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Manuale di educazione al genere e alla sessualità, Sbobinature di Scienze Sociali

Nocenzi Fondamenti di scienze sociali

Tipologia: Sbobinature

2022/2023

Caricato il 11/11/2024

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Scarica Manuale di educazione al genere e alla sessualità e più Sbobinature in PDF di Scienze Sociali solo su Docsity! Riassunto del Manuale di educazione al genere e alla sessualità Come si definisce il genere Le teorie classiche Il concetto di genere è stato definito dalle scienze sociali in modo puntuale solo nel corso del XX secolo, ma un’analisi di tipo scientifico rispetto alle differenze fra uomini e donne si è affermata a partire dalla seconda metà del XIX secolo. Il termine inglese gender, però, descrive due categorie di un’entità sessuale e non come il suo equivalente termine italiano genere che, polisemicamente, si riferisce a diversi ambiti disciplinari (genere letterario, genere nelle scienze fisiche ecc.). Per questo motivo diverse discipline suggeriscono di utilizzare il termine in lingua originale, avendo un unico significato relativo alla costruzione sociale dell’identità sessuale. Nel corso del XX secolo questa accezione sarebbe stata ripresa in modo specifico dalla corrente della sociobiologia, che intese contrapporsi a quelle che erano divenute le tre prevalenti prospettive di analisi della trasformazione delle differenze sessuali in differenziazioni di ruolo, di identità e di aspettativa sociale. La prima può essere definita una prospettiva conflittualista e la si può considerare alle origini di un pensiero scientifico sul processo di costruzione sociale dell’identità di genere (gender). Infatti, già nel Seicento si deve all’osservazione di pensatori quali Poullain de la Barre e un secolo dopo al marchese de Condorcet la rivoluzionaria affermazione secondo la quale l’opinione dell’inferiorità della donna era basata su un’effettiva inconsistenza scientifica e, quindi, sul pregiudizio alimentato da una cultura prevalentemente maschile. Questo pregiudizio era stata la causa, ma anche la conseguenza di una produzione di leggi e norme che nella prima metà del XIX secolo il filosofo Claude de Saint-Simon aveva definito tipicamente maschile, al punto da precludere alle donne gran parte dei diritti spettanti, anche quelli più fondamentali, inalienabili per una persona umana, come la Rivoluzione francese aveva sancito. Si affermava, così, una visione della società moderna secondo la quale ruoli e funzioni erano determinati da una cultura orientata da squilibri nell’accesso alle risorse economiche, politiche, sociali a favore degli uomini, che perpetuavano questo sistema per preservare la propria posizione dominante. Questa prospettiva, sulla quale nel corso del XX secolo si sarebbe innestata la lettura femminista dei fenomeni sociali, fu al centro delle riflessioni di molti studiosi e, fra questi, anche di donne pioniere come Mary Wollstonecraft e Harriet Martineau. Se la prima già nel corso del XVIII secolo sottolineava che le donne non erano inferiori per natura agli uomini, alla pensatrice americana Martineau si deve un’attenta riflessione in Society in America sull’inadeguatezza del sistema democratico, perché non garantiva l’uguaglianza fra i membri di una società, se differenti per sesso, e un pari accesso ai diritti di formazione, lavoro, rappresentanza politica, famiglia e salute. Si vedrà come anche questi principi, al pari di quelli emergenti dalla Rivoluzione francese, si sarebbero tradotti nelle idee a fondamento di movimenti di pensiero e azione quali quelli per l’emancipazione femminile, votati a definire e stabilire l’uguaglianza economica, politica e sociale dei sessi. Fra questi uno dei più noti fu quello delle suffragette. La seconda prospettiva è quella riconducibile alla corrente funzionalista, che guarda alle differenze biologiche e culturali fra uomini e donne come a loro attributi costitutivi e identitari. In particolare, ogni individuo, attraverso il percorso di socializzazione, apprende e interiorizza dal proprio contesto di riferimento quelle regole, valori e aspettative di ruolo che ne costruiranno l’identità di genere. Per i teorici del funzionalismo il margine di cambiamento sociale è limitato a quanto necessario per assicurare il perfetto funzionamento del sistema sociale, ossia il suo ordine, riproduzione e adattamento assicurati dalla divisione sociale dei ruoli, anche essa fondata sulle caratteristiche biologiche, anatomiche, fisiologiche maschili e femminili e sul loro valore sociale. La terza prospettiva di analisi è quella proposta dalla fenomenologia e dall’etnometodologia, secondo la quale a determinare le differenze di genere sono le pratiche e i comportamenti che uomini e donne mettono in atto interagendo e utilizzando le risorse a disposizione. Rispetto alla visione conflittualista e funzionalista della costruzione del genere da parte della società, quella feno-etnometodologica punta sull’azione di ogni individuo che pone in essere servendosi del corpo, del linguaggio, della posizione sociale per produrre e riprodurre la propria identità di genere. Il livello di conformità o, al contrario, di rifiuto individuale dei modelli forniti dalle agenzie di socializzazione rende proprio