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MANUALE EDISES CONCORSO SCUOLA 2024 - Prova scritta, Sintesi del corso di Storia della scuola e istituzioni educative

Riassunto completo MANUALE EDISES CONCORSO SCUOLA DOCENTI 2024 - PROVA SCRITTA - COMPETENZE PEDAGOGICHE, PSICOPEDAGOGICHE E DIDATTICO METODOLOGICHE. Manuale nuovo 2023 aggiornato. PARTE PRIMA: Competenze pedagogiche e psico-pedagogiche PARTE SECONDA: Competenze su intelligenza emotiva, creatività e pensiero divergente PARTE TERZA: Competenze didattico-metodologiche PARTE QUARTA: Competenze per una scuola inclusiva

Tipologia: Sintesi del corso

2023/2024

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Scarica MANUALE EDISES CONCORSO SCUOLA 2024 - Prova scritta e più Sintesi del corso in PDF di Storia della scuola e istituzioni educative solo su Docsity! Manuale EdiSES - Concorso 2024 PARTE PRIMA – COMPETENZE PEDAGOGICHE E PSICOPEDAGOGICHE 1. LO SVILUPPO SOCIALE E LE INTERAZIONI DI GRUPPO 1.1 L’ambito di indagine della psicologia sociale L’oggetto di studio della psicologia sociale è costituito dall’attività mentale e dai comportamenti dei soggetti immersi nella vita sociale, che agiscono cioè in uno stesso spazio sociale e si influenzano reciprocamente con le loro azioni. L’interesse degli psicologi si è concentrato sui rapporti competitivi e cooperativi, sulle relazioni di aiuto, sulle reazioni all’ingiustizia, con l’intento di analizzare i comportamenti e quei processi mentali che li sottendono. Il sistema interrelato di modelli e aspettative propri di una società costituisce la struttura sociale, vale a dire la trama dei rapporti relativamente stabili, destinata a permanere al di là del mutevole flusso della quotidianità, il complesso di posizioni occupate da soggetti individuali e collettivi interagenti nel quadro di norme regolative. 1.2 L’individuo e i suoi contesti: famiglia, scuola, lavoro La famiglia è un contesto costitutivo poiché è lì che il bambino trova le prime corrispondenze ai suoi bisogni, in cui stabilisce le prime relazioni significative e in cui trova una base sicura (lo psicologo John Bowlby definisce “base sicura” il luogo da cui un bambino parte per esplorare il mondo e a cui può far sempre ritorno). È perciò chiaro che una sinergia tra scuola e famiglia sia fondamentale per attuare una coerenza educativa e permettere al bambino una crescita e uno sviluppo armonici. Possiamo distinguere diversi periodi dello sviluppo: • età della prima infanzia → da 0 a 3 anni, il contesto è esclusivamente familiare; • età prescolare → da 3 a 6 anni, il contesto è familiare e scolastico; • età scolare → da 6 a 10-11 anni, il bambino acquisisce autonomia e capacità di relazionarsi; • preadolescenza e adolescenza → ingresso alla scuola secondaria, è l’età delle crisi; • fase adulta → inizia il secondo ciclo, quello della famiglia e del lavoro. 1.2.1 La famiglia Esistono norme familiari in ogni famiglia, cioè regole di comportamento mediante comandi o tacite. Il numero e il contenuto delle regole sono legati al confronto sociale (es. se il un contesto la maggior parte dei ragazzi rincasa tardi la sera, diventa restrittivo quando un genitore lo impedisce al figlio). Una modalità educativa efficace è basata su una fiducia di fondo, con un discreto controllo da parte del genitore attraverso domande e sull’offerta di un aiuto costante, ma moderato che non porti a diminuire il senso di autoefficacia del figlio. Di fondamentale importanza risulta un equilibrio nella sfera delle aspettative: un livello adeguato di autostima e motivazione al successo sarà raggiunto solo se i genitori crederanno nelle capacità dei figli senza aspettarsi ciò che essi non possono dare. A questo proposito, i comportamentisti hanno sottolineato la complessità del gioco dei rinforzi: le punizioni inflitte con aggressività sortiscono effetti negativi, provocando l’imitazione di atteggiamenti violenti, mentre quelle simboliche e inflitte con tempestività risultano più utili (es. togliere tempestivamente di mano un oggetto a un bambino che lo utilizza pericolosamente). La nascita delle relazioni familiari Quando un bambino viene concepito, i genitori attraversano tre fasi: 1. attesa → comporta un cambiamento degli equilibri relazionali, è importante una preparazione alla genitorialità e che corrisponda una crescita della coppia; 2. nascita → il bambino è già dotato di un apparato per interagire con l’ambiante e creare una relazione primaria con la madre; 3. relazione primaria → la coppia madre-bambino stabilisce un’interazione che costituisce la base del successivo adattamento del bambino al mondo sociale (A. Fonzi). Dopo i due mesi il bambino comincia a regolare le proprie interazioni non sulla base di sole necessità biologiche. Verso i cinque mesi, grazie alla maturazione delle capacità di manipolazione e coordinazione oculo-manuale, comincia a utilizzare gli oggetti, perfezionandone l’uso verso i nove mesi. Dai dodici mesi ai due anni, acquisisce la capacità di riconoscere la propria immagine allo specchio, creando le premesse per distinguere tra sé e l’altro. Dai diciotto mesi amplia le relazioni all’esterno della sfera familiare (parenti, fratelli). Intorno ai due anni acquisisce il linguaggio, e fino ai cinque anni affina le competenze motorie avviandosi verso l’autonomia. Verso i tre anni aumentano le relazioni con i coetanei, con i quali è capace di fare giochi di collaborazione e scambi. Solo dopo aver conquistato l’autonomia, sarà in grado di manifestare spirito di iniziativa e capacità di pianificazione. Lo sviluppo delle relazioni familiari Le prime relazioni che il bambino instaura sono di tipo diadico (dal latino dyas, termine introdotto da René Spitz per indicare la relazione madre-figlio). Il neonato vive con la madre una relazione simbiotica, ella è la chiave di lettura della realtà. Con il graduale abbandono della diade, l’individuo trova la propria unità esistenziale. La relazione familiare è di tipo verticale, poiché la famiglia è il fondamento, il più importante elemento formativo. Il modello educativo che la vita famiglia rappresenta è introiettato in ciascuno e stimola apprendimenti e comportamenti che diventano pattern interattivi. L’identificazione con i modelli genitoriali rappresenta uno stile di comportamento e un modus vivendi. Le teorie dell’attaccamento Nel testo Una base sicura, John Bowlby usa la parola attaccamento per descrivere il bisogno del bambino di potersi lanciare nell’esplorazione del mondo, certo che nei propri genitori potrà trovare un punto di riferimento emotivo saldo, accogliente ed emotivamente sintonico. Lo psicologo identifica tre tipi di attaccamento: 1. attaccamento ansioso evitante: il bambino non sceglie significativamente la madre tra altre figure estranee, sintomo di una scarsa reciprocità nella relazione; 2. attaccamento sicuro: il bambino sceglie la madre con decisione, indicando una forte relazione; 3. attaccamento ansioso ambivalente: il bambino oscilla tra il contato con la madre e il rifiuto, sintomo di una relazione non definita. Un altro contributo importante si deve a Mary Ainsworth, la quale definisce la procedura della Strange Situation, finalizzata a individuare diversi modelli di attaccamento osservando il modo in cui avviene 1.3.2 Le comunità di pratica Étienne Wenger e la comunità di pratica Il termine comunità di pratica (Community of practice) viene coniato da Étienne Wenger (1952-) per descrivere un sistema auto-organizzato che si sviluppa in tre dimensioni: 1. campi tematici: accomunano i membri ai quali partecipano e possono evolversi; 2. comunità: elemento che stimola alla condivisione di idee e alle interazioni; 3. pratica: conoscenza specifica che viene condivisa e mantenuta. All’interno della comunità di pratica è costante il concetto di mutuo aiuto. Di solito non esiste una gerarchia esplicita e i ruoli vengono assunti in base alle competenze e ai bisogni degli individui. Il file della comunità è il miglioramento collettivo. Le teorie di McLuhan Marshall McLuhan (1911-1980) è uno dei più importanti teorici delle comunità di pratica. Secondo lui la nostra società oscilla tra individualismo e divisione dei ruoli, tra collaborazione e globalizzazione. Al contrario, le comunità condividono interessi e problematiche, per collaborare, promuovere, discutere e confrontarsi su questioni correlate ai diversi interessi dei componenti. 1.3.3 L’educazione interculturale Con il termine educazione interculturale si intende l’individuazione all’interno di un progetto educativo di uno specifico percorso di interazioni fra soggetti appartenenti a diverse culture e mirate a favorire il superamento del monoculturalismo. Essa dovrebbe comprendere attività che alternino linguaggi e lingue promuovendo competenze trasversali. Agli inizi del Novecento, nel contesto statunitense, il paradigma usato per analizzare come gli stranieri si integrassero nella società era il paradigma assimilazionista (Robert E. Park e Ernest W. Brugess), secondo cui lo straniero si immetteva nella società in maniera lineare rinunciando ai suoi valori e assorbendo quelli della società ricevente. È evidente che questo modello non descriva le modalità di integrazioni di oggi nel contesto europeo, perciò è stata riformulata la teoria classica nel paradigma dell’assimilazione segmentata (Alejandro Portes), secondo cui l’integrazione dipende dal segmento della popolazione cui essi aspirano. A partire dal 2006, la pubblicazione del documento Guidelines on International Education da parte dell’UNESCO ha messo in luce l’importanza di interventi più incisivi e strutturati da parte delle istituzioni: Tradizionalmente vi sono due approcci: educazione multiculturale ed educazione interculturale. L’educazione multiculturale usa apprendimenti delle altre culture per produrre accettazione, o almeno tolleranza, di quelle culture. L’educazione interculturale si propone di andare oltre la passiva coesistenza, per raggiungere un modo di vivere insieme in evoluzione e sostenibile attraverso la creazione di comprensione e dialogo tra gruppi culturali differenti. Il Consiglio d’Europa ha perciò indirizzato l’attenzione sull’educazione interculturale: a partire dagli anni 80 si afferma il paradigma dell’intercultura. L’educazione interculturale si basa su tre principi: 1. L’educazione interculturale rispetta l’identità culturale dello studente attraverso l’offerta di un’istruzione di qualità culturalmente appropriata e reattiva per tutti; 2. L’educazione interculturale fornisce al discente le conoscenze, gli atteggiamenti e le capacità culturali necessarie per raggiungere una partecipazione attiva e piena alla società; 3. L’educazione interculturale fornisce a tutti gli studenti conoscenze, attitudini e abilità culturali che consentano loro di contribuire al rispetto, alla comprensione e alla solidarietà tra individui, gruppi etnici, sociali, culturali e religiosi. 2. IL LINGUAGGIO E LA COMUNICAZIONE 2.1 La comunicazione e i suoi elementi La comunicazione è un elemento fondamentale della vita sociale. Chi comunica deve concentrarsi non solo sul messaggio, ma anche sulla reazione di chi lo riceve, cioè sull’intero processo comunicativo, il quale include una serie di elementi: • l’emittente: colui che, dotato di un apparato di emissione, invia il messaggio; • il messaggio: l’insieme di informazioni trasmesse dall’emittente; • il codice: il sistema di regole. Il codice può essere: verbale (la lingua permette all’emittente di organizzare il messaggio e al ricevente di comprenderlo) o non verbale (gestualità, mimica facciale, forza, intonazione vocale); • il canale: mezzo utilizzato per trasmettere il messaggio; • il ricevente: colui che, dotato di un apparato di ricezione, capta il messaggio; • il feedback (o risposta di ritorno): da parte del ricevente, che non utilizza necessariamente lo stesso canale di comunicazione; • il contesto: situazione concreta in cui avviene lo scambio di informazioni; • le interferenze: ostacoli che disturbano il processo comunicativo. La comunicazione può essere verticale quando avviene tra soggetti con livelli diversi di autorità e gerarchia, oppure orizzontale quando avviene tra persone allo stesso livello della scala gerarchica. Inoltre, tutti gli scambi possono essere simmetrici, quando i due soggetti si pongono sullo stesso livello, o complementari, quando uno dei due è in una posizione di superiorità. Un atto comunicativo è efficace quando viene compreso dal destinatario, il quale gli attribuisce un significato analogo alle intenzioni dell’emittente. La Scuola di Palo Alto (che studia i problemi della comunicazione attraverso il contributo di psicologi, psichiatri, filosofi e antropologi) sostiene che qualsiasi comportamento assunto in una relazione tra due o più persone può essere definito comunicativo, indipendentemente dal fatto che l’atto del comunicare sia intenzionale o meno. Nello specifico infatti la scuola si occupa principalmente della pragmatica e degli effetti della comunicazione sul comportamento dell’individuo. 2.2 Caratteristiche e funzioni del linguaggio Il linguaggio è una delle manifestazioni dell’attività simbolica dell’uomo. La facoltà di comunicare non appartiene solo ad, in quanto il biologo austriaco Karl von Frisch (1886-1982) ha dimostrato che anche le api sono in grado di comunicare grazie al ritmo dei loro spostamenti. Tuttavia, il linguaggio umano si distingue per la complessità della sua struttura. Secondo l’ipotesi evoluzionista, il linguaggio risalirebbe alle origini della storia dell’uomo, mentre secondo l’ipotesi emergentista, questo sistema sarebbe comparso con l’Homo sapiens moderno, e come evento originario unico grazie allo sviluppo del cervello. Il linguaggio è fondato sull’associazione di un concetto, il significato (detto anche contenuto semantico) e di schemi di suoni, il significante (o espressione verbale), connubio che produce il segno linguistico. Il linguaggio perciò consente la comunicazione reciproca se colui che parla e colui che ascolta attribuiscono alle parole lo stesso significato. Linguaggio e pensiero sono intimamente connessi. Secondo l’ipotesi della relativià linguistica infatti strutture dissimili di linguaggio generano concezioni del mondo differenti. Questa ipotesi è nata dalla tesi dello studioso delle lingue d’America Benjamin Lee Whorf (1897-1941). Il linguaggio verbale assolve a quattro funzioni: differiscono è quello metodologico: il primo usa l’osservazione dei bambini come metodo di indagine, studiandoli nella loro individualità indipendentemente dalle interazioni con le altre persone, mentre il secondo valuta le capacità cognitive nei termini di quella che definisce zona di sviluppo prossimale. Egli teorizza infatti l’esistenza di un livello potenziale di sviluppo, frutto di quei comportamenti messi in atto attraverso l’aiuto o il suggerimento dell’adulto, a cui si contrappone il livello effettivo di sviluppo, cioè i comportamenti messi in atto per risolvere un problema in modo autonomo. Dal confronto tra i due il bambino apprende gradualmente un’autonomia di azione e pensiero. Lo psicologo Jerome Seymour Bruner (1915-2016) propone invece la teoria dell’apprendimento sociale, riproponendo i presupposti teorici di Vygotskij: secondo lui il linguaggio va studiato per la sua funzione sociale non solo nei suoi aspetti formali, ma anche nei diversi contesti e rispetto a interlocutori diversi. Per lo sviluppo del linguaggio, cioè, è sì importante il contributo degli adulti, ma anche il modo in cui tale contributo viene erogato. 2.7 Ulteriori modelli psicologici dello sviluppo del linguaggio • Skinner e il Comportamentismo: secondo i principi del condizionamento operante, l’apprendimento del linguaggio non è diverso da altre forme di apprendimento. Non vi è una competenza linguistica innata, ma si apprende tramite associazione stimolo-risposta. • Noam Chomsky e la Teoria Innatista: sostiene che alla base dell’acquisizione del linguaggio ci sia una competenza innata, la Grammatica Universale, ovvero la conoscenza di regole sottese all’apprendimento della grammatica propria delle lingue, e il Language Acquisition Device (LAD), dispositivo per l’acquisizione del linguaggio, che consente di acquisire gli aspetti più complessi della lingua madre. Il suolo dell’adulto è marginale. (vedere La grammatica generativa trasformazionale). • Karmiloff-Smith e la Teoria Neurocostruttivista: sostiene che durante lo sviluppo vi sia un processo di progressiva specializzazione delle aree emisferiche e delle funzioni da esse veicolate, e che tale processo è determinato all’interazione tra vincoli biologici ed esperienza; • Rogers e il modello della Comunicazione Assertiva: propone uno stile comunicativo adeguato al contesto relazionale e funzionale all’obiettivo della comunicazione. L’individuo riesce a esprimere le proprie idee e far valere il proprio punto di vista rispettando quello degli altri. • Marshall Rosenberg e il “Linguaggio giraffa”: contrapposto al “linguaggio sciacallo”, questo modello propone una comunicazione non violenta. La giraffa viene presa a esempio perché ha il cuore più grande di tutti i mammiferi e il collo lungo, simboleggiando empatia e lungimiranza, una comunicazione che evita i conflitti e rispetta le opinioni altrui. 2.8 I disturbi della comunicazione I disturbi della comunicazione possono essere: • fisici: impossibilità nel percepire e/o produrre segnali e segni di comunicazione (es. sordità, cecità, mutismo); • psicologici: difficoltà a stabilire un rapporto comunicativo efficace (es. attenzione e memoria labili, pregiudizi o interpretazioni devianti, antipatie, rifiuti, dissonanze cognitive); • sociali: difficoltà di strutturazione dinamica di comunicazione, soprattutto in gruppo (es. eccessivo egocentrismo, rigidità, intolleranza, timidezza); • strumentali: incapacità o difficoltà sia dell’utilizzazione di alcune tecniche comunicative sia della codificazione (es. non conoscenza del codice, dislivelli intellettivi); Inoltre, il rapporto comunicativo può essere ostacolato da: • distrazione: può dipendere da chi riceve il messaggio o da disturbi esterni; • saturazione: impossibilità di accogliere ulteriori messaggi (es. stanchezza); • mancanza di canali: informazione trasmessa attraverso canali difettosi; • codici incompatibili: gli interlocutori parlano lingue diverse. Per facilitare il rapporto comunicativo è necessario: cercare di instaurare un rapporto empatico, garantire attraverso la ridondanza una migliore comunicazione, assicurarsi che emittente e ricevente comprendano e rispettino i reciproci ruoli, individuare i disturbi della comunicazione e infine evitare di valutare gli altri con atteggiamenti moralistici. 3. COMUNICARE CON GLI ADOLESCENTI 3.1 Le dinamiche del cambiamento in adolescenza Gli ostacoli e le difficoltà comunicative si acuiscono particolarmente nel periodo dell’adolescenza, quando i ragazzi iniziano a mettere in discussione i modelli acquisiti nel proprio contesto familiare e scolastico e sono impegnati nella ricerca della propria identità. Per l’adolescente che vive un susseguirsi di scoperte, identificazioni e interazioni, gli oggetti mediatori sono rappresentati da adulti significativi, il gruppo dei pari, una figura intra-familiare, attività e oggetti con funzione regressiva. Per questa ragione, capita che l’adolescente ricerchi la propria identità per opposizione. 3.2 Il metodo Gordon Con l’espressione Metodo Gordon si identifica un particolare modello educativo centrato sulla comunicazione e sull’importanza delle relazioni tra individui, ovvero sulla fiducia nel potenziale dell’altro con il fine di facilitare lo sviluppo di relazioni durature e significative tra le persone, basate sulla reciproca soddisfazione e risoluzione pacifica dei conflitti. Il modello, elaborato negli anni 60 da Thomas Gordon (1918-2002), consiste nell’elevazione del rapporto educatore-studente: per poter insegnare con successo qualsiasi materia, l’insegnante deve saper comunicare in maniera efficace e disporre di competenze specifiche sul piano relazionale che possano ridurre le conflittualità con lo studente. Queste abilità possono inoltre strutturare forme di leadership democratica e relazioni interpersonali pacifiche e collaborative. A differenza dei modelli educativi classici, Gordon sostiene che l’educazione è un processo autogestito, atto a sviluppare una maggiore comprensione di se stesso. L’educatore assume quindi il ruolo di facilitatore, agevolando il processo nell’individuo in fase di formazione. 3.2.1 Il ruolo di facilitatore Nel modello di Gordon, il facilitatore è quindi colui che, attraverso l’empatia, sostiene il processo di sviluppo e di crescita della persona. Egli deve essere perciò un buon comunicatore e possedere due competenze fondamentali: • L’ascolto attivo: porsi in ascolto con orecchie, cuore e mente, mostrandosi attento e lanciando messaggi di accoglienza verbali e non verbali. L’ascolto attivo è il primo passo per una vera connessione con l’altro. • Il “messaggio io”: consiste comunicare all’altro come ci si sente in una determinata circostanza e in che modo il suo comportamento ci causa un problema o un malessere (es. “Io mi sento triste quando tu non mi ascolti” e non “È colpa tua se mi sento triste”) 3.2.2 Le barriere della comunicazione Nel libro T.E.T Teacher Effectiveness Training (1974), Gordon elenca dodici barriere alla comunicazione che costituiscono il “linguaggio del rifiuto”, che caratterizzano il non ascolto: 1. Essere imperativi – Ordinare – Esigere: il comando genera ostilità e rabbia, facendo sentire l’adolescente inferiore e che le sue esigenze siano meno importanti di quelle dell’adulto; 2. Avvertire – Minacciare: in una situazione di minaccia l’adolescente può contrattaccare con il semplice gusto di opporsi, oppure sottomettersi per timore di perdere un riferimento. In La visione naturalistica In contrapposizione alla visione di Locke, Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) suggerisce che le predisposizioni “naturali” minimizzano gli effetti dell’educazione e dell’esperienza. Orientato verso una teoria naturale dello sviluppo umano, Rousseau sosteneva che i bambini sono per natura “buoni”, per cui non hanno bisogno di una guida morale o di imposizioni e crescono secondo un “disegno della natura”. La teoria evoluzionistica Nel diciannovesimo secolo, Charles Darwin (1809-1882) con la sua teoria evoluzionistica ha dato un primo grande contributo allo studio delle differenze individuali e alle teorie dello sviluppo. Gli studi e le ricerche sulla comparazione tra lo sviluppo animale e umano e l’etologia (disciplina fondata da K. Lorenz, 1903-1989) prendono origine proprio dalle teorie evoluzionistiche. Per Darwin, le differenze tra animali vertebrati e uomini erano solo di natura quantitativa e non qualitativa, teorizzando che ci fosse una continuità biologica tra di essi (es. istinto materno). Perciò le differenze individuali (o mutazioni) erano frutto di un processo di adattamento. Darwin distinse così due fasi: la prima caratterizzata dallo sviluppo di una varietà abbondante di individui, mentre nella seconda vengono selezionati con il criterio della sopravvivenza del più adatto (selezione naturale). Il risultato di tale processo, detto specializzazione, è la formazione di un gruppo di individui che risultano essere diversi. Darwin raccolse una mole significativa di dati attraverso l’osservazione dei propri figli e concluse che l’ontogenesi contenesse in sé la filogenesi e che il bambino, seppur ancora immaturo, rappresenti quel momento dell’evoluzione a cavallo “tra la fase di evoluzione dell’animale più evoluto e la fase di sviluppo dell’uomo adulto” (A. Quadrio, P. Catellani, Psicologia dello sviluppo individuale e sociale). L’approccio sociologico L’approccio evoluzionistico viene contrastato dal filone sociologico e culturale, ovvero da coloro che, come Émile Durkheim (1858-1917), sostengono il primato della società nello sviluppo individuale. Secondo questo filone, è la società che condiziona obiettivi e bisogni, fornisce i mezzi di sussistenza e orienta le azioni individuali. La psicologia dello sviluppo come disciplina nasce nel 1882 con la pubblicazione La mente del fanciullo di Wilhelm Preyer (1803-1889), dove lo studioso, osservando la figlia, propone una teoria tra il primato biologico e quello sociale, affermando che “l’eredità individuale è importante quanto l’attività intellettuale nella genesi della mente. Nessun uomo in questo caso viene dal nulla e ottiene lo sviluppo della sua psiche attraverso la sola esperienza individuale; piuttosto ognuno deve riempire e rianimare attraverso l’esperienza, il patrimonio ereditato, i resti delle esperienze e delle attività dei suoi antenati”. 