il prestigio affatto particolare dei pontefici, ancora nel corso di tutta l'età repubblicana. È d'altra parte evidente come tali competenze si intrecciassero stretta- mente al ruolo del rex, come supremo garante della vita della comunità e quindi come suo giudice e «legislatore». Nella misura in cui le leges regiae di cui ci parlano gli antichi non siano un'invenzione tardiva, dobbiamo presumere che primario fosse il ruolo pontificale nella loro elaborazione e conservazione. Con esse, d'altra parte, sin dalla più o meno leggendaria legislazione di Romolo, non si faceva altro che innovare e modificare singoli elementi di un tessuto istituzionale preesistente. Di ciò i Romani d'epoca più tarda avevano perfetta consapevolezza, riferendosi a questo patrimonio come ai mores et instituta maiorum. Queste «consuetudini degli antenati» appaiono un'immagine carica di significato e immediatamente intuitiva, riferita al patrimonio ancestrale, dove sfera religiosa, sociale e giuridica sono ancora difficilmente distingui- bili. Ma in che cosa poi consistono queste istituzioni, a quali maiores ci si riferisce, come si sono formate? Una prima risposta è quella a suo tempo formulata da De Francisci, secondo cui tali mores risalirebbero in buona parte alle stesse origini latine, consistendo pertanto in regole già vigenti nelle «strutture dell'organizzazione precivica». Null'altro dunque «che le norme sulle quali si fondava l'ordinamento della gens, il suo ordinamento giuridico» (direi meglio: di quella realtà che si sarebbe configurata come gens all'interno della città). Proprio partendo da tale concezione si pon- gono tuttavia alcuni problemi di difficile soluzione. 4 Non è chiara la differenza tra questi e i comizi curiati, essendo entrambi costituiti dalla riunione delle curie: sappiamo però che i primi erano presieduti dal ponti/ex maximus invece che dal rex. 52 CAPITOLO 2 ra, ritualizzati e, infine, divenuti elementi di carattere «giuridico». Se la comunità primitiva conosceva una forma di divisione sociale fondata su classi d'età, non si diveniva un pater solo col passare del tempo. E, come in tante società «primitive», anche nella Roma di Romolo, le regole matri- moniali potevano essere complesse: tabù, divieti, obblighi e forme stereo- tipe attraverso cui il vincolo veniva costituito ingenerando conseguenze e obblighi. Il matrimonio poneva in essere una nuova famiglia, nascevano figli e discendenti: ma qual era il rapporto tra questa e i gruppi da cui provenivano i due coniugi? Come funzionava, secondo quali stereotipi, il principio esogamico e come si applicava il generalizzato tabù dell'ince- sto? E quali rapporti s'ingeneravano tra i membri della nuova famiglia? Come veniva repressa la violenza (ma anche altre forme di aggressione), non tanto all'interno dei gruppi cui doveva provvedere l'autorità del pater familias, ma tra i gruppi stessi? L'insieme delle risposte che a questi, come a molti altri quesiti, era in grado di dare sin dall'inizio la società romulea è appunto il contenuto del primitivo ordinamento. Come e perché alcune delle regole dei singoli gruppi e delle aggregazioni preciviche si siano trasfuse nel patrimonio della nuova comunità e come e perché tanti altri elementi analoghi ne siano restati fuori è uno dei grandi problemi - forse più di pertinenza degli an- tropologi che degli storici - che si pongono intorno alle origini della città. Anche rispetto a esso è comunque indispensabile ribadire un punto fermo. E cioè che, nel riflettere sull'esperienza romana, si deve abban- donare la nostra mentalità, dominata dalla lunga presenza e azione dello stato moderno. Essa infatti è costruita secondo una prospettiva dove sovranità e diritto sono intimamente associati attraverso l'onnipresente azione della legge, di cui il giudice, almeno nell'Europa continentale, in teoria è il «servo». In Roma il diritto è concepito come preesistente al legislatore, che interviene solo a modificare e innovare singoli punti. Come si è già detto e come meglio vedremo in seguito, il suo fondamento sono i mores: il punto di partenza di tutta la storia del diritto romano. La comunità politica - l'archeologia di uno «stato» - si forma in parallelo, se non successivamente, ad essi. Il re può intervenire a regolare o a limi- tare e modificare il ruolo del pater familias nell'ambito della repressione domestica, può circoscriverne alcuni eccessi, può controllare, attraverso le curie, le modifiche artificiali nella composizione dei gruppi familiari o lo spostamento di patrimoni ereditari, o innovare qualche aspetto di pratiche tradizionali. Ma le strutture fondanti dell'ordinamento - orga- nizzazioni familiari, forme di signoria sui beni, rapporti tra individui - da cui discendevano tutti i vincoli che gravavano sui consociati, appaiono saldamente fondate su consuetudini anteriori alla città e solo marginal- mente ed episodicamente modificate dalle sue leges. L'importanza dei pontefici e il ruolo rivoluzionario del rex stanno ap- punto qui: nell'essere stati i registi del passaggio dalla pluralità di istituzio- ni «locali» ad un corpo unitario. Senza che mai, dunque, si sia immaginato che l'esistenza di questo dipendesse dall'atto normativo del sovrano, con- cepito invece come il depositario e il garante di un patrimonio ancestrale. I re etruschi Capitolo 3 1. Le basi sociali delle riforme del VI secolo Nell'incerto crepuscolo tra leggenda e ricordo che avvolge la narra- zione degli antichi intorno ai primi secoli di Roma, è abbastanza netta l'eco di una profonda frattura intervenuta con l'avvento al potere di una serie di re di origine etrusca. Le fonti non sono avare, anzi talora anche troppo circostanziate, nel delineare i caratteri di questi nuovi governanti e il profondo impatto da loro esercitato sul precedente assetto cittadino. Certamente si trattò di un momento di forte modernizzazione dell'appa- rato politico-istituzionale, tale da anticipare alcuni caratteri di quello che sarà l'impianto di fondo del successivo sistema repubblicano. Tali trasformazioni furono a loro volta rese possibili dalla crescita politica e sociale di Roma, nel corso del primo secolo e mezzo di vita. Alla fine del VII secolo essa era divenuta una delle principali città del Lazio, sia per dimensioni territoriali che per popolazione. Non più mera «sede già creata» di agricoltori e pastori, essa era alla vigilia di un nuovo salto in avanti nella sua dimensione politica, oltre che nel suo sviluppo economico-sociale. Abbiamo già accennato agli sviluppi politico-militari che avevano con- tribuito all'accentuato rafforzamento della struttura: urbana di Roma. In parallelo è da ricordare l'azione di altri fattori, dall'accresciuta importanza delle forme di proprietà individuale all'ancor più significativa espansione delle attività artigianali e mercantili. Ciò che, a sua volta, aveva coinciso con l'accentuata circolazione del bronzo come unità di misura e valore di scambio degli altri beni. Del resto è significativo che l'ulteriore fondamen- tale salto in direzione di una vera e propria circolazione monetaria, costi- tuito dalla certificazione pubblica del peso e della qualità del bronzo come bene di scambio -1' aes signatum: il «bronzo marcato» - sia associato dagli antichi al regno di Servio, al culmine della fase «etrusca» della monarchia. Così come è in questa nuova e più dinamica fase che si ebbe un notevole incremento delle grandi opere pubbliche, talché fu possibile parlare, come fece il grande filologo italiano, Giorgio Pasquali, di una «grande Roma dei 54 CAPITOLO 3 Tarquini». Ne restano tuttora importanti tracce archeologiche, dal grande tempio dedicato alla triade capitolina sul Campidoglio, sino all'ingrandi- mento della città e alla bonifica dei Fori con la costruzione della Cloaca Massima. Lo sviluppo di tutte le attività indotte da tali opere a sua volta postulava un accresciuto fabbisogno di manodopera urbana, a seguito di cui una massa crescente di popolazione, composta anche da stranieri, si dovette concentrare nella città. Tali fermenti si dovettero inserire sempre più malamente nella logica chiusa del sistema delle curie. Nuovi gruppi sociali e nuovi ceti erano infatti i protagonisti di questa stagione, non necessariamente organizzati nella forma delle gentes e sovente caratterizzati da una fisionomia più indi- vidualistica, dove rilevava maggiormente, oltre al singolo, il piccolo nucleo dellafamilia proprio iure. La prorompente economia urbana era più con- grua a mestieri e attività individuali che permettevano a singoli individui o unità familiari anche piccole, d'aspirare a uno status economico-sociale autonomo. Da un lato dovette così verificarsi una crescita complessiva degli strati sociali estranei al sistema gentilizio, e costituiti sia da un po- polo minuto, ai margini o quasi dell'economia cittadina, sia da strutture familiari abbastanza importanti per consistenza economica in grado di pretendere uno spazio autonomo nella città. Dall'altro si verificò anche un processo d'erosione della stessa compattezza delle gentes a seguito delle tendenze centrifughe di singole famiglie o lignaggi. Oltre al fatto che non di rado dovette intervenire la rottura dei vincoli di dipendenza dei clienti arcaici, sia per la loro emancipazione economica, sia per l'estinzione di alcune gentes. Tutti elementi insomma che portarono a un incremento degli organici cittadini estranei al sistema gentilizio. Sin dai tempi della monarchia latino-sabina, la società romana di- sponeva di un'organizzazione familiare straordinariamente funzionale al nuovo tipo di attività urbane (e anche a un'economia agraria fondata sulla piccola proprietà). Si tratta dellafamilia proprio iure (su cui cfr. supra, cap. 1, par. 2), la cui compattezza era assicurata dal limitato numero dei suoi componenti e dove, soprattutto, l'unità, più che su un piano orizzontale di tanti collaterali, si realizzava in senso verticale. La coesistenza e coo- perazione di più individui sotto la potestas dell'avus, era particolarmente adatta alla trasmissione di un sapere tecnico. Si pensi al modello della bottega artigiana in una società precapitalistica o ai margini della rivo- luzione industriale, dove il «mestiere» si tramandava di padre in figlio e certi gelosi segreti dell'«arte» erano appunto un valore che si ereditava, non troppo diverso dagli altri elementi del patrimonio avito. Di contro, il carattere temporaneo della potestas del capofamiglia assicurava una progressiva e limitata proliferazione di questo sapere e delle conseguenti attività, al momento della sua morte. La diffusa e articolata crescita economica dovette a sua volta contribui- re ad accentuare la separatezza tra il mondo aristocratico delle gentes e la restante cittadinanza, probabilmente esistente sin dagli inizi, ma destinata ad accentuarsi o, comunque ad apparire più evidente in età etrusca. Essa si sarebbe poi irrigidita, tra la fine dell'età monarchica e la prima età re- pubblicana, in quella distinzione tra patrizi e plebei che costituisce una I RE ETRUSCHI 57 il rapporto tra rex e ordinamento gentilizio. L'intero assetto istituzionale preesistente, costituito dall'identificazione tra ordinamento curiato, or- ganizzazione militare e strutture gentilizie fu travolto e sostituito dalla centralità della ricchezza individuale e della proprietà privata. Ma, anzitutto, va precisato cosa si intenda per «proprietà privata», in riferimento alla società romana. Giacché, secondo i principi fondanti del diritto romano validi ancora in età imperiale, il diritto di proprietà non riguardava tutti i cittadini, che pur avevano pienezza di diritti pubblici e partecipavano a pieno titolo alla vita politica cittadina. Nella sfera privati- stica - dei diritti e delle ricchezze - persisteva infatti una rigida logica pa- triarcale in base alla quale solo il pater Jamilias era il titolare di tale insieme di facoltà. Lo abbiamo già visto: i /ilii Jamilias, quale che fosse la loro età, rango e posizione pubblica, restavano privi di qualsiasi potere di carattere giuridico-economico. Proprietà privata, obbligazioni, crediti ecc. erano tutti e solo del pater. Il che accentuava le logiche gerarchiche profondamente insite nella struttura sociale romana: logiche che iniziavano, appunto, dalla sua unità di base: la famiglia nucleare. Con le trasformazioni politico-istituzionali sotto la monarchia etru- sca si realizzò il definitivo superamento delle forme tribali a favore di una nuova unità politica. Un mutamento che, diversamente da quanto ritengono vari storici moderni, non giustifica certo la soppressione della fase precedente, ma ci aiuta a intuire la ricchezza di una vicenda storica complessa e le fratture in essa intervenute. 3. Le prime riforme Direttamente collegate ai processi ora descritti appaiono le due rifor- me avviate da Tarquinio Prisco: l'ampliamento del senato e dell'organico della cavalleria. Entrambe investono il vertice dell'ordinamento cittadino, modificando e allargando la compagine aristocratica. Gli storici antichi attribuiscono a lui l'incremento del numero dei patres, da duecento a trecento, spiegandone il motivo nella ricerca di una base più forte e leale di consenso. I nuovi senatori, infatti, secondo Livio, sarebbero stati «un partito sicuro del re, per il favore del quale erano entrati nella curia». Ma, al di là di questo aspetto, è indubbio che una innovazione del genere riflettesse anzitutto il rafforzamento quantitativo dei gruppi al vertice della società romana. Questi processi di mobilità verticale, a loro volta, non erano un fatto nuovo: il cambiamento consiste nell'accelerazione improvvisa data loro da Tarquinio con questa, diciamo così, «nobilitazione di massa». A rendere memorabile la vicenda, insomma, non fu la nomina di nuovi membri del senato tratti da lignaggi o da gentes di recente formazione (o migrazione), ma la quantità: il blocco di cento casi insieme. Tant'è che esso non si fuse con i patres preesistenti, dando origine invece a un nuovo gruppo sociale, probabilmente anch'esso annoverato tra i patrizi, ma di minor rango: indicato nelle fonti come minores gentes: «genti minori». 58 CAPITOLO 3 Anche in precedenza il meccanismo delle curie e gli incerti confini fra lignaggi agnatizi e strutture gentilizie dovevano aver permesso la tra- sformazione di alcuni dei più solidi e forti gruppi familiari in nuove genti. L'indeterminatezza stessa della gens rispetto ai più stretti, e per ciò più netti, sistemi di parentela rendeva difficile evidenziare il punto di non ritorno che segnava il passaggio dalla ramificazione di un dato raggrup- pamento familiare (numericamente e socialmente rilevante) a una gens. In questo senso gli stessi fattori economici (la signoria su una data area territoriale, ad esempio), se determinanti, non appaiono però sufficienti. Questo «punto di non ritorno», a mio avviso, era rappresentato dall'inse- rimento, ad opera del rex, di un membro della nuova gens nei ranghi del senato. Quello che interviene però con Tarquinio è qualcosa di vagamente analogo, se mi si permette il paragone, all'ascesa della nobiltà napoleonica accanto a quella d'ancien régime: anche in Roma si verificò infatti il salto da una crescita graduale e circoscritta, con un ricambio fisiologico, di un gruppo aristocratico, all'elevazione in blocco di un nuovo gruppo sociale. Che la politica dei re etruschi mirasse deliberatamente a trarre tutte le conseguenze organizzative dalle migliorate condizioni economiche della città lo mostra anche l'altra riforma tentata da Tarquinio, volta ad allargare l'organico della cavalleria aggiungendo una nuova centuria di celeres alle tre già esistenti. Era evidente l'obiettivo così perseguito di rafforzare la potenza militare romana. Non può non sfuggire però che, in tal modo, tale riforma svincolava la cavalleria dal sistema delle tribù romulee, per- mettendo altresì d'inserire al vertice dell'esercito nuovi gruppi non ap- partenenti alla vecchia aristocrazia gentilizia. Dell'ostilità di quest'ultima a tale innovazione fu espressione un augure, Atto Navio, che la bloccò per motivi religiosi. Ciò tuttavia non impedì al re d'aggirare l'ostacolo, raddoppiando le tre antiche centurie di celeres. D'altra parte il rafforzamento della cavalleria non poteva dissociarsi da un più generale potenziamento della struttura di base dell'esercito: la fanteria. Anch'esso fu possibile facendo leva sull'espansione economica della città, utilizzando le ricchezze individuali, antiche e nuove, in funzio- ne di un armamento uniforme e fortemente potenziato di tutto l'organico della legione (si tenga presente che i cittadini dovevano armarsi a loro spese). Un risultato cui non poteva sopperire, per la natura della sua composizione fondata sull'appartenenza familiare e sui lignaggi, l'antico sistema curiato. È questo il problema che verrà risolto in modo affatto rivoluzionario dal successore di Tarquinio, il grande Servio Tullio. La moderna critica ha sovente dubitato della verità storica di questo personaggio o, comunque, del suo ruolo nel mutamento istituzionale di Roma. Molti elementi, oltre alla giusta cautela nei riguardi di notizie riferite a epoca così remota, hanno influito su tale atteggiamento. Tra cui l'orientamento ad associare le grandi trasformazioni storiche, più a processi graduali e corali che non a improvvisi smottamenti ingenerati da singole personalità. Tuttavia molto spesso le profonde trasformazioni intervenute nei vari sistemi sociali, con l'emergere di forze nuove e di nuove necessità sono state tradotte in mutati assetti da singole personalità in grado d'interpretare il senso del cambiamento e di canalizzarne le forze I RE ETRUSCHI 59 portanti, sovente contraddittorie e incerte, nella direzione progettata. Per questo, credo, la figura di un grande riformatore come quella di Servio fosse più difficile da inventare che da ricordare. 