gli individui i promotori delle identità entro un ordine di genere che definisce ciò che è maschile e ciò che è femminile con il fluire delle relazioni sociali. Le letture femministe Considerando quella femminile come la condizione tradizionalmente più svantaggiata rispetto al genere maschile, questa posizione critica verso la società è stata riconosciuta con il nome di femminismo. In esso confluiscono le proposte di studio, ideologiche e politiche di un complesso e articolato movimento sviluppatosi a partire dalle richieste per il riconoscimento del diritto di voto alle donne nella Francia della Rivoluzione francese. Si deve alla pensatrice e attivista Hubertine Auclert il primo riferimento al termine femminismo in un suo articolo per la sua rivista «La Citoyenne» nel 1881. In questo articolo Auclert, denunciate le asimmetrie fra la condizione di vita di uomini e di donne e le dinamiche di oppressione di genere, propose un modello sociale le cui leggi, norme e pratiche non assumessero il sesso biologico come fattore per modellare l’identità sociale e l’accesso ai diritti della persona. Gli women’s studies Il femminismo ha portato un modo nuovo di vivere, pensare e vedere il mondo, prima di tutto da parte delle donne stesse. Inoltre, ha affermato la necessità di trovare una propria tradizione di conoscenze, pratiche politiche e saperi. Alla fine degli anni Sessanta, con lo sviluppo del femminismo negli Stati Uniti e in alcuni Paesi europei, sono nati e si sono sviluppati i corsi di women’s studies, basati sulle teorie, sulle metodologie e sulle pratiche femministe. Un approccio multidisciplinare, in ambito accademico, che voleva rispondere a quel vuoto di conoscenze che una cultura maschile e patriarcale aveva prodotto. Negli anni Novanta lo storico Georges Duby e la storica Michelle Perrot curavano la pubblicazione di un’importantissima opera storica che si può definire corale e considerare una pietra miliare in Italia e nel resto del mondo: Storia delle donne in Occidente. L’indagine e la conoscenza in questo campo hanno avuto come obiettivo principale l’individuazione e l’analisi delle false rappresentazioni delle donne su cui si basava la cultura dominante. I programmi dei corsi e dei seminari di women’s studies sono, quindi, il risultato del lavoro portato avanti nell’ambito di associazioni, collettivi e organizzazioni femministe che, grazie alle stesse accademiche, in varie aree del sapere, hanno trovato spazio per dare valore all’esperienza diretta delle donne, anche a livello scientifico, facendo emergere il pregiudizio maschilista. Con lo studio e la ricerca hanno combattuto una discriminazione sistemica rispondendo con impegno nella società e nell’ambito della cultura e della scienza. Nell’ambito degli studi culturali, gli women’s studies si interfacciano con altre aree della conoscenza che trovano nell’impegno delle femministe la stessa radice: tra questi gli studi di genere, gli studi femministi e gli studi sulla sessualità. Quando ci si riferisce agli women’s studies lo si fa considerando la nascita di un canone condiviso di pubblicazioni, studi, opere e di realtà e di luoghi di donne dove ci si incontra, si studia e ci si impegna anche politicamente. Una di queste realtà è la National Association of women’s studies, nata nel 1977 negli Stati In diverse analisi storico-sociali gli uomini sono tradizionalmente descritti come capo-famiglia e sostenitori del nucleo familiare. Dunque, l’idea di crisi della mascolinità si sposa pienamente con l’analisi del danno che il patriarcato ha perpetrato. Vista da questa angolazione critica, la mascolinità sistemica non solo causa conflitti e situazioni di crisi con il genere femminile, ma anche tra gli uomini stessi, con il rischio che vengano trasmesse alle nuove generazioni di uomini caratteristiche patogene quali la paura del femminile, la capacità emotiva ridotta, l’omofobia e l’eterosessismo, oltre a comportamenti di violenza contro le donne o le minoranze sessuali. Negli ultimi decenni gli studiosi e le studiose attivi nei campi del femminismo, degli studi LGBT+ confermano l’idea che la maschilità sia in trasformazione. Sebbene non vi sia unanimità nello stabilire la natura di questo mutamento, vi è un senso diffuso d’inadeguatezza rispetto ai modelli culturali stabiliti del maschile. Ad esempio, sul versante della cura, è innegabile il crescente coinvolgimento di mariti, partner e padri nella vita familiare. Ancora, il numero crescente di famiglie con un solo genitore stanno convogliando l’interesse delle riflessioni scientifiche verso una figura di padre-marito. Il movimento per i diritti paterni che si colloca all’interno della più generale mobilitazione per diritti degli uomini, è uno dei fenomeni più noti di questa dimensione di cambiamento. Tuttavia, l’omofobia continua a costituire uno dei principi organizzatori della mascolinità. Il timore che qualcuno possa considerare una mascolinità omosessuale spinge gli uomini a mettere in atto comportamenti e atteggiamenti esageratamente virili, per assicurarsi che nessuno si faccia idee sbagliate su di loro. In questo quadro di trasformazione dell’essere maschio emerge prepotente anche la necessità di curare la propria salute bio-psico-fisica: le mutate condizioni degli stili di vita richiedono un diverso