4.2.1 Le principali teorie dello sviluppo Il comportamentismo Secondo i comportamentisti il cambiamento dipende dagli stimoli proposti dall’ambiente, per cui il bambino tenderà a ripetere quelle sequenze comportamentali rinforzate dall’esterno e a eliminare quelle che ottengono rinforzi negativi. Il focus è stato incentrato sui processi di apprendimento. • Il condizionamento classico di Pavlov: il fisiologo e Nobel per la medicina russo Ivan Pavlov (1849-1936) dimostrò, attraverso l’osservazione sistematica di cani sottoposti a particolari stimolazioni, il legame tra stimoli e risposte. Osservò che nei cani si produceva un’aumentata salivazione in conseguenza all’assunzione di cibo. Sfruttando quest’associazione di stimoli e introducendo quello che definì stimolo condizionato, ovvero un suono, ottenne ugualmente la reazione di salivazione, pur eliminando la somministrazione di cibo, confermando l’apprendimento della risposta condizionata per via associativa. • Il condizionamento operante di Skinner: introdotto da Edward Lee Thorndike (1874-1949) e approfondito dallo psicologo Burrhus Skinner (1904-1990), il condizionamento operante prevede che l’apprendimento avvenga mediante rinforzo di una delle tante risposte presenti nel contesto. Nei suoi esperimenti sui topi Skinner notò che il topo che premeva casualmente una leva otteneva il cibo (rinforzo), apprendeva a premerla volontariamente per ottenerlo nuovamente. • Teoria dell’apprendimento sociale di Bandura: Albert Bandura (1925-2021) si dissocia dal comportamentismo radicale di Skinner per l’importanza attribuita all’osservazione come mezzo di apprendimento anche in assenza di rinforzo. L’apprendimento, per Bandura, non è più associato all’esperienza diretta, bensì all’imitazione di modelli mediante il processo di rinforzo vicariante, per cui le conseguenze relative al comportamento del modello (ricompensa o punizione), hanno lo stesso effetto sull’osservatore. I rinforzi non derivano più dall’ambiente esterno, ma dall’elaborazione individuale degli stessi (rinforzi intrinseci). L’approccio organismico È un approccio che considera l’individuo come un organismo attivo, spontaneo e teso a realizzare le proprie potenzialità, dotato cioè di principi organizzativi intrinseci. Il cambiamento è la caratteristica primaria del comportamento. Nella teoria stadiale di Jean Piaget (1896-1980), lo psicologo svizzero ha descritto in modo dettagliato e preciso le singole fasi di sviluppo, intendendo per sviluppo un processo che nasce dall’interazione individuo-ambiente. Organizzazione, adattamento ed equilibrazione (che Piaget definisce invarianti funzionali) consentono all’individuo di migliorare e accrescere la propria organizzazione del pensiero. Questa teoria è in contrapposizione con quella di Vygoskij, secondo il quale lo sviluppo mentale origina dall’interiorizzazione delle norme culturali, per cui sin dalle prime modalità di comunicare il bambino manifesta di possedere un’attività intellettiva fortemente condizionata dal contesto. I suoi studi si sono concentrati sulla costruzione dei concetti. Esso condusse degli studi su bambini che, incaricati di mettere in ordine dei pezzi di legno con delle sillabe, procedevano in modo diverso. Dalle osservazioni deriva il sistema di classificazione in quattro fasi, con cui spiega la costruzione dei concetti: 1. fase dei mucchi → il materiale viene assemblato insieme senza differenziazione; 2. fase dei complessi → in questa fase, corrispondente all’età scolare, si rileva una forma di organizzazione dei materiali basata su legami irrilevanti; 3. fase degli pseudoconcetti → tale fase, che procede fino all’adolescenza, porta a raggruppare gli oggetti in base alle caratteristiche esterne; 4. fase dei concetti → corrisponde ad una capacità di organizzazione in base all’astrazione e alla generalizzazione. Heinz Werner (1890-1964) propose un concetto di sviluppo che parte da una matrice di ordine biologico. Egli descrisse lo sviluppo adottando il principio della crescente organizzazione, sostenendo che lo sviluppo prende le mosse da un insieme indifferenziato, partendo dal quale procede poi per tappe di differenziazione e organizzazione gerarchica. Lo sviluppo psicologico, pertanto, procede da una comprensione globale del lato intrapsichico (emozioni, sensazioni) della realtà ad una comprensione analitica. Jerome Bruner ritiene invece che per sviluppo si debba intendere lo sviluppo cognitivo che non avviene per stadi (come nella teoria di Piaget), ma è legato alle strategie messe in atto dall’individuo per affrontare una determinata situazione di vita in un determinato contesto. Rappresentazione edecutiva (azione), rappresentazione iconica (immagine) e rappresentazione simbolica (linguaggio) sono modalità di elaborazione del pensiero che non costituiscono stadi, ma possono coesistere. L’approccio psicoanalitico L’approccio psicoanalitico considera l’individuo come un organismo simbolico, capace di attribuire significato a se stesso e all’ambiente circostante. La teoria psicoanalitica di Sigmund Freud (1856- 1939) si basa sullo sviluppo come un susseguirsi di fasi psicosessuali. Erik Erikson (1902-1994) aggiunge alla dimensione psicosessuale anche quella sociale e antropologica, dividendo il ciclo di vita in otto età. William Stern (1871-1938), psicologo e filosofo tedesco, con la sua psicologia personalistica poneva invece l’accento sull’individuo esaminando i tratti misurabili della personalità e l’interazione di quei tratti all’interno di ogni persona per creare il sé. 4.3 Lo sviluppo psicologico Qual è la natura del cambiamento che caratterizza lo sviluppo? • Tesi quantitativa → Comportamentisti → il cambiamento ha natura quantitativa: lo sviluppo è considerato sotto forma di accrescimento, l’individuo accumula nel tempo esperienze e apprendimenti consequenziali, che ne plasmano la crescita e ne direzionano lo sviluppo. Il bambino, cioè, è plasmato dall’ambiente esterno (esperienze e apprendimento). • Tesi qualitativa → Teorie organismiche → proposte da Piaget e Vygotskij: il cambiamento ha natura qualitativa, avviene cioè una trasformazione conseguente a specifici cambiamenti evolutivi. L’individuo è così attivo costruttore delle proprie conoscenze e competenze e lo sviluppo è determinato da principi intrinseci e non dall’ambiente esterno. Quali processi causano questo cambiamento? • Influenze ambientali → Comportamentisti → le influenze ambientali sono determinanti e modellano il comportamento del bambino. • Programmazione genetica → Teorie innatiste → le ragioni dello sviluppo risiedono nella programmazione genetica e le condizioni ambientali possono solo modulare (ma non determinare) le fasi di sviluppo. • Interazione fattori ambientali e genetici → Teorie organismiche → c’è una interazione tra fattori ambientali e genetici, che concorrono nel direzionare i processi di sviluppo: l’esperienza è in grado di stimolare particolari competenze che gli individui hanno già innate (geneticamente programmate). Si tratta di un cambiamento continuo e graduale o discontinuo e improvviso? • Graduale e continuo → Comportamentisti → se consideriamo lo sviluppo come un processo quantitativo, il cambiamento dovrà essere considerato graduale e continuo: l’individuo reagisce agli stimoli esterni e all’esperienza mediante maturazione e crescita continue. • Discontinuo e improvviso → Teorie organismiche → se consideriamo lo sviluppo come un processo qualitativo, il cambiamento sarà caratterizzato da discontinuità: l’individuo passa da • l’Ombra: l’impulso instintuale che l’individuo tende a reprimere, ciò che rifiuta di conoscere, ha un grande potenziale energetico poiché la sua integrazione comporta un ampliamento della consapevolezza, una solidificazione della personalità ed è fonte di creatività; • l’Animus e l’Anima: rappresentano l’immagine maschile presente nella donna e l’immagine femminile presente nell’uomo che si manifesta nelle fantasie ed è proiettata nel sesso opposto; • il Sé: punto culminante del percorso di realizzazione della personalità, nel quale si unificano tutti gli aspetti consci e inconsci del soggetto. 4.6 Erik Erikson e lo sviluppo psicosociale (Teoria dell’apprendimento sociale) Erik Erikson (1902-1994) è l’unico studioso che è ha fornito un quadro completo del ciclo vita dell’uomo, dalla nascita alla vecchiaia. Egli definisce gli stadi di sviluppo come stadi psicosociali (a differenza degli stadi psicosessuali di Freud) poiché il suo focus è l’interazione tra individuo e ambiente (familiare e sociale). Lo scopo dell’uomo è la ricerca della propria identità, la quale è caratterizzata da un bisogno di coerenza dell’Io tale da permettergli un rapporto valido e creativo con l’ambiente sociale. Secondo Erikson, l’individuo passa attraverso degli stadi caratterizzati da una coppia antinomica: una conquista e un fallimento (es. fiducia-sfiducia): tale situazione è definita qualità dell’Io. Le qualità dell’Io sono sperimentate tra strutture personali e strutture sociali: vissuti (accessibili all’introspezione), modalità comportamentali (osservabili) e strutture del mondo interno (inconsce). Secondo la Teoria dell’apprendimento sociale lo sviluppo dell’identità attraversa otto stadi: 1. Fiducia/sfiducia: la fiducia nasce dal rapporto affettivo qualitativo madre-bambino. L’insieme del contesto sociale contribuisce a creare il sentimento di fiducia, ma il mancato sviluppo della fiducia provoca nel bambino sfiducia e impedisce la creazione di un Io solido; 2. Autonomia/vergogna, dubbio: corrisponde all’acquisizione del linguaggio, di deambulare e di controllare gli sfinteri, i quali rendono autonomo il bambino ma allo stesso tempo lo pongono di fronte a paura di non essere compreso, di cadere, di essere giudicato e deriso dagli altri; 3. Iniziativa/senso di colpa: legato alla conquista dell’autonomia, è un periodo caratterizzato dall’iperattività dove il bambino si interfaccia in modo irruento con il mondo esterno e in modo aggressivo con i suoi compagni di gioco assumendo un atteggiamento di sfida nei confronti dei genitori. Erikson ritiene questo stadio estremamente importante per lo sviluppo di un Io equilibrato: occorre evitare di fargli vivere le sue manifestazioni come qualcosa di “cattivo” per evitare che sviluppino il senso di colpa e opprimano il loro spirito di iniziativa, facendoli sentire frustati o repressi; 4. Industriosità/senso di inferiorità: il bambino fa il suo inserimento sociale nel contesto scolastico. Il concetto di industriosità fa riferimento all’approvazione sociale grazie alla propria produttività (impara a leggere, scrivere), tuttavia il confronto con i compagni può anche suscitare un senso di inadeguatezza e inferiorità; 5. Identità/dispersione (o confusione dei ruoli): periodo dell’adolescenza, il ragazzo si mette in discussione, ricerca la propria identità e raggiunge la maturità sessuale, fa nuove esperienze. Il rischio è che la ricerca dell’identità si trasformi in ricerca di modelli in cui identificarsi per incapacità di definire il sé; 6. Intimità/isolamento: costituita la propria identità, l’individuo tende a conservare se stesso e a stabilizzare il rapporto con i componenti del suo ambiente (partner e colleghi). Il rischio è di chiudersi al rapporto con quelli al di fuori del proprio ambiente; 7. Generatività/stagnazione: il concetto di generatività non riguarda solo il desiderio di mettere al mondo dei figli, ma anche quello di creare qualcosa di utile con il proprio lavoro; 8. Integrità dell’Io/disperazione: si tratta dell’ultimo stadio di sviluppo sociale, in cui occorre accettare ciò che si è fatto, ciò che si è e ciò che si potrebbe essere ancora. Chi ha costruito un Io forte riesce ad accettare il tempo trascorso, chi non ci è riuscito vivrà questa fase con rimpianti, rimorsi, sfociando nella disperazione. 4.6.1 James Marcia Anche per James Marcia (1937-) la definizione dell’identità si raggiunge attraverso delle crisi evolutive che consentono di ridefinire il concetto del sé. Per Marcia, la crisi è un periodo in cui l’adolescente si trova a dover scegliere tra diverse alternative ed è chiamato ad impegnarsi in una di queste. In generale le crisi che si attraversano sempre in diversi ambiti (es. lavoro, relazioni, politica). 4.6.2 La teoria dei tratti della personalità di Gordon Allport Gordon Allport (1897-1967) parte dal presupposto che le unità minime analizzabili della personalità, ovvero i tratti, siano perlopiù innati, ma sono anche il risultato dell’intreccio dinamico tra sistema psicofisico e rete sociale. La personalità viene quindi considerata come un’entità dinamica, perché esposta a cambiamenti attraverso gli stimoli ambientali, le esperienze, le relazioni. Allport distingue dunque i tratti comuni da quelli individuali: • i tratti comuni sono quelli che condividiamo con altre persone, che possono essere descritti attraverso specifici test della personalità; • i tratti individuali sono quelli specifici che rendono le persone uniche e originali e sono individuabili attraverso l’osservazione diretta o i racconti che le persone fanno di se stesse. Essi si possono dividere in tre categorie: o tratti cardinali, costituiti da predisposizioni così totalizzanti e coerenti da determinare e influenzare la maggior parte delle azioni compiute dall’individuo che le possiede; o tratti centrali, costituiti da elementi secondari della personalità, capaci di influenzare in maniera determinante le azioni e il comportamento di una persona; o tratti secondari, meno palesi e con una frequenza limitata rispetto ai tratti centrali, riguardano gli atteggiamenti, i gusti e le preferenze. 4.7 Erich S. Fromm Erich Fromm (1900-1980) è stato uno psicologo, psicoanalista, filosofo e accademico tedesco, allievo di Freud. Egli ha distinto tra istinti e pulsioni: i primi definendoli bisogni primari legati al mondo animale che creano comportamenti rigidi e definiti (sessualità, fame, sete), le seconde frutto dell’evoluzione ontogenetica dell’uomo che riguardano la sfera del desiderio e dei bisogni secondari di tipo psichico e spirituale. Fromm identifica i seguenti otto bisogni psicologici basilari: relazione, trascendenza, radicamento, identità, orientamento, stimolo, unità, realizzazione. Per Fromm la personalità è l’insieme delle qualità psichiche ereditarie ed acquisite dell’individuo che ne definiscono prima il temperamento, quindi il carattere. Il carattere è inteso come l’individuo usa la propria energia psichica in funzione delle proprie esigenze individuali in un dato contesto sociale ed ambientale. Il processo di formazione ha quindi due principali dimensioni: quella sociale e quella individuale. L’uomo instaura poi relazioni positive con il mondo attraverso: l’assimilazione (acquisizione dell’ambiente) e la socializzazione (tensione verso l’altro). 4.8 Lo sviluppo del senso morale Una tematica importante dal punto di vista sociopsicologico è lo sviluppo del senso morale. Una norma morale è una guida per la condotta, poiché delinea i comportamenti desiderabili e quelli non desiderabili. Le tre grandi teorie che hanno provato a descrivere lo sviluppo morale degli individui sono la teoria cognitiva, la teoria comportamentista e la teoria psicoanalitica. 4.8.1 Le teorie cognitive Nell’ambito delle teorie cognitive, Piaget e Kohlberg (1927-1987) si sono particolarmente interessati dell’acquisizione del giudizio morale. In particolare, Piaget studiò il modo in cui i bambini giocavano per capire il loro concetto di “bene” e “male”: basandosi sull’osservazione delle regole dei giochi e su interviste riguardando il rubare o il mentire, egli scoprì che anche la moralità è un processo evolutivo. I bambini, infatti, cominciano a sviluppare una morale basata sulla stretta aderenza alle regole; successivamente, attraverso l’interazione con altri bambini, scoprono che un comportamento strettamente aderente alle regole può essere problematico ed ecco allora che sviluppano uno stadio autonomo di pensiero morale, caratterizzato dalla capacità di interpretare le regole criticamente, basandosi sul mutuo rispetto e sulla cooperazione. Attraverso l’applicazione del metodo clinico e l’osservazione diretta, Piaget arrivò a delineare diverse fasi dello sviluppo morale: 1. anomia: fino a 4 anni → il bambino attraversa la fase premorale, assenza totale di regole; 2. realismo morale: fino a 9 anni → il bambino adotta un punto di vista egocentrico e manifesta una morale eteronoma. La validità della regola dipende da chi la impone; 3. relativismo morale: dopo 9 anni → il bambino comprende il concetto di responsabilità soggettiva di un’azione o una scelta. Gli studi di Piaget furono ripresi da Lawrence Kohlberg il quale aggiunge un concetto importante, quello di convenzione. Egli ritiene infatti che lo sviluppo morale, al pari di quello cognitivo, manifesti negli individui componenti intrinseche caratterizzate da specifici ritmi evolutivi, che percorrono una sequenza di passaggi obbligatori. Per i suoi studi utilizza uno strumento che chiama “dilemma morale”, ovvero propone delle storie ai soggetti presi in esame, in cui il protagonista ha la possibilità di prendere decisioni diverse. Dalle sue osservazioni emerge uno sviluppo in tre livelli, ognuno suddiviso in due stadi. 1. preconvenzionale: fino a 9-10 anni → prevede la valutazione delle conseguenze delle azioni sul soggetto stesso. stadio 1: orientamento premio-punizione; stadio 2: orientamento individualistico e strumentale; 2. convenzionale: 13-20 anni → focalizzazione sui rapporti interpersonali e sui valori sociali. stadio 3: orientamento del bravo ragazzo; stadio 4: orientamento al mantenimento dell’ordine sociale; 3. postconvenzionale: dopo i 20 anni → focalizzazione su principi etici astratti. stadio 5: orientamento del contratto sociale; stadio 6: orientamento della coscienza e dei principi universali. Più recenti studi degli anni 70 hanno iniziato ad evidenziare delle anomalie nella sequenza degli stadi di sviluppo della moralità. Una delle più produttive è quella di Elliot Turiel (1938-), che ha elaborato la teoria del dominio, secondo la quale a partire dai 39 mesi si differenziano due rispettivi domini concettuali: le convenzioni sociali e gli imperativi morali. Le azioni del dominio della moralità hanno effetti di tipo intrinseco, mentre quelle della sfera sociale no. Ciò giustifica la concezione comune che la trasgressione delle convenzioni sia meno grave della mancata osservanza delle norme morali universalmente riconosciute. Già a tre anni, infatti, i bambini sanno che le norme morali sono assolute, mentre le convenzioni sono relative e quindi più deboli. La seconda teoria è stata elaborata da Carol Gilligan (1936-), la quale ha sviluppato un concetto di moralità del prendersi cura, in alternativa alla moralità della giustizia e dei diritti. Moralità intesa 5. I PRINCIPALI CONTRIBUTI PEDAGOGICI IN TEMA DI SVILUPPO E APPRENDIMENTO La pedagogia è la scienza che si occupa della formazione dell’uomo e della donna per l’intero corso della vita e nella pluralità dei tempi di vita e di esperienza. Tra le più rilevanti branche troviamo: la pedagogia sociale, che opera all’interno dei problemi sociali, la pedagogia speciale, che si occupa dei soggetti con bisogni educativi speciali, la pedagogia sperimentale, che si occupa della ricerca scientifica, la pedagogia comparativa, che si occupa di analizzare pratiche educative in rapporti ai sistemi educativi e formativi di altre nazioni e culture, la pedagogia della comunicazione, che studia i fenomeni comunicativi dal punto di vista educativo, la pedagogia interculturale, che si fonda sullo scambio interattivo tra individui appartenenti a culture diverse e la pedagogia degli adulti, che si occupa dei problemi specifici degli adulti, come la rieducazione e la formazione continua (Lifelong Learning). Giovanni Maria Bertin ha identificato inoltre, attraverso il termine problematicismo pedagogico, un modello per riflettere sui processi educativi e sintetizzare le esperienze e le teorie che nel corso dei secoli hanno arricchito la scienza pedagogica. Si parla invece di sociometria riferendosi alla teoria che si propone di descrivere la struttura informale dei processi socioaffettivi e socio-cognitivi nei piccoli gruppi. L’oggetto d’indagine della pedagogia è costituito dal processo formativo che coinvolge l’essere umano, calato all’interno di un’ancor più precisa situazione storico-culturale e teso a promuovere una crescita totale dell’individuo e della sua personalità. Il problema della formazione umana si pone al centro della speculazione pedagogica. 5.1 La pedagogia dagli albori al 1600 5.1.1 Agostino Agostino (354 d.C.-430 d.C.) è stato uno dei maggiori esponenti della filosofia cristiana. Nel De Magistro (389 d.C.) analizza la dinamica tra il maestro e il discepolo, dove il maestro spiega la natura delle cose al discepolo. Tuttavia, queste parole non sono che un riflesso delle cose, cioè ne costituiscono un segno, un’indicazione e non sono la cosa in sé. Per comprendere le cose è invece necessario passare dai segni (parole) ai significati. Agostino conclude così che la vera comprensione intellettuale non avviene tramite le parole, ma avviene perché facciamo spazio dentro di noi alla verità. Pertanto, il discepolo deve tracciare dentro di sé una via che porta alla conoscenza, facendo spazio al proprio Maestro interiore, il quale, tramite l’illuminazione divina, permette la comprensione delle cose. Quando il discepolo è predisposto ad ascoltare il Maestro interiore, allora è possibile l’apprendimento. 5.1.2 Comenio Jan Amos Komensky, in italiano Comenio (1592-1670), è considerato tra i maggiori pedagogisti dell’età moderna. Nella formulazione delle sue teorie egli risente dell’epoca in cui vive: il 600 è il secolo del Metodo e infatti Comenio propone un metodo con il quale attuare l’insegnamento, che contempli anche la costruzione degli obiettivi che si vogliono perseguire con l’educazione. La Pansofia La Pansofia può essere intesa come una sintesi unitaria delle diverse forme di sapere, le quali devono avere una radice comune, identificabile in Dio quale creatore dell’universo. L’unitarietà del sapere trova ragione d’essere nel fatto che esiste un unico creatore, ossia Dio, per: la natura, la mente umana e l’intelletto e le Sacre Scritture. Nell’ideale pansofico trova spazio la Pampaedia, ossia l’idea di un’Educazione Universale, che riguardi qualsiasi ambito del sapere e che possa essere rivolta a tutti. Si tratta di un pensiero rivoluzionario per quel tempo quello di concepire la scuola come universale, aperta a tutti, senza distinzioni di ceto sociale o sesso. Questa concezione, cui è dedicata Didactica Magna, una delle sue opere più importanti, si riassume nell’assioma pedagogico omnia omnibus omnino: si può insegnare tutto (omnia), a tutti (omnibus) in modo completo e interconnesso (omnino). Il metodo e la centralità dell’alunno Il metodo di insegnamento proposto nella Didactica Magna ha come fine quello di avvicinare l’apprendimento agli alunni attraverso una didattica calibrata sulle reali capacità del ragazzo, formulato un’ideale struttura di sistema scolastico che possa assolvere a tali compiti: • La schola materna è diretta ai bambini fino ai 6 anni e all’attenzione è rivolta ai sensi e all’intuizione. Il bambino deve avvicinarsi alla conoscenza senza abbandonare gli affetti familiari; • La schola vernacula è concepita per alunni dai 6 ai 12 anni. Qui si impara la lingua nazionale e l’insegnante cura gli aspetti intellettivi legati alla memoria e all’immaginazione, mentre l’alunno inizia a sviluppare capacità simboliche e linguistiche; • La schola latina è rivolta agli alunni dai 12 ai 18 anni e fornisce un accesso al sapere più dettagliato, in quanto si studiano le lingue classiche, le arti, la fisica; • L’accademia è frequentata dai 18 ai 24 anni e si approfondiscono campi specifici, con la possibilità di viaggiare per ampliare le proprie conoscenze e i propri orizzonti. 5.2 Il modello educativo illuminista 5.2.1 John Locke John Locke (1632-1704), uno dei precursori dell’Illuminismo, pubblica nel 1690 il Saggio sull’intelletto umano, dove afferma che la conoscenza viene soprattutto dall’esperienza. Infatti, inizialmente la mente dell’uomo è una tabula rasa e viene scritta con le esperienze svolte. Il suo ideale pedagogico viene espresso nell’opera Pensieri sull’educazione, che contiene una serie di proposte orientate alla formazione della nuova aristocrazia inglese: per le classi poco facoltose, propone le Working Schools, delle scuole che avviano le nuove generazioni alla vita lavorativa. 5.2.2 Nicolas de Condorcet Condorcet (1743-1794) è tra gli autori dell’Encyclopédie e si è occupato in Francia del problema dell’organizzazione di un sistema di istruzione che potesse affrontare in modo efficace le problematiche della società moderna. Le sue Memorie del 1791 sfociano in un Progetto sull’organizzazione generale dell’istruzione, presentato all’assemblea francese nel 1792. Le caratteristiche del sistema di istruzione sono: • l’istruzione deve essere universale e accessibile a tutti, comprese donne e meno abbienti; • l’istruzione deve essere gratuita per garantirne la sua universalità; • l’istruzione deve essere libera, oggettiva, basata sui fatti, senza morale o religione; • l’istruzione deve essere efficace e specialistica, basata sulle vere necessità della società. Questo modello di istruzione di stampo illuminista volge ad eliminare ogni tipo di emarginazione sociale per limitare i fenomeni di delinquenza, garantire l’effettiva uguaglianza dei cittadini e garantire la libertà dell’uomo, affrancandolo dall’ignoranza. Tutti questi principi sono presenti anche nell’attuale Costituzione Italiana. Il sistema di istruzione proposto da Condorcet si articola in livelli: • scuola comune, suddivisa in: o scuola primaria di due anni, nella quale si insegnano diritti e dover del cittadino e si apprendono nozioni mentali per partecipare alla vita sociale e produttiva; o scuola secondaria di due anni, dove si ha accesso alle discipline scientifiche e storia; • istituti, come la nostra secondaria, dove si specializzano le conoscenze; • licei, come le nostre università; • Società nazionale delle Scienze e delle Arti, che conduce ricerche nei settori della conoscenza. 