4. L'ordinamento centuriato Al centro della sua riforma s'impone dunque una nuova organizzazio- ne militare, in funzione di un tipo di combattimento più «moderno». La primitiva legione fornita dalle curie e costituita secondo i genera hominum, fu così soppiantata da quello schieramento oplitica che costituì, in Italia come in Grecia, la grande novità delle forme di combattimento proprie della città giunta a un adeguato livello di crescita. La sua denominazione deriva dalla parola greca oplites, che significa «armato», sottolineando la presenza di uno schieramento compatto di guerrieri dotati di armamento pesante, anche difensivo, a sostituire ormai gli antichi soldati dotati di sole armi offensive, privi di scudo e corazza. Tali trasformazioni ebbero un evidente fondamento di carattere economico non solo negli accresciuti livelli di ricchezza individuale già richiamati, ma anche negli sviluppi tecnologici, con l'aumentata produzione del metallo lavorato. Come in Grecia, anche per Roma, l'affermazione di questo sistema bellico coincise con un profondo mutamento dei rapporti sociali e politici. Entrò in crisi infatti il fondamento guerriero del predominio gentilizio. Si pensi ad esempio a un episodio così famoso come la spedizione militare dei Fabi contro Veio, distrutti presso il fiume Cremera nel 477 a.C., gestita ancora come affare privato di una gens. Questa vicenda, che rappresenta il momento finale di una tradizione che ben altro spessore doveva aver avuto in passato, vide schierati in campo tutti i membri della gente Fabia, seguiti da tutti i loro clienti. È ancora una guerra di segmenti della città che viene così echeggiata, e in cui ciascun guerriero era servito e aiutato da numerosi subalterni, armati alla leggera. Ora, con l'esercito oplitico, si ribaltava la logica antica: si accresceva l'organico dei combattenti con pieno armamento, mentre gli ausiliari restavano al margine. La nuova composizione dell'esercito presupponeva, come si è detto, una selezione fondata sulla ricchezza individuale: di qui l'esigenza di conoscenza più analitica, da parte della città, della distribuzione di questa ricchezza. Ma questo obiettivo, a sua volta, rese necessario un sistema d'inquadramento della popolazione diverso da quello basato sulle curie, la cui composizione, sulla base dei lignaggi, non rendeva trasparenti i vari livelli di ricchezza familiare. Di qui una nuova forma di distribuzione dei cittadini fondata su nuovi criteri. Con un effetto indiretto, ma gravido di conseguenze: che ormai l'individuo si trovava in diretto rapporto con la città, per quel che «valeva», anzitutto economicamente. La creazione del «cittadino» - il grande progresso della città greca e di Roma - era così perfezionato, restando un retaggio per le età future. Cittadino in quanto guerriero, però: e infatti è in funzione della nuo- va organizzazione militare che tutti gli individui vennero suddivisi in un certo numero di distretti che avrebbero sostituito le antiche curie e 62 CAPITOLO 3 osservato che l'estensione del territorio di Roma raggiungeva già una dimensione notevole, per cui non sembrano troppo incauti i calcoli che, pur considerando una densità piuttosto bassa di abitanti per chilometro quadrato, forniscono una cifra di circa 80 mila cittadini. Ignoriamo quando l'organizzazione centuriata dell'esercito si sia tra- dotta anche in una vera e propria assemblea politica (ciò che avrebbe anzitutto postulato l'integrazione delle centurie di iuniores con quelle dei seniores). Anche se non è da escludersi che questa innovazione sia intervenuta solo all'inizio della repubblica, è verosimile che già con gli ultimi re etruschi l'assemblea centuriata fosse venuta progressivamente sostituendosi agli antichi comizi curiati come fondamento reale del con- senso politico. Con la repubblica i comizi centuriati furono chiamati a eleggere i magistrati cittadini, concludendosi allora un processo avviato sin dall'età delle riforme serviane. 5. Le tribù territoriali e il censimento dei cittadini Il nuovo ordinamento centuriato dell'esercito, come s1 e visto, postulava una conoscenza analitica dei livelli di ricchezza dei singoli cit- tadini onde distribuirli nelle centurie delle diverse classi. Non a caso le fonti antiche sono unanimi nell'attribuire allo stesso Servio l'introduzione dello strumento essenziale a realizzare tale obiettivo: il censimento. La co- noscenza della struttura della cittadinanza e della relativa consistenza patrimoniale sarebbe stata infatti sufficiente a permettere la distribuzione dei cittadini tra le varie classi di centurie. Tuttavia il riordinamento della cittadinanza appare sin dall'inizio più articolato. Sempre allo stesso Ser- vio è infatti attribuita l'introduzione di un altro sistema di distribuzione della cittadinanza per tribù territoriali, in sostituzione delle vecchie tre tribù dei Ramnes, Tities e Luceres. La loro funzione, si insegna in genere, era quella di provvedere a un organico inquadramento di tutti i cittadini. Vere e proprie ripartizioni amministrative, esse dovevano fornire alle varie centurie i contingenti militari, nonché il sostentamento a loro necessario. Gravava infatti sulle tribù l'onere di un tributo: già gli antichi associavano il termine tributum a tribus. Questa forma primitiva di tassazione, riscossa dai tribuni aerarti, antichi magistrati della tribù, era commisurata all'entità delle proprietà dei singoli cives e aveva, come si è detto, precipui scopi bellici. Anche qui ci troviamo di fronte a quella che è la probabile concentra- zione di un processo storico più complesso, giacché sembrano sovrapporsi addirittura due sistemi successivi. Il primo, fondato sulla distribuzione di tutti i cittadini in quattro tribù urbane che avrebbero ricompreso non solo la cinta urbana, ma anche il territorio circostante. Immediatamente di seguito, forse sotto lo stesso Servio, alle prime quattro tribù urbane si sarebbero aggiunte le nuove tribù rustiche, realizzando una distribuzione più articolata della cittadinanza. Nelle tribù urbane restarono raggruppati solo gli individui privi di proprietà fondiaria, mentre nelle tribù rustiche I RE ETRUSCHI 63 (che all'epoca della cacciata dei Tarquini ammontavano a quindici) furono collocati i proprietari dei fondi in esse situati4 • Diventa così chiara la logica che portò al pressoché immediato passag- gio al sistema delle tribù rustiche. Solo con queste, infatti, poteva essere rilevata in modo adeguato la ripartizione della proprietà fondiaria: la base delle ricchezze individuali. Inizialmente, infatti, quando molto probabil- mente il nuovo assetto centuriato coincideva ancora con le sole centurie di iuniores, il nuovo inquadramento della popolazione avrebbe tagliato fuori proprio quei patres più anziani, titolari di quella ricchezza familiare (ricordiamoci che di essa erano esclusivi titolari i patres familias) in base alla quale i figli potevano essere inseriti in un'adeguata classe di centurie. Solo con la contemporanea distribuzione di tutta la popolazione nelle diverse tribù territoriali divenne dunque possibile rendere trasparente l'organico cittadino, identificando tutta la distribuzione della ricchezza di pertinenza delle varie unità familiari, che costituivano la base dello stesso ordinamento centuriato. In tal modo assumeva tutta la sua rilevanza l'unità familiare - quella che definirei «l'unità economica di base» del sistema centuriato - in relazione alla quale il singolo cittadino veniva collocato in una classe o in un'altra di centurie. Il che contribuiva a rendere ancora più netta la distinzione tra il mondo dei proprietari fondiari e quello, forse ancor più numeroso, dei nullatenenti, ammassati tutti nelle sole quattro tribù urbane, degradate ora a strutture pressoché residuali. Alle diciannove tribù esistenti alla fine dell'età monarchica si sareb- bero aggiunte all'inizio della repubblica, due nuove tribù. Numero desti- nato a crescere nei centocinquant'anni successivi, per raggiungere quello definitivo di trentacinque, trentuno rustiche e quattro urbane. 6. Controllo sociale e repressione penale Una delle conseguenze della stratificazione economica formalizzata dal sistema centuriato fu la quasi subitanea scomparsa di quei comporta- menti di singoli o di gruppi familiari volti ad affermare una gerarchia socia- le in forme individuali. Mi riferisco al lusso funerario, venuto totalmente meno nel corso del VI secolo. Non certo in ragione di un impoverimento della società romana: tutt'altro. Al diminuito fasto delle tombe corrispose infatti una fase di grandi spese pubbliche, con la costruzione di importanti • Mentre poi la denominazione delle quattro tribù urbane si riferiva a entità territoriali (Suburana, Esquilina, Collina e Palatina), quella delle più antiche tribù rustiche derivava dall'onomastica gentilizia (Aemilia, Cornelia, Fabia, Horatia ecc.). Questo non significa, naturalmente, che la struttura interna di codesti distretti fosse fondata sui legami gentilizi: al contrario, ho già detto che l'appartenenza ad essi era data dalla proprietà individuale della terra. È però possibile che siffatti riferimenti onomastici attestino la persistenza, all'interno di queste tribù, in aree omogenee appartenenti a gruppi compatti di proprietari della stessa gens. Del resto qualche nome di tribù trova corrispondenza nella denominazione degli antichissimi pagi, associati probabilmente a una dimensione gentilizia, in cui era ripartito il territorio della città arcaica (supra, cap. 1, par. 3). Solo a partire dagli inizi del V secolo a.C. comincerà, con la Clustumina, la serie di tribù con nomi locali. 64 CAPITOLO 3 templi ed imponenti opere urbane. Tale svolta appare piuttosto il risultato di un intervento autoritativo della città, interessata a impedire le forme più estreme di emulazione nello sfoggio di ricchezza che, alla lunga, avreb- bero potuto indebolire la stessa forza economica dei ceti aristocratici. Le prime leggi volte a stabilire un limite alle spese funerarie dovettero essere introdotte allora, venendo poi recepite nella successiva legislazione delle XII Tavole di cui è restata precisa memoria 5• Un altro e più importante settore della vita sociale in cui dovette aversi un incisivo intervento cittadino, già prima dell'epoca etrusca, fu il controllo e la gestione dei conflitti individuali pericolosi per l'ordinamento cittadino. In questo ambito l'azione del rex dovette essere più diretta e innovatrice che nel più vasto campo dei mores. Giacché l'esistenza della comunità moltiplicava, con la vicinanza, le occasioni di conflitto e, quin- di, postulava l'introduzione di forme regolate di litigio atte a evitare il confronto violento e governate da procedimenti razionali. È allora che si dovettero consolidare i primi meccanismi di una procedura civile e di regole che permettessero agli organi cittadini di accertare ragioni e torti tra i privati litiganti. Seppure ereditando criteri e valori più antichi, la città intervenne pre- cocemente anche a reprimere le condotte criminali dei singoli individui. Ciò iniziò in forma molto limitata, giacché, ancora nella legislazione delle XII Tavole, l'intervento diretto degli organi cittadini - quella che noi chia- meremmo la repressione criminale in senso proprio - era circoscritto solo ad alcune condotte particolarmente gravi. Il resto era lasciato all'ancor forte autonomia dei singoli gruppi familiari e gentilizi e alla loro capacità di autodifesa. Rispetto a cui la comunità interveniva a regolarne le forme e sancire limiti della vendetta e della reazione privata. L'autonoma presenza della città, a imporre il proprio ordine, anche nella sfera criminale, senza intervento degli interessi privati lesi, si limitava pertanto a due tipi di comportamenti: l'uccisione violenta di un membro della comunità, da un lato, le forme di tradimento o azioni dirette contro l'esistenza stessa della comunità politica dall'altro. Questi ultimi tipi di condotta sono richiamati sotto i due termini di perduellio, crimine contro l'ordine politico della civitas, e di proditio, il tradimento con il nemico, comportando entrambi la morte del colpevole. Per quanto discussa e incerta nel suo fondamento etimologico, è assai verosimile che la con- danna a morte del parricidas, sancita dalle XII Tavole, non riguardasse solo l'uccisore del proprio padre, ma anche chi avesse ucciso un qualsiasi pater Jamilias. In questi casi intervenivano per il rex i suoi magistrati, i quaestores parricidii e i duoviri perduellionis, la cui introduzione parrebbe attestare la novità di questi reati rispetto al mondo precivico. Accanto a questi casi, va ricordata una molteplicità di procedimenti repressivi di condotte asociali e dannose, in cui sovente la punizione interveniva essenzialmente sul piano della sfera religiosa, anche se con ' Del resto, a ben vedere, l'avvento del sistema centuriato, con la sua forte caratteriz- zazione gerarchica di cui ho già parlato, rendeva inutile l'affermazione individuale di una ricchezza ormai certificata dalla collocazione ai vertici di tale sistema. 