atteggiamento nei confronti del proprio corpo, che necessita di una sempre maggiore quantità di cure: dalla nutrizione all’estetica. Gli uomini mutuano oggi alcuni atteggiamenti e comportamenti prima considerati esclusivamente femminili: è in forte aumento l’utilizzo maschile di prodotti per il viso e il corpo. Studi LGTB+ A partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso la sociologia ha progressivamente ampliato il proprio focus, concentrandosi sulle diverse componenti dell’identità sessuale, considerata come un complesso intreccio di sesso, genere e orientamento sessuale. Ciò ha portato alla nascita di quelli che sono stati definiti gay and lesbian studies. La pubblicazione dei primi studi sociologici che hanno focalizzato la propria attenzione sull’orientamento omosessuale è costituita da indagini che si sono concentrate principalmente sulla composizione e sull’organizzazione della popolazione omosessuale residente nei grandi centri urbani del Nord America. L’idea alla base di tale filone di ricerca, di natura positivista, era che l’omosessualità fosse una pratica diffusa, capace di incentivare e produrre, a seconda dei contesti culturali e territoriali entro cui si inserisse, cambiamento sociale. Queste prime indagini americane di matrice funzionalista sono state volte a soddisfare due esigenze conoscitive: da un lato, queste erano interessate a studiare la funzione della comunità omosessuale in società, investigando dinamiche, relazioni ed esperienze interne alla comunità gay, insieme alla natura e alle caratteristiche delle relazioni intrattenute con gli altri membri della città; dall’altro, l’approccio positivista intendeva rilevare le condizioni di vita della comunità gay degli anni Cinquanta, con un focus particolare sullo stigma vissuto o percepito dalle persone omosessuali per il fatto di appartenere a una minoranza. In America prima, e in molti altri contesti territoriali del mondo occidentale poi, uomini e donne omosessuali e bisessuali, insieme alle persone transgender, hanno iniziato così a riconoscersi come comunità al di fuori degli schemi dell’eterosessismo. Entro questa cornice, l’acronimo «LGBT++» ha iniziato ad assumere un significato simbolico e politico. L’emblema della mobilitazione LGBT+ è rappresentato dai cosiddetti moti di Stonewall Inn, che hanno avuto luogo all’alba del 28 giugno 1969, quando la polizia effettuava una violenta irruzione nell’omonimo locale del Village a Manhattan. Il raid si è trasformato in una rivolta contro i poliziotti durata diversi giorni, avviata da Sylvia Rivera, donna transessuale che per prima si è ribellata alle forze dell’ordine. Questa data è diventata a livello globale un simbolo per la comunità omosessuale, che ogni anno ancora la celebra attraverso i Gay Pride. Entro la cornice costruttivista, l’attenzione della ricerca sociale sulle identità sessuali si è spostata poi sulla costruzione sociale dell’identità omosessuale e sulle forme attraverso le quali uomini e donne si riconoscono come gay e lesbiche. Più specificamente, attribuendo grande importanza ai fattori sociali e culturali, le identità omosessuali sono state studiate e analizzate dalle scienze sociali entro i principali ambiti in cui si realizza l’interazione sociale: dalla famiglia di origine al gruppo dei pari, passando per le organizzazioni di appartenenza e gli ambienti di lavoro. La riflessione sociologica costruttivista sulle identità sessuali si è inserita entro la cornice di analisi più ampie, volte a cogliere i principali effetti sociali di alcuni processi allora in corso, quali industrializzazione, razionalismo e individualismo. A partire da questo periodo storico gli studi LGBT+ hanno posto in risalto anche le principali differenze che intercorrono nella costruzione dell’identità omosessuale tra uomini e donne. Il cosiddetto processo di omosessualizzazione viene descritto come un percorso in cui entrano in gioco il proprio sentire, ma anche la forte pressione esercitata da alcuni fattori esterni, che propongono l’eterosessualità come condizione identitaria obbligatoria. Gli anni Ottanta sono stati segnati dalla drammatica diffusione dell’AIDS, ribattezzata in maniera stigmatizzante come «peste gay» e «GRID». Infatti, nonostante l’elevato numero di contagi anche tra persone eterosessuali, in questo periodo si è assistito a una vera e propria criminalizzazione della comunità omosessuale, condotta principalmente da medici ed esperti, supportati dal sistema mediale, secondo i quali gli uomini gay sarebbero stati i principali untori a causa dei loro comportamenti sessuali considerati promiscui. Tale contesto non solo ha stimolato la nascita e la diffusione di importanti campagne di educazione e di prevenzione del rischio sociosanitario condotte negli ambienti omosessuali di tutto il mondo, ma ha anche favorito il proliferare di un filone di ricerca sull’AIDS trasversale a diverse discipline, tra cui la sociologia, la psicologia, l’epidemiologia e la medicina. Contestualmente, in ambito accademico, ha iniziato a farsi sempre più spazio il già noto approccio poststrutturalista, che si inserisce all’interno della riflessione sulle conseguenze della società postmoderna. Le principali caratteristiche della postmodernità possono essere riassunte in: perdita di fiducia nelle grandi