5.2.3 Giambattista Vico Secondo Giambattista Vico (1668-1744), l’educazione deve essere per tutti, mirando alla piena realizzazione dell’individuo. Nell’opera Scienza Nuova, egli affronta il problema di voler codificare un metodo che possa far emergere delle verità dallo studio della storia e che si possa applicare alle scienze umane. In una delle sue Orazioni, la De nostri temporis strudiorum ratione, asserisce infatti che gli studi di tipo umanistico devono essere affiancati con pari dignità a quelli scientifici. Secondo lui il bambino passa da una fase in cui è legato ai sensi come veicolo di conoscenza ad una in cui fa uso dell’intuizione, della fantasia e dell’immaginazione e, solo più tardi, interviene una fase in cui si raggiunge la razionalità e si usa in modo efficace l’intelletto. Proprio per questo lo studio delle scienze umane deve essere anteposto a quello delle discipline scientifiche, per le quali l’astrazione dettata dall’intelletto è particolarmente necessaria. 5.2.4 Jean-Jacques Rousseau Il pensiero di Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), il quale collaborò all’Encyclopédie, emerge fin dai suoi primi scritti (i Discorsi del 1750 e del 1755), per consolidarsi nel Contratto sociale (1762): l’educazione ci viene impartita o dalla natura, o dagli uomini, o dalle cose. Quella della natura consiste nello sviluppo interno delle nostre facoltà e dei nostri organi, quella degli uomini ci insegna a fare un certo uso di facoltà e organi così sviluppati, quella delle cose viene dall’acquisto di una nostra personale esperienza mediante gli oggetti da cui riceviamo impressioni. Lo stato naturale e lo sviluppo della cultura Nel Discorso sulle scienze e sulle arti (1750), Rousseau introduce il concetto di stato naturale e sostiene come l’avanzare della cultura abbia distaccato l’uomo da una situazione idilliaca, scatenando in lui gli aspetti più brutali e dannosi. La natura infatti è una creazione di Dio e in quanto tale è perfetta e incontaminata; l’uomo, in quanto essere naturale è anch’egli incontaminato. Viene così introdotto il mito del buon selvaggio; l’uomo lontano dalla civiltà è altruista, innocente, saggio e spontaneo. Il distacco da questa condizione crea strutture artificiali come le culture, nelle quali sono rappresentate usanze, credenze e conoscenze scaturite dal progresso scientifico che danno origine ad una società contaminata, nella quale l’uomo assume comportamenti difformi alla sua originale purezza. L’Emilio o dell’educazione (1762) 5.3.3 Johann Friedrich Herbart Il filosofo tedesco Herbart (1776-1841) considera la pedagogia come una scienza autonoma e specifica, un sistema di concetti attorno al metodo dell’educazione, parlando infatti di pedagogia scientifica, la quale trova fondamenti nell’etica e nella psicologia. La pedagogia deve infatti individuare quelle caratteristiche della condotta che hanno valore etico. Per questo, è importante che il discente riconosca i cinque seguenti valori etici: • la libertà interiore, ovvero la coerenza tra la volontà e la condotta dell’individuo; • la perfezione, ovvero l’equilibrio interiore e il perfetto compimento dell’individuo; • la benevolenza, ovvero l’armonia tra la volontà del soggetto e quella degli altri; • l’equità, che commisura la ricompensa alle azioni svolte. Le tappe educative Per Herbart, la moralità dell’uomo costituisce il fine ultimo dell’educazione e che si può acquisire tramite l’esempio dell’educatore. Il percorso che educa alla morale è divido in tre tappe: 1. piano di governo: l’educatore ha un ruolo predominante sul discente, ne domina le passioni, gli impulsi e stimola in lui la volontà. Se l’obiettivo è la morale dell’allievo, esso non può essere raggiunto senza l’intervento della morale esterna, quella dell’educatore, il quale può fare leva su: la minaccia, ossia la costrizione a svolgere qualche compito o il divieto di fare qualcosa, la sorveglianza, ossia vigilare sull’attività svolta con eventuale correzione, l’autorità, ossia la capacità di porsi come figura di alto valore spirituale e morale, e infine l’amore, ossia la capacità di leggere bisogni e interessi dell’allievo. 2. piano di istruzione: il docente pose una didattica che stimola l’interesse dell’allievo e la attua in rapporto alla sua fase di sviluppo. L’allievo matura le proprie idee e giudizio morale; 3. autogoverno: fase in cui si determina la sintesi tra volontà e giudizio. La classificazione degli interessi Herbart ritiene l’interesse quella condizione essenziale grazie alla quale avviene l’apprendimento. Gli interessi conoscitivi riguardano la conoscenza del mondo e della realtà circostante, per questo sono di carattere oggettivo e si dividono in: • interesse empirico, che deriva dalla sensazione e dalla percezione stimolata in modo diretto dagli oggetti; • interesse speculativo, che deriva da ragionamenti e riflessioni fatte sugli oggetti; • interesse estetico, che deriva dall’interesse per l’armonia e la bellezza della natura; Gli interessi partecipativi sviluppano invece il versante dei rapporti umani e sociali, sono di carattere soggettivo e si dividono in: • interesse simpatetico: che deriva dal provare e condividere gli stessi sentimenti degli altri; • interesse sociale, che deriva dal mostrare attenzione per le virtù sociali (solidarietà ecc.); • interesse religioso, legato alla riflessione sulle finalità dell’uomo e sul divino. L’insegnamento Secondo Herbart, la programmazione dell’insegnamento si delinea in momenti detti gradi formali: 1. chiarezza: è il primo grado, si attua un insegnamento rappresentativo, durante il quale l’insegnante deve rappresentare l’oggetto o l’argomento descrivendo le sue caratteristiche; 2. associazione: secondo grado, l’insegnante stimola l’associazione tra l’oggetto presentato e quelli che già sono nella mente come rappresentazioni; 3. sistemazione: terzo grado, dopo le associazioni fatte in modo intuitivo, vi è una sistemazione delle rappresentazioni che stabilisce dei veri e propri legami tra esse; 4. metodo: ultimo grado, si applica quanto appreso nelle fasi precedenti. 5.4 Il Positivismo Il Positivismo (termine introdotto da Henri de Saint-Simon) è un movimento filosofico e culturale nato in Francia nella prima metà dell’Ottocento. Esso si configura come un pensiero filosofico per certi aspetti simile all’illuminismo, di cui condivide la fiducia nella scienza e nel progresso scientifico-tecnologico, e per altri, affine alla concezione romantica della storia, che vede nella progressiva affermazione della ragione la base del progresso o evoluzione sociale. 5.4.1 Auguste Comte Auguste Comte (1798-1857) è ritenuto il fondatore del Positivismo: il suo scopo era quello di creare una politica positiva che avesse la ragione come guida e la conoscenza come elemento essenziale. Nel suo Discorso sullo spirito positivo (1844), egli ne espone le cinque accezioni fondamentali: 1. nella sua accezione più antica e comune, la parola “positivo” designa il reale, in opposizione al chimerico; 2. il positivismo intende rappresentare il contrasto dell’utile con l’inutile; 3. il positivismo intende rappresentare l’opposizione tra la certezza e l’indecisione; 4. il positivismo intende rappresentare l’opposizione tra il preciso e il vago. La formazione della conoscenza La conoscenza non avviene mediante forme a priori, ma mediante l’osservazione de singoli fatti. Lo sviluppo individuale si forma attraverso tre stadi, che corrispondono a tre età o periodi, gli stessi attraverso i quali è passata l’umanità (stato teologico, metafisico e positivo). Nell’opera Discorso sull’insieme del positivismo (1848) delineò le norme secondo cui si doveva impartire la nuova educazione, suggerendo di sostituire l’educazione europea, essenzialmente teologica, metafisica e letteraria, con un’educazione positiva, conforme allo spirito della solidarietà umana, il cui fondamento è la scienza, poiché essendo opera dell’intera umanità, svilupperebbe la solidarietà. 5.4.2 Roberto Ardigò Ardigò (1828-1920) è considerato tra i padri della psicologia scientifica italiana; egli insistette infatti sul ruolo delle abitudini. Seguendo l’assioma di Comte secondo cui “non ci può essere scienza se non di fatti” egli conia il termine confluenza mentale: per Ardigò tutte le abitudini sono educative. In ambito didattico privilegiò l’intuizione, il metodo oggettivo, insegnando poche cose alla volta e tornando sempre su casi nuovi. Egli puntò a far rinascere un’etica laica, naturalistica, che pone l’uomo davanti a scelte dandogli gli strumenti conoscitivi per una scelta razionale. 5.5 Il funzionalismo e l’attivismo Lo psicologo americano William James (1842-1910), considerato padre del Funzionalismo, afferma nella sua opera Principi di Psicologia (1890) che la mente è caratterizzata da un susseguirsi continuo esperienze che definisce flusso di coscienza. Tali esperienze causano mutamenti nella mente, per cui non ha senso definire delle rappresentazioni statiche della stessa. Più che chiedersi perciò quale sia la natura della mente, occorre chiedersi quale sia la finalità dei processi psichici e come avvengano: in tal senso si farla di funzionalismo, ossa di studio della funzione del pensiero umano. In base a questo approccio, il funzionalismo si contrappone allo strutturalismo, il quale invece scompone l’esperienza in una serie di elementi fondamentali (sensazioni, immagini mentali, stati affettivi), per studiare le relazioni che intercorrono tra gli stessi. Il funzionalismo vede nei processi mentali la finalità di adattare l’organismo all’ambiente e favorire la sopravvivenza. Un aspetto importante di questo processo è il pragmatismo, in base al quale lo studio della mente va rivolto soprattutto verso le funzioni che mostrano la loro utilità pratica (funzioni utili alla sopravvivenza. Il funzionalismo trova la sua formulazione completa nella Scuola di Chicago intorno al 1930, alla quale riconduciamo il pedagogista americano John Dewey (1859-1952) e lo psicologo americano James Rowland-Angeli (1869-1949), autore del Manifesto della psicologica funzionale chiamato The Province of Functional Psychology (1907). 5.5.1 Le new schools, la scuola attiva e l’Attivismo Verso la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento si diffusero in Europa e negli Stati Uniti le new schools, una serie di esperienze educative che mostrano un’evidente rottura con l’organizzazione e con i metodi della scuola coeva: sono scuole in genere destinate a formare la futura classe dirigente. Esse pongono attenzione all’istruzione di tipo scientifico, allo studio della lingua e all’esperienza diretta. La loro impostazione si distingue per il grado di coinvolgimento dell’alunno: l’educazione pone al centro l’allievo e deve essere finalizzata alla formazione della sua personalità. Adolphe Ferrière (1879-1960) è il primo ad istituire una scuola nuova in Svizzera e nel 1899 fonda l’Ufficio Internazionale delle Scuole Nuove con l’intento di raccogliere esperienze delle scuole nuove e integrarle in una visione organica. Nel 1917, il pedagogista Pierre Bovet utilizza per la prima volta l’espressione “scuole attive”, espressione che viene ripresa da Ferrière nel 1921 al Primo Congresso sull’Educazione Nuova, dove si delinea l’azione educativa di esse: • il fanciullo ha un’energia vitale che gli permette di svolgere un ruolo attivo nel processo educativo e deve essere posto al centro di questo processo; • ciascun fanciullo ha le proprie attitudini, i propri bisogni e interessi, che vanno assecondati per favorire il suo apprendimento; • l’azione educativa deve avvenire favorendo la cooperazione tra gli alunni. Un ulteriore aspetto è la coeducazione, ossia la presenza di alunni di entrambi i sessi; • l’ambiente in cui si svolgono le attività è fondamentale per l’apprendimento, perciò il docente deve aver cura nel predisporre intorno all’alunno un ambiente efficace; • le attività devono svolgersi in piena libertà; • anche le attività di tipo intellettuale sono impostate su un percorso di scoperta progressiva; • è necessario creare una struttura di rapporti sociali, di compiti specifici e di responsabilità che insegni agli alunni l’essenza del vivere civile e l’educazione alla cittadinanza. Dalle scuole nuove nasce quindi l’Attivismo, i cui maggiori esponenti sono Claparède, Decroly, Montessori e Dewey. 5.5.2 Edouard Claparède Edouard Claparède (1873-1940) è stato uno dei maggior esponenti del funzionalismo psicologico. Le sue opere principali sono Psicologia del fanciullo e pedagogia sperimentale (1909), Scuola su misura (1920) e L’educazione funzionale (1931). Nel 1921 ha fondato l’istituto Jean-Jacques Rousseau a Ginevra, punto di riferimento per le ricerche psicopedagogiche con direttore Jean Piaget. La funzione di globalizzazione Il centro di interesse è un catalizzatore di contenuti e ha un carattere globale: il suo valore didattico risiede proprio in questa caratteristica, che lo rende corrispondente alla modalità con la quale gli alunni percepiscono la realtà. Gli oggetti o fenomeni si presentano infatti nella loro complessità e globalità senza essere artificialmente decomposti in processi analitici. Pertanto, presentare la conoscenza nelle sue componenti essenziali, che non trovano riscontro nella realtà, disorienta i bambini e li demotiva. Decroly è convinto infatti che i concetti e le idee vadano presentati in maniera globale, rispecchiando la complessità con la quale un oggetto o fenomeno si presenta al bambino. 5.5.4 Don Bosco Giovanni Melchiorre Bosco, noto come Don Bosco (1815-1888), è stato un presbitero e pedagogo italiano, fondatore delle congregazioni dei Salesiani e delle Figlie di Maria Ausiliatrice. Fu fautore di una pedagogia povera indirizzata ad aiutare i giovani degli ambienti maggiormente disagiati. Il principio educativo adottato da Don Giovanni Bosco è il metodo preventivo, secondo il quale è necessario interessarsi della formazione dei giovani in modo da prevenire il disagio morale della società. Il suo sistema preventivo si basa su: ragione, religione e amorevolezza. In particolare, l’amorevolezza è la base portante del metodo: gli educatori devono essere comprensivi e amorevoli. 5.5.5 Don Milani Don Lorenzo Milani (1923-1967) è stato un presbiterio, scrittore, docente ed educatore cattolico. La sua esperienza didattica è legata in particolare alla Scuola di Barbiana, frequentata da bambini in condizioni disagiate e isolate. Qui avviò il primo tentativo di scuola a tempo pieno, rivolta a coloro che sarebbero inevitabilmente destinati a rimanere vittime di subordinazioni sociali o culturali. È in questa circostanza che sperimenta il metodo della scrittura collettiva. Gli ideali della Scuola di Barbiana erano quelli di costituire un’istituzione inclusiva, democratica, con il fine di non selezionare ma piuttosto di far arrivare tutti gli alunni a un livello minimo di istruzione garantendo l’eguaglianza con la rimozione di differenze derivate da censo e condizione sociale. Nella sua opera Lettera a una professoressa (maggio 1967), i ragazzi della scuola denunciano il sistema scolastico, borghese e classista, il metodo didattico che favorisce l’istruzione selettiva. Fu Don Milani ad adottare per primo il motto inglese “I care”, seguito da numerose associazioni religiose e politiche. La sua concezione pedagogica è detta del professore-amico, che si oppone al docente autoritario e distaccato attraverso il metodo del mutuo insegnamento. 5.5.6 Maria Montessori La pedagogista Maria Montessori (1870-1952) è stata la prima donna ad esercitare la professione medica in Italia. Il suo lavoro l’ha portata a contatto con bambini diversamente abili, per i quali ha ideato approcci pedagogici innovativi che ha successivamente esteso a tutti. La sua esperienza più importante è la “Casa dei Bambini”, istituita nel quartiere San Lorenzo a Roma. Il suo metodo viene presentato inizialmente ne Il Metodo della Pedagogia Scientifica applicato all’educazione infantile, pubblicato nel 1909, e revisionato nel 1950 con il nome La scoperta del bambino. Nell’opera La mente del bambino. Mente assorbente del 1952, la Montessori introduce il concetto di mente assorbente, con il quale vuole indicare le potenzialità della mente del bambino. Aspetti pedagogici generali Le convinzioni della Montessori trovano le proprie radici nel positivismo, secondo cui occorre utilizzare un approccio scientifico allo studio del bambino, nel funzionalismo, che prevede di assecondare i suoi bisogni, e infine nelle convinzioni di Rousseau e Fröbel circa l’atteggiamento che il maestro deve assumere durante lo svolgimento delle attività didattiche. Il pensiero di Montessori è ricollegabile all’attivismo pedagogico, con degli aspetti innovativi: • il bambino deve esprimersi e svilupparsi cognitivamente mediante attività che reputa stimolanti e per le quali avverte interesse e bisogno. È necessario accompagnare queste attività con materiali appositamente studiati, in un ambiente stimolante e accogliente; • le lezioni devono prevedere per il discente un ruolo attivo, cioè devono essere costruite intorno al bambino stesso (purerocentrismo, contrapposto all’adultismo); • come conseguenza della parte attiva svolta dal bambino, il maestro assumerà un ruolo diverso: avrà il compito di osservare e studiare il suo comportamento per definire i prossimi traguardi da raggiungere. Il metodo Montessori Le convinzioni pedagogiche della Montessori si concretizzano in quello che viene presto chiamato metodo Montessori. Esso inizialmente nasce per ragazzi in difficoltà e per la scuola dell’infanzia, ma si estenderà a tutti. La scuola dell’infanzia deve preparare alla scuola elementare, mettendosi in continuità con quest’ultima; per farlo è necessario agire su quattro rami di cultura, definiti dalla Montessori come la quadriga trionfante delle conquiste intellettuali del bambino: 1. il disegno, che abitua al riconoscimento di forme e colori, e all’acquisizione di manualità; 2. l’aritmetica, che sviluppa abilità relative alla valutazione delle dimensioni, dei rapporti di quantità e della numerosità degli oggetti; 3. la scrittura, che coinvolge abilità manuali, abilità visive e abilità uditive; 4. la lettura, che aiuta ad arricchire il proprio linguaggio mediante l’accesso a documenti scritti. L’ambiente scolastico Un aspetto specifico della didattica montessoriana è l’ambiente scolastico che viene ricreato a misura di bambino. Nella Casa dei Bambini, un fanciullo può aprire la porta, andare in bagno, accendere la luce, prendere e deporre materiali sugli scaffali, ovvero essere autonomo e attivo. I mobili e le suppellettili sono a dimensione di bambino e facilmente spostabili e adattabili. I materiali didattici La realtà esterna fornisce numerosi stimoli al bambino, i quali possono mettere luce ai suoi bisogni e indurlo a svolgere attività particolari, ma anche creare confusione nel bambino che dovrà essere in grado di ordinarli e organizzarli. I materiali usati lo devono allora aiutare a isolare di volta in volta un determinato senso o aspetto cognitivo, accrescendo il suo interesse e concentrando la sua attenzione sull’esercizio svolto. La nuova figura del maestro La Montessori sostiene che il maestro, più che insegnare, deve svolgere il ruolo di direttori, ovvero devono dirigere le attività degli alunni, assicurandosi che le svolgano secondo regole prestabilite. Lo sviluppo del bambino Secondo la Montessori, ci sono caratteristiche universali e innate identificate come “tendenze umane”. Nel suo metodo esse sono viste come comportamento-guida in ogni fase di sviluppo. l’educazione dovrebbe facilitarne l’espressione. Tra queste: istinto di conservazione, orientamento nell’ambiente, manipolazione dell’ambiente, esattezza, ripetizione, ordine, esplorazione, comunicazione, lavoro, astrazione e perfezionamento. La Montessori parla inoltre di mente assorbente nel bambino, poiché dotata sia di capacità selettiva (percepisce e trattiene solo informazioni importanti), sia di capacità organizzativa (è in grado di organizzare il sapere che percepisce dalle esperienze). Parla allora di una realtà che inizialmente è una nebula confusa e indistinta che, con l’aiuto di esperienze e della mente assorbente, assume una forma di conoscenza più ordinata e definita. Il periodo della mente assorbente va da 0 a 3 anni, mentre il periodo successivo, dai 3 ai 6 anni, è caratterizzato da uno sviluppo cosciente, poiché alle caratteristiche della mente assorbente si affianca la mente cosciente: si tratta di una fase in cui il bambino inizia a sentire l’esigenza di organizzare e ordinare i contenuti che ha acquisito. Il pensiero cosmico di Maria Montessori Secondo Montessori, nonostante possa sembrarci di vivere nel disordine e nel caos, il nostro universo tende sempre all’armonia e all’equilibrio. Come scrive in Come educare il potenziale umano, “l’uomo, come tutti i viventi, persegue due scopi, uno cosciente e uno inconsapevole… ha la coscienza dei suoi bisogni intellettuali e fisici e di ciò che gli chiedono società e civiltà… ma non deve ancora prendere coscienza delle responsabilità più grandi che ha nell’adempimento di un compito cosmico, di dover lavorare con gli altri per il suo ambiente, per l’intero Universo”. L’esistenza di un piano cosmico implica infatti che ogni essere vivente abbia un compito a cui deve adempiere nella vita e che costituisce la sua ragione di esistere. Di fronte all’esistenza di esso, Montessori avvisa la necessità di educare l’uomo e il suo potenziale affinché possa costruire “un mondo nuovo”, nella piena consapevolezza che le sue azioni non possono prescindere da ciò che lo circonda perché tutto rientra in quell’unico destino che è anche il suo. 5.5.7 John Dewey Il pedagogista americano John Dewey (1859-1952) è considerato il padre dell’attivismo. Nel 1896 ha fondato, presso l’Università di Chicago, una scuola elementare dove svolgevano studi di pedagogia e didattica: da questa esperienza nascono Il mio credo pedagogico (1897) e Scuola e società (1899). Da forte sostenitore del sistema democratico, ne ha dato il suo contributo in Democrazia ed educazione (1916). La pedagogia di Dewey In Il mio credo pedagogico (1897), Dewey declina in cinque articoli la propria idea pedagogica, legata alle scuole nuove: 1. Art. 1 – l’educazione è un processo che permette all’individuo di giungere gradualmente a un contatto con le risorse intellettuali e morali che l’umanità ha conquistato e di divenire il depositario di un capitale, quello delle conoscenze della civiltà; 2. Art. 2 – la scuola è una comunità in cui tutti i mezzi sono destinati a rendere il fanciullo capace di partecipare attivamente alla vita sociale e di contribuire al progresso della società. Si parla di scuola-laboratorio; 3. Art. 3 – i contenuti dell’educazione sono mediati e fusi attraverso le attività sociali del fanciullo; 3. di problema, orientato a cercare una soluzione a un problema presentato; 4. di addestramento, finalizzato ad acquisire competenze e abilità per affrontare un problema; Le attività devono avere degli scopi ben definiti e chiari, sviluppandosi lungo un processo diviso in quattro fasi sequenziali: 1. ideazione, in cui si definisce l’idea e il progetto; 2. pianificazione, in cui si identificano i passaggi per la realizzazione del progetto; 3. esecuzione, in cui si procede alla realizzazione del progetto vera e propria; 4. valutazione, in cui si esprime un giudizio sui risultati. I progetti rappresentano per Kilpatrick strumenti che favoriscono la crescita pragmatico-cognitiva e psicologica dell’allievo, il quale diventa protagonista del percorso formativo e gestisce tutte le fasi del progetto: dall’ideazione, in cui è chiamato a scegliere l’obiettivo del proprio apprendimento, alla valutazione, in cui compie un’analisi critica dei processi e dei risultati. Questo modello di scuola non è dunque solo attiva, come quella del maestro Dewey, ma anche pragmatica, portando ad alti livelli di sviluppo il concetto di learning by doing. 