68 CAPITOLO 4 Roma ebbe a fronteggiare la reazione etrusca, in appoggio ai Tarquini. È abbastanza certo che il capo etrusco di Chiusi, Porsenna, abbia con- quistato militarmente Roma, anche se questo successo non comportò la restaurazione di Tarquinio. In questo quadro fluido, è assai probabile che Roma, dopo l'espulsione dei Tarquini, per qualche tempo restasse ancora legata alla sfera d'influenza etrusca. Anche perché non si può sottovalutare il suo isolamento nel contesto laziale, a seguito della lotta delle città latine contro gli Etruschi, cui essa aveva fornito sostanziale supporto. La conservazione dell'alleanza con questi ultimi dovette pertanto risultare indispensabile per difendere la sua precedente preminenza, ora contestata dai Latini. Che tuttavia la solidità di Roma fosse ormai un fatto acquisito, lo prova la relativa rapidità con cui essa seppe reagire, anche militarmente, all'ostilità latina pervenendo a un esito sostanzialmente positivo e al rinnovo dell'antica alleanza con costoro. Il Foedus Cassianum prende il nome da Spurio Cassio, una figura di grande rilievo nei primi anni della repubblica, che, nel 493 a.C., dopo aver guidato gli eserciti romani nella guerra contro i Latini, riuscì a concludere con essi una pace duratura. Per centocinquant'anni i rapporti tra Romani e Latini furono da esso regolati. La brusca scomparsa del rex, ad opera dell'antico patriziato, aveva ridato a quest'ultimo una rinnovata preminenza di cui resta traccia evi- dente. Sino al punto che, dopo i primi anni di vita della nuova forma repubblicana, le gentes patrizie si spinsero a bloccare a proprio vantaggio l'insieme dei canali di circolazione sociale e di ascesa politica che avevano funzionato nell'età precedente e che avevano permesso la presenza in se- nato, forse già nella tarda età monarchica, di un gruppo di conscripti (gli «arruolati», evidentemente non per diritto di nascita) accanto ai patres. Questa chiusura, come non di rado è awenuto nella storia, segnò tuttavia, nei tempi lunghi, l'inizio di una crisi a danno dei momentanei vincitori. Che sin dall'inizio trovavano un limite, alla loro reazione, nell'impossibilità di un semplice ripristino della situazione anteriore all'età serviana. V'era infatti un aspetto irreversibile delle riforme serviane, su cui si sarebbero fondate a lungo le fortune della repubblica. Si trattava del nuovo ordina- mento centuriato, con il superamento dei comizi curiati (certo socialmente più omogenei al sistema delle gentes). Un ritorno alla situazione originaria avrebbe comportato un serio indebolimento dell'apparato militare in un momento di massima necessità di difesa. Egualmente difficile, per gli stessi motivi, sarebbe stato il ripristino dell'originaria figura del re-sacerdote, vanificando il rafforzato imperium dei re etruschi. L'aristocrazia gentilizia, rinunciando quindi al semplice ritorno alle origini latino-sabine, puntò piuttosto sull'ulteriore modifica delle riforme serviane. Fu, a ben vedere, un meccanismo abbastanza semplice, anche se non privo di difficoltà, quello da essa messo in atto, articolando mag- giormente - senza però depotenziarlo - il vertice del governo cittadino. La soppressione del carattere vitalizio della carica suprema di governo e il suo sdoppiamento, con i due consoli eletti annualmente, realizzarono perfettamente tale riequilibrio, salvaguardando nondimeno il forte carat- DALLA MONARCHIA ALLA REPUBBLICA 69 tere militare assunto dal comando supremo in età etrusca. In tal modo si realizzavano le premesse per un permanente spostamento del baricentro politico a favore dell'altro organo di governo: il senato. I primi cinquant'anni del nuovo assetto repubblicano sono forse il periodo più oscuro e ricco di interrogativi di tutta la storia di Roma. Non poche, ma contraddittorie e lacunose, sono le notizie che gli autori anti- chi forniscono in proposito, costringendoci così ad un pericoloso lavoro d'integrazionee di sovrainterpretazione della tradizione. Addirittura fonte d'incertezza sono quei pur così importanti elenchi di magistrati eponimi (i cui nomi, registrati in serie successive, servivano cioè a indicare l'anno della loro carica, definendo la cronologia complessiva) che hanno inizio con la repubblica. Giacché in questi «Fasti» come sono chiamati dai Ro- mani, compaiono, sino al 486 a.C. circa, accanto a nomi di consoli patrizi, anche quelli di magistrati plebei. Poi, questi nomi cessano, a conferma delle unanimi indicazioni degli storici antichi relative all'esclusione dei plebei dal consolato e dalle altre magistrature, così come dagli stessi ranghi del senato. Una svolta che un tempo si tendeva semplicemente ad annullare, ne- gando autenticità alle liste con i nomi plebei. Esse infatti smentivano una rappresentazione storica in termini di flussi lineari di eventi concordanti in direzione univoca, e che leggeva la storia repubblicana arcaica come una costante linea di crescita della plebe e non come un regresso seguito poi da una ripresa. È abbastanza verosimile, al contrario, che proprio ciò sia avvenuto e che la scomparsa di nomi plebei dai Fasti consolari corri- sponda al momento di massimo arretramento di questo gruppo di fronte alla ripresa gentilizia1• L'incertezza più grave concerne tuttavia la sequenza complessiva delle innovazioni istituzionali. Stando alle fonti (e in primo luogo ai Fasti) si dovrebbe ammettere che, con la caduta dei re, si fosse addivenuti in Roma alla nomina di un supremo collegio di due consoli sino alla metà del V secolo, quando per due anni di seguito essi sarebbero stati sostituiti da un collegio di dieci membri avente anche il compito di raccogliere e redigere il testo delle leggi romane: i decemviri legibus scribundis. D'altra parte, con la liquidazione di siffatto collegio, nel 449, il ripristino dei due consoli non sarebbe stato costante, essendo questa carica frequentemente sostituita dalla nomina di più tribuni militum consulari potestate. Sino al 367 a.C., quando si sarebbe raggiunta la definitiva parificazione politica dei patrizi e plebei, ammettendosi che uno dei due consoli - tornati a essere questi la magistratura ordinaria - potesse essere plebeo. In effetti tra questa prima fase del consolato e il definitivo assetto del 367 a.C. intercorre un periodo troppo lungo perché non sorga il dubbio che i consoli del primo cinquantennio della repubblica avessero una fi- sionomia meno chiaramente determinata di quella che tale coppia magi- Del resto, già nel senato monarchico non si può affatto escludere la presenza dei membri non patrizi (o non ancora patrizi). Non solo dei conscripti in tale epoca parlano le fonti antiche, ma vi concorda quanto da me accennato nel capitolo precedente, circa l'inserimento selettivo di nuovi membri da parte del rex. 72 CAPITOLO 4 della loro persona, originariamente affermato con una lex sacrata (un giuramento assunto collettivamente dalla plebe ma vincolante, per il suo fondamento religioso, l'intera comunità) e sempre in seguito confermato. Il punto di forza della plebe, come forza autonoma, destinato a riequilibrare l'intero impianto cittadino fu l'assemblea - il concilium plebis - organizzata sulla base della distribuzione per tribù territoriali, che votava proprie delibere: i plebisciti, ed eleggeva propri magistrati: i tribuni e in seguito gli edili. Si trattò dei primi, sebbene fondamentali, passi verso un più vasto processo di equiparazione, ancora da realizzarsi, giacché né era stato rimosso il monopolio delle cariche magistratuali, né si erano accolte le altre pretese volte a riequilibrare i rapporti di carattere economico- sociale tra i due ordini. Per il momento, il mondo plebeo costituiva ancora, con i suoi magistrati, una realtà sociale autonoma e antagonista, mantenendo un tessuto identitaria separato, con tradizioni religiose, divinità e templi suoi propri. Una separatezza confermata dalla sua risalente associazione con una propria sfera territoriale al di fuori del recinto sacrale della città: l'Aventino. La sua posizione, tuttavia, conob- be un progressivo consolidamento che permise di superare ben presto una strategia meramente difensiva. Già verso la metà del V secolo a.C. si ebbero i primi sostanziali passi in avanti nella lotta per la parifica- zione politica e sociale dei due ordini, iniziando così un più generale mutamento dell'assetto cittadino. L'accento degli antichi, in relazione al mutamento istituzionale inter- venuto con la cacciata dei Tarquini, esalta la nuova libertas repubblicana. Avremo modo di vedere quanto di ideologico e di deformato si annidi in questa prospettiva. Non si deve dimenticare del resto come gli spazi del civis, in Roma non meno che nelle altre città antiche, fossero sempre e comunque condizionati e limitati dal supremo valore costituito dalla sal- vezza e dagli interessi della città. Connaturato a tale libertas è comunque il fondamentale diritto riconosciuto a ciascun cittadino di appellarsi al popolo di fronte al potere di repressione criminale del magistrato, sino ad allora giudice ultimo sulle questioni di vita e di morte. È possibile che una prima legge in tal senso fosse approvata sin dall'inizio della repubblica, certo essa dovette essere ribadita e meglio formulata (se non addirittura introdotta allora per la prima volta) nel 449 a.C., immedia- tamente di seguito alle XII Tavole, con una legge Valeria Orazia. Con essa si vietava ai magistrati competenti di mettere a morte un cittadino romano colpevole di una colpa capitale, senza previa consultazione del popolo riunito nei comizi (provocatio ad populum). Tale normativa avrebbe altresì vietato di istituire una qualsiasi magistratura sottratta a questo potere di provocatio, concepito come una suprema garanzia per tutti i cittadini. È chiaro il particolare interesse plebeo per tale garanzia, se si considera come le magistrature contro cui si introducevano queste limitazioni fossero allora di esclusiva pertinenza patrizia. Resta però ab- bastanza incerto lo stesso numero di leggi intervenute in questo settore, il loro contenuto e la loro datazione, ciò che ha reso difficile il lavoro di ricostruzione dei moderni. DALLA MONARCHIA ALLA REPUBBLICA 73 3. Le Xli Tavole Nella memoria degli antichi, un punto di svolta nelle vicende del V secolo a.C. è costituito dal successo plebeo nell'ottenere la redazione scrit- ta dell'insieme di regole che presiedeva alla vita della città. In tal modo, infatti, veniva meno il monopolio della conoscenza e dell'interpretazione del diritto cittadino, sinora esercitato dal corpo aristocratico dei pontefici. Questa grande innovazione, che ovviamente aveva incontrato l'ostilità dei patrizi, fu resa possibile dalla defezione di una componente importante dello stesso patriziato. Ciò avvenne quando il capo dell'autorevole gens Claudia, Appio, si schierò a favore di tale richiesta, assumendo un ruolo centrale nei successivi sviluppi. Per l'anno 451-450 a.C. al posto della normale coppia consolare si deliberò così d'istituire un collegio di dieci membri - i decemviri legibus scribundis che ho sopra menzionato -, con il compito, oltre all'ordinario governo della città, di leges scribere, di redigere per iscritto le leggi della comunità cittadina. Appio Claudio fu chiamato a presiederlo. In questa svolta giocava anzitutto una più matura aspirazione a quella certezza che solo la norma scritta può dare rispetto a formule di carattere consuetudinario, e che appare costantemente riproporsi nel corso della storia. Ma forse dovette affiorare allora anche una prospettiva nuova, che tendeva a ridefinire la stessa concezione romana del diritto. Alla preminenza originaria dei mores ancestrali, affidati al sapere e alla memoria di specialisti, si sostituiva l'idea della centralità della legge scritta, formalmente approvata dalla comunità politica. Un'idea affine, per tanti versi, alle concezioni proprie del mondo greco cui, non a caso, la tradizione antica ricollegava la stessa redazione delle XII Tavole. Il valore irreversibile del testo scritto e di una legge «eguale» per tutti i cittadini e accessibile a tutti era infatti, di per sé, una nozione nuova nell'esperienza romana. D'altra parte, che tale svolta andasse forse al di là della stessa pur centrale questione del controllo della sfera giuridica, mi sembra attestato dal fatto che ai dieci membri del collegio fossero attribuiti, secondo le fonti antiche, poteri assoluti e sottratti alla provocatio che limitava invece l'imperium dei magistrati ordinari. In ragione di ciò si può forse avanzare un'interpretazione del ruolo di questo collegio in parte diversa da quella tradizionalmente riconosciutagli. Si può infatti almeno sospettare che il decemvirato, andando oltre l'immediato compito di raccogliere e redigere per iscritto il diritto di Roma, tendesse ad affermarsi come organo generale di governo della città e delle sue leggi4 • Lo coglie Livio (3.33.1), a mio giu- dizio, allorché parla di un mutamento della/orma della città: l'immagine stessa della città. Affiorava così la possibilità di una totale rifondazione 4 Non solo esso sostituiva la coppia consolare, ma comportava anche la sospensione di ogni altra magistratura, compresi i tribuni della plebe. Si adombrava una nuova e più forte unità di governo che, d'altronde, con l'ammissione anche di plebei in questo collegio, allorché esso venne rinnovato per un nuovo anno, anticipava la parificazione politica dei due ordini. 74 CAPITOLO 4 della comunità, con un'integrazione sociale più radicale di quella possibile per la città patrizia delle origini. Dove emergeva la tendenza, non solo ad assicurare una conoscenza pubblica delle norme, ma a sperimentare un nuovo sistema di governo, e a realizzare anche un nuovo modo di forma- zione del diritto. Ali'antico sapere pontificale, filtrato all'interno di un sistema sociale chiuso, e fondato sull'idea di un «diritto» non direttamente dipendente dall'azione e dalla volontà degli organi cittadini, ma a loro in gran parte preesistente, parrebbe contrapporsi un'opposta concezione. La tradizione, se è univoca intorno alla redazione delle XII Tavole, ap- pare però immediatamente oscurarsi nella rappresentazione delle vicende successive. Sappiamo che, con la rielezione nel secondo anno di carica, per completare la redazione delle Tavole della legge, il collegio, sempre presieduto da Appio Claudio, fosse stato integrato da elementi plebei. Una svolta importante a favore della plebe, resa tuttavia incomprensibile dalla fisionomia tirannica e antiplebea attribuita dagli antichi ai nuovi decemviri e, adesso, allo stesso Claudio. Come già era avvenuto nel caso dell'espulsione dei Tarquini da Roma - associata all'aggressione sessuale di Lucrezia, moglie di Collarino (che sarebbe stato eletto insieme a Bruto membro della prima coppia consolare) da parte del figlio di Tarquinio il Superbo, con il conseguente suicidio dell'oltraggiata - anche la crisi del decemvirato, con la correlata catastrofe politica e la morte del decemviro Appio Claudio, è legata alla violenza da questi arrecata a una fanciulla plebea, Virginia. Ma anche in tal caso la vicenda romanzesca cela una crisi politica. Senza fermarci ad analizzare le contraddizioni della tradizione anna- listica5 (perché proprio l'esponente patrizio determinante per il successo plebeo e sotto la cui guida si era verificato l'accesso dei plebei al decem- virato, Appio Claudio, viene all'improvviso indicato come il massimo nemico della plebe? E perché poi proprio il secondo collegio decemvirale, più «popolare» del primo, composto com'era da patrizi e plebei insieme, sembra andare contro gli interessi plebei?), penso sia opportuno con- centrarci sul nucleo di verità che può celarsi dietro la caduta di Claudio. Che, ancora una volta, credo si possa cercare in uno degli elementi carat- teristici della rappresentazione che la parte aristocratica ha sempre dato della libertas repubblicana. Questa libertas, riferita essenzialmente alle consorterie aristocratiche ed all'eguaglianza gelosamente coltivata al loro interno, non assume infatti connotazioni di carattere democratico e ancor meno si associa ad una generale eguaglianza politica6 • Le personalità che in qualche modo tendono a sottrarsi alla compattezza del sistema aristo- cratico, sin dall'inizio della storia repubblicana, sono sempre indicate con caratteri di tiranni. L'oligarchia al potere imputa loro la massima colpa verso la libertas repubblicana: l'aspirazione al regno, l'ad/ectatio regni. Sarà questo lo strumento per colpire ogni personalità che devii eccessiva- 5 E non solo annalistica: non meno oscuro del lungo racconto di Livio (3.33-57), è anche il testo del giureconsulto Pomponio, in D. 1.2.24. 