narrazioni della modernità (come la religione, la politica, la famiglia); maggiore personalizzazione dei percorsi biografici (resa possibile da un processo di detradizionalizzazione che ha liberato gli attori sociali dagli schemi di aspettative tradizionali); indebolimento degli schemi di orientamento dettati dalla tradizione. All’interno di questo scenario sociale gli attori sociali sono considerati più liberi di gire e di costruire la propria identità, anche sessuale, in quanto le biografie individuali appaiono ormai slegate dai principi universali e unitari tipici della modernità. Dunque, con la postmodernità la sessualità si scopre duttile, dal momento che gli attori sociali la vivono in maniera sempre più soggettiva, indipendentemente da vincoli prescrittivi, come ad esempio quelli riproduttivi. Come esito di queste profonde trasformazioni, nell’ambito della ricerca sulle identità sessuali, a partire dagli anni Novanta si sono fatti spazio sulla scena i cosiddetti queer studies. Il termine, di derivazione tedesca (quer significa obliquo, trasversale), è stato utilizzato per la prima volta nel 1990 da Teresa de Lauretis durante una conferenza presso l’Università di Santa Cruz per designare l’insieme delle teorie decostruzioniste dell’identità sessuale. La scelta di utilizzare il termine queer per indicare la direzione di questo approccio rappresenta una svolta linguistica da un forte significato simbolico. Infatti, nel linguaggio comune l’espressione queer era diventata nella lingua inglese del Novecento una sorta di sinonimo di stravagante, bizzarro, ma con un’accezione quasi negativa in riferimento alle identità sessuali non mainstream per insinuare il loro carattere deviante, perverso o anormale. La prospettiva dei queer studies ha fatto proprio il concetto di performatività di genere introdotto da Butler. La studiosa, infatti, ha posto in risalto che la ripetizione ritualizzata di alcune forme di comportamento riconducibili al femminile e al maschile ha prodotto come effetto una visione socialmente condivisa dei generi fondata su un fittizio paradigma eterosessuale. Pertanto, trattandosi di una messa in scena, la rappresentazione del genere non solo è da considerarsi come un qualcosa di artefatto, ma, nel contesto postmoderno, non poteva che cedere il passo a una concettualizzazione dell’identità sessuale più composita, non riconducibile a un’unica dimensione. L’assunzione di una prospettiva queer si è posta come possibile strumento utile a compiere un’operazione di decostruzione delle tradizionali categorie sociologiche di sesso, genere e identità sessuale, senza mai pervenire a una sintesi. Dunque, la proposta di introdurre all’interno del panorama scientifico la nozione di comunità queer ha rappresentato una possibile strategia da adottare per studiare e analizzare tutte le soggettività sessuali che, slegate da specifici fattori da cui partire per imbastire l’analisi, sono accomunate dal proprio essere lontane dalle categorie identitarie considerate omologanti. Le teorie queer hanno dato vita a una serie di studi e di riflessioni volte a mettere in discussione il carattere stabile e definito delle identità sessuali, rifiutando la nozione tradizionale di genere. Di fatto, alla base di tale prospettiva analitica vi è l’idea che occorra abbandonare una visione stereotipata e dicotomica dei sessi, dei generi, delle identità e degli orientamenti sessuali, in favore di forme meno cristallizzate e più fluide e instabili, perché esposte a riorganizzazioni che possono avere luogo durante tutta la vita delle persone, risultato di fattori sociali, psicologici, culturali e biologici. Utilizzando tale chiave interpretativa, è possibile sostenere che i queer studies hanno promosso una decostruzione del gender- polarized world, ossia una concezione nettamente dicotomica della società sessuata, proponendo, invece, una visione inedita di considerare i modi di vivere il corpo, il desiderio erotico, la femminilità e la mascolinità. Più specificamente, gli studi queer hanno iniziato a incoraggiare riflessioni e analisi sulle questioni che riguardavano le marginalità sessuali con il duplice obiettivo di promuovere la visibilità dei soggetti che si collocano oltre i tradizionali binari, da un lato, e, dall’altro, di riconoscere piena legittimità alle configurazioni identitarie trasversali e ai processi complessi e pluralizzati sottesi. Di conseguenza, la sessualità viene presentata così un terreno di sperimentazione, per cui l’omosessualità non può essere considerata più come un orientamento oppositivo all’eterosessualità, ma, al contrario, diventa complementare a essa. Sessualità La sessualità costituisce un tema d’interesse per la teoria e la ricerca sociologica da qualche decennio. La sessualità può mettere in gioco uno o più elementi che richiamano l’appartenenza del soggetto alla società al suo legame più profondo con elementi della cultura di riferimento, quali norme e valori (dimensione sociale e culturale). La dimensione sessuale permette di rispondere a un bisogno fondamentale per l’esistenza di una società, ovvero la condizione necessitante di entrare in relazione con l’altro. Tra le scienze sociali che si occupano della sessualità in termini non necessariamente connessi alla funzione riproduttiva, troviamo l’antropologia, per