5.5.8 Roger Cousinet Docente di psicologia pedagogica alla Sorbona e convinto sostenitore dell’attivismo pedagogico, Roger Cousinet (1882-1973), nell’opera Un metodo di lavoro libero per gruppi (1925) espone il suo metodo incentrato sull’autonomia del discente, ovvero sul libero sviluppo del fanciullo. Per Cousinet l’insegnamento tradizionale ha il doppio limite di impedire l’individualizzazione e di non favorire la socialità. Al contrario, il lavoro scolastico dovrebbe essere compiuto in un ambiente stimolante per la mente, ma anche adeguato allo sviluppo delle relazioni, volto a favorire i processi di socializzazione. Il gruppo permette di raggiungere entrambi gli obiettivi. Con il metodo di lavoro libero per gruppi, i gruppi sono formati liberamente dagli studenti. Il gruppo stesso sarebbe anche in grado di gestire la conflittualità, con la possibilità di rimodularsi a seconda delle preferenze degli studenti. Quanto a l’insegnante, egli non è omnisciente e portatore di autorità, ma adulto ragionevole e responsabile, che lavora accanto ai propri allievi sostenendoli nell’attività. 5.6 Il comportamentismo Il comportamentismo (o behaviourismo) è una teoria dell’apprendimento sviluppatasi in America nell’ambito della psicologia e si occupa dello studio di comportamenti osservabili. Tra i principali esponenti troviamo Pavlov, Watson, Thorndike e Skinner. Il modello parte dall’idea che l’individuo è un organismo docile e plasmabile e che l’apprendimento avviene mediante stimoli (S) che pervengono al soggetto dall’ambiente esterno. Raggiunto stagli stimoli, questi fornisce risposte (R). Ciò che avviene nella mente e che determina la risposta R a un dato stimolo S non è oggetto di studio: a tal proposito si parla di una scatola nera (black box). Il punto centrale dell’osservazione comportamentista è associare nell’individuo una risposta ad un determinato stimolo in maniera stabile. Se è la risposta è stabile si afferma che ha imparato a rispondere allo stimolo, ovvero che si è verificato un apprendimento. 5.6.1 Ivan P. Pavlov e il condizionamento classico Lo psicologo russo Ivan Petrovič Pavlov (1849-1936) è famoso per i suoi studi sullo stimolo e sul riflesso condizionato. Analizzando il comportamento di alcuni cani egli nota che, alla presenza del cibo, essi iniziano a produrre un quantitativo maggiore di saliva, ovvero bava. Il cibo rappresenta lo stimolo incondizionato, mentre la bava la risposta incondizionata del cane allo stimolo. Introducendo uno stimolo neutro (il suono di una campana appena prima della somministrazione), notò di ottenere ugualmente la reazione di salivazione pur eliminando la somministrazione di cibo, confermando l’apprendimento della risposta condizionata (o risposta riflessa) per via associativa e facendo diventare così lo stimolo neutro uno stimolo condizionato, poiché si è condizionata la presenza della campana con la somministrazione di cibo. Il fenomeno studiato da Pavlov, conosciuto in generale come riflesso condizionato, è stato presentato alla comunità scientifica nel corso di un congresso a Madrid nel 1903, portandolo al conseguimento di un premio Nobel per i suoi studi in campo medico nel 1904. Nell’ambito degli studi sul riflesso condizionato, si mettono in evidenza anche dei fenomeni specifici: • l’estinzione, ossia la graduale scomparsa della risposta condizionata se progressivamente lo stimolo condizionato non accompagna più quello incondizionato; • il recupero spontaneo, ossia il progressivo riapparire della risposta condizionata se progressivamente lo stimolo condizionato comincia a riaccompagnare l’incondizionato; • la generalizzazione, ossia la tendenza a produrre la risposta condizionata anche quando lo stimolo che accompagna lo stimolo incondizionato è molto prossimo a quello condizionato; • la discriminazione, ossia il fenomeno opposto, mediante cui il soggetto impara a distinguere in modo sensibile due stimoli pressoché simili (es. due campanelli simili, ma non lo stesso). 5.6.2 John B. Watson Nel 1923, lo psicologo statunitense John B. Watson (1878-1958), padre del comportamentismo, pubblica l’articolo Psychology as the Behaviorist Views It, che ne è considerato il Manifesto. La sua visione psicologica prevede l’esistenza di un ambiente circostante attivo, capace di influenzare un soggetto passivo, il quale apprende solo se stimolato. L’interesse di Watson si sofferma sulle connessioni stimolo-risposta constatando che spesso la presenza del medesimo stimolo genera nel soggetto risposte differenti. Pertanto, si interroga su quale di queste sia la più probabile a presentarsi ripetendo lo stimolo nel tempo. Da questo studio scaturiscono due leggi principali: 1. Legge della frequenza: la probabilità di una risposta è direttamente proporzionale al numero di volte in cui tale risposta si verifica in seguito allo stimolo (legame frequenza-probabilità); 2. Legge della recenza: la risposta più recente è quella maggiormente probabile. Pertanto, nel prevedere una risposta ad uno stimolo, occorre osservare quante volte e quanto di recente tale risposta sia stata data. Celebre è il suo esperimento su Albert, un bambino che amava giocare con un topolino: il bambino venne spaventato con rumori forti proprio durante il gioco, stimolando uno stimolo incondizionato (rumore) e provocando una risposta incondizionata (paura). Osservò allora come Albert finì per aver paura anche del topolino (stimolo neutro che diventa condizionato). Così la risposta del bambino viene estesa anche a nuovi stimoli. L’opera che espone in maniera più approfondita le sue idee sul processo educativo è Psychological Care of Infant and Child, del 1919, nella quale sostiene che i genitori devono mantenere sempre un distacco emotivo dai figli per il bene della loro educazione; posizione che si è inasprita ancora di più nell’opera Behaviourism (1925), dove conclude che mediante il condizionamento è possibile cambiare radicalmente i comportamenti di qualsiasi soggetto, affermando di poter creare da un bambino privo di deficit cognitivi un medico, un artista o un ladro. Tali convinzioni, seppur opinabili, gli permettono tuttavia di asserire, in modo rivoluzionario, che non è possibile sostenere la superiorità di una razza rispetto a un’altra. L’educazione che avviene mediante il condizionamento può perciò consentire a chiunque di raggiungere un’adeguata condizione sociale. 5.6.3 Edward L. Thorndike Con i suoi studi sul comportamento animale, lo psicologo statunitense Edward L. Thorndike (1874- 1949) ha dato importanti contributi alla teoria comportamentista. Le opere di maggior rilievo sono Animal intelligence (1911) e Education Psychology: briefer course (1931). Lo strumento che utilizza è la gabbia-problema (puzzle box): un gatto affamato viene rinchiuso in una gabbia e, mentre osserva il cibo al di fuori di essa, adotta particolari comportamenti per cercare di uscire: alcuni non danno risultato (graffiare le pareti, mordere le sbarre), altri invece sì, poiché nella gabbia sono posizionate leve per l’apertura. Questo comportamento porta Thorndike a formulare l’ipotesi dell’apprendimento per prove ed errori: al fine di raggiungere un determinato obiettivo, si adottano comportamenti diversi, in sequenza e casuali, fino a individuare quello che soddisfa lo scopo. Lo stimolo è la visione del cibo, mentre la risposta sono i comportamenti stessi. Il comportamento, perciò, non è altro che un’associazione stimolo-risposta. Una volta identificato il comportamento, Thorndike formula delle leggi dell’apprendimento che descrivono come l’animale apprende e adotta lo stesso comportamento in situazioni analoghe: 1. Legge dell’effetto: se un’associazione stimolo-risposta (un comportamento) porta il soggetto ad uno stato di soddisfazione, tale associazione tenderà a verificarsi sempre più spesso, ossia ad essere un comportamento adottato di frequente. Al contrario, se l’associazione porta disagio, tenderà ad essere progressivamente rimossa; 2. Legge dell’esercizio: se un’associazione viene ripetuta spesso, essa tende a rinsaldarsi, mentre se non viene ripetuta tende a scomparire; 3. Legge della prontezza: un soggetto trova stimolante una certa associazione quando è pronto, ossia è sufficientemente maturo, per compiere quell’associazione. Se non è nello stato di poterla compiere, lo metterà a disagio. Queste leggi sono state riviste nel 1931 con la pubblicazione di Human learning, in seguito ad altri esperimenti su esseri umani: sostiene che nella legge dell’effetto lo stato finale di soddisfazione influenzi l’apprendimento molto più di quello di disagio; inoltre, abbandona la legge dell’esercizio, avendo sperimentato che una ripetizione meccanica non porta necessariamente a un apprendimento o miglioramento della prestazione. La conclusione più importante di questi studi è infatti che per l’apprendimento sia necessario un rinforzo positivo: dalla semplice dinamica stimolo-risposta, si determina una nuova dinamica stimolo-risposta-rinforzo. 5.6.4 Burrhus F. Skinner Tra i maggiori esponenti del comportamentismo troviamo lo psicologo statunitense Burrhus F. Skinner (1904-1990), il quale riprende il concetto di rinforzo introdotto da Thorndike. Le sue opere di maggior rilievo sono Il comportamento degli organismi (1938), Il comportamento verbale (1957), Walden due (1948) e La tecnologia dell’insegnamento (1968). Il condizionamento operante Il concetto di condizionamento operante è introdotto nell’opera Il comportamento degli organismi (1938), nel quale delinea due tipo di comportamento: 1. il comportamento rispondente, che segue il paradigma stimolo-risposta e che può definirsi come un comportamento indotto da uno stimolo esterno che genera nel soggetto una risposta. Si tratta del condizionamento classico studiato da Pavlov, Watson e Thordike. Questo comportamento è principalmente di natura passiva, in quanto la risposta è indotta dall’ambiente esterno; sul sistema educativo, che adotta il controllo condizionante. I bambini vengono cresciuti mediante condizionamenti al loro comportamento, che deve essere socievole, produttivo e le emozioni negative vengono sopite tramite tecniche di condizionamento che le rendono non desiderabili a colui che le sperimenta. L’istruzione e la lezione frontale sono completamente rimosse: l’unico compito degli insegnanti è quello di mostrare ai bambini come applicare le tecniche di apprendimento, che vanno dall’impianto deduttivo della logica al metodo scientifico, fino all’analisi statistica. Per il resto, l’apprendimento è libero e volontario e avviene nelle biblioteche e nei laboratori. Nel sistema educativo di Walden due sono abolite le punizioni e gli atteggiamenti repressivi e rinforzati invece i comportamenti desiderabili. Il testo mette anche in evidenza come questo approccio possa essere accostato a metodi di carattere attivistico, incentrati sul riscontro di quanto si è appreso nella realtà. Il processo insegnamento-apprendimento si pone dunque in una prospettiva congeniale all’alunno. L’istruzione programmata e la programmazione lineare Negli articoli The science of learning and the art of teaching (1954) e The technology of teaching (1968), Skinner illustra i suoi principi e metodi pedagogici, partendo inizialmente con il delineare gli obiettivi di apprendimento della scuola attuale: in una prima fase l’apprendimento è rivolto a concetti semplici e basilari, spesso acquisiti in modo meccanico (es. tabelline); in seguito, questi concetti sono assemblati in procedure più complesse che permettono di risolvere situazioni problematiche. Nelle dinamiche della scuola attuale, secondo Skinner, simili finalità si perseguono mediante strategie errate. I correttivi che si devono dunque applicare sono: • il rinforzo: lo studente deve mettere in atto comportamenti per evitare stati di disagio o sanzioni (es. brutto voto, nota). Per promuovere comportamenti desiderabili è efficace il rinforzo, così da incentivare atteggiamenti di motivazione allo studio; • la modalità con la quale il rinforzo viene fornito: il rinforzo deve essere fornito subito, altrimenti perde la sua efficacia. L’insegnante deve, per quanto possibile, cercare di fornire un feedback appropriato e immediato; • la strutturazione del programma: deve condurre gli alunni a raggiungere determinati obiettivi (complessi) di conoscenza. È opportuno che i risultati di un programma siano raggiunti in modo progressivo, in una sequenza stabilita in maniera rigorosa e scientifica. Le macchine per insegnare Skinner si rende conto che, per quanto efficace possa essere la strutturazione di un programma, sia difficilmente attuabile per diversi motivi, come la personalizzazione dello stesso o la cadenza serrata dei rinforzi. Prende allora piede l’idea della macchina per insegnare, presentata in Teaching Machine (1958), ripresa poi in The technology of teaching (1968). Verso il 1920 lo studioso Sidney Pressey aveva infatti messo a punto uno strumento che, in modo automatico, proponeva test composti da domande organizzate accuratamente in maniera sequenziale. Per ciascuna domanda la macchina dava un feedback immediato e procedeva alla successiva. Skinner riprende questa idea e la elabora, sostenendo che fosse possibile progettare queste macchine in modo che potessero organizzare le domande in sequenze di apprendimento che mirassero all’acquisizione di conoscenze specifiche e che potessero modificare il loro comportamento in base alle risposte dello studente (es. domande più semplici dopo molteplici errate e viceversa). Mediante queste macchine, lo studente ha un feedback continuo e impara a valutare il proprio apprendimento, studiando in modo consapevole. Queste apparecchiature hanno trovato la massima espressione pratica nei moderni software di Computer Based Training (CBT) e di Computer Assisted Instruction (CAI). 5.7 Il neocomportamentismo e la genesi del cognitivismo Il modello neocomportamentista, delineato da Tolman e Hull, segna un punto di reale rottura e discontinuità con il comportamentismo classico. Esso rappresenta un ponte verso le teorie cognitiviste che focalizzeranno l’attenzione su concetti come la mente e la coscienza, categorie che si rifanno a stati interni dell’individuo e che differiscono perciò dalle teorie comportamentiste che si rifanno ai comportamenti esterni, ritenuti osservabili. Il neocomportamentismo prova a ricondurre lo studio scientifico su aspetti che vanno oltre il semplice comportamento: l’osservazione si sofferma su concetti nuovi, come lo scopo e la memoria. Si sostituisce quindi al paradigma stimolo-risposta un nuovo paradigma che prevede la presenta di un soggetto (organismo) tra lo stimolo e la risposta, il paradigma stimolo-organismo-risposta. 5.7.1 Edward C. Tolman Lo psicologo comportamentista statunitense Edward Chace Tolman (1886-1959) è considerato il precursore del cognitivismo. In rottura con i suoi predecessori Watson e Thorndike, egli sostiene che il comportamento di un soggetto deve essere osservato nella sua totalità, senza ridurlo a una serie concatenata di stimoli-risposte. Si vuole concentrare allo studio di un comportamento globale del soggetto, che definisce comportamento molare, in riferimento alla mole che contiene un alto numero di molecole. Osservando i ratti nel labirinto egli sostiene che non è opportuno soffermarsi sulle singole azioni (gira a destra, torna indietro), ma sul risultato complessivo di uscita dal labirinto in un numero determinato di mosse. Un primo importante risultato viene raggiunto in uno studio con il collega Honzik, nell’articolo Introduction and Removal of Reward, and Maze Performance in Rats (1930): tre gruppi di topi (A, B e C) sono rinchiusi in tre labirinti identici; inizialmente compiono percorsi casuali e avanzano per tentativi ed errori, migliorando la prestazione. Il gruppo A all’uscita trova il cibo (rinforzo) e impara velocemente ad uscire, il gruppo B non trova il cibo e perciò apprende meno velocemente ad uscire, a causa dell’assenza del rinforzo. Fino a qui il paradigma del condizionamento classico è pienamente soddisfatto. Nemmeno il gruppo C trova il cibo e per esso si nota lo stesso comportamento del gruppo B, fino al decimo giorno in cui viene inserito il cibo. Il paradigma stimolo-risposta vorrebbe che il gruppo C inizi a comportarsi come il gruppo A, cioè a ridurre progressivamente il tempo di uscita fino a raggiungere la performance del gruppo A nello stesso numero di giorni. Tuttavia, questo non accade, poiché nel giro di un paio di giorni i topi del gruppo C raggiungono la prestazione del gruppo A. Questo risultato permette a Tolman di formulare diverse ipotesi: 1. L’apprendimento può avvenire anche senza rinforzo: il gruppo C deve necessariamente aver imparato come uscire dal labirinto nei dieci giorni in cui non riceveva rinforzo; 2. L’apprendimento può avvenire anche se non si manifesta alcuna variazione del comportamento: i topi del gruppo C durante i primi dieci giorni, anche se stanno apprendendo come uscire, non modificano il comportamento e continuano a comportarsi come il gruppo B; 3. Occorre distinguere tra apprendimento e performance: la comparsa del rinforzo non determina l’apprendimento dei topi del gruppo C, ma solo la loro maggiore velocità di uscita, ossia la performance. Il rinforzo non favorisce l’apprendimento, ma la performance. Le evidenze mostrano che i topi hanno una memoria di quanto appreso: i loro apprendimenti emergono dalla memoria quando sono necessari ad ottenere un rinforzo. Si nota inoltre che il comportamento viene adottato per ottenere uno scopo e che se tale scopo non è perseguibile, il topo non adotta il comportamento. Tolman lo definisce allora comportamento intenzionale (purposive behaviourism), poiché non è solo indotto da un rinforzo, ma è un fatto intenzionale, dettato da una volontà. Nell’articolo The Determiners of Behavior at a Choice Point (1938), Tolman introduce alcuni insiemi (set) variabili, nel tentativo di descrivere il comportamento dei topi nei labirinti: • le variabili indipendenti sono quelle che lo sperimentatore può manipolare e sono due: o le variabili ambientali, relative al tipo di compito da svolgere nell’esperimento, agli stimoli che si forniscono per seguirlo e alle modalità con le quali verrà effettuato; o le variabili legate alle differenze individuali dei soggetti che svolgono il compito, come l’età, i fattori ereditari, le eventuali medicine, gli esperimenti già svolti. • le variabili dipendenti sono legate al risultato che i topi esibiscono, in pratica al loro livello di apprendimento e di performance (es. la velocità d’uscita) e dipendono dalle precedenti; • le variabili intervenienti sono variabili che si frappongono tra le precedenti, specifiche dei soggetti che compiono la prestazione e che lo sperimentatore non può controllare direttamente, ma collegate alle altre e quindi che l’osservatore può desumere dai risultati (es. l’appetito, l’abilità motoria, la forza di volontà). 5.7.2 Albert Bandura Lo psicologo canadese Albert Bandura (1925-2021) deve la sua fama ad una serie di esperimenti sull’apprendimento per imitazione e sull’aggressività, che lo portano a formulare la teoria dell’apprendimento sociale di stampo comportamentista. Bandura è un autore fondamentale nel passaggio tra approccio comportamentista e cognitivismo. Gli esperimenti con la bambola BoBo Nel 1961, Bandura, Ross e Ross pubblicano l’articolo Transmission of aggression through imitation of aggressive models: si tratta del resoconto di un esperimento condotto su 36 bambini e 36 bambine. Il primo gruppo viene portato in una stanza con dei giocattoli da utilizzare. In un angolo si trova un adulto, maschio o femmina, che funge da modello e che ha a disposizione altri giocattoli: uno di carattere non aggressivo e i restanti che possono essere adoperati in modo aggressivo. Nello specifico l’uomo ha a disposizione un martello e una bambola chiamata BoBo, che se spinta a terra ritorna in piedi per via del baricentro basso. L’adulto comincia a prendere a pugni la bambola e infine a picchiarla con il martello pronunciando frasi violente (es. “prendila a calci”) e non violente (es. “continua a rialzarsi”). Il secondo gruppo si trova nelle stesse condizioni ma osserva un modello che gioca con le costruzioni. Il terzo invece è un gruppo di controllo che viene lasciato giocare senza alcun modello. I tre gruppi vengono poi portati in una stanza con dei giocattoli, e viene fatto entrare un adulto che glieli sottrae e li sgrida, creando le condizioni per l’aggressività. Si vuole infatti dimostrare che il bambino non diventa aggressivo semplicemente seguendo un modello, ma che l’imitazione avviene quando si creano condizioni di alterazione, cioè avvenimenti predisponenti. I bambini vengono poi in una stanza dove ci sono giocattoli non violenti, ma anche la bambola BoBo, il martello e altri oggetti violenti, per osservare se si comportano ora in maniera violenta e con quali modalità (se seguono il modello, se inventano nuove azioni ecc.). Dai risultati emerge che: • il gruppo che ha osservato il modello aggressivo risulta in media più aggressivo degli altri sue; • i maschi risultano più aggressivi delle femmine dal punto di vista fisico, mentre dal punto di vista verbale il livello è identico; • quando il bambino osserva un modello aggressivo del proprio sesso tende ad essere maggiormente aggressivo, immedesimandosi più facilmente; • anche un modello positivo, come quello non aggressivo, tende ad essere imitato, sebbene in tono minore rispetto al modello aggressivo. Infatti, il gruppo che ha visto il modello non aggressivo mostra in media minore aggressività. chiave che caratterizzerà la forza lavoro, pertanto un rapporto frustrante con l’apprendimento si riverserà negativamente sulla vita lavorativa. Egli parte da due problematiche legate ai processi di apprendimento e valutazione: 1. sostiene che sia abitudine dei docenti ritenere che i risultati finali debbano essere coerenti all’interno del gruppo classe, approccio che può essere mortificante in alcuni casi e falsificatorio in altri: in un gruppo con prestazioni eccellenti lo studente con prestazione media verrà collocato tra gli ultimi, mentre in un gruppo con prestazioni mediocri lo si vedrebbe tra i primi. Pertanto, il successo o il fallimento non dipendono da un confronto con uno standard generale e oggettivo, ma dal confronto con il gruppo di apprendenti; 2. la seconda osservazione è legata alla cura normale (o gaussiana): se sull’asse orizzontale si riporta la votazione e sulla verticale il numero di alunni con quella votazione, si può delineare una curva di distribuzione dei risultati che i docenti si aspettano è di tipo gaussiano, dalla forma a campana con due code, una rivolta verso i voti alti e l’altra verso i bassi, mentre la maggior parte si mantiene sui voti intermedi (picco centrale): ciò vuol dire che solo una minima parte degli studenti può raggiungere risultati eccellenti, ossia la padronanza (mastery) della disciplina. Bloom afferma che ottenere una curva di risultati di tipo normale non è una fatalità fisiologica, ma è una scelta politica ben precisa. Sarebbe invece possibile portare la maggior parte degli studenti ad un livello di padronanza se si attuassero le strategie di insegnamento-apprendimento che fornissero un feedback personalizzato e costante a ciascuno studente, come avviene nel Mastery Learning. In tal caso la curva non sarebbe più normale e simmetrica attorno ai risultati intermedi, ma avrebbe il picco verso il massimo della valutazione. Le variabili del Mastery Learning L’attitudine è definita come “l’ammontare di tempo richiesto dallo studente per raggiungere la padronanza di un apprendimento”. Questa definizione, che Bloom riprende da Carroll, non definisce l’attitudine in termini di complessità dell’apprendimento che uno studente può padroneggiare, ma è espressa in termini di tempo necessario per apprendere qualsiasi contenuto. Un problema fondamentale per elaborare una strategia di Mastery Learning è trovare il modo di ridurre la quantità di tempo richiesta dallo studente più lento per apprendere in maniera soddisfacente un argomento. In questo caso entrano in gioco la qualità dell’istruzione e l’abilità nel comprendere l’istruzione. Se il docente riesce ad adeguare l’istruzione ai bisogni de singoli studenti, allora le loro abilità saranno messe in risalto. Per farlo, può usare cinque variabili: 1. i gruppi di studio, formati da due o tre studenti che rendono il processo di apprendimento più efficace e cooperativo. Gli studenti più capacità traggono vantaggio nell’aiutare gli altri; 2. il tutor, estremamente personalizzato, cura lo sviluppo del discente, individua le difficoltà e ne favorisce il superamento; 3. il libro di testo che può avere un’impostazione che non favorisce alcuni ed essere quindi accompagnato da altri libri di testo; 4. i quaderni di lavoro, le schede esercitative e il software di istruzione programmata possono essere utili per gli studenti che hanno bisogno di rinforzo frequente; 5. il materiale audiovisivo e i giochi educativi, utili per gli studenti che hanno bisogno di illustrazioni concrete e rappresentazioni vivide dei concetti. Anche esperienze laboratoriali. La perseveranza è un altro parametro cruciale, intesa come il tempo che il discente è disposto a spendere per apprendere un determinato argomento. Importante è anche il tempo a disposizione: nel progettare un percorso di istruzione, ciascun docente prevede un certo tempo a disposizione per presentare e spiegare alcuni contenuti, includendo anche il tempo necessario agli alunni per la comprensione. Strategie per attuare il Mastery Learning Una strategia mira a definire le metodologie, gli strumenti e le