6 Solo in termini negativi essa si riferisce a tutti i cittadini, essendo intimamente associata alla provocatio. DALLA MONARCHIA ALLA REPUBBLICA 77 fu la legislazione decemvirale e l'interpretazione successiva a introdurre in seguito più o meno ampi correttivi e fattori di elasticità alla pesante auto- rità del pater /amilias. Li cogliamo nel meccanismo ideato per rompere la potestas del pater, mediante una particolare applicazione della mancipatio. Ma ancor più importante, sotto tale profilo, appare il superamento del sistema oppressivo e rigidamente patriarcale costituito dal matrimonio cum manu che necessariamente assimilava la moglie alla condizione di una figlia di famiglia sottomessa alla piena potestà del capofamiglia8• In linea di massima il sistema giuridico adombrato dalle XII Tavole, per ciò che del loro contenuto è a noi pervenuto, corrisponde a una società agraria relativamente stabile. Al centro di esso si pone coerentemente la figura della proprietà fondiaria. Le regole giuridiche non favoriscono tanto l'isolamento del singolo proprietario, ma la sua integrazione in un coerente assetto territoriale, volto a massimizzare i vantaggi a favore di tutti i fondi interessati. Questo contesto istituzionale, a sua volta, rese pos- sibile l'inizio di quella singolarissima e ampia riorganizzazione territoriale fondata sulla centuriatio (cfr. infra, cap. 6, par. 2), volta ad assicurare, con la conservazione del reticolo di unità fondiarie, un adeguato sistema di viabilità locale e un efficace controllo delle acque, sin da allora pericolose per la preservazione delle culture. I beni in proprietà erano distinti in due categorie diverse, le res mancipi e nec mancipi, sottoposte a un diverso regime di circolazione. Per le prime - in generale le cose più importanti in un'economia primitiva, anzitutto gli immobili, ma anche gli animali da lavoro e gli schiavi - il trasferimento della proprietà era possibile solo attraverso l'impiego di una forma negoziale particolarmente solenne e che coinvolgeva la presenza di una pluralità di testimoni: la mancipatio. Ancor più importante è la presenza dell'usus con cui una situazione di fatto, durata uno o due anni, si trasformava in un vero e proprio diritto, sanando, anzitutto, gli eventuali vizi intervenuti negli atti di trasferimento della proprietà e, in particolare, della mancipatio. È questo un esempio molto importante delle innovazioni che l'interpretatio pontificale aveva introdotto in funzione della massima certezza del diritto. Non può infine meravigliare, in una società piuttosto statica ed in cui lignaggi e appartenenze familiari e di clan erano ancora così importanti anche sotto il profilo istituzionale (ma la loro rilevanza sociale e politica non verrà meno neppure in seguito), che il sistema della successione dei fa- miliari nel patrimonio del defunto fosse ben disciplinato. Anche se appare addirittura singolare la grande libertà riconosciuta al pater di disporre del suo patrimonio mediante testamento: qui l'esaltazione del potere paterno era gravida di conseguenze sotto il profilo dei rapporti sociali. Nel secolo e mezzo successivo all'introduzione di questa legislazio- ne, l'interpretazione dei pontefici, oltre che dei magistrati competenti a regolare i processi tra i cittadini, contribuì a sviluppare nella pratica un'applicazione sempre più innovativa e ampia delle regole decemvirali, 8 Ciò avvenne mediante l'escogitazione pontificale del trinoctium: una convenzionale interruzione del matrimonio, mediante l'assenza della moglie per tre notti dalla casa del marito, che serviva a impedire l'acquisto su di essa della manus mediante l'usus. 78 CAPITOLO 4 adattandole alle esigenze di una società in trasformazione9• Spesso dagli storici questo lungo periodo di gestazione di un sistema giuridico più mo- derno è stato trascurato, con il risultato di concentrare nell'età dei grandi mutamenti culturali e istituzionali, successiva alle guerre annibaliche, gli inizi di un «più moderno» sistema giuridico. In tal modo però si trascura la precedente ricchissima fase di sperimentazione che la crescita di una società, come quella romana, già richiedeva. 4. La conclusione di un percorso Si è già accennato ad alcune delle tappe della lenta ripresa plebea: l'istituzione dei tribuni, tra il 494 e il 471 a.C., quando la loro elezione fu deferita con una lex Publilia ai comizi tributi (su cui cfr. infra, cap. 5, par. 4), la legislazione decemvirale, intervenuta nella metà del secolo, le coeve leggi Valerie Orazie, a conferma del diritto di provocatio dei cittadini, sino infine alla lex Canuleia di pochi anni successiva. Aveva così inizio la lunga e abbastanza frammentaria sperimentazione istituzionale con la frequente sospensione della coppia consolare. Onde evitare d'irrigidirsi in una sem- pre più difficile esclusione dei plebei dal consolato, soprattutto nei periodi di loro massima pressione, si preferì infatti sospendere la nomina di tali magistrati, anche forse in ragione di esigenze militari che richiedevano un numero di magistrati cum imperio maggiore della sola coppia consolare. Così, non di rado, nel periodo che va dal 444 al 368 a.C., al posto dei con- soli, si deliberò d'attribuire l'imperium consulare agli ufficiali delle legioni: i tribuni militum, eletti in numero variabile da tre a sei. Questo imperium era di rango e forza minore di quello dei consoli, tant'è che essi potevano convocare il senato solo in via eccezionale, alla scadenza dalla carica aveva- no un rango inferiore a quello degli ex consoli ed erano esclusi dal trionfo. Che in tal modo si accentuasse comunque l'erosione della supremazia patrizia, lo mostra il fatto che, verso la fine del secolo, a tale carica vennero eletti anche elementi plebei. D'altra parte questo meccanismo rispondeva anche all'esigenza di articolare maggiormente il governo cittadino. Un'e- sigenza oggettiva, come mostra un'altra rilevante innovazione, costituita dall'introduzione, verso il 442 a.C., della censura. Si trattava di una nuova e importante magistratura preposta alla delicatissima funzione di effet- tuare il censimento della città. Sin dall'inizio dovette definirsi la netta separazione tra le funzioni del censore e il ruolo di governo dei magistrati cum imperio, destinata a persistere nel corso di tutta la repubblica. Il secolo si chiudeva dunque con sostanziali progressi verso l'equi- parazione politica dei due ordini, mentre restava immutato il monopolio patrizio sulle terre pubbliche e addirittura aggravato il problema dell'in- 9 Ciò è chiaramente indicato da Pomponio in D. 1.2.2.5: «Approvate queste leggi [le XII Tavole] [... ] cominciò ad essere necessaria la discussione nel foro. Questa discussione e questo diritto che, senza essere fonte scritta, venne messo insieme dai giuristi [... ] è chiamato con il nome comune di ius civile». Dove per «diritto scritto» si intende l'esistenza di un testo redatto in modo formale e con carattere ufficiale come, appunto, una legge. DALLA MONARCHIA ALLA REPUBBLICA 79 debitamento degli strati più poveri della plebe. È qui, però, che negli anni immediatamente successivi intervenne la svolta destinata a far superare questi nodi, che avevano avvelenato la vita della città sin dalla caduta dei Tarquini. Nel 396 a.C. si concluse infatti vittoriosamente l'annoso tenta- tivo di Roma di conquistare militarmente la potente città etrusca di Veio, che bloccava la sua espansione verso il Nord. Questa vittoria fu seguita immediatamente dall'acquisizione dei territori intermedi, e dall'espan- sione anche verso il Lazio meridionale, assicurata dalla vittoria, peraltro tutt'altro che facile, sulla bellicosa popolazione ivi insediata, i Volsci. Così, in pochi anni, cadde in mano romana un enorme e ricco patrimonio fondiario, che portò in pratica a raddoppiare il precedente ager Romanus. Tutto ciò ebbe a riflettersi positivamente anche sul lungo stallo che aveva caratterizzato la lotta fra patrizi e plebei in ambito sociale ed eco- nomico. L'assegnazione a tutti i cittadini romani di un appezzamento di sette iugeri (circa due ettari) ricavati dalle terre strappate a Veio attenuò l'interesse plebeo per la redistribuzione dell'antico ager publicus, al centro della costante e quasi ossessiva rivendicazione che attraversa tutto il V secolo. Ma questa stessa redistribuzione di ricchezza alleggerì anche la pressione esercitata, sugli strati più deboli, dai processi d'indebitamento: l'altro punto centrale delle rivendicazioni plebee. Si noti che questa mo- dalità di distribuzione della terra veiente comportò l'acquisizione per le varie famiglie di un multiplo dei sette iugeri assegnati a ciascun cittadino. I vari lotti assegnati ai cittadini in età adulta, ma ancora sotto la potestas del padre tuttora vivente, venivano a sommarsi nelle mani di quest'ultimo dando origine, nel caso di famiglie abbastanza numerose, a unità fondiarie di notevoli dimensioni. Il riassetto interno avviato con le distribuzioni di terra veiente aprì un processo destinato a concludersi circa trent'anni dopo. È in quell'epoca che le basi economiche della società romana si allargarono in misura consistente, innescando un notevole processo d'espansione della proprietà agraria, ma anche di quei meccanismi finanziari e mercantili che avrebbero reso possibile, a partire dalla fine del secolo, una nuova fase, sia in termini meramente militari, sia con una vasta politica di opere pubbliche. Sotto questo profilo non sembra aver avuto grandi effetti l'infortunio intervenuto con l'aggressione vittoriosa dei Galli che giunsero, intorno al 390 a.C., ad espugnare e incendiare la città, in una delle improvvise e ripetute incursioni di popolazioni nordiche verso le ricche terre dell'Italia centrale. Con il loro subitaneo ritiro, rapidissima fu la ripresa di Roma, su cui pesava tuttavia l'esigenza sempre più acuta di assicurare un ulteriore ricompattamento interno. I tempi erano ormai maturi per un grande compromesso politico tra le due forze contrapposte, mentre i nuovi livelli di ricchezza modificavano rapidamente gli assetti interni. Nel 367 a.C. furono così approvate tre distinte leggi che, dai magistrati proponenti, sono ricordate come le leggi Licinie Sestie. Nella memoria storica dei Romani esse appaiono come un fondamentale punto di svolta nella lunga vicenda della lotta patrizio-plebea con il quale la plebe con- seguì gran parte degli obiettivi principali che si era prefissi, sia sul piano politico che economico-sociale. Ciò non vuol dire che si attuasse così, in 82 CAPITOLO 4 Capitolo 5 1. Il consolato e il governo della città Nel considerare il quadro istituzionale della città repubblicana (le magistrature, il loro funzionamento ed i meccanismi di governo), si deve tener conto di un suo carattere di fondo che lo rende abbastanza estraneo alle nostre moderne idee in terna di costituzioni politiche. A qualificarne infatti in modo del tutto peculiare la fisionomia, non era solo l'assenza di una «costituzione» scritta, con quel tanto di sistematico e di coerente, in termini di disegno organizzativo, ad essa necessariamente associato. Giocava in tal senso anche la natura delle singole leggi che, di volta in volta, avevano introdotto nuove figure di governo o nuovi compiti e regole per le magistrature già esistenti. Per il loro carattere ellittico ne restava infatti abbastanza indeterminata la portata specifica e lo stesso contenuto, mentre poi non di rado erano poco precisati gli stessi criteri applicativi. Di qui l'enorme importanza della successiva interpretazione e delle pratiche applicative che regolarono interi settori dell'apparato politico, senza oppure oltre la norma. Di qui anche gli spazi per una possibile rimes- sa in discussione di criteri già seguiti, allontanandosi, in certe circostanze, da consuetudini e da regole variamente enunciate, senza che scattasse una impossibilità assoluta. Che del resto solo un'inesistente e per i Romani inconcepibile superiore istanza - qual è, nel mondo moderno, un giudizio di costituzionalità o di legittimità - avrebbe potuto rendere effettiva. Si tratta di un modo di essere dell'ordinamento romano non sempre adeguatamente interpretato dai moderni. In effetti costoro, quanto più sono stati influenzati dal nostro modo di concepire uno «stato» o una «co- stituzione», tanto più si sono addentrati in una contraddizione insuperabi- le. Tutta la loro formazione li ha infatti spinti a interpretare l'ordinamento romano secondo un disegno unitario, come un insieme complesso, ma coerente, di competenze e di reciproci confini tra le varie figure e organi della repubblica. Ma questa stessa tradizione di studi non ha poi potuto evitare di cogliere il continuo susseguirsi di lacune e contraddizioni, in questa realtà, dove si evidenziava di volta in volta il mancato rispetto 84 CAPITOLO 5 dell'una o dell'altra regola. Talché, pur potendo annoverare contributi di straordinaria importanza, i nostri studi non sembrano essere riusciti a realizzare l'obiettivo, così insistentemente perseguito, di pervenire a un disegno costituzionale di Roma tanto solido quanto coerente. Non solo per ovvi limiti di spazio, ma anche per questa consapevo- lezza, mi limiterò dunque a indicare il nucleo centrale delle competenze riconosciute a ciascun organo della repubblica e che, in genere, si è con- servato e perfezionato nel tempo. Partendo dalla figura dei consoli, che abbiamo visto probabilmente già presenti all'inizio della repubblica, ma riaffermati compiutamente solo nel 367 a.C. A questa coppia di magistra- ti, al vertice dell'intero assetto di governo della città, era dunque conferito il supremo potere di comando, indicato come imperium, sovrastante al potere di ogni altro magistrato. Si è già accennato al carattere collegiale di questa carica, la cui durata, come in genere per tutte le magistrature repubblicane, era annuale. I consoli inoltre, come si è già detto, sono magistrati eponimi. Già sappiamo come l'antica figura del rex presentasse intimamente fusi in sé due fondamentali aspetti: un ruolo politico-militare, ed uno religioso che si esprimeva nella sua inauguratio, e nella legittimazione a interrogare la volontà degli dei, mediante gli auspicia. Con la sua scompar- sa i Romani ne preservarono i principali aspetti religiosi in capo a quello che potremmo indicare come un «fossile istituzionale»: il rex sacrorum, in posizione eminente ma formale all'interno del collegio pontificale. In tal modo fu possibile svincolare l'arcaica dimensione religiosa del rex inauguratus dalle nuove cariche repubblicane. Si completava così quel processo, diciamo così, di «laicizzazione» del governo cittadino che io credo fosse già avviato sotto i re etruschi (di cui si può dubitare che fos- sero essi stessi inaugurati). Anche ora, però, per i titolari dell'imperium, come per tutti gli altri magistrati, continuava a sussistere un aspetto della sfera religiosa non disgiungibile dalla vita politica e militare: il potere/ dovere di interrogare la volontà degli dei prima di intraprendere ogni azione pubblica. Tutti costoro, i consoli anzitutto, prima di qualsiasi azione rilevante dovevano prendere gli auspicia per ricercare questa volontà e interpretarla. L'imperium consolare era poi distinto, a seconda che fosse esercitato all'interno della città a governare la comunità politica e la vita dei suoi membri (imperium domi), o che si sostanziasse in un comando militare, al di fuori della città (imperium militiae). Una serie di limitazioni introdotte gradualmente a circoscrivere l'esercizio dell'imperium domi sui cittadini non poteva applicarsi o si sarebbe applicata in misura minore in relazione all'imperium militiae. Ciò concerne anzitutto il diritto dei cittadini di ap- pellarsi al popolo contro la repressione esercitata dai magistrati, nonché il potere di veto esercitato dai tribuni della plebe (cfr. supra, cap. 4, par. 2). Tra i poteri dei consoli, peraltro, non rientrava quello di decidere della guerra, essendo ciò di competenza dei comizi centuriati: era però loro compito provvedere all'arruolamento dei cittadini, previa decisione del senato, e, successivamente, dirigere la campagna militare, anche qui con la supervisione del senato. In funzione della necessità di assicurare la IL COMPIUTO DISEGNO DELLE ISTITUZIONI REPUBBLICANE 87 2. Il pretore e le altre magistrature Accanto e sotto i consoli, la figura più rilevante e destinata a gio- care un ruolo di primaria importanza nella storia giuridica romana fu sicuramente quella del pretore, a cui venne deferita la giurisdizione sui processi tra i privati. Questi era, come i consoli, titolare del supremo potere di comando - l'imperium - benché gerarchicamente inferiore ad essi: esposto quindi alla loro intercessio, ma incapace di interporre contro di loro la propria. Nondimeno anche il suo imperium lo legittimava, se necessario, a esercitare il comando militare, ciò che avvenne abbastanza di frequente, dati i crescenti impegni militari di Roma e il moltiplicarsi degli scenari di guerra. La funzione primaria del pretore era riferita peraltro alla sfera proces- suale e per questo è indicata con un termine specifico: iurisdictio, da ius dicere: «dire il diritto», un termine destinato a una lunga vita nella nostra storia. Si tratta di una funzione destinata a innovare profondamente gli spazi tradizionali della vita giuridica, sinora segnati dalla dialettica tra la legge, esaltata dal valore di riferimento delle XII Tavole, il carattere consuetudinario dei mores e l'interpretatio pontificale. La sua iurisdictio si sostanziò essenzialmente nel controllo delle procedure e nella verifica della legittimità delle pretese in conformità a quello che era il diritto vigente. Nell'esercizio di questa