la quale il controllo della sessualità assume un ruolo centrale nella spiegazione delle genealogie e delle politiche della parentela. L’antropologia ha inoltre consentito di evidenziare come il controllo delle pulsioni sessuali da parte dell’essere umano sia collegato al processo di istituzionalizzazione della società, nella misura in cui la sessualità, anche quando considerata come puro istinto, si distinguerebbe da quello animale, che è invece orientato al mero fine riproduttivo. La sessualità va canalizzata, direzionata in azioni legittimate socialmente, nella misura in cui, in assenza di queste, c’è il pericolo che l’eccesso pulsionale conduca a un’aggressività reciproca. In merito ai processi di socializzazione e in particolare alla capacità delle agenzie di socializzazione di regolare i comportamenti, questi vanno inquadrati mettendo in evidenza: sia il mutato clima culturale e sociale, rispetto al passato, entro il quale tali agenzie oggi si trovano a operare, sia le specificità che ognuna di esse reca con sé e che necessitano dunque di riflessioni non sovrapponibili. Negli ultimi decenni, va inoltre affermandosi nella famiglia contemporanea una visione puerocentrica: se in passato i figli sacrificavano sé stessi per gli obiettivi più ampi della famiglia, al contrario oggi è la famiglia a conformarsi alle esigenze dei più giovani, aspetto che ha trasformato il sistema famiglia da istituzione che svolgeva compiti fondamentali di riproduzione sociale e culturale, a sistema privato di relazioni regolate dalla norma e dal codice dell’affettività. In merito alla seconda questione, ovvero alla pluralità di istituzioni chiamate in gioco nel processo di socializzazione al genere e alla sessualità, come si diceva più in alto, un ruolo determinante è da sempre quello svolto dalla famiglia. Molteplici sono gli studi che hanno messo in evidenza il ruolo di questa istituzione nei processi di socializzazione al genere e alla sessualità, concependo la seconda questione come un aspetto derivato e conseguente dai principali modelli di genere impartiti tra le mura domestiche secondo linee che prevedono comportamenti differenziati fra figli maschi e figlie femmine. La sessualità alla nascita costituisce l’aspetto a partire dal quale i bambini vengono indirizzati verso una visione del genere e sessuale di tipo binario, che si incorpora in modi contraddistinti di esprimersi, comportarsi, relazionarsi all’altro, fino anche di pensare e immaginare. Più nello specifico la questione della sessualità in famiglia costituisce una problematica che si affronta in epoca adolescenziale. Rispetto ai modelli tradizionali, i nuovi quadri familiari emersi a partire dal secolo XX sono caratterizzati da una maggiore vicinanza emotiva e comunicazionale tra genitori e figli. L’apertura in materia di comunicazione sulla sessualità si inserisce all’interno di un’evoluzione relazionale del modello familiare tradizionale. In questo contesto si esercitava un modello educativo autoritario, basato sul distacco emotivo, funzionale alla conservazione dell’autorità paterna. Il passaggio da una società antica a una moderna è stato la conquista della libertà da parte dell’individuo, il quale poteva progettare autonomamente il proprio futuro. Di conseguenza, si è iniziato a percepire anche il matrimonio come un affare privato e individuale. La sessualità diventa così un affare intimo connesso all’identità personale più che a determinanti di carattere sociale, che continuano pur sempre a esercitare la loro influenza. Tali aspetti sono stati per esempio messi in evidenza da quei sociologi che hanno preso in esame il vissuto sessuale degli adolescenti. La sessualità costituisce un aspetto centrale della vita degli adolescenti non solo dal punto di vista corporeo, ma anche per fattori educativi, psicologici, sociali e culturali chiamati in gioco. Da almeno due decenni i giovani, infatti, hanno iniziato ad avere un più facile accesso al sesso. Il comportamento sessuale degli adolescenti in ogni caso è regolato anche dalla cultura e dai valori familiari. La disapprovazione genitoriale su determinati comportamenti e le norme trasmesse ai figli sono state messe in relazione all’età, più grande, in cui gli adolescenti debuttano sessualmente. Questo è particolarmente vero per le ragazze. Capita che in alcuni contesti, le ragazze avvertono di essere sottoposte a maggiori restrizioni e a un controllo più vigile da parte della famiglia sulla loro condotta, in confronto ai loro coetanei di sesso maschile. Gli immaginari sulla sessualità dei ragazzi sono strettamente legati agli standard morali dei genitori, che tramandano ai figli attraverso la comunicazione e le relazioni familiari. In definitiva la presenza, il controllo e il dialogo genitori-figli influenza le pratiche sessuali degli adolescenti e impatta sulla (minore) frequenza dei rapporti sessuali, sul numero di partner avuti, sul maggior uso dei metodi contraccettivi e di conseguenza sul minor rischio di incorrere in gravidanze indesiderate e di contrarre malattie sessualmente trasmissibili. Se alla famiglia, dunque, è affidata principalmente la delicata funzione di controllo della vita sessuale dei figli, le modifiche recenti che hanno riguardato tale istituzione, sia dal punto di vista strutturale, sia da