modalità per ridurre il tempo necessario ad ogni alunno per apprendere. Essa deve modulare le cinque variabili in base alle esigenze del discente. I tre punti essenziali della strategia sono le precondizioni, le procedure operative e i risultati. Le precondizioni In primo luogo, è necessario sottolineare la differenza tra il processo di insegnamento-apprendimento e il processo di valutazione finale, detto anche valutazione sommativa: il primo serve a preparare lo studente in un’area della conoscenza, mentre il secondo a valutare la conoscenza acquisita. Perché il secondo abbia luogo in modo chiaro, docente e studente devono avere perfetta cognizione dei criteri per stabilire se l’apprendimento è stato conseguito. Si rivela efficace una procedura di valutazione di carattere non competitivo, basata sul raggiungimento di uno standard assoluto (e non uno standard competitivo di classe). Il problema rimane comunque sul definire questo standard a livello nazionale. Le procedure operative La procedura del Mastery Learning prevede che un corso di studi di una disciplina sia frammentato in piccole unità di apprendimento, con al termine di ognuna un processo diagnostico che Bloom chiama valutazione formativa e che differisce in efficacia rispetto alla valutazione sommativa, poiché essa è una valutazione in itinere. Di seguito i vantaggi di questa procedura: • lo studente ha un segnale del suo livello di apprendimento; • il docente ha un indizio sulla azione didattica, sulla sua pratica istruttiva e verificarla; • lo studente ha un rinforzo costante che genera in lui motivazione per i successivi. L’esito della valutazione formativa non è una votazione, ma un indice del raggiungimento o meno della padronanza; in caso non si raggiunga, la votazione formativa indica i punti critici sui quali intraprendere azioni personalizzate. I risultati I risultati possono essere di carattere diverso. Nell’articolo Learning for Mastery (1968), Bloom ha definito i risultati cognitivi a seguito di una ricerca compiuta su un corso di studi universitario in cui, con la procedura di Mastery Learning, il 90% degli studenti ha raggiunto la padronanza della disciplina. Ci sono inoltre dei risultati affettivi nei confronti della materia, in quanto la padronanza e il controllo della stessa destano un interesse spontaneo nello studente. L’approccio comportamentista La procedura del Mastery Leraning può essere inquadrata nell’ambito del comportamentismo poiché: • la riduzione dei contenuti da apprendere in unità elementari riconduce alla pratica diffusa tra comportamentisti di scomporre scientificamente il comportamento in unità elementari; • il paradigma stimolo-risposta-rinforzo trova la sua concretizzazione nella verifica formativa; • alcune metodologie di acquisizione della padronanza comportano la ripetizione dell’unità con metodi e strumenti diversi, ricordando l’apprendimento per prove ed errori. La tassonomia degli obiettivi educativi Le modalità di apprendimento vengono suddivise in tre aree o domini al cui interno vengono rilevati i relativi obiettivi educativi. Nel 1956 Bloom pubblica (insieme a Engelhart, Furts, Hill e Krathwohl) il volume Taxonomy of educational objectives: The classification of educational goals. Nel primo volume Handbook I: Cognitive domain, viene proposta la tassonomia, ovvero una classificazione degli obiettivi educativi. Qui si concentra su quelli del dominio cognitivo, che riguarda le attività intellettuali e logiche dell’individuo, suddiviso in obiettivi didattici, dal più semplice a complesso: 1. conoscenza; 2. comprensione; 3. applicazione; 4. analisi; 5. sintesi; 6. valutazione. La maturazione di competenze elementari è necessaria per accedere a quelle complesse. Le competenze basilari sono anche dette Lower Order Thinking skills (LOTS), mentre le più complesse Higher Order Thinking Skills (HOTS). La tassonomia di Bloom è un aspetto della pedagogia curriculare che ha riscosso notevole successo tra educatori o studiosi. Nel 1964, con la pubblicazione di una seconda tassonomia nel volume Handbook II: the affective domain, vengono trattati gli obiettivi educativi del dominio affettivo, il quale è relativo al lato emotivo, agli stati motivazionali e ai valori dell’individuo, suddiviso nei seguenti obiettivi: 1. ricettività; 2. risposta; 3. valutazione; 4. organizzazione; 5. caratterizzazione. Un’altra tassonomia, pubblicata nel 1972 da Elizabeth Simpson e chiamata The classification of educational objectives: Psychomotor domain, fa riferimento agli obiettivi educativi del dominio psicomotorio, ovvero alle capacità di carattere fisico e manipolazione, suddiviso in: 1. movimenti riflessi; 2. movimenti fondamentali di base; 3. abilità percettive; 4. qualità fisiche; 5. movimenti di padronanza e competenza; 6. comunicazione non-verbale. Tra le più note tassonomie c’è anche quella dello spicologo Robert Mills Gagné (1916-2002), il quale individua otto livelli di apprendimento che poggiano l’uno sull’altro: 1. apprendimento di segnali; 2. apprendimento stimolo-risposta; 3. apprendimento di concatenazioni motorie; 4. apprendimento di associazioni verbali; La percezione e il rapporto tra “il tutto” e “le parti” Dall’esperimento sul fenomeno Phi, Wertheimer deduce che la rappresentazione dell’immagine in movimento non sarebbe stata percepita se non vi fosse una naturale attitudine dell’essere umano ad elaborare il fenomeno nella sua totalità. Nel processo di percezione, perciò, la rappresentazione globale prevale sui singoli elementi costitutivi. Nel suo articolo del 1923, Laws of Organization in Perceptual Forms, Wertheimer afferma che, quando osserva un paesaggio, egli percepisce la sua totalità e non la presenza di un numero di colori che lo compongono. A tal proposito parla di leggi di segmentazione del campo visivo, ovvero fattori di percezione che favoriscono il raggruppamento in un assieme unitario. Ciò è determinato dai fattori di: • vicinanza: a parità di altre condizioni, la variabile che garantisce l’emergere di una figura unitaria è rappresentata dalla distanza relativa degli elementi che la compongono; • somiglianza: tendono a unificarsi tra loro elementi che possiedono un qualche tipo di somiglianza; • continuità di direzione e orientamento: linee rettilinee o curve vengono percepite come unità quando vengono intersecate da altre; • chiusura: la mente e l’occhio tendono a vedere come forme chiuse figure che non lo sono; • pregnanza e coerenza strutturale: definito anche buona Gestalt, riguarda semplicità, forme, simmetria, regolarità. Il sistema percettivo privilegia le soluzioni più equilibrate e armoniche. Da tali osservazioni si deduce l’assioma spesso attribuito alla Gestalt: il tutto precede le parti. L’insight e il pensiero produttivo Nel 1933, Wertheimer continua la sua ricerca nelle scuole degli Stati Uniti, dove nota che i docenti richiedono agli alunni la riproduzione di procedure che essi hanno appreso in precedenza. Secondo lui, invece, è che l’attività scolastica debba orientare nella risoluzione di problemi nuovi tramite l’insight. Egli affronta l’argomento in Productive Thinking (1945), utilizzando il termine pensiero produttivo, ovvero quell’attività mentale che produce nuova conoscenza, contrapposto al pensiero ri-produttivo, cioè quello che ci porta ad affrontare situazioni già incontrate con le stesse vecchie soluzioni. 5.8.3 Jean Piaget Piaget (1869-1980) è uno dei maggiori psicopedagogisti del XX secolo. Egli è collocato tra i cognitivisti, ma anche un precursore di successive teorie come il costruttivismo. L’epistemologia genetica Il punto di partenza dell’approccio teorico di Piaget è il pensiero di Kant circa la conoscenza delle cose, per il quale noi conosciamo le cose solo attraverso delle categorie, che oggi potremmo paragonare a schemi o strutture adoperate dalla nostra mente. Perciò, vi è una continua interazione tra mondo circostante e mente umana. Anche secondo Piaget il pensiero opera secondo strutture logiche preformate, relativamente fisse e generali. Partendo dal concetto di categoria di Kant, Piaget se ne differenzia asserendo che questi schemi non sono immutabili, ma evolvono in ciascun soggetto. Altro spetto importante è che la conoscenza può essere vista come una continua interazione tra ambiente e organismo: tra di essi esiste una dinamica di influenza reciproca, simile a quella tra mente ed esperienza, perciò Piaget afferma che vi sono relazioni molto strette tra biologia (vita biologica) e teoria della conoscenza. Questi concetti sono alla base della teoria dell’epistemologia genetica, la quale studia come si origina la conoscenza e come si evolve attraverso varie tappe (epistemologia = studio della conoscenza e delle modalità con cui si realizza; genetica = indica che tale conoscenza si evolve nel tempo, con la vita biologica, da livelli basilari a schemi complessi). La costruzione della conoscenza Il concetto di interazione tra organismo (il soggetto) e ambiente è il punto di partenza della teoria di Piaget. Questa interazione viene anche detta trasformazione, con la quale intende quel processo che porta il soggetto ad una conoscenza, purché egli agisca sull’ambiente in maniera attiva. Pertanto, si introduce un nuovo concetto fondamentale, quello di azione, la quale può essere di due tipi: • reale, cioè dotata di realtà fisica: manipolare un oggetto, tirarlo a sé, sono azioni compiute dal bambino ed attraverso di esse agisce sull’ambiente e delinea una propria conoscenza; • interiorizzata, cioè un’azione mentale che non agisce sugli oggetti, ma sulle rappresentazioni. Es. categorizzare oggetti in quanto appartenenti allo stesso ambiente. In sintesi, la conoscenza viene costruita dal soggetto: essa costituisce una rappresentazione della realtà fatta dal soggetto, è frutto di un’azione che il soggetto compie in prima persona. L’apprendimento è dunque per Piaget un atto creativo poiché la persona che apprende destruttura la materia trasmessa, l’assimila e la ricostruisce secondo le proprie strutture mentali. Gli invarianti funzionali Secondo Piaget, esistono degli invarianti funzionali che governano tutte le azioni degli individui e che non mutano le loro caratteristiche di funzionamento durante lo sviluppo della persona. Un primo invariante funzionale è il principio di organizzazione: l’organismo fisico tende ad evolversi in modo che le sue strutture siano in armonia coerente tra loro; analogamente nel pensiero si sviluppano delle strutture che si organizzano in modo coerente (principio di organizzazione). Un secondo invariante funzionale è il principio di adattamento: il soggetto è in continuo adattamento con l’ambiente esterno che può determinare l’insorgere di un bisogno di natura fisica (mangiare, dormire). Il bisogno determina un’azione che incide sull’ambiente esterno, ma che, allo stesso tempo, è stato determinato dall’ambiente. Questo scambio causa una variazione delle strutture del pensiero. Pertanto, se l’organizzazione tende a determinare la creazione delle strutture, l’adattamento, invece, comporta una modifica delle strutture stesse. L’adattamento avviene mediante due processi in equilibrio: • l’assimilazione, quando nuove conoscenze o esperienze vengono assimilate nelle strutture stesse. Il soggetto incorpora nei suoi schemi mentali eventi e oggetti dell’ambiente esterno; • l’accomodamento, quando le nuove conoscenze non possono essere inquadrate in modo coerente nelle strutture esistenti, per questo è necessario adeguare le strutture alle nuove esperienze o alle nuove conoscenze. L’accomodamento rappresenta la modificazione di uno schema mentale causato da un apprendimento. Assimilazione e accomodamento sono processi complementari, l’equilibrio tra i due dà luogo all’adattamento, che per Piaget è sinonimo di intelligenza o comportamento intelligente. Le strutture variabili Agli invarianti funzionali si contrappongono le strutture variabili, che sono tali perché modificate progressivamente dai primi. Piaget descrive le strutture delle prime fasi evolutive come schemi d’azione, che coinvolgono in prevalenza la sensazione, la percezione e la motricità: un esempio di primo schema d’azione è il riflesso, come il riflesso di suzione o prensione. Questi schemi si possono combinare tra loro in strutture più complesse e successivamente si trasformano in schemi mentali, che a loro volta si organizzano in modo sempre più complesso, fino a determinare la nascita di strutture mentali vere e proprie. Lo sviluppo come equilibrio Piaget ha proposto la gerarchia degli stadi di sviluppo della vita psichica. Egli individua cioè gli stadi evolutivi dell’uomo, ciascuno dei quali può dividersi in più sotto-stadi o fasi: 1. stadio senso-motorio, da 0 a 2 anni → si divide in 6 sotto-stadi (primo mese, da 1 a 4, da 4 a 8, da 8 a 12, da 12 a 18 e da 18 a 24 mesi); 2. stadio preoperatorio, da 2 a 7 anni → si divide in 2 sotto-stadi o fasi (la fase preconcettuale o del pensiero simbolico dai 2 ai 4 anni e la fase del pensiero intuitivo, dai 4 ai 7 anni); 3. stadio delle operazioni concrete, dai 7 ai 12 anni; 4. stadio delle operazioni formali, dai 12 ai 16 anni. Lo stadio senso-motorio Lo stadio senso-motorio va dalla nascita ai due anni e si divide in 6 sotto-stadi, ciascuno caratterizzato da semplici strutture mentali definite schemi, alla base dei quali vi sono le percezioni e l’attività motoria. Il primo sotto-stadio copre il primo mese di vita, periodo in cui le strutture cognitive sono semplici schemi definiti riflessi, meccanismi innati che si trasmettono per via genetico-ereditaria. Alcuni esempi sono: • il rooting, con cui il bambino volge il viso nella direzione del dito che si poggia sulla sua guancia; • la suzione, stimolata quando un oggetto tocca la parte superiore dell’interno bocca; la prensione della mano, che lo porta a chiudere la mano quando gli si poggia un oggetto lungo e affusolato (es. un dito di un adulto); • il riflesso di Moro, individuato dallo studioso Ernst Moro, mediante il quale apre le braccia quando viene poggiato in posizione supina. Il secondo sotto-stadio va da uno a quattro mesi, periodo in cui il neonato inizia a connettere tra loro i riflessi, effettuando le prime reazioni circolari primarie, ovvero coordinazioni di schemi, prima per caso, poi ripetuti. Alcuni esempi sono rappresentati dalla coordinazione di due gesti: • coordinazione mano-bocca: portare la mano alla bocca e succhiarla per trarne godimento; • coordinazione vista-udito: sentire un suono e girarsi nella direzione dello stesso. Nei primi due stadi il bambino è caratterizzato dall’egocentrismo radicale. Dal punto di vista del linguaggio, compaiono i primi vocalizzi. Il terzo sotto-stadio va dai 4 agli 8 mesi e si caratterizza per la comparsa delle reazioni circolari secondarie, ovvero schemi coordinati ripetuti per diletto e per affinare le abilità senso-motorie; la novità è che questi schemi determinano un effetto sull’ambiente. Una novità è la coordinazione vista- prensione: un oggetto (es. sonaglio) viene visto, afferrato e manipolato, e l’azione viene ripetuta; l’effetto sull’ambiente è quello di muovere l’oggetto. Il quarto sotto-stadio va dagli 8 ai 12 mesi ed è caratterizzato dal coordinamento delle reazioni circolari secondarie in schemi ancora più complessi. Il coordinamento è caratterizzato in pieno fanno tentativi caotici e confusionari, ma con l’insorgere del linguaggio, ossia di uno strumento simbolico, questi atteggiamenti sembrano svanire; si può notare che allora il bambino parla mentre usa gli strumenti. Questo parlare emerge in modo spontaneo e si notano due caratteristiche principali: 1. il parlare sembra quasi una necessità, come se avesse un ruolo fondamentale nel permettergli di svolgere il compito. Linguaggio e azioni sembrano correlate e dirette verso lo scopo; 2. maggiori sono le difficoltà del compito, maggiore sembra essere la tendenza a parlare. Un simile fenomeno era già stato osservato da Piaget, il quale aveva parlato di linguaggio egocentrico, poiché il bambino parla a se stesso, ripete “io”, per cui lo studioso ritiene che la spiegazione sia l’egocentrismo. Per Vygotskij, invece, il bambino sta semplicemente ragionando ad alta voce, è cioè la manifestazione di un linguaggio interiore che si palesa con un linguaggio esteriore. Il linguaggio come auto-stimolazione e auto-regolazione Cosa distingue gli scimpanzé dai bambini nell’approccio alla soluzione di un problema? L’uso del linguaggio, che aggiunge alle capacità del bambino i seguenti fattori: • la moltiplicazione di stimoli: mentre svolge un compito, il bambino riceve stimoli dal suo campo visivo e usando il linguaggio è in grado di creare un’ulteriore catena di stimoli. Parlando mentre agisce, può manifestare l’intenzione di usare altri attrezzi (stimoli); • la funzione auto-regolativa: il linguaggio rende il bambino più riflessivo, meno impulsivo e spontaneo. Fa una pianificazione ad alta voce e modera l’impeto. Il linguaggio sociale In altri esperimenti il problema proposto al bambino è tale da non poter essere risolto da solo, ma la soluzione è strutturata in modo che egli possa individuarla e non attuarla. Mentre i bambini lavorano, è presente lo sperimentatore; i bambini interagiscono con la situazione ma non sono in grado di risolverla e perciò chiedono aiuto allo sperimentatore. Emerge perciò una forma di linguaggio sociale, parallela al linguaggio egocentrico: non si tratta di una richiesta di aiuto incondizionato, ma della richiesta di aiuto nell’attuare la strategia che ha pensato di attuare. Vygotskij formula due osservazioni a questo proposito: 1. linguaggio egocentrico e linguaggio sociale sono due caratteristiche interdipendenti e strettamente correlate: se lo sperimentatore esce dalla stanza, il bambino continua a ragionare sul problema, chiedendo aiuto a se stesso; 2. il linguaggio assume progressivamente una funzionalità diversa nello svolgimento del compito: mentre nelle prime fasi accompagna l’azione, nelle successive diventa strumento programmatorio delle azioni, ovvero non è più il mezzo, ma la guida. I simboli, il linguaggio e lo sviluppo delle funzioni psichiche superiori In un altro esperimento, Vygotskij ha messi bambini tra 4 e 6 anni di fronte ad una tastiera composta da cinque tasti, addestrandoli in modo che ad un determinato stimolo visivo premano un certo tasto. Questo esperimento necessita di coordinare la sensazione e la percezione con la memoria e le abilità motorie, è quindi un compito particolarmente difficile per i bambini, che procedono a tentoni per cercare il tasto giusto. Essi, infatti, stanno lavorando con sensazione, percezione, memoria e abilità motorie come un tutt’uno. La seconda fase consiste nel cercare di introdurre nuovi stimoli, per rendere più semplice la scelta: ai bambini vengono date tessere con diversi segni che possono essere applicate sui tasti; con questo ulteriore stimolo svolgono il compito correttamente. Un altro elemento essenziale è la sicurezza della scelta del taso: è come se prima pensassero la scelta e poi svolgessero l’azione, mentre in questo caso il sistema percezione/memoria che opera la scelta si “separa” dal sistema motorio che deve invece eseguirla. Questa divisione dei sistemi funzionali è stata operata mediante una barriera che Vygotskij chiama barriera funzionale, introdotta dai simboli sui tasti. L’utilizzo dei simboli ha determinato lo stesso tipo di comportamento ragionato e auto-regolato che in altri esperimenti era stato causato dal linguaggio. Pertanto, nella risoluzione di un problema o nello svolgimento di un compito, l’essere umano, a differenza dell’animale, può disporre di due tipi di funzioni psichiche: 1. funzioni psichiche inferiori, tipiche anche degli animali, si caratterizzano per la fusione del funzionamento percettivo/mnemonico con quello motorio (es. permettono di usare un arnese). Sono il risultato di un’evoluzione biologica della specie e stimolate dall’ambiente; 2. funzioni psichiche superiori, entrano in gioco quando si usano sistemi simbolici e linguaggio. Queste funzioni permettono di svolgere compiti e attività di livello superiore rispetto agli animali e sono un riflesso non solo dell’evoluzione biologica, ma anche dello sviluppo storico, culturale e sociale. La formazione dei concetti Per comprendere le fasi della formazione dei concetti nel bambino, Vygotskij effettua un esperimento utilizzando una serie di tessere distinte per tre caratteristiche: colore (blu, rosso e verde), grandezza (grandi o piccole) e forma (quadrata, triangolare, circolare). Gli oggetti (o blocchi) vengono raggruppati in insiemi che li legano per più caratteristiche. Ipotizziamo che il primo insieme raggruppi oggetti piccoli e quadrati ed è chiamato Gur: un elemento appartenente a tale insieme è un Gur. I nomi dell’insieme sono scritti sul retro delle tessere. Lo sperimentatore prende una tessera e dice al bambino: “Questo è un Gur, puoi trovarmi altri Gur?”. Il bambino attraverso una serie di prove raggruppa gli oggetti, quasi sicuramente errati. A questo punto lo sperimentatore solleva uno degli oggetti errati e dice “Questo è un Pok”, oppure ne prende uno giusto e dice “anche questo è un Gur”, invitando il bambino a fare una seconda prova, per vedere se è in grado di formare progressivamente il concetto di Gur. Si tratta di un esperimento svolto con il metodo della doppia stimolazione: al bambino vengono dati due stimoli, il primo è la visione degli oggetti, il secondo è la parola (Gur), che dovrebbe aiutarlo ad accedere alle sue funzioni psichiche superiori. Vygotskij nota diverse caratteristiche delle soluzioni proposte, in base all’età. La prima fase è quella del sincretismo o dei mucchi, in cui il bambino: • colleziona oggetti a caso per prove ed errori; • colleziona gli oggetti più prossimi e ricadono nella visuale; • colleziona gli oggetti secondo le preferenze personali. La seconda fase è quella dei complessi, ossia aggregazioni di oggetti con una scelta logica, ma senza cogliere il significato vero e proprio del compito. Il bambino deve agire su due campi: • campo analitico, dove analizza le proprietà degli oggetti e le separa mettendole in evidenza; • campo sintetico, dove accumuna insieme oggetti secondo le proprietà che ha evidenziato. Il bambino procede allora in vari modi: • per associazioni: sceglie un oggetto capogruppo del raggruppamento; • per collezione: raggruppa oggetti complementari, una collezione di oggetti diversi; • per catene: sceglie un oggetto A e ad esso collega un oggetto B, che associa all’oggetto C…; • per diffusione: collega tra logo oggetti con caratteristiche simili. Il punto di arrivo di questa fase è lo pseudo-concetto, ossia il fatto che il bambino associ alla parola in reale significato inteso dallo sperimentatore e formi la collezione corretta. La relazione tra sviluppo e apprendimento – La zona di sviluppo prossimale Partendo dall’approccio di Koffka, Vygtskij propone un nuovo approccio nel quale sviluppo e istruzione sono fortemente correlati (ma non coincidono): la zona di sviluppo prossimale. Oltre al livello di sviluppo attuale di uno studente, è fondamentale prendere in considerazione la sua zona di sviluppo prossimale, ovvero la distanza tra il livello reale di sviluppo di un individuo e il livello di sviluppo potenziale. Essa è un fattore che può indicare il nesso esistente tra l’istruzione e lo sviluppo, indicando in particolare l’insieme di concetti e compiti che l’istruzione è in grado di far confluire nel bagaglio cognitivo del bambino e che quindi favoriscono il conseguente sviluppo. Implicazioni pedagogiche della zona di sviluppo prossimale Da un punto di vista pedagogico, Vygotskij nota che l’attività da svolgere in classe deve seguire due direttrici principali: 1. i problemi e le attività proposte devono essere presenti nella zona di sviluppo prossimale, ovvero attività che favoriscono il suo sviluppo; 2. per lo svolgimento di queste attività, poco sopra il livello di sviluppo del bambino, è necessario che quest’ultimo sia guidato in modo discreto dal maestro o che interagisca con altri bambini in modo che non restringa la sua azione a ciò che è in grado di fare, ma la amplia a ciò che è in stato di maturazione e può fare determinare un proprio sviluppo. Concetti spontanei e concetti scientifici Vygotskij sostiene che esistono due tipi di concetti, i punti forti di uno sono quelli deboli dell’altro: 1. concetti scientifici: organizzati in un sistema coerente di conoscenza, godono di relazioni che li collegano. Sono concetti di tipo formale, astratti, distaccati dall’esperienza personale; 2. concetti spontanei (o quotidiani): provengono dall’esperienza personale, non sono organizzati in un sistema coerente di conoscenza, hanno evidenza diretta e concretezza. Il gioco Nell’opera Play and its role in the Mental Development of the Child (1933) Vygotskij analizza ed evidenzia l’importanza del gioco nello sviluppo mentale del bambino. L’equivalenza tra immaginazione e sistema di regole Vygotskij sostiene che dove c’è una situazione immaginaria di gioco, allora ci sono anche delle regole, dettate dall’immaginazione stessa. Es. se una bambina sta giocando a fare la mamma, allora agisce secondo le regole