sua competenza si dovette precocemente verifi- care un fenomeno che avrebbe reso possibile una straordinaria evoluzione e maturazione delle forme processuali e giuridiche romane: la separazione tra il ruolo del magistrato e la valutazione della verità dei fatti materiali su cui si fondava l'opposta pretesa dei litiganti. Nel sistema processuale, diviso in due fasi, la sentenza che decideva della causa era lasciata ad un giudice privato, in base al previo accertamento da parte sua dei fatti ri- chiamati dalle parti. Il loro preliminare inquadramento nell'ambito degli schemi giuridici su cui doveva fondarsi la decisione giudiziale, tuttavia, non era di sua competenza, ma di stretta pertinenza del pretore. E da questa impostazione avrebbero preso significato i fatti stessi addotti in giudizio. Tale scissione era destinata a facilitare una sempre più autonoma elaborazione delle categorie giuridiche di riferimento da parte del magi- strato giusdicente. A condizione, tuttavia, che si attenuasse la rigidità del più antico sistema processuale per legis actiones. In esso infatti, lo stretto formalismo imposto alla condotta processuale dei litiganti, la rigida prede- terminazione delle pretese adducibili in giudizio e la fissità delle formule (e dei contenuti legali cui essi si riferivano) che le parti e il magistrato do- vevano recitare, lasciavano poco spazio al suo ruolo innovativo. A partire almeno dalla seconda metà del III secolo, se non da prima, vennero però creandosi nuovi spazi d'intervento per tale magistrato, che progressiva- mente poté emanciparsi dai vincoli delle legis actiones, sino ad elaborare un sistema processuale molto più elastico, a tutela di una più ampia gamma di rapporti giuridici (ius honorarium), che si venne definendo in parallelo all'antico ius civile (cfr. infra, cap. 8, parr. 2 s.). Nel compiuto disegno istituzionale del 367 a.C., al vertice del governo cittadino non vi sono solo le magistrature cum imperio che abbiamo ora 88 CAPITOLO 5 • considerato e la figura dei censori, pure, come sappiamo, privi d'imperium. Al di sotto di queste figure si collocano le magistrature minori, con fun- zioni più circoscritte e munite di una semplice potestas che ne legittimava l'azione. La diversità di rango si rifletteva altresì sugli auspicia da loro espe- riti nell'assolvimento della carica. I magistrati cum imperio erano infatti titolari degli auspicia maiora, mentre i magistrati minori, cum potestate, avevano gli auspicia minora. I magistrati cum imperio, poi, si avvalevano, nell'espletamento delle loro funzioni, di un consilium di carattere privato, composto da amici e cittadini autorevoli, che contribuiva comunque a rafforzare l'autorità e l'efficacia della loro azione. Passando a considerare questi magistrati minori, ricorderemo anzi- tutto alcuni che abbiamo già incontrato nell'ultima età della monarchia, come i duoviri perduellionis e i quaestores parricidii, competenti per la repressione dei maggiori crimini. Ma assai più importanti per l'artico- larsi delle loro competenze, in un diretto rapporto di collaborazione con i consoli, furono i quaestores. Introdotti in numero di due, alla fine del IV secolo furono elevati a quattro e, infine, nel 267 a.C., durante la prima guerra punica, raddoppiati a otto. Non a caso questi nuovi quattro questori furono preposti al controllo delle coste e all'allestimento della flotta. La competenza principale di tali magistrati riguardava gli affari civili e, anzitutto, l'amministrazione delle finanze statali, in collaborazione con i censori, e sotto le direttive del senato. Ma, come vedremo, questa figura fu utilizzata per una molteplicità di ulteriori incombenze, tra cui, in seguito anche per collaborare con i governatori provinciali (cfr. infra, cap. 9, par. 2). Nel comando dell'esercito continuarono ad avere un ruolo di «uf- ficiali superiori» i tribuni militum: alcuni di diretta nomina dei consoli, altri eletti dai comizi2 La loro continua crescita numerica, sino a un totale di ventiquattro, attesta nel modo più immediato il formidabile incremento della macchina militare romana, anche se non sempre tutti i tribuni militum prestarono effettivamente servizio nelle legioni. Le nuove esigenze intervenute con il primo scontro con Cartagine, sono inoltre all'origine dei duoviri navales, preposti al comando della flotta allora creata. Si tratta però di una magistratura che non divenne permanente nel sistema romano. Abbiamo già visto, nel precedente capitolo, come una delle prime e più importanti acquisizioni dei plebei fosse stata l'integrazione, nell'as- setto repubblicano, di una loro magistratura: i tribuni della plebe. Si è già accennato alla loro fisionomia, che potremmo definire in termini di un «contropotere» nei riguardi dello stesso sistema istituzionale - magistrati e senato - in funzione della difesa degli interessi dei plebei (auxilium praestare). Per quanto concerne gli strumenti d'azione di cui disponevano, essi, oltre al potere d'intervento e di sanzione contro gli autori di con- dotte dannose a carico dei plebei (multae irrogatio), potevano, come si è già visto, interporre l'intercessio contro qualsiasi iniziativa magistratuale 2 L'esercito continua ad essere organizzato per legioni che restano la struttura fonda- mentale dello schieramento militare romano. IL COMPIUTO DISEGNO DELLE ISTITUZIONI REPUBBLICANE 89 (supra, cap. 3, par. 2). Senza considerare un'ancor più pericolosa facoltà consistente nella summa coercendi potestas, con cui il tribuno, pur privo di imperium, poteva giungere a uccidere il trasgressore delle leggi sacrate, compreso qualsiasi magistrato repubblicano, senza l'ostacolo della pro- vocatio, o comminargli la consacrazione dei beni. Torneremo più avanti (infra, par. 4) sull'altra loro facoltà di convocare la plebe in assemblea, organizzata per tribù territoriali, onde far approvare delibere comuni (ple- bei scita). Essa infatti fu determinante nell'avviare una profonda modifica dell'organizzazione comiziale romana. L'originaria natura rivoluzionaria della lotta da cui era scaturita l'isti- tuzione dei tribuni si rifletteva nella persistente loro estraneità al sistema dei magistrati preposti al governo della città e, conseguentemente, alla logica del cursus honorum (cfr. infra, cap. 7, par. 1). La stessa funzione di difesa della plebe ad essi affidata, vincolava poi l'azione e persino la persona dei tribuni all'interno della sfera cittadina, essendo loro precluso di allontanarsi da Roma, anche solo per una notte. Altri magistrati plebei erano gli edili della plebe, con compiti organiz- zativi all'interno della città. Sul loro modello, in seguito, furono introdotti gli edili curuli (dal particolare tipo di sedile, la «sella curule», di spettanza dei magistrati romani), appartenenti invece alle magistrature cittadine, con il compito di sovrintendere alla vita materiale ed economica della città, dai mercati alla viabilità, dalla polizia all'igiene ed alle cerimonie pubbliche, nonché, in seguito, ai giochi pubblici. Il controllo dei mercati ebbe rilevanza particolare, giacché era finalizzato anzitutto a garantire un adeguato approvvigionamento dei beni di prima necessità, e si estendeva ad esercitare anche una costante sorveglianza sull'andamento dei prezzi. A tal fine gli edili furono titolari di una limitata giurisdizione sui mercati e le transazioni cittadine, emanando propri editti cui si rivolse anche l'attenzione dei giuristi. Un'innovazione ancor più importante era stata, nel 442 a.C., l'introdu- zione dei censori (o, forse, all'inizio, di due tribuni militum con funzioni censorie) che riprendeva, isolandola, una funzione già dei re etruschi e dei primi consoli3. In effetti la redazione del censimento della popolazione non si limitava ad una mera «fotografia» della cittadinanza romana, in quanto nella redazione della lista del censo i censori avevano un effettivo potere di controllo e di modifica delle situazioni date. Il censimento distingueva anzitutto i cittadini dagli stranieri e dagli schiavi e, tra i cittadini, i nati liberi - gli «ingenui» - dagli schiavi manomessi: i «liberti». Ciascun cit- tadino era associato alla sua famiglia e collegato alla proprietà fondiaria di pertinenza di questa, che ne definiva anche la sua collocazione in una delle varie tribù territoriali e in una delle cinque classi di censo. Con la lectio senatus (la redazione della lista dei senatori) s'inserivano nuovi nomi, tra i membri del senato, a riempire i vuoti verificatisi nel quin- 3 Liv., 4.8.2: «una carica modesta, all'inizio, ma che in seguito acquistò tanta impor- tanza da far dipendere la vigilanza sui costumi e la condotta dei Romani; ed erano in suo potere la distinzione di ciò che tornasse a onore e a disonore del senato e dei cavalieri, il diritto di sorvegliare le proprietà pubbliche e private, le entrate del popolo romano». 92 CAPITOLO 5 strati a presentare una proposta ai comizi5 Il mutamento aveva lo scopo di svincolare il potere legislativo del comizio dal successivo controllo del senato, ridotto ora a esercitare solo un filtro preventivo, pur continuan- do ad esercitare un'influenza indiretta sulla formulazione proposta dal magistrato ai comizi. Il suo ruolo di propulsore e ispiratore dell'intera politica romana, nel corso di tutta la repubblica, nonché il suo funzionamento come stanza di compensazione delle opposte linee politiche e di governo, si espres- sero soprattutto attraverso l'opera di assistenza e di consulenza prestata all'azione di governo dei magistrati superiori. Consulenza non meramente facoltativa, giacché il «consiglio» non lasciava molti margini alla libertà d'azione del magistrato stesso. Questo appare evidente soprattutto in certi settori particolarmente delicati e importanti come la politica estera, le scelte tra la guerra e la pace, i problemi e gli affari di carattere reli- gioso, la gestione delle entrate e delle uscite. In questi settori si affermò infatti una prassi consolidata, che vincolava sostanzialmente l'azione del magistrato, prima, a chiedere il consultum del senato, e poi a seguirne l'orientamento. Un valore affatto strategico nel gioco politico era poi l'altro privilegio di tale organo: quello di approvare la selezione dei candidati alle varie cariche magistratuali effettuata dai magistrati in carica. Quanto alla gestione delle risorse finanziarie, l'aerarium populi Ro- mani, occorre ricordare come - attraverso le istruzioni date ai questori che ne furono lo strumento operativo ed agli stessi censori, per quanto di loro competenza - sia le spese ordinarie ed eccezionali, che il sistema delle entrate restarono sempre sotto il diretto controllo di tale organismo. Esse consistevano nel tributo ordinario che, sino al II secolo a.C., quando tale imposizione fu sospesa, si commisurava alla ricchezza, anzitutto fondiaria, di ciascun cittadino, oltre al prelievo dei diritti di dogana su un insieme di merci trasportate soprattutto via mare. Altri cespiti importanti derivavano poi dal prezzo degli appalti per lo sfruttamento dei beni pubblici: le terre, i pascoli, le miniere e le saline. Il sostanziale monopolio del senato nell'impostazione e indirizzo delle linee di governo derivava dal carattere strettamente temporaneo delle cariche magistratuali. Nel corso di un anno (la durata ordinaria di esse), una politica di lungo respiro negli affari interni non poteva certo essere impostata e realizzata e tanto meno poteva esserlo un'efficace politica estera: fatta di trattative, di accordi, di intrecci di relazioni costruiti nel tempo. È pur vero che il fatto che, sovente, gli stessi personaggi fosse- ro nuovamente eletti ad altre cariche nel corso di un periodo di tempo relativamente ristretto, rendeva possibile la presenza di consistenti stra- tegie politiche. Ma è altrettanto vero che la sponda inevitabile e il luogo di dibattito e di orientamento, oltre che la memoria storica delle scelte già intraprese e la stanza di regia delle strategie di lungo periodo della politica romana, non poteva che essere il senato. Fu un aspetto che si 5 Particolarmente importante, in tal senso, fu una delle leggi Publiliae Philonis, del 339 a.C.: cfr. Liv., 8.12.5. IL COMPIUTO DISEGNO DELLE ISTITUZIONI REPUBBLICANE 93 definì compiutamente con il superamento definitivo del conflitto patrizio- plebeo. Allora la compattezza del nuovo blocco di governo romano trovò piena e duratura espressione all'interno di tale consesso, che almeno sino ali'età dei Gracchi, avrebbe diretto la politica cittadina senza sostanziali opposizioni. Esso, nei secoli di splendore della costituzione repubblicana, riuscì ad assicurare coerenti e durevoli linee direttive nella politica interna ed estera, talora non senza forti tensioni interne, garantendo altresì un ragionevole coordinamento della coppia consolare. In effetti il rapporto tra tale organo e i consoli va interpretato anche considerando la configurazione sociale dei magistrati romani e il loro destino politico-istituzionale. Giacché essi, scaduto l'anno di carica, venivano a far parte, per tutto il resto della loro vita attiva, dei ranghi del senato. Il loro comportamento, come magistrati, restava quindi pro- fondamente condizionato dal loro rapporto con il consesso senatorio di cui non di rado facevano già parte e in cui sarebbero comunque rientrati. Dove in particolare gli ex consoli - i «consolari» come vennero designati - avrebbero goduto di un prestigio accentuato, costituendo un importante punto di riferimento per l'intera assemblea. Di qui l'omogeneità dell'organizzazione magistratuale romana con la politica e gli interessi senatori. Un'omogeneità destinata a persistere nel tempo e a plasmare la fisionomia politica della città, anche se non mancarono eccezioni, pur molto significative, e se poi, con l'aggravarsi di conflitti sempre più radicali nella compagine sociale cittadina, a partire dal II secolo a.C., essa venne progressivamente meno. Per apprezzare pienamente gli effettivi equilibri tra gli organi della repubblica, si deve inoltre tener presente la fortissima indipendenza del senato che derivava, non solo dal fatto di non essere costituito da compo- nenti elettivi, ma soprattutto dal fatto che la nomina dei senatori non era a termine. La sicurezza della perpetuità della carica dava pertanto loro un'enorme indipendenza, consolidandone la forza. Quanto agli aspetti concreti del suo funzionamento, dobbiamo ri- cordare che tale potente consesso non si poteva autoconvocare, essendo questo compito affidato ai titolari del ius agendi cum patribus. La sua organizzazione interna funzionava secondo una logica gerarchica legata al rango degli ex magistrati. La sua presidenza conseguentemente era affidata all'ex censore più anziano. Con il consolidarsi delle sue competenze nella politica estera, il senato si arrogò il diritto d'inviare ambascerie presso i popoli e le nazioni straniere onde trattare accordi e ogni questione di rilevanza internazionale. I personaggi prescelti per compiere tali mis- sioni furono indicati come legati, i cui compiti erano predeterminati da un apposito senatoconsulto. Nella tarda repubblica essi vennero scelti esclusivamente tra i membri di questo consesso. In questa prospettiva possiamo cogliere, sin dall'inizio, un carattere di fondo delle istituzioni politiche repubblicane, che persisterà sino alla crisi che dalla fine del II secolo a.C., avvierà il tramonto della libera res publica. Si tratta di quello che potremmo definire il loro carattere «con- sociativo». Tanto la facilità, almeno teorica, dei reciproci veti all'interno delle magistrature collegiali, quanto il ruolo potenzialmente paralizzante 94 CAPITOLO 5 del tribuno corrispondevano ad una realtà secondo cui il potere politi- co e di governo non tendeva a fondarsi, almeno in modo esclusivo, sul criterio della maggioranza e sulla conseguente differenziazione di ruoli con la minoranza. E neppure le reciproche garanzie a favore di tutti gli elementi costitutivi della comunità politica si realizzarono secondo lo schema fondante della moderna statualità: la divisione dei poteri. Al contrario, il governo della comunità ha sempre richiesto una comparte- cipazione di tutti i titolari dei singoli centri del potere politico. Certo, tale partecipazione interveniva quasi sempre a livelli diseguali fra le forze politiche e sociali; ed alle cariche magistratuali si veniva comunque eletti in base al gioco delle maggioranze comiziali, così come le delibere e gli orientamenti sia dei comizi che del senato erano presi secondo il principio della maggioranza. Tuttavia, all'interno di ogni azione di governo, di ogni scelta assunta secondo tali logiche, dovette poi verificarsi un minimo di consenso comune6. Ove questo fosse mancato e le esigenze della parte soccombente fossero state troppo sottovalutate nel gioco concreto della politica cittadina, scattava il potere di veto e di paralisi insito nella strut- tura istituzionale repubblicana. Il mutato equilibrio tra i gruppi sociali veniva così a evidenziarsi nella loro mutevole capacità di partecipazione e di controllo dei vari meccanismi di governo. È degno di rilievo il fatto che il governo della repubblica, malgrado questo singolare carattere, abbia funzionato a lungo e, nel complesso, in modo molto efficace. Non solo, esso ha mostrato sovente notevoli capacità in senso «decisionista», come tempestività di scelte e di interventi, tali da non risentire, in apparenza, delle potenzialità negative che ho sopra richiamato. Il che, probabilmente, si spiega con la forte compattezza e disciplina dell'intera comunità politica che orientò la complessiva con- dotta dei ceti dirigenti e delle supreme magistrature. È essa infatti il reale fondamento di quella capacità di regia e di controllo che contraddistinse il senato romano nel corso dell'età d'oro della repubblica. 