quello relazionale, rappresentano un ambito ancora poco esplorato dalla ricerca sociologica rispetto al tema della sessualità. Tuttavia, questi studi suggerirono che non è tanto la struttura familiare in quanto tale a esercitare una relazione diretta sulla più precoce e maggiore attività sessuale dei figli, ma che a giocare un ruolo fondamentale in questo senso sono variabili processuali quali: il contesto, il rapporto e le interazioni madre- figli, il controllo genitoriale e l’atteggiamento e le discussioni della madre sul sesso. Per alcune/i di queste/i studiosi/e il precoce debutto sessuale delle figlie di famiglie disgregate, monoparentali e non coniugate era legato alla funzione di regolamentazione dei comportamenti e dunque alla capacità di controllo genitoriale, che si stimò fosse maggiore nelle famiglie tradizionali. Altre ricerche hanno evidenziato che gli adolescenti di genitori divorziati possono iniziare prima il processo di individuazione rispetto ai coetanei. Le madri divorziate risultano delegare maggiore responsabilità sia ai figli maschi sia alle figlie femmine. Simon e Furman hanno riscontrato un effetto diretto della separazione dei genitori su una maggiore propensione ad affrontare temi relativi ai sentimenti e alla sessualità in famiglia. Le separazioni si riverberano negativamente nel rapporto genitori-figli, soprattutto laddove si verifica una perdita di autorevolezza da parte dei genitori, con un conseguente aumento dell’influenza del gruppo dei pari. Infine, in accordo con la teoria della maggiore apertura in materia sessuale da parte delle madri, Thorton rilevò che le madri in seguito a un divorzio sono più permissive in campo sessuale. In merito alle possibili spiegazioni del fenomeno, lo studioso ipotizzò che le madri di famiglie ricostituite, nella fase post-separazione sono più attive sessualmente, in quanto intenzionate a intraprendere una nuova relazione trasmettendo ai loro figli un atteggiamento più aperto e permissivo in materia di relazioni sentimentali. Socializzazione alla sessualità tra pari Il tema della sessualità è affrontato dai ragazzi nell’ambito del gruppo dei pari, ovvero quell’insieme di persone accomunate da caratteristiche similari che costituiscono un frame di riferimento importante per i processi di identificazione, oltre che ambito all’interno del quale i giovani acquisiscono norme, valori e riferimenti per l’agire. All’interno di questa ottica, le amicizie sono pertanto il contesto entro il quale i ragazzi raccolgono informazioni, si scambiano esperienze, sciolgono dubbi, costruiscono le basi rudimentali per la costruzione dei copioni sessuali. La famiglia e la scuola sono identificate dai ragazzi come istituzioni della tradizione, i rapporti amicali invece, anche per il fatto di essere caratterizzati da relazioni orizzontali, diventano ambito elettivo per l’espressione creativa, della libertà, della sperimentazione. Le ricerche sulla socializzazione alla sessualità sottolineano anche come le amicizie divergano per caratteristiche associate al genere, al ceto sociale di appartenenza, al livello di istruzione. Rispetto al genere, la socializzazione alla sessualità fra pari risente della differenziazione fra maschi e femmine. Questa differenza si evidenzia rispetto ai modi in cui i giovani e le giovani si confrontano sulle prime esperienze sessuali e affettive. La socializzazione alla sessualità tra i maschi costituisce un momento al quale i ragazzi attribuiscono un significato importante per il passaggio all’età adulta, vissuto all’interno delle cerchie amicali con il quale il giovane si confronta. Le amicizie assumono qui la doppia funzione: da un lato costituiscono i riferimenti, dai quali ottenere informazioni utili ad affrontare le prime pratiche ed esperienze sessuali, dall’altro costituiscono una sorta di palcoscenico ideale sul quale i ragazzi inscenano ed esibiscono la capacità d’interpretare i copioni sessuali condivisi. Parlare di sesso è tipico degli adolescenti in gruppo e questa attività si collega direttamente al bisogno di confermare la propria eterosessualità. Rinaldi, per esempio, collega questa particolare fase al possibile sviluppo di condotte omotransfobiche: prendere di mira con insulti e atteggiamenti aggressivi quei compagni di scuola o conoscenti con caratteristiche di genere e sessuali non conformi, diventa spesso l’espediente attraverso il quale i maschi confermano agli altri la propria maschilità eterosessuale. Per quanto concerne la socializzazione alla sessualità delle ragazze, sembra ancora prevalere il peso di una morale che limita la sessualità delle donne. Le amicizie dello stesso sesso in epoca adolescenziale costituiscono il principale riferimento entro il quale le giovani ragazze si confrontano, sciolgono dubbi relativamente alle esperienze sessuali quali: il primo bacio, il primo rapporto, mentre maggiormente tabuizzato risulta il tema della masturbazione. Difatti, le confidenze scambiate sembrano focalizzarsi più sugli aspetti emotivo-sentimentali, che quelli ludico-sessuali. Un ultimo aspetto deve essere dedicato al tema della socializzazione alla sessualità delle persone non eterosessuali, e dunque alle difficoltà che incontrano le persone omosessuali, bisessuali nell’ambito di istituzioni prevalentemente etero normative. Da