del comportamento materno. È vera anche la situazione opposta: se il bambino decide di agire in un gioco secondo determinate regole, allora automaticamente ha creato una situazione immaginaria, perché l’inserimento di regole impedisce la possibilità si svolgere alcune azioni che nella realtà sono possibili. Vygotskij sottolinea che nella vita reale il bambino segue delle regole, ma le regole del gioco differiscono radicalmente dalla situazione reale ed è il bambino stesso ad autodeterminarle. Pertanto, lo sviluppo morale avviene su due versanti: quello della realtà e quello del gioco. a riconoscerne le anomalie, le differenze con le sue usuali esperienze (carte usuali). Soprattutto per i primi tempi brevi, l’osservatore tende a ricondurre il campo insolito ad un campo percettivo usuale. Inoltre, quando il riconoscimento non avviene, Bruner nota tre fenomeni: 1. la dominanza: uno degli elementi percettivi usuali viene esteso all’intero campo percettivo; 2. il compromesso: gli elementi del campo percettivo vengono mediati (es. il tre di cuori nero viene identificato con il tre di cuori “viola”, un colore che è un compromesso tra gli altri due); 3. la rottura: non riesce a formulare una risposta definitiva in cui descrive l’immagine. Viceversa, il riconoscimento della carta insolita avviene secondo una dinamica che, secondo Bruner, permette di percepire il senso di inesattezza di ciò che si sta vedendo, il quale porta talvolta a una rottura e talvolta ad uno shock ricognitivo nel quale l’anomalia viene improvvisamente riconosciuta. Non si può parlare di insight in quanto vi è una prima fase propedeutica di senso di inesattezza. L’esperimento dimostra che: • i fattori relativi al nostro vissuto e i fattori emotivi influenzano la percezione; • tendiamo a resistere ad una novità percettiva, riconducendola a qualcosa di solito. La teoria dello sviluppo cognitivo Bruner presenta la teoria dello sviluppo cognitivo in The course of cognitive growth (1964) e in Studies in cognitive growth (1966), partendo dagli studi di Piaget e Vygotskij. Per Piaget lo sviluppo è di carattere naturale e biologico, mentre per Vygotskij è determinato anche da fattori storici e socioculturali. Operando una sintesi tra le due teorie, Bruner sostiene che lo sviluppo cognitivo può essere delineato mediante il concetto di rappresentazione, con cui egli intende una modalità di elaborazione delle informazioni che provengono dall’ambiente circostante, un sistema di codifica. Esistono tre modalità di rappresentazioni: 1. esecutive (o attive): sono le prime a emergere, simili agli schemi di Piaget (es. afferrare un oggetto e portarlo alla bocca, gattonare per raggiungerlo). Per Bruner lo schema mentale che organizza tali rappresentazioni si origina dall’azione e dal feedback di tipo sensoriale (occhi) che accompagna tale azione (es. fare un nodo alla cravatta o allacciare le scarpe); 2. iconiche: si originano nel secondo anno di vita e avvengono in forma di immagini (es. immagine che ritrae una persona conosciuta). Il vantaggio di una rappresentazione iconica rispetto all’esecutiva è l’affrancamento dall’azione: essa può essere richiamata anche in assenza dell’oggetto stesso; 3. simboliche: si originano più tardi delle altre e sono codifiche basate sul linguaggio e su altre basi astratte (simboli, segni). Rispetto alle precedenti, non necessitano di una somiglianza con la realtà che identificano (es. simboli matematici, formule composti chimici). La formazione delle categorie e dei concetti L’essere umano viene in contatto con oggetti, eventi, fenomeni, azioni ed esseri viventi che lo circondano, dai quali accumula informazioni e li associa secondo elementi che li accumunano. Questo processo si chiama categorizzazione. Una categoria è una collezione di oggetti con caratteristiche che si ritengono comuni, comunemente dette attributi. Ovviamente questi oggetti possono avere alcune caratteristiche comuni e altre no, ma che non vengono ritenute rilevanti per la classificazione. Gli attributi ricorrenti (o rilevanti) determinano l’inserimento dell’oggetto nella categoria, mentre gli attributi irrilevanti non contribuiscono alla classificazione. Il concetto rappresenta invece una struttura cognitiva, una rappresentazione mentale astratta di tale categoria. Ad esempio, se vediamo un essere vivente con certi attributi creiamo la categoria “cane”; se poco dopo vediamo un altro essere vivente con gli stessi attribuiti lo inseriamo sempre nella stessa categoria. A poco a poco la categoria ingloba sempre più attributi ricorrenti (es. abbaiare, ringhiare, fiuto sviluppato, docilità). Questa categoria viene rappresentata mentalmente da un concetto, quello di “cane”, un’immagine astratta. Organizzare il modo circostante e definire concetti aiuta l’uomo a ragionare. In particolare: • riduce la complessità dell’ambiente esterno; • ci permette di identificare gli oggetti della realtà; • riduce la necessità di apprendere continuamente economizzando gli sforzi della mente. La conferenza di Woods Hole Nel 1957 l’Unione Sovietica ha lanciato nell’orbita lo Sputnik, il primo satellite artificiale della storia. Gli Statu Uniti iniziano allora a interrogarsi sul loro ritardo tecnico-scientifico indicendo, nel 1959 la conferenza di Woods Hole, nella quale si discutono i limiti del sistema educativo americano e a presiederla è proprio Bruner. Le conclusioni vedono la necessità di riformare l’impianto pedagogico dell’educazione americana, fino ad allora basato sulla scuola attiva di Dewey. Nel 1960, Bruner pubblica l’opera The process of education (pubblicato in Italia nel 1961 con il nome Dopo Dewey: il processo di apprendimento nelle due culture). In esso sono trattati quattro aspetti fondamentali della sua concezione educativa: la struttura delle discipline, il curriculum a spirale, il confronto tra pensiero intuitivo e analitico e infine la motivazione dello studente. La struttura delle discipline Bruner parte dall’idea che occorre apprendere ciò che può essere utile in futuro. Un apprendimento può rivelarsi utile in futuro in due modi: 1. se si tratta di un’abilità specifica, esso diventa applicabile a compiti che sono molto simili a quelli per i quali si è acquisito l’apprendimento. Si parla in questo caso di transfer specifico, ossia un apprendimento che viene riutilizzato in un compito diverso, ma pure sempre riconducibile a quello affrontato in precedenza; 2. se si tratta di un principio, di un’idea fondante, capace di far maturare un’attitudine generale, allora si parla di transfer non specifico. L’apprendimento può essere la base per riconoscere successivi problemi da affrontare. Bruner si concentra sul secondo tipo di transfer e sugli apprendimenti che possono favorirlo. Così facendo individua un aspetto comune a tutte le discipline nei curriculi statunitensi: questo aspetto è costituito dalla struttura, ovvero un nucleo di idee chiave, di conoscenze fondanti, perché alla base della stessa ci sono anche le relazioni che legano tali principi. Pertanto, la struttura di una disciplina è costituita dal nucleo delle sue idee fondanti e delle relazioni che legano tali idee: farla comprendere a un alunno favorisce il transfer non specifico. Apprendere la struttura significa imparare a mettere in relazione. Per questo, il pensiero di Bruner viene definito strutturalismo. Secondo lui la didattica strutturalista facilita l’apprendimento mnemonico, favorisce il transfer dell’apprendimento e rafforza la continuità tra livelli scolastici. Egli propone alcuni esempi di strutture: • studiando la biologia si può notare che alcune piante orientano la crescita in base alla forza di gravità: si parla di geotropismo. Inoltre, alcuni esseri viventi si muovono in un ambiente in base alle sorgenti luminose: si parla di fototropismo. Gli organismi si muovono o sviluppano in un ambiente, influenzati da diversi fattori (gravità, luce, temperature); • nello studio di una lingua, quando il bambino comprende la struttura di una frase, impara a generare altre frasi con la stessa forma, ma contenuti diversi. Secondo Bruner, saper padroneggiare le idee fondamentali di un campo della conoscenza permette lo sviluppo di attitudini, cioè propensioni verso un comportamento formativo e costruttivo. In che modo l’insegnamento può favorire la comprensione delle idee chiave e lo sviluppo di attitudini positive? Attraverso due elementi: l’individuazione delle idee fondamentali della disciplina e la definizione di una modalità di presentazione di queste idee. Il percorso da attuare è quello della scoperta, coinvolgendo attivamente lo studente nell’individuare gli aspetti pregnanti dell’idea stessa. L’insegnamento della struttura, secondo un metodo di progressiva scoperta, consente alcuni vantaggi: • Comprendere: la comprensione delle idee fondanti permette la comprensione della disciplina stessa; • Ricordare: mediante la struttura di una disciplina, le conoscenze vengono messe in relazione; per tale motivo è più facile recuperare le conoscenze dalla memoria; • Trasferire: le idee hanno una vasta applicabilità e possono essere utilizzate in diversi contesti. • Collegare: lungo il percorso del curriculo (dai primi gradi di istruzione all’università), le discipline sono prima delineate in modo labile e poi sempre più definite. Il curriculo a spirale Il punto di partenza per la definizione di un nuovo curriculo di apprendimento è definito da Bruner nel modo seguente: “gli aspetti fondamentali di ciascuna disciplina possono essere insegnati a chiunque, qualsiasi età egli abbia, purché siano messi in una certa forma”. Egli osserva che nell’elaborazione dei curriculi precedenti, gli studiosi avevano rimandato molti argomenti chiave delle discipline in una fase successiva di apprendimento formale, in quanto li ritenevano troppo complicati. In risposta a ciò, Bruner elabora il concetto di readiness for learning. Un argomento importante di una disciplina può infatti essere presentato in modo semplice, in modo da rendere pronto il bambino a cogliere il significato complessivo dell’argomento quando verrà riproposto più, avanti, in modo formale e approfondito. Partendo da questo assunto è possibile definire un curriculo a spirale, così detto perché inizialmente presenta idee chiave in modo semplice e intuitivo, ma periodicamente ritorna su tali idee, rivisitandole in forme sempre più elaborate. Le idee chiave devono essere presentate facendo leva sui tipi di rappresentazione più adeguati al discente. Pensiero intuitivo e analitico Bruner traccia una differenza tra pensiero analitico e pensiero intuitivo. Il primo procede un passo alla volta, con passaggi ben definiti, e la sua procedura caratteristica è l’algoritmo, ovvero una serie di operazioni da attuare in maniera rigida per raggiungere una soluzione. Il secondo si basa su una visione complessiva del problema, piuttosto che su una serie di passaggi risolutivi. La procedura euristica è caratterizzata dal pensiero intuitivo e prevede un procedere per tentativi, ridefinendo in modo continuo le modalità, affidandosi all’intuito. In generale, il pensiero intuitivo si attua quando il pensiero analitico non permette di raggiungere una soluzione e può generare positivamente una nuova conoscenza. Esso è legato alla comprensione delle strutture delle discipline; infatti, su di esso fanno leva i legami tra le idee chiave e le risoluzioni di nuovi problemi mediante idee di carattere generale. Il formulare ipotesi e promuovere intuizioni fa parte di quelle attitudini che Bruner ritiene necessarie per cogliere la struttura delle discipline e per realizzare un apprendimento basato sulla scoperta. La motivazione dello studente Per individuare gli aspetti che possono motivare gli studenti, Bruner segue varie strade. Innanzitutto, l’uso di nuove tecnologie, degli audiovisivi e di altri strumenti può enfatizzarne gli aspetti ludici e spettacolari, motivando lo studente. Tuttavia, questa motivazione declina rapidamente. • il prendere nota di aspetti critici tra quando gli apprendenti producono e quanto si vorrebbe; • il bambino può essere influenzato per la presenza del tutor e agire per compiacerlo piuttosto che per trovare una soluzione. Il tutor deve eludere questo fenomeno; • la dimostrazione pratica di un’azione deve avvenire quando il bambino è maturo per comprenderla, altrimenti non sortisce effetti. Opere principali di Bruner: Il Processo di educazione (1960); La cultura dell’educazione (1996); Verso una teoria dell’istruzione (1966); Studi sullo sviluppo cognitivo (1968). 5.9 Lo Human Information Processing e lo studio della memoria Lo Human Information Processing (HIP) è una corrente psicologica che studia la mente umana e i processi che la riguardano, seguendo una stretta analogia con i computer. Il computer è una macchina che elabora informazioni: riceve informazioni in ingresso (input), le elabora e produce nuove informazioni in uscita (output). La descrizione del computer può essere fatta mediante due termini complementari, ossia hardware e software: col primo si intende la parte fisica del computer, ossia i circuiti e dispositivi integrati come la RAM (Random Access Memory), che contiene informazioni che la CPU (Central Processing Unit) elabora mediante i programmi. Importanti sono anche le memorie di massa (hard-disk, USB, supporti CD o DVD). I programmi sono salvati in maniera permanente sulle memorie di massa e vengono richiamati dalla RAM quando la CPU deve usarli per elaborare informazioni. L’essere umano può essere paragonato a un calcolatore che riceve informazioni dall’esterno (input), le elabora nella propria mente e, a sua volta, produce azioni che hanno un effetto sull’ambiente esterno (output). Queste informazioni possono essere organizzate in modo coerente e diventano programmi, ossia compiti (istruzioni) che l’uomo riesce a svolgere. 5.9.1 La memoria e le fasi di elaborazione mnestica La memoria può essere paragonata a un enorme archivio all’interno del quale l’individuo conserva tracce della propria esperienza passata e delle conoscenze acquisite. Tale archivio non ha caratteristiche statiche e passive ma può essere definito come un costruttore attivo di rappresentazioni sul mondo (Tomei, 2017). In tal senso, la memoria è ricostruttiva e non riproduttiva nella sua modalità di funzionamento. Questa sua natura trova riscontro empirico negli studi di Nader e Hardt che evidenziano il fenomeno del riconsolidamento mnestico, secondo cui i ricordi una volta recuperati divengono suscettibili di essere rielaborati e quindi immagazzinati nuovamente mediante una nuova traccia mnestica. Si tratta di un processo di elaborazione attiva che assume particolare rilevanza clinica e del quale ne vengono descritte tre fasi principali: 1. fase di codifica: si riferisce al modo in cui l’informazione viene inserita nel contesto di informazioni precedenti e viene trasformata in un codice che la memoria riconosce; 2. fase di ritenzione e consolidamento: il ricordo viene consolidato e stabilizzato in modo che possa essere recuperato a lungo termine; 3. fase di recupero: consiste nel recuperare il ricordo dalla memoria a lungo termine alla memoria di lavoro affinché venga utilizzato. La memoria a breve termine ha il compito di trasformare le informazioni dei registri sensoriali in informazioni stabili: questo processo deve avvenire nei tempi ridotti in cui la memoria a breve termine trattiene le informazioni. 5.9.2 I principali modelli teorici sulla memoria Modello multi-magazzino di Atkinson e Shiffrin Detto anche multi-store model, esso descrive il funzionamento della mente umana mediante un sistema di tre magazzini o memorie che scambiano informazioni: memoria sensoriale, memoria a breve termine (MBT) e memoria a lungo termine (MLT). Ciascuna ha tre aspetti che la contraddistinguono: o funzione che svolge nell’architettura complessiva del modello; o capacità, ossia la quantità di informazione che riesce a gestire contemporaneamente e archiviare; o tempo di trattenimento, ossia il lasso di tempo in cui la memoria riesce a trattenerla La memoria sensoriale ha una grande capacità, in quanto riesce a contenere tutti gli stimoli che giungono in contemporanea dall’esterno. Tuttavia, il tempo di trattenimento è limitato e buona parte dell’informazione viene persa, mentre una piccola parte giunge alla memoria a breve termine. Essa è organizzata in tre registri sensoriali: • memoria sensoriale visiva, relativa alla traccia nel registro sensoriale corrispondente a immagini visive; • memoria sensoriale ecoica, corrispondente alla traccia lasciata dai suoni La memoria a breve termine, detta anche memoria di lavoro, contiene le informazioni per un periodo di tempo molto breve (ca. 10 secondi). Se queste tracce riescono a essere consolidate mediante strategie comportamentali fluiscono nella memoria a lungo termine. La memoria a lungo termine è un archivio avente capacità quasi illimitata, dove sono conservate tutte le esperienze e le conoscenze acquisite nel corso della vita. Essa si divide in memoria esplicita (o dichiarativa) e memoria implicita (o procedurale). La memoria esplicita comprende tutto ciò che può essere descritto consapevolmente dal soggetto ed è divisa in: • memoria episodica, che raccoglie eventi che l’individuo ha vissuto in prima persona e consente di immagazzinare aspetti specifici – in termini spazio-temporali e situazionali; • memoria semantica, che non fa riferimento a eventi e accadimenti della propria esperienza personale, ma consiste nell’insieme di concetti, conoscenze e nozioni acquisite con l’esperienza di vita; è la memoria del sapere; • memoria autobiografica, che è costituita dall’insieme dei ricordi che hanno caratterizzato la nostra esistenza, visti nella prospettiva del sé nel rapporto con il mondo (Conway, 2005). La memoria implicita contiene abilità motorie, percettive e cognitive: si usa nel momento in cui dobbiamo effettuare un’attività quotidiana divenuta routinaria. È coinvolta in tutta quella parte di conoscenza definita knowing how (Gilbert Ryle). Modello di memoria di lavoro o working memory (WM) di Baddeley e Hitch Elaborato nel 1974, introduce la working memory, una forma di memoria a breve termine che mantiene una quantità limitata di informazioni per un tempo limitato. Essa mantiene attiva l’informazione per metterla al servizio di compiti cognitivi implicati nello svolgimento di un compito o un’attività. Modello della memoria prospettica di Meacham e Singer Elaborato nel 1977, fa riferimento ai processi e alle abilità implicate nel ricordo di intenzioni che devono essere realizzate nel futuro, cioè il ricordarsi di portare a termine quelle intenzioni che, per diverse ragioni, non possono essere rimandate ad un momento successivo. Nel processo si distinguono almeno cinque fasi (Ellis, 1996): formazione dell’intenzione; intervallo di ritenzione; intervallo di prestazione; esecuzione dell’azione intenzionale; valutazione del risultato. 5.9.3 Le basi neuronali dei processi mnestici Gli studi condotti sui processi di memoria hanno permesso di individuare le aree e le strutture responsabili dei processi mnestici e osservare la relazione tra memoria ed emozione. Da essi è emerso che le strutture maggiormente responsabili nei processi mnestici sono l’ippocampo e l’amigdala, due strutture sottocorticali nel lobo temporale, facenti parte del sistema limbico: l’ippocampo sembra giocare un ruolo primario nella formazione della memoria a breve termine, ma non nel consolidamento della traccia mnestica (memoria a lungo termine). Esso raggruppa informazioni processate da altre aree cerebrali sintetizzandole in un’unica configurazione di stimoli sensoriali esterni. L’amigdala, invece, consente il controllo dell’informazione sensoriale e l’attribuzione di un particolare significato affettivo e/o emotivo a tale informazione. 5.10 Approccio e metodo metacognitivo Negli anni 70 nasce un approccio cognitivista che intende affiancare allo studio dell’attività cognitiva di un bambino o di uno studente anche l’attività metacognitiva, ovvero un’attività di auto-riflessione che accompagna quella cognitiva con il compito di renderla più consapevole, monitorarla e valutarla al fine di garantire un apprendimento più efficace. L’obiettivo è quello di sviluppare negli alunni abilità di riflessione sulle proprie modalità di apprendimento, mediante l’uso di strategie auto- valutative. Gli studiosi principali sono John H. Flavell (che conia il termine “metacognizione”), Ann L. Brown e Robert Sternberg. Le fasi dell’attività metacognitiva 1. comprendere la natura del compito → si parla in questo caso di metacomprensione, ossia della capacità di riconoscere con chiarezza aspetti fondanti del compito che si deve svolgere; 2. scegliere la strategia adeguata → può essere una strategia già appresa o una strategia nuova che combina parti di strategie. Si parla in questo caso di metamemoria, che è la capacità di richiamare dalla memoria le strategie e le sequenze di operazioni idonee allo svolgimento; 3. gestire e distribuire bene il tempo disponibile → occorre che tutte le fasi di svolgimento siano attuare con una tempistica che rispetti le scadenze prefissate; 4. prevedere gli esiti → la scelta delle strategie e la distribuzione del tempo permettono di prevedere gli esiti, ed è proprio questa previsione che incide sulla scelta delle strategie e dei tempi: solo una previsione di esito positivo determina la scelta di tempi e strategie; 5. controllare l’esecuzione → la strategia da attuare prevede l’esecuzione di diverse azioni, mediante una sequenza di passaggi, deve essere flessibile e variabile in caso di necessità; 6. valutare il risultato → occorre chiedersi se si è ottenuto il risultato programmato, mettendo in evidenza punti di forza e criticità per attuare miglioramenti nei futuri compiti analoghi. La metacomprensione Se la comprensione è indice dell’aver capito che cosa svolgere, la metacomprensione è l’attività che consiste nel valutare coscientemente il livello di comprensione del compito (“capire di aver capito”). Ci si potrebbe trovare infatti di fronte a un compito che non è stato formulato in modo adeguato o è mal posto, per esempio i dati o le regole di partenza di tale compito potrebbero essere insufficienti. Le attività di metacomprensione iniziali aiutano l’alunno a rendersi conto se ci sono incongruenze nel compito assegnato, se è necessario richiedere ulteriori informazioni. L’uomo-scienziato e l’alternativismo costruttivo Le considerazioni di Kelly partono dall’osservazione che l’uomo ha spesso un atteggiamento da scienziato, formulando ipotesi di lavoro sulla realtà circostante e tentando di convalidarle o confutarle. Tutte le descrizioni formulate dagli uomini circa l’universo e la realtà circostante, infatti, sono soggette alla revisione o alla progressiva sostituzione. Nel considerare una descrizione della realtà ciascun uomo deve essere consapevole che possa esistere una descrizione alternativa: questa posizione è chiamata alternativismo costruttivo. Da un punto di vista filosofico, esso si inserisce nella dialettica tra realismo e nominalismo. Il lavoro quotidiano dell’uomo-scienziato mira a realizzare proprie costruzioni del mondo circostante, al fine di anticipare eventi e fenomeni che in esso si verificano. Ciascuno può mettere a confronto le proprie costruzioni con quelle degli altri, che possono essere ugualmente utili per predire fenomeni e comportamenti. Postulato e corollari della psicologia dei costrutti personali Il postulato fondamentale di Kelly afferma che i processi di una persona sono canalizzati da un punto di vista psicologico dalle modalità con le quali la persona anticipa gli eventi. Le modalità con le quali l’individuo formula le anticipazioni sono i costrutti, ovvero interpretazioni che diamo agli eventi oppure i termini con i quali decidiamo di ricercare la replicabilità tra gli stessi. Il costrutto è l’unità fondamentale con la quale l’uomo realizza le sue costruzioni, la sua visione del mondo, la sua anticipazione della realtà, la sua capacità di formulare ipotesi su ciò che può accadere. Dal postulato fondamentale derivano undici corollari: 1. il corollario della costruzione afferma che una persona anticipa gli eventi costruendo delle loro repliche, ovvero l’interpretazione che diamo agli eventi passati rende possibile anticipare l’esito di eventi futuri. È chiaro che essi non si ripetono mai in modo uguale, tuttavia la ricerca di alcune regolarità ci permette di individuare un certo ordine nel mondo circostante, anche se tale ordine è imposto dalla nostra visione (es. se abbiamo avuto una brutta esperienza con un cavallo imbizzarrito, nel ritrovarlo saremo portati a pensare che sia possibile un suo imbizzarrirsi a determinate condizioni); 2. il corollario dell’individualità stabilisce che le interpretazioni che le persone danno degli eventi differiscono tra loro, ovvero ciascuno agisce in modo coerente con la sua percezione; 3. il corollario dell’organizzazione stabilisce che i costrutti sono organizzati in sistemi di relazioni gerarchiche, ovvero un costrutto può implicarne un altro, oppure includere un altro costrutto come suo elemento (es. il costrutto buono-cattivo può essere sovraordinato al costrutto intelligente-stupido se nell’organizzazione del sistema di costrutti dell’individuo l’essere intelligente implica l’essere buono e l’essere stupido implica l’essere cattivo); 4. il corollario di dicotomia asserisce che il sistema di costruzioni personali di un individuo è costituito da un numero finito di costrutti dicotomici. Secondo Kelly, per determinare un costrutto occorre un minimo di tre elementi: tra due si deve stabilire una similarità, per definire uno dei poli del costrutto; il terzo serve a creare il contrasto con i due precedenti e individuare l’altro polo del costrutto. Infatti, il livello di similarità dei primi due può essere stabilito se si individua un terso elemento completamente diverso da essi (es. due superfici lisce mostrano tra loro un’analogia, soprattutto in contrapposizione ad una terza superfice ruvida, al fine di creare il costrutto liscio-ruvido); 5. il corollario della scelta afferma che una persona sceglie per se stessa in un costrutto dicotomico quella delle due alternative che anticipa la maggiore possibilità di elaborazione del suo sistema (es. quando un individuo deve costruire un evento in un modo, egli sceglie la costruzione che gli permette di allargare maggiormente la sua comprensione dell’universo); 6. il corollario del campo di applicabilità asserisce che un costrutto è applicabile e utile solo in un campo finito di eventi (es. il costrutto maschio-femmina non si applica all’evento tempo, nel senso non viene definito in base alla sua possibilità di essere maschio o femmina); 7. il corollario dell’esperienza asserisce che il sistema di costrutti di un individuo varia in base alle successive costruzioni di repliche di eventi. Quando un individuo osserva il passaggio degli eventi, applica ad essi alcune strutture al fine di anticipare la loro replica, ossia per verificare che tali eventi si possano replicare secondo quanto già avvenuto in precedenza; 8. il corollario della modulazione stabilisce che esistono condizioni mediante le quali possiamo aspettarci cambi nel sistema dei costrutti (es. se un adolescente sta valutando il modo di confrontarsi con i genitori e fino ad ora si è posto remissivo e ribelle in base al costrutto rispetto-disprezzo, nel cambiare atteggiamento può usare il costrutto maturità-immaturità applicato nei propri confronti per valutare diversamente la propria maturità, allo scopo di comportarsi in modo nuovo verso i genitori; in tal caso il costrutto rispetto-disprezzo si mostra permeabile nei confronti del costrutto maturità-immaturità); 9. il corollario della frammentazione afferma che una persona può costruire una varietà di sottosistemi che sono tra loro incompatibili. L’incompatibilità di due sistemi di costruzioni risulta dal fatto che essi portano ad anticipazioni diverse rispetto ad alcuni eventi; 10. il corollario della comunanza stabilisce che se una persona ha un sistema di costrutti derivanti dall’esperienza che sono simili a quelli di un’altra persona, allora i suoi processi psicologici finiranno con l’essere simili a quelli dell’altra persona; 11. il corollario della socialità asserisce che se una persona contribuisce a costruire i processi di costruzione di un’altra persona, allora la prima persona può giocare un ruolo nei processi sociali che coinvolgono la seconda. 