6 Ne è ben consapevole Polibio (ma non solo lui) nella sua riflessione sulla costitu• zione romana (infra, cap. 9, par. 6) quando, dopo aver descritto la distribuzione del potere tra i vari organi della città, passa a esaminare «come ciascuna di tali componenti possa, volendolo, opporsi alle altre oppure collaborare con esse», giacché «il console [...] alla testa del proprio esercito, appare disporre di un potere assoluto per ciò che attiene alla realizzazione dei suoi piani e invece gli occorre la collaborazione del popolo e del senato, senza cui non può portare a termine le proprie imprese» (Poi., 6.15.1-3). Il senato, a sua volta, pur avendo un potere così determinante, «tuttavia nel governare la città, in primo luogo è obbligato a tener conto dei semplici cittadini ed a rispettare i desideri del popolo» e «più importante di tutto è il fatto che, se anche uno dei tribuni della plebe oppone il veto, il senato, non solo non ha possibilità di portare ad esecuzione alcuna deliberazione, ma non può neppure, nel modo più assoluto, tenere sedute ufficiali o comunque riunirsi» (6.16.1, e 4). Infine, nello stesso modo «il popolo si trova a sua volta in un rapporto di dipendenza nei confronti del senato e deve tener conto delle sue decisioni, tanto nella vita pubblica che in quella privata» (6.17.1). Talché, conclude Polibio, 6.18.1, «questo è il modo in cui le singole componenti possono danneggiarsi o collaborare reciprocamente, ed è per questo che i loro poteri congiunti permettono di affrontare in modo adeguato ogni situazione». IL COMPIUTO DISEGNO DELLE ISTITUZIONI REPUBBLICANE 97 lentamente gli interessi mercantilistici, legati alla ricchezza mobiliare, acquistarono peso in tale consesso. In ciò fu importante il precoce ruolo di Appio Claudio Cieco, con la conseguente spinta verso un'accentuata innovazione politica (cfr. infra, cap. 7, par. 3). Nelle XII Tavole - questo testo fondante dell'assetto giuridico romano (o concepito come tale) - l'autonomia del processo legislativo è diretta- mente associata al «popolo». Livio (7.17.12) ricorda come in XII tabulas legem esse, ut quodcumque postremum populus iussisset, id ius ratumque esse!: «qualsiasi cosa avesse stabilito il popolo, ciò divenisse diritto/legge efficace». La centralità della legge e il potere sovrano dei comizi, così affer- mati, parrebbero intaccare un altro elemento costitutivo della comunità, costituito dal carattere consuetudinario del diritto romano e dal ruolo dell'interpretazione pontificale e dei giuristi. Ma, in verità, il riferimento liviano, non solo avrebbe trovato poi un temperamento in altri criteri (cfr. infra, cap. 7, par. 4), ma avrebbe avuto limitata applicazione, giacché lo strumento legislativo intervenne, nei secoli della repubblica, solo in modo episodico a modificare il diritto civile dei Romani. Quando poi ciò avvenne, fu quasi sempre per una particolare rilevanza sociale o politica dell'argomento trattato, o per qualche specifica esigenza e difficoltà della pratica legale, superabile efficacemente solo in via legislativa. Se consideriamo l'insieme delle leggi di cui si ha ricordo, sia attraverso le citazioni degli antichi, sia attraverso il fortunato ritrovamento di alcuni importanti testi redatti su materiale non deperibile (marmo, bronzo), noi possiamo individuare alcune tendenze di fondo della legislazione comizia- le. Anzitutto la larga prevalenza di leggi afferenti ali'organizzazione citta- dina: in particolare i molti provvedimenti relativi alle singole magistrature che ne ampliavano o modificavano le competenze e il funzionamento, e quelli volti a stabilire limiti ulteriori alla originaria configurazione dei poteri magistratuali. Vanno ricordate poi numerose leggi relative alla di- sciplina dei comizi stessi, che testimoniano la progressiva trasformazione dell'originario dominio patrizio della prima età repubblicana. Ad esse si aggiunge, insieme a diverse norme riferite all'organizzazione delle varie figure sacerdotali, un elevato numero di delibere relative alle dichiarazioni di guerra e agli accordi internazionali, dove il popolo interveniva accanto al senato. In questo stesso ambito si collocano i provvedimenti relativi alla fondazione delle colonie, all'attribuzione degli statuti municipali, nonché alla concessione della cittadinanza romana a singoli stranieri o a intere comunità. Altre norme, in quest'ultimo settore, furono invece introdotte onde evitare abusi e l'acquisizione surrettizia della cittadinanza romana. Insomma il settore privilegiato dalle leggi comiziali fu il diritto pubbli- co, dove esse intervennero continuamente a correggere e perfezionare il funzionamento della macchina politica e il sistema di governo della res publica. Un importante settore della legislazione riguardò infine aspetti che potremmo definire, col nostro linguaggio, di «politica sociale», con diretti riflessi anche sulla sfera del diritto privato: così i numerosi interventi in tema di debiti, volti a limitare i pesi gravanti sui debitori e l'usura, i divieti legislativi di eccessive spese di lusso (le cosiddette leggi «suntuarie»), e 98 CAPITOLO 5 • soprattutto la vasta e ricorrente legislazione agraria. Lo stesso carattere hanno poi le leggi, degli ultimi secoli della repubblica, che disciplinavano le distribuzioni di grano alla plebe gratuitamente o a prezzi ridotti Oe cosiddette leggi «frumentarie»). Altri provvedimenti legislativi di grande rilievo e destinati ad avere notevole impatto sulla vita cittadina riguarda- no la costruzione e la manutenzione delle strade e dei grandi acquedotti pubblici, il sistema urbanistico, la coniazione delle monete ed altre attività amministrative, tutti compiti in parte deferiti dall'apparato statale centra- le, in parte di competenza delle autorità locali. I Romani, che tendevano a considerare le norme giuridiche esistenti come valide perennemente e quindi non abrogabili espressamente, inno- varono ampiamente, modificando e abrogando sostanzialmente moltissime regole, sia relative alla macchina dello stato e ai vari settori del diritto pubblico, sia nel campo del diritto privato. Solo raramente l'innovazione legislativa che introduceva un nuovo divieto legislativo comportava tut- tavia la nullità dell'atto vietato. In tal caso i Romani parlavano di leges per/ectae. La maggior parte delle loro leggi - che sono indicate come minus quam per/ectae - conseguiva questo risultato indirettamente, rendendo praticamente impossibile o troppo dannoso per i privati il perseguimento delle antiche forme giuridiche, peraltro teoricamente ancora valide10 In tali distinzioni si può cogliere una concezione della legge e del diritto meno incisiva dell'idea tutta moderna dell'onnipotenza della legge, dove invece si riflette la concezione romana del potere d'intervento dei comizi, in grado di limitare o modificare anche in profondità l'efficacia pratica del ius civile, ma non di cancellarne l'autonoma esistenza. 5. La sovranità del legislatore e i suoi limiti Ben prima che gli sviluppi della scienza giuridica romana rendessero possibile una riflessione di carattere teorico sull'ordinamento cittadino, esso si presentava ormai nella sua forma compiuta. Sin dalla seconda metà del IV secolo a.C. e sempre più chiaramente in seguito, possiamo così constatare la convergenza di una pluralità di organismi e di ruoli, tendenzialmente autonomi gli uni dagli altri, in una nuova e più solida unità politica. La sua fisionomia complessiva, tuttavia, non è per noi di facile comprensione. Diverse erano infatti le concezioni che la ispiravano e su cui si reggeva l'intero impianto normativo. Ciò, del resto, appare abbastanza chiaramente non appena ci si accosti a un termine chiave per la storia istituzionale e politica romana: res publica. Esso infatti appare semplicemente intraducibile, nelle nostre lingue (forse Commonwealth?), non potendo essere reso col nostro termine stato, senza deformare la stessa idea romana della partecipazione e integrazione collettiva nella vita della città. Nell'esperienza romana, infatti, l'elemento comunitario è più forte, 10 Addirittura in altri casi si avevano delle leges imper/ectae, che sancivano sì un divieto, ma non lo rafforzavano con la nullità dell'atto eventualmente compiuto a dispetto della legge o con sanzioni a carico del suo autore. IL COMPIUTO DISEGNO DELLE ISTITUZIONI REPUBBLICANE 99 • mentre ancora non è così accentuata, pur con tutta l'autorità degli organi di governo, la separatezza tra il cittadino e il governo della comunità, che è caratteristica dei moderni ordinamenti. Non dobbiamo infatti dimenti- care come questi ultimi si siano venuti configurando, a partire dal tardo Medioevo, attraverso la progressiva maturazione, nella riflessione teorica e nella pratica del potere, nella moderna idea di stato, identificando e reificando un'entità al di fuori e al di sopra dei suoi membri. Nel pensiero romano riguardo alla natura della res publica, la presenza di concezioni abbastanza contraddittorie trova indiretta conferma nella ricchezza dei termini utilizzati a indicare l'ordinamento politico - res publica, civitas, populus Romanus Quirites - che, invece, appare offuscata dalla moderna espressione «città-stato», con tutta la proiezione in essa dei nostri valori. Non dobbiamo poi dimenticare come sia ambiguo il rapporto tra l'entità politica e il suo diritto: da una parte infatti ci troviamo di fronte all'idea che alcune delle sue strutture fondanti preesistono ad essa, consi- stendo nel patrimonio ancestrale dei mores (su cui cfr. supra, cap. 2, par. 5). È quanto esplicitamente teorizza, ancora una volta Cicerone, quando nel De re publica (1.39) individua nel «consenso fondato sul diritto» la base stessa della comunità politica. Dall'altra è però fuor di dubbio che è la città a produrre il suo diritto e la sua forma istituzionale. Giacché, con la repubblica, un nuovo concetto di legalità si dovette imporre rispetto all'immagine primitiva del governo semidispotico di un rex. Questa le- galità si associa non solo all'idea di un'eguaglianza dei cittadini di fronte alle norme della città (idea già dominante all'epoca delle XII Tavole e certo non esclusiva dei Romani), ma anche alla crescente consapevolezza che l'esistenza della res publica poneva limiti a tutti gli organi della città. In effetti nella percezione collettiva è dato di intravedere alcuni prin- cipi, non sempre consacrati da norme di diritto positivo, che apparivano connaturati all'esistenza stessa della repubblica. Tra essi va annoverato il modo «fondante» in cui era concepita la specifica libertà individuale e la garanzia personale del cittadino sancita dalle Leggi Valerie Orazie. Un principio generale introdotto già in età decemvirale escludeva espressa- mente la possibilità di legiferare a danno di specifiche persone, vietando di introdurre dei privilegia negativi. Più in generale ogni norma di «dirit- to particolare» (ius singulare) apparirà contraria ai criteri generali della legislazione e del diritto. È affatto coerente con queste concezioni l'emergenza, nella rifles- sione giuridica della tarda repubblica, dell'idea che la legge non potesse togliere a un gruppo di individui la libertà o la cittadinanza. In Cicerone (Pro Caec., 95 s.), questo principio è espresso chiaramente, lasciando intravedere una concezione ancora più basilare dei limiti della legge, impossibilitata a stravolgere i principi fondanti della città11 Si tratta di una discussione di grande rilievo giacché mostra l'affiorare, nella co- scienza di un indubbio conoscitore del diritto come Cicerone, dell'idea In tal passo si cita una legge di Silla, in cui questa consapevolezza aveva trovato espressione nella statuizione che «se non sia legittimo votare [dai comizi] alcunché, ciò si consideri come non votato». La strada per l'egemonia italica Capitolo 6 1. Cittadini e stranieri Abbiamo seguito, nei precedenti capitoli, il progressivo rafforzamento delle strutture cittadine nel corso dei primi secoli di Roma: un processo comune a moltissime società italiche. Sinora ci siamo piuttosto riferiti ai meccanismi istituzionali di esso, dobbiamo ora considerarne gli effetti sul piano esterno, anzitutto nel quadro laziale e, poi, anche in un ambito territoriale più ampio. Indipendentemente dalla discussione tuttora viva circa la verità storica delle conquiste attribuite dagli storici antichi a Roma in età monarchica, va comunque ricordato come il suo territorio, in origine non superiore al centinaio di chilometri quadrati, verso la fine del VI se- colo a.C. fosse aumentato di circa otto o nove volte. Né meno formidabile e rapido era stato l'incremento della popolazione cittadina, accelerato dall'assorbimento delle minori comunità investite dalla sua espansione. In poche parole Dionigi, 1.3.4, esprime puntualmente il significato di questa notevole crescita: «proprio dall'inizio, immediatamente dopo la sua fondazione essa cominciò ad attirare le nazioni vicine che erano numerose e atte alla guerra e crebbe continuamente soggiogando ogni avversario». Un'altra conseguenza derivante da tale consolidamento e dalla politica di potenza resa così possibile fu l'accentuarsi dei caratteri di separatezza tra la comunità cittadina e ciò che «ne è fuori»: tra Romani e stranieri, costituendo un aspetto di fondo della vita giuridica, non solo di Roma, ma, in generale, di tutte le antiche città, sia in Grecia che in ambito italico. In esse infatti - ma probabilmente ciò valeva in generale anche per i grandi regni ellenistici - era presente una concezione del diritto abbastanza di- versa da quella che caratterizza gli ordinamenti statali moderni. Tralasciando infatti i diritti politici, riservati ovviamente ai propri cit- tadini, vige infatti negli ordinamenti moderni il cosiddetto principio della «territorialità del diritto». Il diritto dello stato si applica cioè a tutti coloro che a qualsiasi titolo si trovano nel suo territorio, indipendentemente dalla loro cittadinanza. Pertanto anche gli stranieri dovranno rispettare le leggi civili e penali dello stato ospitante e automaticamente, fruendo a loro volta 104 CAPITOLO 6 di una tutela analoga a quella dei cittadini, in una condizione di sostanziale eguaglianza. Al contrario, nel mondo antico, e particolarmente nel com- plesso paesaggio delle poleis greco-italiche, tendeva a prevalere un criterio opposto, per cui ogni individuo era legato alla sua patria d'appartenenza e al diritto proprio di questa. Un tempo s'insisteva forse eccessivamente su questa caratteristica identificata con la «personalità» del diritto, per cui uno straniero che si fosse trovato nell'ambito di un'altra comunità politica, sarebbe stato estraneo al diritto proprio di questa, e quindi, almeno in teoria, privo di quella protezione legale che il diritto cittadino avrebbe assicurato ai soli membri di quella città. Di qui l'importanza, sin