questo punto di vista le reti amicali costituiscono un fattore fondamentale, spesso suppletivo alle assenze o all’atteggiamento ostativo evidenziato da altre agenzie di socializzazione. Un’opera recente ha messo in evidenza il ruolo primario che occupano le reti amicali delle persone gay e lesbiche relativamente al processo di costruzione dell’identità omosessuale. Le amicizie fra persone LGBT+ si rivelano un capitale sociale essenziale, giacché all’interno di queste si apprendono quelle che sono le regole e i processi relazionali che caratterizzano i mercati omoerotici. L’invenzione dei corpi Un’opera recente ha messo in evidenza il ruolo primario che occupano le reti amicali delle persone gay e lesbiche relativamente al processo di costruzione dell’identità omosessuale. Le amicizie fra persone LGBT+ si rivelano un capitale sociale essenziale, giacché all’interno di queste si apprendono quelle che sono le regole e i processi relazionali che caratterizzano i mercati omoerotici. L’invenzione dei corpi. La dimensione culturale interviene attribuendo un valore ai corpi e a parti di esso, organizzandone le differenze in una scala gerarchica, dettando funzioni e aspettative su cosa e come dovrebbe apparire, su quando considerarlo sano e quando no, su come dovrebbe muoversi, persino vestirsi o desiderare. Una delle grandi questioni che ruotano attorno alla nostra interpretazione dei corpi (il plurale è d’obbligo) è quella legata alle dimensioni del sesso e del genere: a determinate caratteristiche anatomiche la nostra società ha attribuito altrettanto determinanti funzioni, aspettative, vincoli e possibilità. Eppure, a ben vedere, la categorizzazione di genere che operiamo sui soggetti si basa su considerazioni tutt’altro che basate su caratteristiche fisiologiche: in linea di massima, quando incontriamo una persona non abbiamo accesso alle informazioni relative alla tipizzazione cromosomica o ai suoi genitali. A guidare questo processo sono invece elementi quali gli abiti, il tono della voce, il modo di muoversi, in altre parole i marcatori sociali che, per definizione, variano sensibilmente nel tempo e nello spazio. Nostro malgrado, il corpo parla di noi a prescindere dalle nostre intenzioni, ma il lavoro che operiamo costantemente su di esso può in qualche modo confermare o, al contrario, tentare di decostruire tutta una serie di presunzioni che ci investono. Da un lato, sembrerebbe che non ci si possa esimere dal fare il genere, dall’essere soggetti disabilitati, razzializzati e via discorrendo. Fino alla fine del Settecento il modello attraverso il quale si pensava e rappresentava il corpo era quello monosessuale: il corpo era quello maschile e quello femminile altro non era che una sua versione meno sviluppata. La differenza tra maschile e femminile si basava, invece, su differenze legate a ruoli, condotte e posizioni sociali e agire in modo non conforme rispetto al proprio gruppo di appartenenza poteva incidere sulla materialità del proprio corpo, che si sarebbe modificato di conseguenza; il sesso era dunque una categoria sociologica e non ontologica. contemporanea è quello di una crescente importanza del gruppo dei pari e dei media nella socializzazione delle nuove generazioni. Le relazioni familiari La famiglia viene considerato come un piccolo gruppo, ma la sua specificità è quella di essere un gruppo con storia, in cui sono fondanti i rapporti tra le generazioni. La socializzazione al genere all’interno delle relazioni familiari evidenzia anche la dimensione temporale della trasmissione di stili e aspettative tra genitori e figli. Il confronto tra queste due generazioni può mettere in luce differenze anche marcate. I genitori di oggi hanno probabilmente attese diverse da quelle che avevano i loro genitori, così i figli hanno attese ancora diverse. Ciò richiede un approfondimento sul come oggi avviene la trasmissione delle differenze basate sul sesso e si costruisce l’appartenenza di genere. Per quanto riguarda tale trasmissione, la famiglia è caratterizzata da un modo specifico di vivere e di costruire le differenze di genere. In particolare, nella famiglia la caratterizzazione di genere è presente nelle individualità dei genitori che hanno dato origine al nuovo essere umano. Nella famiglia. La relazione con il padre e la madre assume quindi un’importanza fondamentale nella definizione dell’appartenenza di genere, in quanto essi costituiscono per il figlio e la figlia le prime esperienze di relazione con il maschile e il femminile. Da queste premesse, s’intuisce come la famiglia rappresenti un luogo e un tempo in cui si sperimenta la relazione tra generi e generazioni e sia di conseguenza un ambito di studio privilegiato per analizzare il rapporto tra i generi, perché assume un’importanza fondamentale all’interno del processo di costruzione dell’identità di genere, in quanto è la prima realtà con il quale il bambino e la bambina entrano in contatto. La socializzazione a scuola Un ulteriore contesto educativo e socializzativo è la scuola o in generale l’insieme delle istituzioni formative. I percorsi formativi costituiscono un ambito relazionale importante che interviene nello sviluppo del soggetto anche dal punto di vista delle differenze di genere. Per quanto riguarda in particolare le differenze di