5.11.4 Ernst von Glasersfeld Il filosofo tedesco Ernst von Glasersfeld (1917-2010) ha definito il suo approccio al costruttivismo come radicale nel suo articolo An Exposition of Constructivism: Why Some Like It Radical (1989) e nel suo volume Radical Constructivism: A Way of Knowing and Learning (1995). L’interpretazione del pensiero di Piaget Von Glasersfeld parte dall’epistemologia genetica di Piaget che descrive l’evoluzione cognitiva attraverso il passaggio a stadi, nei quali il soggetto entra in equilibrio con l’ambiente circostante. Questo equilibrio è caratterizzato da schemi che l’uomo adotta per interagire con l’ambiente e che rappresentano la sua forma di organizzazione della conoscenza. Tali schemi sono costruiti mediante l’assimilazione e l’accomodamento. Von Glasersfeld propone una rilettura in termini costruttivisti di questi due processi introdotti da Piaget: l’assimilazione è costruttivista perché raccoglie informazioni dall’esterno per poi adattarle all’attuale sistema di comprensione dell’individuo, generato dall’esperienza. Quest’ultima viene collocata nelle strutture concettuali e senso-motorie del soggetto. Da un punto di vista costruttivista, l’assimilazione può essere ricondotta a tra processi: • il riconoscimento di una particolare situazione o circostanza; • l’agire in base a come viene riconosciuta la situazione; • la conferma che l’azione intrapresa conduca il risultato atteso. Questo processo è simile a quanto descritto da Kelly nella sua psicologia dei costrutti personali. Anche l’accomodamento può essere visto in termini costruttivisti: quando l’azione non conduce al risultato atteso, le strutture cognitive vengono riadattate e definite in modo differente. Infine, Von Glasersfeld cerca di riassumere gli studi di Piaget in un’unica teoria coerente che viene interpretata alla luce del costruttivismo e che si basa sui seguenti principi: • la conoscenza non si riceve passivamente mediante i sensi o la comunicazione, ma viene costruita attivamente dal soggetto cosciente; • la funzione della cognizione è di tipo adattivo, nel senso biologico del termine; • l’adattamento è inteso come una tendenza alla praticabilità di un’azione e alla sua adeguatezza nel contesto esterno. Questi principi hanno forti implicazioni: causano una ricostruzione radicale del concetto di realtà. Il costruttivismo radicale Il costruttivismo radicale parte dall’assunto che la conoscenza è sempre frutto dell’esperienza personale, così come rielaborata dalla mente della persona. Anche la conoscenza veicolata tramite il linguaggio scritto o parlato ha delle caratteristiche personali. In qualche modo il soggetto costruisce il mondo con cui viene a contatto mediante l’esperienza. Le obiezioni al costruttivismo radicale e le risposte Dopo aver introdotto un approccio che scombussola il concetto di esperienza, lo stesso Von Glasersfeld muove ad esso delle obiezioni, per le quali formula delle risposte. La prima consiste nel ritenere che una realtà oggettiva e la sua parziale conoscenza siano messe in evidenza dal fatto che la realtà che costruiamo risulti piuttosto stabile: questa stabilità porta a desumere che tale realtà possa avere la caratteristica dell’oggettività. Per rispondere, egli riprende e osservazioni di Kelly, che sostiene che le creature viventi riescono ad astrarre forme di regolarità dalla realtà e a dedurre leggi dall’esperienza. Queste regolarità sono il frutto del processo di assimilazione per Von Glasersfeld. Nessuna esperienza è identica alla precedente, la replicabilità si ottiene solo trascurando differenze ritenute irrilevanti al fine di predire il risultato di un’azione. Il processo di accomodamento invece riassesta nelle nostre strutture mentali le esperienze che differiscono sensibilmente dalle precedenti. La seconda obiezione consiste nel ritenere che il costruttivismo abbia come naturale conseguenza la possibilità per l’individuo di costruire una qualsiasi realtà: la realtà con cui interagiamo è tutta nella nostra mente. Per rispondere, emerge il concetto di praticabilità: la realtà costruita dall’individuo deve avere sempre praticabilità, ossia risultare ancorata alle condizioni fisiche e concettuali che da essa emergono; in qualche modo, la realtà costruita deve essere ancorata all’esperienza. L’educazione costruttivista In Cognition, Construction of Knowledge, and Teaching (1988), Von Glasersfeld analizza le implicazioni del costruttivismo nel campo dell’educazione. Il primo aspetto è la distinzione tra addestramento e apprendimento, che rappresentano rispettivamente uno strumento utilitaristico e uno strumento epistemologico: l’addestramento pone attenzione su cosa è utile saper fare, l’apprendimento mette in rilievo che è importante conoscere e comprendere i concetti con cui veniamo a contatto. Un altro aspetto è legato all’uso delle parole, infatti non è detto che la conoscenza possa essere trasferita semplicemente con le parole poiché molto spesso la spiegazione verbale del problema non porta alla comprensione. Da un punto di vista costruttivista, l’apprendimento è un prodotto dell’auto-organizzazione dei concetti da parte dell’apprendente. Pertanto, la conoscenza non è acquisita in modo passivo. Infatti, quando il discente ha un impatto con un’esperienza nuova, egli percepisce una perturbazione rispetto a quanto si attenderebbe dalle strutture cognitive di cui dispone. In modo attivo, questa nova esperienza deve essere assimilata o accomodata nelle strutture preesistenti, al fine di creare una nuova conoscenza: solo in tal modo l’individuo ritorna in equilibrio con l’ambiente esterno. È perciò considerando che le sensazioni iniziali vengono computate (osservate, contemplate) ricorsivamente, il processo cognitivo non è la descrizione di una realtà esterna che esiste in modo indipendente dall’osservatore, ma è un ciclo ricorsivo di computazioni (cioè di elaborazioni successive delle sensazioni iniziali) che sono opera dell’osservatore. La percezione del futuro Nel saggio Perception of the future and the future of perception (1971), von Foerster analizza le criticità del pensiero moderno fino a giungere a un’analisi del sistema di istruzione, che è il riflesso di tali criticità, che si generano dalla confusione che caratterizza il significato delle parole e dal progressivo processo di assopimento dell’intelligenza e della creatività degli individui. La conoscenza come processo L’informazione è il processo mediante il quale la conoscenza viene acquisita. La conoscenza è il processo che integra le esperienze passate e presenti con l’obiettivo di formare nuove attività. Si afferma sempre più spesso che scuole, biblioteche e università siano le depositarie del sapere, ma questa prospettiva presuppone che il sapere sia qualcosa da acquisire dagli altri e che non possa essere costruito in prima persona. A tale propostio, Von Foerster ricorda l’immagine dell’imbuto di Norimberga, ovvero una stampa del XVI secolo nel quale un insegnante è raffigurato mentre colloca un imbuto sulla testa di uno studente e in esso versa della “conoscenza” (lettere e numeri). Tuttavia, libri, lezioni, illustrazioni non rappresentano la conoscenza, ma solo un mezzo attraverso il quale mettere in atto il processo conoscitivo. L’uso del linguaggio Il linguaggio progressivamente smette di essere il messo per esprimere le proprie percezioni ed esperienze e diventa il mezzo con il quale acquisire strutture e idee confezionate dagli altri. Von Foerster cita l’esperimento in cui una serie di carte con scritte delle parole viene data ad adulti e bambini e chiesto di raggrupparle: gli adulti fanno associazioni in base alle categorie sintattiche, dividendo i nomi dagli aggettivi e dai verbi (“mangiare-portare”, “soffice-dolce”, “mela-zucchero”), mentre i bambini associano le parole in base alle loro percezioni ed esperienze (“mela-mangiare”, “zucchero-dolce”), mostrando una ricchezza percettiva che gli adulti hanno ormai perso. Il sistema di istruzione sembra aver inibito le potenzialità comunicative del linguaggio e le attività cognitive che queste potenzialità possono attivare. Il travisamento del metodo scientifico Alla base dell’insegnamento vi sono due pilastri fondamentali: il primo è l’asserto per il quale le regole osservate in passato si devono applicare anche in futuro, che preclude qualsiasi forma di evoluzione individuale e sociale; il secondo è la regola che, dato un set di cause P e un set di effetti Q, procedere in modo scientifico vuol dire concentrarsi su uno degli effetti e restringere il campo fino a individuare la causa che lo determina. In pratica, l’attenzione è posta su un principio di causa- effetto, senza pensare a ulteriori implicazioni che quella causa può determinare, finendo per perdere di vista la causa finale, ossia la finalità per la quale si ha un determinato effetto. È come se accendendo un fiammifero ci concentrassimo solo sullo strofinare la superficie ruvida, disinteressandoci del fatto che la finalità è vedere il fiammifero acceso per svolgere un determinato compito. La banalizzazione dell’istruzione Tutte le circostanze esemplificate ci portano a una banalizzazione del processo di insegnamento- apprendimento. Von Foerster si concentra allora sulle usuali pratiche didattiche che caratterizzano il sistema di istruzione, attingendo dalla cibernetica i concetti di macchina banale e non banale. Per macchina, si intende un’entità astratta in grado di svolgere alcune funzioni: essa riceve un input e, dopo una fase di elaborazione, produce un output. • La macchina banale è caratterizzata da una relazione uno-a-uno tra l’input e l’output. Ad esempio, posso predisporre la macchina in modo che da uno stimolo A ottengono una risposta B. La loro invarianza fa in modo che la macchina possa essere descritta come un sistema deterministico, per il quale esistono regole di comportamento ed è sempre possibile stabilire una risposta ad uno stimolo. Se continuo a stimolare con A riceverò sempre B in risposta: questo rende la macchina un sistema prevedibile. • La macchina non banale è caratterizzata da una relazione diversa tra l’input e l’output. Per lo stesso stimolo A, la macchina non risponde sempre B, ma la risposta che fornisce è frutto delle risposte che ha dato in precedenza. Anche queste macchine sono sistemi deterministici con una serie di regole interne che ne causano il comportamento; si può parlare in particolare di una molteplicità di stati interni che vengono assunti dalle stesse. Per queste macchine è possibile osservare solo l’input e non l’output e ipotizzare gli stati interni solo da quanto si osserva all’esterno. Per tale motivo, le macchine non banali sono dei sistemi non prevedibili e quindi difficilmente utilizzabili nella pratica. Le macchine costruite dall’uomo sono sempre banali, in quanto devono garantire un certo comportamento, atteso dal soggetto (es. l’asciugacapelli deve soffiare aria calda, automobile deve muoversi). Se una macchina banale inizia a comportarsi in modo non banale, l’uomo si adopera subito per banalizzarla (es. se la macchina non parte la si porta dal meccanico). Talvolta processo di banalizzazione diventa nocivo, come nel caso del sistema dell’istruzione: esso accoglie bambini che sono all’inizio imprevedibili, ovvero non banali, e tende progressivamente a banalizzarli, inducendoli a fornire risposte attese e prevedibili alle domande poste. Gli stessi test sono predisposti per proporre domande di cui si conosce la risposta e quando uno studente ottiene un buon voto significa che il processo di banalizzazione si è compiuto. Le domande legittime e illegittime Un altro problema del sistema di istruzione si fonda su quelle che von Foerster chiama domande illegittime, ovvero domande di cui già si conosce la risposta. Vengono chiamate così perché non è sensato porle se ne conosce la risposta. Dietro a questa osservazione, vi è la constatazione che spesso il docente si attende dallo studente una pura e semplice riproduzione di un sapere già conosciuto. Il focus dell’attenzione dovrebbe invece spostarsi sulle domande legittime, quelle degne di essere poste, in quanto non se ne conosce la risposta. Queste domande stimolano lo studente, la ricerca, la creatività e mantengono viva la non banalità. Alla luce di questo, il sistema di istruzione dovrebbe essere il frutto di una società in grado di raggiungere consapevolezza dei tre asserti: • l’educazione non è né un diritto né un privilegio, ma una necessità; • l’educazione è imparare a formulare domande legittime; • A sta meglio quando B sta meglio (un individuo sta meglio se anche gli altri stanno meglio. 5.12 La pedagogia contemporanea 5.12.1 Paulo R.N. Freire e il problem posing Paulo R.N. Freire (1921-1997) è stato un pedagogista brasiliano, un importante teorico dell’educazione e uno dei fondatori della pedagogia critica. Viene ricordato in particolare per aver introdotto il concetto di problem posing all’interno del processo/progetto educativo. Il problem posing consiste nell’individuazione e nella concettualizzazione di un problema attraverso la riflessione su una situazione sfidante. Questa metodologia evidenzia la capacità di pensiero critico dell’alunno. Freire infatti critica fortemente quello che definisce il concetto “bancario” dell’educazione, in cui lo studente viene visto come un conto vuoto che il docente deve riempire (educazione depositaria). In Pedagogia dell’autonomia introduce inoltre il concetto di orientamento liberatorio, ovvero la reciprocità che ci deve essere tra studente e docente. Evocando il concetto di do-discenza (docenza/discenza) sostiene che “non c’è insegnamento senza apprendimento”. Inoltre, l’educazione deve essere uno strumento di emancipazione sociale; ci deve essere un legame tra alfabetizzazione e presa di coscienza della realtà. Opere principali di Freire: La pedagogia degli oppressi (1971); L’educazione come pratica della libertà (1973); Pedagogia della speranza (2008). 5.12.2 Alexander Sutherland Neill Alexander Sutherland Neill (1883-1973) è stato un pedagogista scozzese che ha fondato la sua concezione educativa sulla fede nella bontà originaria della natura umana. Questa concezione può essere riassunta in due concetti fondamentali: • Né istruire né educare → “i bambini non hanno bisogno di insegnamenti, ma di amore e comprensione. Per essere naturalmente buoni hanno bisogno di sentirsi approvati e liberi”. • Libertà e accettazione → “dare libertà vuol dire permettere al bambino di vivere la sua vita”. 5.12.3 Zygmunt Bauman e la società liquida Zygmunt Bauman (1925-2017) è stato un sociologo, filosofo e accademico polacco. Nei suoi ultimi lavori, ha inteso spiegare la postmodernità usando le metafore di società liquida e solida, sostenendo che l’incertezza della società moderna derivi dalla trasformazione dei suoi protagonisti da produttori a consumatori. In particolare, lega tra loro concetti come il consumismo, la globalizzazione e una vita liquida sempre più frenetica e costretta ad adeguarsi alle attitudini del gruppo per non sentirsi esclusa. In Italia, il concetto di società liquida viene ripreso dallo psichiatra Tonino Cantelmi per elaborare la teoria della tecnoliquidità, secondo la quale la chiave interpretativa della contemporaneità e dei relativi disagi psicologici sia da ricondurre alle caratteristiche della rivoluzione digitale interagenti con le peculiarità della società liquida (velocità, narcisismo, sensation seeking, emotivismo, ambiguità e non definizione, rinuncia al futuro). Opere principali di Bauman: Modernità liquida (2002); La società dell’incertezza (1999); Voglia di comunità (2001); Globalizzazione e glocalizzazione (2005); Amore liquido (2003). 5.12.4 Pierre Bourdieu Pierre Bourdieu (1930-2002) è stato un sociologo, antropologo, filosofo e accademico francese, considerato uno dei più importanti sociologi della seconda metà del XX secolo. La sua opera è dominata da un’analisi dei meccanismi di riproduzione delle gerarchie sociali. Egli insiste sull’importanza dei fattori culturali e simbolici all’interno di questa riproduzione, criticando il PARTE SECONDA – COMPETENZE SU INTELLIGENZA EMOTIVA, CREATIVITÀ E PENSIERO DIVERGENTE 6. DEFINIRE E MISURARE L’INTELLIGENZA 6.1 L’intelligenza e la struttura del cervello Come spiegato nel Nuovo Dizionario di Psicologia de Umberto Galimberti, “non esiste una definizione univoca dell’intelligenza”. È tuttavia possibile identificare tre tipi di definizioni: • Definizioni di tipo generale: l’intelligenza è la capacità di adattarsi all’ambiente; • Definizioni di tipo specifico: l’intelligenza è la capacità di comprendere e valutare una situazione, di risolvere un problema; • Definizioni di tipo operativo: non danno una definizione o una misura, ma si concentrano solo su alcuni aspetti e li osservano attraverso test che definiscono il comportamento intelligente rispetto a quel particolare aspetto osservato. La struttura del cervello Neuroni e sinapsi: l’intelligenza ha sede nel cervello, detto anche “encefalo”, cioè la parte fisica della nostra mente. Come spiega Daniel J. Siegel in La mente relazionale, “il cervello è un sistema complesso di parti interconnesse”, costituito da oltre cento miliardi di neuroni, più migliaia di cellule gliali di sostegno. Ciascun neurone ha collegamenti diretti con circa diecimila altri neuroni, attraverso strutture specifiche chiamate sinapsi. Sono le connessioni tra sinapsi a contribuire alla costruzione dei collegamenti “che sono le fondamenta dell’intricata architettura del cervello”. Circuiti, regioni ed emisferi cerebrali: i neuroni e le cellule gliali sono organizzati in gruppi che costituiscono un crescente livello di complessità della struttura cerebrale: dai nuclei, che rappresentano i gruppi più piccoli, fino agli emisferi cerebrali, passando per circuiti. Tutte queste aree sono in comunicazione attraverso fibre nervose e compongono l’architettura complessa del cervello. Le strutture cerebrali Le strutture inferiori si trovano nella parte bassa del cervello e comprendono: • i circuiti del tronco cerebrale situati alla base del cranio, che controllano i processi fisiologici fondamentali; • il talamo, che costituisce la porta d’ingresso per le informazioni sensoriali ed è estremamente collegato alle altre aree, tra cui la neocorteccia; • l’ipotalamo e l’ipofisi, che regolano l’equilibrio dell’organismo e connettono il cervello a tutte le altre componenti del corpo, come il sistema muscolo-scheletrico e immunitario; • il cervelletto, collocato nella parte bassa e posteriore, da cui dipendono il controllo muscolare, il coordinamento dei movimenti e il mantenimento dell’equilibrio. Le strutture centrali si trovano nella parte centrale del cervello e comprendono le regioni limbiche, che si pensa siano coinvolte nei meccanismi che mediano le emozioni, le motivazioni e i comportamenti diretti a scopi specifici, ma anche nella memoria e nel sistema di attaccamento. Di queste regioni fanno parte l’amigdala, il lobo temporale mediale e l’ippocampo. Le strutture superiori si trovano nella parte più esterna del cervello, sono quelle che consentono l’emergere di funzioni sempre più complesse nei processi di elaborazione delle informazioni e costituiscono la corteccia cerebrale, detta anche neocorteccia in riferimento al suo più recente sviluppo rispetto alle strutture inferiori e centrali che sono più antiche e costituiscono il paleoencefalo. Grazie alle connessioni neurali che la caratterizzano, la corteccia cerebrale è la sede di quelle funzioni più elevate e complesse come la percezione, il ragionamento, la formulazione di ipotesi e le decisioni. 6.2 Lo studio dell’intelligenza Lo psicologo utilizza i test di abilità per lo studio delle differenze soggettive: i test attitudinali mirano a predire il successo in qualche attività, i test di profitto misurano il livello delle capacità raggiunto dopo un periodo di addestramento. I più conosciuti tra i test di attitudine generale sono i test d’intelligenza, derivati dalle scale elaborate in Francia nel 1905 da Alfred Binet (1857-1911), a cui si deve il concetto di età mentale, in base al quale i ragazzi poco dotati dal punto di vista intellettivo furono considerati in ritardo nello sviluppo, mentre i bambini dotati furono considerati in anticipo. Per ogni livello di età cronologica, determinata dalla data di nascita, furono stabilite delle prove il cui risultato avrebbe indicato l’età mentale. I punteggi medi corrispondevano all’età cronologica. La revisione più conosciuta è quella indicata come Stanford-Binet, costruita nel 2016 dall’americano Lewis Madison Terman (1877-1956), che introdusse il Quoziente d’Intelligenza (Q.I.), indice usato per esprimere i risultati di un test di intelligenza, dato dal rapporto tra età mentale ed età cronologica. Il numero 100, utilizzato come moltiplicatore, eguagliava a 100 il quoziente intellettivo medio, ottenuto quando l’età mentale risultava uguale all’età cronologica. Paul Guilford (1897-1987) ha poi ampliato il concetto d’intelligenza al di là del comune quoziente intellettivo, differenziando una produzione divergente, il pensiero creativo, da una produzione convergente, identificabile nella soluzione logica per la formulazione dell’unica possibile risposta corretta. Negli studi sull’intelligenza emergono diverse tradizioni: • l’approccio psicometrico, che si basa sulla pratica dei test di misura dell’intelligenza e sull’osservazione delle capacità dimostrate e che ha fornito strumenti per la selezione del personale in vari campi; • l’approccio cognitivo, che ricostruisce i processi mentali che sottendono le prestazioni; • l’approccio funzionale, che considera l’intelligenza uno strumento adattivo e attribuisce importanza alle abilità non solo cognitive, ma anche emotive e sociali. 