dall'origine, del sistema di templi e di santuari aperti a tutti i pellegrini e in grado di offrire protezione al viaggiatore 1• È però indubbio che, già in età risalente, si sperimentassero altri e più efficaci meccanismi per assicurare tutela adeguata ai membri delle varie comunità interessate. Uno dei primi strumenti fu la concessione - a un singolo o a un gruppo di stranieri - dell'hospitium, «l'ospitalità», da parte di privati o della città, senza che ciò postulasse un accordo con la città di questi stranieri. Le radici di tale istituto risalgono alle forme di circolazione gentilizia. In origine era il modo in cui si formalizzava la protezione che potenti clan privati assicuravano ai loro «amici» di altre comunità, una forma di tutela dentro l'ordinamento cittadino. Tra chi aveva concesso l'hospitium e il beneficiario intercorreva un vero e proprio vincolo volto ad assicurare a quest'ultimo protezione adeguata. Presto, accanto all'hospitium privato, intervenne un hospitium pubblico concesso dalla città stessa ad alcuni stranieri che, in tal modo, erano ammessi a rivolgersi ai tribunali locali per pretendere pro- tezione legale. Questi casi di hospitium pubblico, senza l'intermediazione di privati cittadini, divennero sempre più numerosi col rafforzarsi delle strutture cittadine. Essi vennero poi estesi a intere città, in un tessuto di relazioni internazionali fondate su trattati tra comunità sovrane. Quest'ultimo fu, in effetti, lo strumento primario nel mondo delle po- leis, in Grecia come in ambito italico, per sopperire alle esigenze di tutela dei propri cittadini «all'estero». Tali trattati furono utilizzati dai Romani sin da epoca molto risalente, come attestano i numerosi riferimenti agli accordi intercorsi tra Roma e i suoi vicini già durante il periodo monarchi- co, e com'è confermato dalla precoce presenza dei feziali, espressamente preposti alla loro stipula. Ovviamente l'oggetto di tali accordi andava ben oltre la reciproca tutela legale dei propri cittadini, concernendo anzitutto il ruolo e gli interessi politici della città stessa. È anche ben comprensibile che, come le fonti attestano chiaramente, il campo privilegiato di que- sti primi rapporti internazionali sia stata per Roma l'area caratterizzata Sono queste le premesse da cui gli studiosi ottocenteschi trassero, in modo peraltro troppo radicale, la conseguenza che, nel mondo antico, vi fosse stata originariamente una generalizzata assenza di tutela legale degli stranieri. Nella ricca tradizione letteraria antica s'incontra sovente la richiesta di ospitalità e di protezione che lo straniero rivolge appel- landosi agli dei. Se l'ospite è «sacro» - un'espressione che ancor oggi sopravvive, sbiadita, alla cultura che l'ha espressa - è perché egli, in quanto «straniero», non ha diritti, può solo appellarsi agli dei, a un obbligo morale e religioso che dev'essere rispettato dai membri della comunità in cui si trova. LA STRADA PER L'EGEMONIA ITALICA 107 infatti la portata del principio secondo cui il Latino che si fosse trovato in ambito romano non solo veniva assimilato ai cives Romani nella fruizione del diritto privato (ius civile) e della conseguente protezione processuale nelle forme solenni del diritto romano, ma era anche ammesso a stringere validi rapporti matrimoniali con i Romani. Tali meccanismi di assimilazio- ne sono indicati dai Romani con due espressioni tecniche: ius commercii e ius conubii: «diritto di commercio» e «diritto di sposarsi». Era un principio che funzionava in base alla reciprocità di comportamento di tutte le città della Lega: come ogni relazione di carattere internazionale. E i rapporti tra Romani e Latini, lo ripeto, erano di questa natura, intercorrendo, sino alla metà del IV secolo a.C., tra comunità indipendenti. In altre parole i Latini a Roma godevano di una condizione analoga a quella dei Romani che si fossero trovati nelle altre città dell'alleanza: una parziale assimilazione ai cittadini delle varie comunità. È possibile che non appartenesse invece all'originario regime del Foedus Cassianum il «diritto di emigrare» (ius migrandi) in base al quale, in seguito, gli abitanti delle città della Lega avrebbero potuto acquistare la cittadinanza di Roma, spostando la loro residenza in essa. Di tale regime tuttavia le fonti parlano, seppure in modo abbastanza incerto, facendoci pensare a uno strumento più tardivo per facilitare la mobilità e gli scambi in area laziale e divenuto, col tempo, un ambìto privilegio dei membri del Latium vetus che dava accesso alla sempre più prestigiosa e vantaggiosa cittadinanza romana. Più interessante per noi è il fatto che l'unità politica sancita da tale Joedus s'esprimesse anche con la fondazione, da parte della Lega, di pro- prie colonie destinate a divenire esse stesse nuovi membri dell'alleanza. La fondazione di una nuova città come propria «colonia» era in effetti pratica comune a tutto il mondo delle poleis greco-italiche, come mec- canismo atto a realizzare i processi d'espansione degli spazi cittadini. Tra l'altro fu questa la prassi in base alla quale l'intera parte meridionale della Penisola - la «Magna Grecia», appunto - era stata colonizzata dalle varie città greche. In questo contesto il termine colonia aveva pertanto un significato totalmente diverso da quello dei nostri giorni. Allora infatti si trattava di piccole comunità urbane, create ex novo dalla città-madre, e situate in punti strategicamente importanti, anche se sovente assai distanti dalla fondatrice. Le singole città della Lega, e in particolare Roma, aderendo a questa politica coloniaria comune, non avevano però rinunciato al potere di fondare proprie colonie. Così Roma continuò a istituire, come già era avvenuto all'età dei re, accanto alle colonie latine, anche proprie colonie di cittadini romani. Nel corso del tempo questa pratica avrebbe assunto un'importanza crescente, e sotto più profili. Soprattutto nel caso delle colonie romane si trattò d'insediamenti relativamente ristretti, con un organico in genere non superiore a trecento coloni, che rispondevano a esigenze di carattere strategico. Sovente fondate in prossimità della costa, esse costituivano anzitutto dei presidi militari, con funzioni di controllo delle comunicazioni e di difesa contro aggressioni esterne in aree perico- lose oppure ostili. Tali funzioni spiegano perché i loro cittadini fossero 108 CAPITOLO 6 esentati dal servizio nelle legioni romane, costituendo essi già, in loco, un presidio militare. A differenza della colonizzazione greca in Italia, i vincoli tra le colonie e Roma restarono sempre strettissimi, ed energico e costante fu il controllo esercitato da questa su di esse, che vennero moltiplicandosi nel corso degli anni. Sin dagli inizi del IV secolo a.C., in virtù della sua accresciuta premi- nenza, Roma s'era arrogata direttamente il potere spettante alla Lega di fondare nuove colonie latine. Con lo scioglimento di essa, nel 338 a.C. (cfr. infra, par. 3), tale facoltà divenne, anche formalmente, di sua esclusiva competenza, per il potere sovrano da essa assunto su tutte le città della Lega. Poiché gli organici delle colonie latine erano quasi sempre assai più numerosi di quelli delle colonie romane, fu soprattutto attraverso le prime che Roma attuò un'efficace politica demografica e, indirettamente, economica, spostando in zone di nuova occupazione la popolazione in eccedenza, e prowedendo ad una sempre rinnovata redistribuzione di terre. Nel corso del tempo, nuclei consistenti di cittadini romani, Latini, ed abitanti di altre città alleate s'insediarono in aree relativamente poco sfruttate, o da cui erano stati espulsi gli antichi abitanti, favorendone la progressiva urbanizzazione e, soprattutto, accelerando la romanizzazione dell'intera Penisola. Ne furono interessate soprattutto le aree di recente conquista, che si prestavano a grandi investimenti agrari: la colonizzazione del Piceno e della Gallia Cisalpina modificò in profondità tali territori, con effetti permanenti sulla storia d'Italia. Tra le colonie romane e le colonie latine sussistevano tuttavia fonda- mentali differenze: la prima e più evidente è costituita dalla diversa con- dizione giuridica. Le prime, infatti, non erano una struttura istituzionale estranea a Roma, ma solo un suo segmento organizzativo, i cui membri mantenevano lo statuto personale preesistente di cittadini romani. Al contrario, le colonie latine erano formalmente una comunità separata ed estranea a Roma, tanto che quei cittadini romani che avessero partecipato, come non era infrequente, alla loro fondazione, divenendone membri, perdevano la cittadinanza d'origine, acquistando la condizione giuridica di LatinP. La fondazione di una nuova colonia aweniva in genere sulla base di una delibera del senato e dell'approvazione dei comizi, con cui si desi- gnavano i magistrati preposti alla sua istituzione, dando anche istruzioni per l'emanazione dello statuto che avrebbe regolato, con una lex data, la vita e l'organizzazione interna. Si trattava in genere di uno schema relati- vamente uniforme, ispirato alle istituzioni di Roma, con cui si definivano i magistrati di governo e quelli preposti alla giurisdizione cittadina, nonché 3 La perdita della cittadinanza spiega perché le terre assegnate in proprietà fossero, in questo periodo, assai più vaste nelle colonie latine che in quelle romane. Tali terre infatti non rilevavano nella composizione dei comizi centuriati, da cui erano ovviamente esclusi i Latini. Nel caso delle colonie romane l'esigenza di non modificare gli equilibri politici dei comizi comportò la necessità di assegnare lotti relativamente piccoli. Le dimensioni delle assegnazioni nelle colonie latine, insieme al fatto che i loro organici erano in genere assai più numerosi di quelli delle colonie romane, spiega il grande impatto della colonizzazione latina sulle strutture territoriali italiche. LA STRADA PER L'EGEMONIA ITALICA 109 l'assemblea e il senato della colonia. Un importante elemento connesso alla fondazione della colonia è costituito dal particolare assetto del territorio a essa assegnato. Sin dal IV secolo a.C. venne infatti adottato dai Romani un sistema di divisione in parcelle regolari e tutte della stessa misura. Tale sistema fu indicato come limitatio (dai limites, «confini», così tracciati) o anche, più frequentemente, come centuriatio dall'unità territoriale chia- mata appunto centuria. Sotto la guida dei magistrati incaricati delle opera- zioni di fondazione della colonia, appositi tecnici, gli agrimensori, avendo identificato un punto, tracciavano per esso due linee perpendicolari che costituivano gli assi centrali, chiamati cardo e decumano maggiore. In parallelo ad essi e a distanza regolare venivano tracciate altre linee rette (rispettivamente cardini e decumani), venendo così a costituire una maglia di quadrati (o rettangoli) uniformi: le centurie. Secondo lo schema tipico la centuria consisterebbe in un'area di duecento iugeri (circa cinquanta ettari): equivalente appunto ai cento heredia romulei. Da questo numero ideale parrebbe derivare quindi il suo nome. In Italia queste linee di divi- sione, cardi e decumani, chiamati dagli agrimensori anche genericamente limites, avevano una determinata larghezza in modo da costituire vere e proprie strade rurali, realizzando un articolato reticolo atto ad assicurare a tutte le unità fondiarie l'accesso alle principali vie pubbliche. Questa pratica, sviluppatasi secondo logiche analoghe a quelle che ab- biamo visto ispirare il regime giuridico della più antica proprietà fondiaria romana (cfr. supra, cap. 4, par. 3), ha un fondamento nelle più antiche tradizioni religiose del mondo romano-italico, collegandosi alle autoctone concezioni dello spazio come elemento di un universo religioso (oltre a riallacciarsi all'esperienza di pianificazione territoriale del mondo greco). Essa fu ampiamente sviluppata nei suoi aspetti tecnici, dando luogo ad una vera e propria scienza in cui nozioni geometriche, conoscenze astronomi- che e geologiche ed elementi giuridici confluirono, lasciando importanti testimonianze anche nelle fonti antiche. Ma il documento più importante è dato dalla persistenza, in tutto l'ambito dell'impero, delle tracce di questa colossale manipolazione territoriale. E ancor oggi in molte città, soprattutto nelle aree pianeggianti dell'Italia del Nord, il reticolo urbano che s'incrocia ad angolo retto perpetua le antiche divisioni coloniarie (che intervenivano in effetti, non solo a definire il territorio agricolo, ma anche gli spazi urbani della colonia). Attualmente in vari territori europei e nordafricani gli archeologi, soprattutto con l'ausilio delle moderne tecno- logie informatiche, oltre che della fotografia aerea, rintracciano sempre più numerose sopravvivenze delle antiche forme di divisione del territorio agrario, ormai incorporate in un paesaggio che, pure, ha profondamente mutato il suo aspetto fisico ed economico. 3. La svolta del 338 a.e. e i nuovi statuti giuridici di Roma Ho già richiamato un aspetto fondamentale dell'espansionismo ro- mano, già evidenziatosi nel corso del IV secolo a.C., e precisamente che esso solo in parte è stato il frutto di fattori meramente militari, dipen- LA STRADA PER L'EGEMONIA ITALICA 111 esse, in effetti continuarono a godere - sino alle radicali trasformazioni intervenute con la concessione della cittadinanza romana a tutti gli Italici dopo la guerra sociale (cfr. infra, cap. 11, par. 1) - di un'autonomia orga- nizzativa non diversa da quella che avevano come stati sovrani, prima del 338 a.C. Tale parvenza di «sovranità», per usare questo riferimento sem- plificato e troppo approssimativo, s'arrestava tuttavia alla sfera interna, e soprattutto dipendeva ormai dal superiore ed esterno volere di Roma. Lo dimostra bene un altro particolare provvedimento assunto in quel contesto dal senato e riferito da Livio. Mi riferisco all'interruzione di ogni vincolo giuridico e istituzionale intercorrente tra le varie città laziali, che proprio il Foedus Cassianum invece presupponeva. Per tutte queste, infatti, i Romani concilia commerciaque inter se ademerunt: unilateralmente bloccarono tutti i rapporti giuridici e istituzionali tra queste città e i loro abitanti, onde ostacolare qualsiasi ulteriore solidarietà che potesse nuovamente sfociare in un'alleanza an tiromana5 I Romani, oltre alle disposizioni che abbiamo sin qui considerato, avevano anche concesso ad alcune città vinte la loro piena cittadinanza (civitas optimo iure). Altre volte, invece, avevano attribuito a qualche co- munità una cittadinanza romana «limitata»: senza diritti politici (civitas sine suffragio). Si trattava di una figura giuridica particolare, già introdotta a favore della città etrusca di Cerveteri che aveva accolto i sacra di Roma al momento dell'incendio gallico. Anche in questi casi le vecchie entità cittadine restavano immutate, nella loro configurazione materiale, pur avendo subito una profonda modifica della loro condizione legale e perso ogni autonomia sovrana. I nuovi cittadini optimo iure, iscritti in una delle antiche tribù territoriali romane, erano pienamente parificati sia sotto il profilo dei diritti privati che dei ruoli pubblici e istituzionali, quali il voto nei comizi e la partecipazione agli impegni militari. I cives sine suffragio restavano invece esclusi dalla partecipazione politica e dalla pari dignità militare, godendo solo della parificazione della sfera giuridica privata. A partire dalla svolta del 338 a.C., nel corso del tempo, si venne con- figurando un sistema che vedeva, di fronte allo straniero appartenente ad un ordinamento sovrano affatto indipendente da Roma, una realtà molto articolata totalmente incentrata sulla stessa Roma. Nell'età d'oro della repubblica si verrà così dipanando in un continuum che va dai membri di quelle città italiche, alleate di Roma in modo permanente e ormai a essa semisubalterne - i socii Italici-, a quegli alleati gratificati del semplice ius commercii e del ius conubii: i Latini appartenenti alle sopravvissute città sovrane decisioni del senato romano. Sotto l'autorità dei suoi capi il senato pertanto prese «decisioni particolari per i singoli popoli. Si fece quindi un rapporto e si fecero decreti diversi per ogni caso singolo. Al popolo di Lanuvio si concesse il diritto di cittadinanza e si ristabilirono i loro culti [...] quelli di Arida, di Nomento e di Pedo ebbero pure la cittadinanza come i Lanuvini. I Tuscolani conservarono la cittadinanza che già avevano [...] Ad Anzio fu mandata una nuova colonia con la concessione, per gli Anziati, di entrare a farne parte [...] A Tivoli e Preneste fu confiscato parte del territorio [...] ai cittadini di Fondi e di Formia fu concessa la cittadinanza senza il diritto di voto; i Cumani e quelli di Suessa ebbero la stessa posizione giuridica». 