6.2.1 Misurare l’intelligenza emotiva Il quoziente emotivo e i test di Reuven Bar-On Nel 1997, lo psicologo clinico Reuven Bar-On ha messo a punto un test per valutare l’intelligenza emotiva (EQ-i test) e, più nello specifico, il funzionamento e il comportamento emotivo e sociale, in riferimento al concetto da lui definito quoziente emotivo, riconducibile alla capacità di prevedere le conseguenze delle scelte sul piano emotivo. Il quoziente emotivo va valutato tenendo in considerazione cinque aree, che si declinano in diverse capacità: 1. Area intrapersonale: riguarda la nostra autoconsapevolezza emotiva e la nostra capacità di esprimere ciò che siamo. Coinvolge abilità come comprendere e accettare noi stessi e le nostre emozioni, essere assertivi e indipendenti, individuare obiettivi e perseguirli; 2. Area interpersonale: riguarda la nostra consapevolezza sociale e la nostra capacità di relazione e coinvolge diverse abilità come quella empatica, ma anche di collaborare efficacemente con gli altri e di stabilire con essi delle relazioni soddisfacenti; 3. Area della gestione dello stress: riguarda la nostra capacità di tollerare lo stress e di controllare gli impulsi. Coinvolge la nostra abilità nel gestire le emozioni e nel controllare le relazioni che generano quando sono molto intense; 4. Area dell’adattabilità: riguarda la nostra capacità di gestire il cambiamento e coinvolge l’abilità nel confrontare i nostri pensieri e sentimenti con la realtà, di adattarli alle situazioni nuove con flessibilità, e di risolvere i problemi sia di natura personale sia interpersonale; 5. Area dell’umore generale: riguarda la nostra capacità di automotivarci e coinvolge la nostra abilità nel guardare la vita con ottimismo e di essere felici. Altri test per la misurazione dell’intelligenza emotiva Il Reading the Mind in the Eyes test, detto anche Test degli Occhi (TDO) ed elaborato da Simon Baron-Cohen nel 1997, è uno tra i test maggiormente impiegati per la valutazione dell’intelligenza emotiva, nello specifico della capacità di riconoscere e comprendere lo stato mentale delle altre persone e dell’abilità sociale che ne deriva. Ai soggetti viene mostrata una serie di fotografie, ciascuna delle quali raffigura solo gli occhi di una persona; viene quindi chiesto di indicare quale, tra quattro parole proposte, descriva meglio l’emozione o lo stato d’animo provato dal soggetto ritratto. Il test valuta la capacità di attribuire stati mentali complessi. La scala di abilità MSCEIT (Mayer Salovey Caruso Emotional Intelligence Test) consente di valutare come le persone svolgono compiti e risolvono problemi emotivi. Questo test parte dal presupposto che l’intelligenza emotiva sia un’attività cognitiva e si configura come una scala di abilità basata sulla performance nello svolgimento di compiti “emotivi”. Si compone 141 items organizzati secondo la struttura seguente e ha come risultato un punteggio totale di intelligenza emotiva formato dalla combinazione dei punteggi ottenuti per ciascuna area, ramo e compito: La scala MSCELT Area esperienziale Area strategica Ramo 1 Percezione delle emozioni Ramo 2 Facilitazione del pensiero Ramo 3 Comprensione delle emozioni Ramo 4 Gestione delle emozioni Compito A Volti Compito E Immagini Compito B Facilitazioni Compito F Sensazioni Compito C Cambiamenti Compito G Miscele Compito D Gestione emotiva Compito H Relazioni emotive 6.2.2 Misurare l’intelligenza creativa Il Test of Divergent Thinking di Williams (TDT) L’autore del Test of Divergent Thinking (TDT), noto anche nella sua traduzione italiana Test della Creatività e pensiero Divergente (TCD) e tra i più usati per la misurazione del pensiero divergente, è lo studioso Frank Williams. Attraverso l’analisi di quattro fattori cognitivo divergenti del pensiero creativo e di quattro fattori emotivo-divergenti della personalità creativa, con questo test viene stilato un profilo della creatività di bambini e ragazzi, ma può essere utilizzato anche per genitori e insegnanti. Oltre a verificare flessibilità e originalità nelle risposte, qui viene dato spazio anche alla disponibilità vero il rischio, la curiosità, l’immaginazione e la complessità. Il Torrance Test (TTCT) Nel 1968 lo psicologo statunitense Ellis Paul Torrance ha introdotto il Torrance Test of Creative Thinking (TTCT), un test mirato alla misurazione delle abilità di pensiero creativo e di problem solving mediante l’esame delle dimensioni attitudinali relative alla creatività, ovvero fluency (le idee più significative), flexibility (le differenti categorie delle risposte rilevanti), originality (originalità statistica delle risposte) ed elaboration (la presenza di dettagli nelle risposte). Si tratta di un test che: Nel combinarsi tra loro, le abilità primarie specificano l’intero processo intellettivo dell’individuo. Nel considerare l’inutilità del fattore dell’intelligenza generale e di altri fattori specifici, Thurstone ha introdotto la teoria multifattoriale (o centroide), la quale esamina le discrepanze tra le connessioni di test concernenti le abilità mentali; essa cerca di circoscrivere gruppi di test, ben messi in relazione tra loro all’interno di ciascun singolo gruppo, e non collegati con test di gruppi diversi. Opere principali di Thurstone: Analisi multifattoriale (1931); Capacità mentali fondamentali (1938). 6.2.6 Robert Sternberg e la teoria triarchica Robert Sternberg (1949-) è uno psicologo statunitense, tra i maggiori studiosi contemporanei dell’intelligenza e dello sviluppo cognitivo. Tra le sue più note teorie troviamo: • Teoria componenziale dell’intelligenza: nata dal tentativo di studiare l’intelligenza dal punto di vista dell’elaborazione dell’informazione in compiti complessi. Questo approccio prende in esame i compiti usati nei test dell’intelligenza, cercando di isolare alcune componenti dell’intelligenza, ovvero i processi e le strategie mentali usati nell’esecuzione di questi compiti (es. trasformazione di stimoli sensoriali in rappresentazioni mentali, conversine di una rappresentazione concettuale in attività motoria…). • Teoria Triarchica dell’intelligenza: l’intelligenza si esprime attraverso tre modalità fondamentali: analitica, creativa e pratica: 1. l’intelligenza analitica (o componenziale) comprende la capacità di analizzare, suddividendo in parti e scendendo nei dettagli, di valutare, di esprimere giudizi, operare confronti tra elementi diversi; 2. l’intelligenza creativa (o contestuale), legata all’’intuizione, si realizza nella capacità di inventare, di scoprire, di immaginare, ipotizzare, di affrontare con successo situazioni insolite per le quali le conoscenze e le abilità esistenti si mostrano inadeguate. Si parla anche di pensiero creativo; 3. l’intelligenza pratica (o esperienziale) comprende la capacità di usare strumenti, applicare procedure e porre in atto progetti, saper organizzare e pianificare, dimostrare come si fa. Da un punto di vista pedagogico, la teoria triarchica dell’intelligenza comporta l’adozione di una prospettiva costruttivista, poiché considera l’apprendimento come un processo attivo di costruzione della conoscenza da parte del soggetto, secondo lo stile che lo caratterizza. • Teoria triangolare dell’amore: prevede che l’amore sia costituito dalle seguenti componenti: o l’intimità si riferisce ai sentimenti di vicinanza, connessione e legame nelle relazioni d’amore; o la passione si riferisce alle pulsioni che conducono al romanticismo, all’attrazione fisica, al compimento sessuale; o l’impegno si riferisce, nel breve termine, alla scelta della persona per cui si prova un sentimento d’amore, e nel lungo termine, al proprio impegno a mantenere vivo quell’amore attraverso scelte istituzionali (convivenza, matrimonio, figli). 7. DALLE INTELLIGENZE MULTIPLE ALL’INTELLIGENZA EMOTIVA 7.1 Le emozioni Empatia e intelligenza emotiva sono attitudini dell’individuo che possono essere coltivate ed alimentate grazie alla conoscenza delle emozioni. Il termine empatia è stato coniato dal filosofo Robert Vischer (1847-1933), il quale ne ha dato il significato di “simpatia estetica”. Più tardi il termine viene ripreso ed esteso al significato che gli attribuiamo oggi. 7.1.1 L’esperienza emotiva Un’emozione corrisponde a un processo psicologico ed è promossa da un evento scatenante causato da modificazioni dell’ambiente esterno o interno. Si distingue tra: • emozioni primarie: gioia, tristezza, rabbia, paura, disgusto e sorpresa. Esse sono innate e universali; • emozioni secondarie: senso di colpa, invidia, vergogna, imbarazzo, timidezza. Esse sono combinazioni di quelle primarie che si sviluppano con la crescita e l’interazione sociale, sono quindi fortemente influenzate dall’ambiente. Le emozioni sono conseguenza di squilibri che si verificano nell’appraisal, ovvero l’operazione di costante monitoraggio dell’individuo e dell’ambiente, volta alla valutazione della conciliabilità tra i contesti e i fini del soggetto stesso. Esse sono accompagnate da elementi di comportamento diretti ad affrontare le situazioni, risolvendo o eludendo i problemi che presentano. Le ricerche transculturali hanno dimostrato che molti schemi evento-emozione sono universali, indipendenti dalla cultura in cui si manifestano, anche se esistono schemi specifici di determinate collettività, legati alle emozioni etniche. Nel processo emotivo si verificano fenomeni fisiologici che riguardano l’attività cerebrale, la regolazione delle funzioni vegetative, la circolazione sanguigna, la digestione, la termoregolazione, il sistema endocrino e il sistema immunitario. Esistono configurazioni tipiche o pattern fisiologici delle emozioni, riscontrabili quando affiorano determinati stati d’animo, anche se non c’è una corrispondenza sistematica tra i tipi di emozione e i cambiamenti che avvengono nel funzionamento dell’organismo. Durante il processo emotivo si verificano cambiamenti anche nella sfera del comportamento. È possibile distinguere tre tipi di risposta: • reazioni espressive, manifestazioni involontarie, emissioni spontanee di segnali non-verbali, che esprimono lo stato interiore di un soggetto e che, in alcuni casi, svolgono il compito di regolare il funzionamento dell’organismo, riducendone il carico emotivo; • tendenze, spinte interiori del soggetto, capaci di promuovere l’azione e caratterizzate dalla precedenza di controllo, vale a dire dal loro essere imperative, imponendosi ad altre tendenze comportamentali (es. una persona impaurita può difendersi colpendo l’aggressore); • comportamenti specifici, che corrispondono alla realizzazione delle tendenze emotive o delle strategie pensate al fine di ripristinare il normale equilibrio. Un’emozione comporta un’attività altamente razionale. L’appraisal è la valutazione complessiva dell’accadimento, dall’evento scatenante alle reazioni individuali. Si compie un’operazione di pianificazione, di decisione delle strategie da seguire per riprendere il controllo sull’ambiente, di coping, che vuol dire “rifinitura” e che si riferisce all’attuazione dei piani, e di monitoraggio degli effetti dell’azione. L’esperienza soggettiva dell’emozione subisce un’elaborazione cognitiva, grazie al filtro delle conoscenze individuali. Su tutti i livelli del processo emotivo si esercita il controllo, sia per ragioni sociali, che impediscono di esprimere o provare certe emozioni, sia per ragioni di tipo edonistico, che spingono a ricercare le emozioni piacevoli ed evitare quelle spiacevoli (l’edonismo è la teoria secondo la quale l’uomo ricerca piacere e rifugge il dolore, rappresentata da Aristippo di Cirene). Il fenomeno del contagio emotivo consente di armonizzare le emozioni individuali a quelle collettive; il conforto sociale, infatti, svolge l’importante funzione di sostegno tra gli individui. 7.1.2 Teorie delle emozioni e modelli sull’empatia Per spiegare la natura che caratterizza le emozioni e le leggi che le regolano, gli studiosi hanno elaborato diverse teorie, che concordano sul fatto che le emozioni vengono espresse tramite risposte: • fisiologiche interne, come variazioni della pressione sanguigna o della frequenza cardiaca; • motorie, quando si hanno cambiamenti posturali determinati dalla reazione emotiva; • facciali, quando la reazione è espressa attraverso il linguaggio non verbale; • verbali, quando le risposte vengono compiute attraverso resoconti verbali; • topologiche, quando la vicinanza fisica a chi attrae o la lontananza da chi provoca repulsione sono comportamenti evidenti e ben individuati; • cognitive, quando le emozioni sono trasformate in oggetti di pensiero e argomentazioni razionali. Di seguito le più importanti teorie sulle emozioni dall’Ottocento a oggi: La teoria darwiniana Nel 1872 Charles Darwin, inquadrando lo studio delle emozioni nella teoria evoluzionistica, e partendo dall’osservazione delle espressioni di rabbia o paura in individui di diversa estrazione sociale o culture, considera le emozioni come degli elementi innati, insieme alle espressioni che vi si associano. Secondo lui, alla base dell’espressione delle emozioni ci sono tre principi generali: 1. il principio delle abitudini associate utili, che si basa sull’idea che alcuni atti che hanno una certa utilità in certi stati d’animo (es. danno sollievo o riducono un disagio) tendono a trasformarsi in abitudine, per cui vengono riprodotti ogni volta che si ripresentano determinate emozioni anche se non danno alcun vantaggio; 2. il principio dell’antitesi, che afferma che quando sopravviene uno stato d’animo che è l’esatto contrario del precedente si tende involontariamente a eseguire movimenti di natura opposta a quelli compiuto prima; 3. il principio degli atti determinati dalla costituzione del sistema nervoso, secondo il quale una forte eccitazione del sistema nervoso si trasmette ai vari sistemi del corpo producendo effetti che interpretiamo come espressivi (es. eccessiva sudorazione, essere rossi in volto e variazione della respirazione sono sintomi della collera). La teoria periferica di James-Lange Elaborata nel 1886, la teoria periferica di James-Lange ribalta la concezione tradizionale della mente come luogo di origine delle emozioni e le identifica come risposte fisiologiche dell’organismo a stimoli ambientali. Secondo tale teoria, si prova paura perché si sta tremando e non il contrario. In questo senso, l’emozione sarebbe la nostra percezione di cambiamenti fisiologici. 2. Modello intrusivo: compare un elemento di minore rilevanza che però interferisce con l’emozione dominante. Per esempio, la madre, in genere allegra, può diventare ansiosa in particolari situazioni e il bambino, pur di buon umore, potrebbe adottare lo stesso modello. 3. Modello dell’emozione competitiva: l’aspetto emotivo della personalità di un genitore potrebbe entrare in competizione con quello della personalità dell’altro genitore. Questo conflitto familiare può essere interpretato dal bambino in termini di rabbia o sofferenza. 4. Modello degli stili di personalità emotivamente equilibrati: sia il padre che la madre manifestano una ricca espressività emotiva che conferisce piacere anche ai più piccoli scambi interpersonali. Qui i genitori sono emotivamente competenti, poiché sanno affrontare le diverse emozioni che si presentano negli scambi sociali. Carolyn I. Saarni e lo sviluppo dell’intelligenza emotiva In The development of emotional competence (1999), Saarni, partendo dalle sue ricerche sullo sviluppo tipico e atipico della competenza emotiva, definisce quest’ultima “l’insieme di abilità necessarie per essere efficaci, in modo particolare, nelle transazioni sociali che producono emozioni”. Di tali abilità, ne identifica otto: 1. la consapevolezza dei propri stati emotivi; 2. il riconoscimento delle emozioni altrui; 3. l’uso del linguaggio emotivo; 4. l’empatia; 5. il riconoscimento della distinzione tra l’emozione provata e quella espressa esternamente; 6. le strategie di coping o fronteggiamento dell’emozione; 7. la consapevolezza del ruolo della comunicazione emotiva nelle relazioni; 8. l’autoefficacia emotiva. Contributi teorici sul tema dell’empatia Norma Feshbach: il primo modello multidimensionale di empatia Feshbach attribuisce all’empatia un carattere multidimensionale in cui processi cognitivi e affettivi si integrano ed albora il primo strumento per rilevare la responsività empatica: il FASTE (Feshbach Affective Situation Test for Empathy). Secondo lei l’empatia è costituita da tre elementi: 1. la capacità di decodificare gli stati emotivi vissuti da altre persone; 2. la capacità di assumere il ruolo e la prospettiva di un altro; 3. la capacità di rispondere affettivamente alle emozioni provate da un’altra persona. Le prime due sono abilità cognitive, mentre la terza inserisce l’empatia in una dimensione affettiva. Feshbach adotta il quadro di riferimento di Piaget, secondo il quale l’abilità di rispondere affettivamente alle emozioni di un’altra persona, si acquisisce intorno ai 6 anni. Martin Hoffmann: l’empatia e lo sviluppo morale Hoffman estende la definizione di empatia di Feshbach a una più ampia serie di reazioni affettive coerenti con il sentimento provato dall’altro e colloca le sue manifestazioni nei primi giorni di vita, definendola “la scintilla dell’attenzione umana verso gli altri, il collante che rende possibile la vita sociale”. Oltre alla componente cognitiva e a quella affettiva, secondo lui interviene anche la motivazione, poiché condividere l’emozione con l’altro fa provare a chi aiuta uno stato di benessere; al contrario, la scelta di non confortare porterebbe con sé un senso di colpa. Hoffman definisce così cinque possibili forme del sentimento empatico: 1. Distress empatico globale: nei primi mesi di vita il bambino non distingue il sé dagli altri, perciò quando percepisce la sofferenza di qualcuno la fa propria, vivendola come se quello stato emotivo non avesse una causa esterna, ma interna. Al suo primo apparire l’empatia si connota quindi come una reazione affettiva automatica, o contagio emotivo. 2. Distress empatico egocentrico: intorno al primo anno di vita il bambino comincia a percepire una distinzione tra il sé e l’altro, ma non è ancora in grado di discernere tra i propri stati interni e quelli altrui. Mima le emozioni dell’altro, lo guarda silenziosamente e mette in atto comportamenti che sembrano tentativi di aiuto, ma che sono solo finalizzati ad attenuare il proprio stato d’angoscia. 3. Distress empatico quasi-egocentrico: tra il primo e il secondo anno si fa più chiara la distinzione tra i propri stati interni e quelli altrui. Il bambino inizia a mettere in atto comportamenti tesi a confortare l’altro (abbracciare, accarezzare), ma l’egocentrismo permane nella scelta di dare conforto con oggetti che sono significativi per se stesso. 4. Vera empatia per lo stato d’animo o i sentimenti di un’altra persona: intorno ai 2 anni emerge la consapevolezza che gli altri hanno stati emotivi diversi dai propri. Il bambino riesce a empatizzare in modo più profondo. Verso i 6 anni sviluppa la competenza linguistica, interagisce con i significati simbolici e diventa più abile nell’assumere il ruolo dell’altro. 5. Distress empatico oltre la situazione: a partire dai 9 anni, il bambino realizza che le identità degli altri influenzano i loro comportamenti nelle diverse situazioni. Da questo momento la conoscenza della vita degli altri e delle loro esperienze inizia a influenzare le risposte empatiche. L’empatia, nella sua forma più matura, si caratterizza quindi come una risposta a un insieme di stimoli comprendenti il comportamento, l’espressività e tutto ciò che si conosce dell’altro. La sua acquisizione ha un’evoluzione graduale e trova compimento verso i 13 anni. Il modello multimediale dell’empatia di Janet Strayer Strayer, prendendo spunto dal modello di Hoffman, sostiene che nell’empatia, durante lo sviluppo, le componenti cognitive si integrano progressivamente con quelle affettive, organizzandole e permettendo l’instaurarsi di forme via via più mature. Secondo lei, la condivisione emotiva è fondamentale per lo sviluppo dell’empatia ed è sperimentata anche dai bambini molto piccoli attraverso il contagio emotivo, pur essendo una forma di partecipazione emotiva involontaria e automatica. Per vivere un’esperienza autentica è necessario, invece, che intervengano forme di mediazione cognitiva. Ella individua due forme di empatia vera e propria: 1. L’empatia per condivisione parallela, mediata da processi cognitivi poco sofisticati (associazione diretta, condizionamento classico). L’osservatore focalizza l’attenzione sull’evento che sta interessando l’altro e richiama alla mente una propria esperienza simile, rivivendo l’emozione che aveva provato in quella circostanza. 2. L’empatia per condivisione partecipatoria è una forma di empatia più evoluta, mediata da meccanismi cognitivi complessi (role taking e perspective taking) e basata sulla rappresentazione del vissuto dell’altro. Mark Davis e l’empatia tra cognizione ed emozione Mark Davis ritiene che i processi empatici siano caratterizzati da una natura multimediale dovuta alla coesistenza e all’interazione di elementi cognitivi e affettivi. Questi costituiscono le componenti della risposta empatica, che sono quattro divise tra abilità cognitive e affettive: Cognitive Affettive Perspective taking (capacità di adottare il punto di vista dell’altro) Considerazione empatica (tendenza a sperimentare sentimenti di compassione e preoccupazione verso l’altro) Fantasia (capacità di immaginare situazioni fittizie) Disagio personale (consapevolezza dei propri stati d’ansia in situazioni relazionali) In merito alle componenti affettive, Davis ritiene che esse rappresentino due diversi modi in cui approcciamo la situazione vissuta dall’altro, i quali si differenziano a partire dalla motivazione da cui muovono. Nel caso del disagio personale, infatti, siamo orientati verso noi stessi e l’azione verso l’altro è finalizzata a far cessare lo stato di angoscia che la situazione ci provoca: la motivazione è di tipo egoistico. Nel caso della considerazione empatica, invece, siamo orientati verso la condivisione e ciò che facciamo è volto a migliorare le condizioni dell’altro: la motivazione è altruistica. Secondo Davis, quindi, l’empatia non genera necessariamente altruismo, ma può anche manifestarsi quando il nostro agire è teso a proteggerci dal malessere che ci provoca lo stato emotivo degli altri. Essendo il suo un approccio integrato, ovvero che considera l’empatia come un processo multidimensionale in cui agiscono, insieme alle componenti affettive, anche quelle cognitive, Davis dedica anche un’ampia riflessione a queste ultime, con l’obiettivo di distinguere i processi di mediazione cognitiva dell’empatia. Il risultato dello studio è la distinzione in tre gruppi principali: 1. Processi non cognitivi → entrano in gioco nelle prime fasi dello sviluppo e sono automatici e involontari, perciò non propriamente cognitivi, come la reazione circolare primaria, cioè la tendenza imitativa innata per cui da neonati iniziamo a piangere se sentiamo un altro bambino piangere; l’imitazione motoria, cioè il processo involontario che ci spingere ad assumere la postura e l’espressione facciale di un'altra persona mentre la osserviamo; 2. Processi cognitivi semplici → entrano in gioco in un momento più avanzato e implicano l’esistenza di una mediazione cognitiva, sebbene non ancora sofisticata. Secondo Davis sono: il condizionamento classico, cioè il processo per cui uno stimolo neutro produce una risposta, es. quando siamo tristi mentre la mamma ha un’espressione triste; l’associazione diretta, ovvero quel processo per cui associamo stimoli espressivi che stiamo osservando ad altri simili vissuti, rivivendo anche l’emozione provata in quella circostanza; l’etichettamento, cioè quel processo che si verifica quando veniamo esposti direttamente a un particolare stimolo, il quale risulta così rilevante per noi da bastare da solo, in futuro, a evocare la specifica emozione che ci ha suscitato la prima volta. 3. Processi cognitivi avanzati → entrano in gioco in una fase avanzata e maturano tra il periodo prescolare e l’adolescenza. I più importanti sono: l’associazione mediatta dal linguaggio, cioè quel processo per cui per provare empatia non è necessario essere esposti direttamente alla situazione dell’altro, ma è sufficiente che ne ascoltiamo la descrizione verbale; il role taking, cioè il processo più avanzato dell’esperienza empatica perché ci consente di assumere il ruolo dell’altro, cioè di “metterci nei suoi panni”. Karla McLaren e le caratteristiche dell’atto empatico Secondo Karla McLauren, grazie all’empatia moduliamo il nostro comportamento e dirigiamo le nostre azioni in maniera tale che rispettino l’altro e che non lo feriscano. Secondo lei, esercitare l’empatia contribuisce a modificare il nostro cervello, perché attraverso l’imitazione e la ricerca nei pensieri degli altri la mentre si apre al nuovo e al diverso, estendendo pensieri e sentimenti. In The Art of Empathy (2013) indica, attraverso una piramide, i sei livelli essenziali dell’empatia: 1. Contagio emotivo: è lo stadio rudimentale, quando sperimentiamo le emozioni altrui in modo autentico, istintivo e inconscio, aderendovi in maniera indifferenziata e non controllata;