5 Mentre queste città conservarono i commercia conubiaque con Roma. LA STRADA PER L'EGEMONIA ITALICA 113 • del Latium vetus, i membri delle nuove colonie latine, e infine i municipes sine suffragio ed optimo iure. Al centro del sistema, le istituzioni cittadine restavano pienamente efficienti, e da esse Roma continuava ad esser governata. Ma da esse di- pendeva ormai anche, integralmente, un mosaico di innumerevoli centri urbani o semiurbani che vivevano di una loro vita autonoma (seppure a livelli tra loro differenziati) e, contemporaneamente, erano anche parte di una «città superiore»: Roma. Era questo il mutamento rivoluzionario rispetto all'originaria identificazione dell'unità urbana -la «città», con le sue mura, i suoi cittadini e il suo territorio - con lo spazio politico e con l'esistenza di un autonomo ordinamento istituzionale. Aveva così inizio, in modo frammentario e apparentemente casuale, la sperimentazione di un nuovo assetto politico la cui complessità è stata pari solo alla sua intrinseca capacità di crescita. Esso si venne componendo, nel tempo, estendendosi a tutta la penisola italica, in un disegno straordinaria- mente articolato che costituì il fondamento della potenza politico-militare di Roma, sostanziatasi in quello che ci appare un «impero di città». 4. La genesi del sistema municipale Con l'elaborazione da parte del senato di una gamma di centri dipen- denti, con diversi margini di autonomia (sino all'impiego distorto dello strumento tipicamente di carattere internazionale che è ilfoedus a definire il rapporto tra Roma e qualche sua colonia o municipio), ma affatto interni alla sfera politica romana, era venuta meno, come s'è detto or ora, l'antica identificazione della città con un ordinamento autonomo. Una conseguen- za di notevole rilievo, anche se non sempre adeguatamente sottolineata dai moderni, fu che, da allora, l'ordinamento romano dispose di una pluralità di statuti giuridici personali, la cui coesistenza di fatto superava la logica della città antica, dove popolazione residente e diritti di cittadinanza s'iden tificavano6 Mentre, sino al 338 a.C., come tutte le altre città, Roma governava direttamente solo i suoi cittadini, da allora essa poté disporre anche di un altro statuto giuridico: quello di Latino. Poteva trasformare un Romano in Latino, come nel caso della partecipazione di questi a una colonia latina, e poteva disporre unilateralmente della condizione giuridica di questi stessi Latini, ormai suoi sudditi, modificandone il contenuto. La pur differenziata condizione dei Latini prisci e coloniari appare privilegiata all'interno della più vasta categoria dei peregrini: gli «stranie- ri». Ma, già nel corso del III secolo a.C., anche il valore di quest'ultimo riferimento venne a mutare: sinora infatti aveva indicato il cittadino di una comunità sovrana, estranea a Roma. Ora anch'esso, pur conservando pure tale significato, finì anche col designare - non diversamente da quanto già era avvenuto per il «Latino» - uno dei possibili statuti giuridici interni all'ordinamento sovrano romano (cfr., infra, cap. 9, par. 3, pp. 157 s.). 6 Anche per questo ho già espresso i miei dubbi sull'impiego, per Roma, di tale riferimento. 114 CAPITOLO 6 L'accesso facilitato alle forme e alla tutela del diritto romano, dei prisci Latini (i membri dell'antica Lega fondata dal Foedus Cassianum) e dei cittadini delle colonie latine, consacrato dal commercium e dal conubium, non aveva mai comportato la dissoluzione degli ordinamenti propri delle varie città latine. Questi continuarono a regolare la vita interna di tali comunità e le relazioni legali tra i loro cittadini. Di un proprio statuto continuarono infatti a fruire anche le colonie latine: esse infatti si trova- vano in una condizione di formale estraneità rispetto a Roma, sebbene questa le avesse fondate e ne conservasse un totale controllo politico. È particolarmente rilevante in tal senso il fatto che il regime giuridico delle terre di loro pertinenza (ma, anche, come vedremo di seguito, dei municipi sine suffragio), pur modellato sugli schemi della proprietà privata romana, non era identificabile con il dominium del diritto romano. Il termine ius Latii venne usato - non solo per tutta l'età repubblicana, ma anche in età imperiale - a indicare questa particolare posizione giuridica nei rapporti con Roma (compreso il ius migrandi) assicurata ai membri delle comunità del Latium vetus e anche, seppure in seguito con qualche limitazione e con qualche gerarchia interna, ai membri delle colonie più recenti. D'altra parte, se nel caso delle città e delle colonie latine la loro auto- nomia appariva pressoché immutata rispetto alla situazione precedente al 338 a.C., così non è nel caso delle comunità costituite da cittadini romani. Sia le colonie romane che le città gratificate della cittadinanza romana, piena o sine suffragio, facendo parte dell'ordinamento romano, avrebbero dovuto vivere secondo le sue leggi. Qui però interviene la grande elasti- cità del nuovo sistema introdotto dai Romani, ricco di intimi contrasti, ma straordinariamente efficace e solido. È infatti molto probabile che le vecchie comunità indipendenti, trasformate in municipi di cittadini con pieni diritti politici o di cittadini senza diritti politici, conservassero, al loro interno, almeno parte della preesistente organizzazione. In particolare tutto fa pensare che, nei municipi sine suffragio, almeno per un certo arco di tempo, tendessero a sopravvivere molte delle loro originarie tradizioni giuridiche. Si tenga presente, del resto, che sicuramente il più importante dei diritti privati, il diritto di proprietà sulla terra, vigente in tali comunità, non era retto dal diritto romano. Lo prova il fatto che il territorio di questi municipi non faceva parte delle tribù territoriali romane. Torniamo ora a quei ius commercii e ius conubii che gli antichi Latini avevano con i Romani: in virtù di tale concessione questi particolari tipi di stranieri, sia prima che dopo il 338 a.C., venivano ad essere assimilati ai cittadini romani per quanto concerne la fruizione di gran parte del diritto privato. Noi - e in fondo anche gli antichi - vediamo questo rap- porto essenzialmente dal punto di vista del più forte: come ammissione del Latino - e più in generale dello straniero - agli istituti del ius civile romano. Epperò uno schema del genere, proprio perché fondato sulla reciprocità, dev'essere egualmente considerato anche dal punto di vista opposto: come partecipazione al diritto locale del Romano ubicato in territorio straniero. È qui che interviene una svolta fondamentale, a partire dal 338 a.C., perché è appunto questa reciprocità che si blocca (restando come una LA STRADA PER L'EGEMONIA ITALICA 117 ticolari motivi ispirarono una opposta politica, dove la massima sanzione irrogata a una comunità appare appunto la sua cancellazione come città, quasi la soppressione di un organismo vivente. Così, nel caso di Capua, punita in modo esemplare dopo la sua defezione ad Annibale; il senato romano, avendola privata del suo territorio, le tolse «le magistrature, il senato, l'assemblea pubblica», oltre a ogni altra imaginem rei publicae: l'idea e i simboli cioè della comunità politica cittadina. Anche dove, come nel mondo sannita, le forme di insediamento pre- valenti si collegavano più a strutture sparse o a villaggi, i Romani cerca- rono, in linea di massima, di identificare un elemento, magari il villaggio potenzialmente più «promettente», da trasformare in una piccola città e quindi in centro municipale a cui agganciare in forma subalterna le altre strutture territoriali (villaggi, mercati rurali, piccoli santuari circondati da abitati ecc.). Quanto ho avuto occasione di sottolineare a proposito dell'importanza della città ci permette di cogliere una specifica fisionomia inerente all'or- ganizzazione del paesaggio agrario. Giacché, sia la grande villa schiavi- stica tardorepubblicana e imperiale, sia la piccola proprietà contadina in organico rapporto con il sistema della centuriatio ripetono, sul territorio, gli schemi urbani e, attraverso la fitta viabilità rurale, appaiono diretta- mente connessi alla città e ad essa funzionali. Questo panorama tuttavia, da solo, non dà conto interamente della complessità dell'impatto romano sulla penisola italica, a partire dagli ultimi decenni del IV secolo a.C. È infatti da ricordare come l'ampia estensione territoriale pienamente romanizzata, di cui il sistema coloniario e quello municipale appaiono le strutture portanti, presupponesse, sotto il profilo territoriale e degli assetti organizzativi, anche nuclei minori. E questo soprattutto nelle aree dove i processi di urbanizzazione erano più lenti o addirittura inconsistenti. Lì si ricordano dunque altre figure quali i/ora, i conciliabula, i pagi e gli stessi villaggi (vici), quali località in cui popolazioni rurali venivano a incontrarsi in mercati stagionali, si saldavano in comuni luoghi di culto e in distretti rurali aventi una loro identità amministrativa. Si tratta di strutture con una loro più o meno accentuata autonomia, situate all'interno e in fun- zione dell'ager Romanus, rispetto alle quali intervenivano, con funzioni di controllo e di coordinamento, i magistrati romani. La giurisdizione sui loro abitanti, quasi tutti cittadini romani, fu di pertinenza dei prae/ecti iure dicundo. In particolare i /ora ed i conciliabula s'identificano sovente con quei minori insediamenti di cives Romani beneficiari di distribuzioni di terre in piena proprietà quiritaria, effettuate viritim, anch'esse nella forma della centuriatio (ma senza la fondazione di una colonia). Resta ai miei occhi abbastanza oscuro perché i Romani abbiano preferito questo sistema nella loro espansione nelle aree interne della Penisola, circoscri- vendo in genere le colonie romane alle sole aree costiere. Tuttavia non dobbiamo considerare queste figure solo come realtà residuali, awiate ad una rapida scomparsa di fronte alla fioritura cittadina favorita da Roma. Come sempre la sua politica si attuava secondo più re- gistri, per cui talora appaiono rispettate o addirittura favorite le strutture insediative minori, in parallelo con le persistenti distribuzioni individuali 118 CAPITOLO 6 (viritim) di terre in proprietà ai cittadini romani. Di qui la rilevanza auto- noma, in certe aree, della «campagna» rispetto alla città. Mentre i suoi antichi alleati venivano assorbiti all'interno dell'ordina- mento politico romano, una miriade di nuovi rapporti di alleanza furono stretti dai Romani con le varie popolazioni e città italiche, nel corso della loro rapida espansione. Il /oedus, il trattato d'alleanza, continuava ad essere stipulato tra soggetti sovrani, talora sancendo una loro formale subalternità politica a favore di Roma (/oedus iniquum), altre volte con- servando invece il carattere formale, ma solo formale, di un'alleanza tra pari (/oedus aequum). Il fatto che tra gli impegni reciproci assunti tra le parti vi fosse l'ob- bligo di aiutare l'alleato in caso di guerra era ed è la vera chiave di lettura di questi trattati: soprattutto di quelli formalmente paritetici. Giacché mai queste piccole città, queste comunità minori, sovente interamente circondate da territori romani, sarebbero state in grado di scatenare in modo autonomo una guerra, mentre, al contrario, le guerre le faceva in continuazione l'altro alleato, Roma. E a Roma gli innumerevoli alleati italici - che dal termine societas, utilizzato a indicare l'alleanza interna- zionale, prendevano il nome di socii dei Romani - dovevano quindi for- nire supporto in termini di risorse materiali e di uomini, secondo criteri predeterminati e attentamente controllati da Roma. Che così moltiplicava la sua forza militare per nuove conquiste, per nuove vittorie sancite da nuove alleanze subalterne. Non va infine trascurato un altro aspetto della politica estera romana costantemente impegnata a favorire e sostenere i gruppi aristocratici all'interno di ciascuna città alleata, a danno delle forze popolari e contro ogni spinta in senso democratico. Secondo un orientamento comune del resto al mondo greco ed ellenistico, in ciò si rifletteva anzitutto la ten- denza intimamente conservatrice delle classi dirigenti romane: il naturale senso di affinità e di comunanza di interessi della nobilitas repubblicana, pur con le sue diverse sfumature, con le aristocrazie locali. Ma dovevano giocare anche altri fattori: anzitutto la maggior facilità di controllare un ceto ristretto e interessato alla conservazione della «legge e ordine» e condizionato dai suoi stessi interessi economici, rispetto alle spinte meno definibili e tendenzialmente eversive di gruppi più estesi e, forse, più fortemente legati alle loro radici autoctone. Un risultato immediato e di non poco conto, di questa articolata poli- tica messa in campo dai Romani, fu la rapidissima crescita degli organici cittadini. Già intorno al 330 a.C., dopo la grande sistemazione del Lazio e della Campania settentrionale, il blocco politico rappresentato da Roma, con le comunità incorporate e i suoi alleati dipendenti latino-campani, raggiungeva gli 800.000 abitanti in un territorio di circa 6.000 chilometri quadrati: superato solo di poco, in Italia, dal mondo sannita. Contempo- raneamente, nel 332 a.C. le tribù territoriali romane erano in numero di 29 sul totale di 35 che verrà raggiunto nel secolo successivo. LA STRADA PER L'EGEMONIA ITALICA 119 ;: --- --"li n'arist.o.cr z-tij-dtgov.èrìio · _ ·_·<: .... , , • , , " I - • -.-,, • •.,.•-- - , , "' ,- •• J - ... ,_. t ,. Capitolo, 1. La nuova direzione politica patrizio-plebea Il compromesso patrizio-plebeo del 367 a.C. aveva sanato un punto debole del precedente assetto aristocratico costituito dal suo esclusivismo. Alla lunga, l'interruzione dei meccanismi di mobilità sociale, intervenuta agli inizi del V secolo, avrebbe infatti comportato l'insostenibile indebo- limento di un patriziato irrigidito e dissanguato. La nuova aristocrazia di governo era costituita essenzialmente dagli ex magistrati ascesi ai ranghi del senato e dai loro immediati consanguinei e discendenti, secondo una logica che permise, dopo le leggi Licinie-Sestie, il suo progressivo amplia- mento al di là del ristretto gruppo dei patrizi. Questa nobilitas patrizio- plebea, avrebbe conservato appieno l'antica fisionomia guerriera delle origini, mantenendo il controllo della sempre più complessa macchina istituzionale. In tal modo essa guidò la più straordinaria e duratura «storia di successo» del mondo antico, realizzata con un esemplare impasto di abilità politica e diplomatica, di brutalità e competenza militare, di sapien- za istituzionale e di governo. Una storia dove tradizione e innovazione si saldano felicemente, giacché la capacità di far fronte al nuovo di questa aristocrazia non attenuava il suo attaccamento e il continuo riferimento al valore esemplare del passato. Per renderci conto di ciò occorre riflettere sulla carriera di un Roma- no destinato a pervenire al vertice politico e a sedere in senato. È vero infatti che, in teoria, ciascun cittadino ingenuus, nato cioè da padre libero, poteva aspirare ad una carica magistratuale. Ma nei fatti questa carriera era aperta solo a un ristretto gruppo sociale. Vi accedeva chi apparteneva alla non molto numerosa aristocrazia di sangue: i patrizi, oltre che i figli della nobilitas. Era aperta anche ad altri: ma in che modo? Esaminiamo i meccanismi che regolavano i primi passi della carriera politica di un gio- vane Romano. Lo ripeto: nell'antichità classica, ma soprattutto in Roma, il buon cittadino, l'individuo che dà il suo contributo alla vita della città è anzitutto un soldato. È altresì una persona che partecipa attivamente alla vita politica cittadina: il suo tempo non è dedicato all'attività economica.