genere, un primo aspetto fondamentale è quello del rapporto tra uguaglianza e differenza che si è creato all’interno dell’ambiente scolastico in Italia negli ultimi decenni. La realtà scolastica è un contesto di attribuzione, costruzione o ricostruzione di significati e di strutturazione di motivazioni, atteggiamenti e comportamenti legati direttamente all’appartenenza di genere. L’aspetto negativo di questo tipo di opzione è stato però la crescente tendenza a considerare l’ambiente scolastico come neutro e indifferenziato. In sostanza la scuola deve capire come affrontare la costruzione dell’identità all’interno di una serie di spinte contrastanti di affermazione e negazione delle differenze. Se negli ultimi anni si è assistito a un vuoto problematico, creato attraverso il sistema neutro della coeducazione indifferenziata, oggi questo deve essere probabilmente colmato attraverso un apprezzamento della diversità di genere e una sua problematizzazione. Un secondo aspetto è costituito dal fatto che nell’assolvere la funzione socializzante, la scuola tramette i valori propri della cultura in cui si trova immersa. Ancora oggi, per quel che riguarda i ruoli sessuali, il modello proposto a bambin* e a giovani per molte generazioni è quello di una netta dicotomia tra l’uomo proiettato all’esterno e la donna ripiegata solo sulla famiglia, come figlia, moglie e madre. Questi stereotipi si apprendono in modi e contesti differenti: guardando la tv, leggendo o discutendo con gli amici. Essi però possono essere trasmetti anche dalle istituzioni, come la famiglia o la scuola. Genitori e insegnati possono modificare questi modelli oggi anacronistici, ponendo l’accento sì sulle differenze, ma non necessariamente sulle stereotipie. Generi e generazioni in dialogo Nella società contemporanea la rappresentazione del maschile e femminile è profondamente mutata rispetto alle generazioni precedenti. Due tendenze sono compresenti nei processi di socializzazione delle nuove generazioni: la prima sostiene la necessità di una maggiore omogeneizzazione dei comportamenti, la seconda pone l’accento sull’importanza della differenziazione e del mantenimento delle diversità tra i generi. Nella società attuale assistiamo all’omogeneizzazione dei percorsi di crescita secondo il genere, perdendo o eliminando l’importanza della dimensione biologica di appartenenza. Dall’altra parte le istanze che stressano la distinzione in modi e tempi diversi si legano all’idea che vi siano dei percorsi differenziati anche all’interno dell’ambito maschile/femminile. Infine, tutto ciò si origina nelle esperienze socializzative che ciascun soggetto vive e sperimenta. La realizzazione dell’identità di genere/sessuata è conseguentemente un percorso relazionale, in cui la relazione si stabilisce sul coinvolgimento responsabile di diversi attori appartenenti a generazioni diverse con diversi background culturali. È un processo che può idealmente essere suddiviso in fasi che accompagnano lo sviluppo fisico, psicologico e sociale del soggetto. La prima fase è caratterizzata dall’iniziale riconoscimento della propria appartenenza biologica a uno dei due sessi. In un secondo momento, si presenta la fase della ricerca, in cui il soggetto cerca di definire la propria identità di genere anche in base agli stimoli culturali ricevuti dal contesto. Oltre a diversificarsi nel tempo, l’identità di genere si differenzia anche in base ai contesti in cui si realizza, poiché il processo è sia individuale sia sociale. Nel rapporto tra generazioni un tema importante è quello della differenza/indifferenza oppure disuguaglianza/uguaglianza di genere. Tale aspetto risulta fondamentale in una società sempre più multiculturale in cui i contesti socializzativi sono caratterizzati da prospettive culturali differenti e a volte concorrenti. Il rapporto tra le generazioni è oggi più complesso e apre spazi di rinegoziazione sul che cosa significa essere donna e uomo rispetto al modo in cui lo intendono le generazioni precedenti. Spazi di socialità Secondo la sociologia dell’infanzia i bambini non hanno un ruolo passivo nei processi di socializzazione; al contrario quest’approccio all’educazione al genere sottolinea l’impotenza dell’attività di riproduzione interpretativa. Nella sociologia classica, di contro, il bambino e la bambina sono considerati oggetti di socializzazione adulta. Utilizzando un’espressione di tipo foucaultiana, tra i bambini e gli adulti vige una relazione di possesso, ma anche di cura e di potere; la società forma e educa i bambini conferendogli uno status sociale inferiore rispetto agli adulti. Questa prospettiva adultocentrica ha oscurato l’interesse nei confronti dell’infanzia, che diventa un oggetto di studio relativamente recente. Tale cambio di rotta riconosce l’importanza dei bambini nelle scienze sociali, facendo crescere l’esigenza di studiare i bambini come agenti sociali. La nuova sociologia dell’infanzia offre, inoltre, al bambino un nuovo teatro in cui diventano soggetti attivi, socialmente competenti e in grado di partecipare all’interazione sociale. In questo senso, la nuova sociologia dell’infanzia assegna un nuovo significato a questa e considera i bambini soggetti capaci di assegnare significato a ciò che li circonda. A contribuire allo sviluppo di questo paradigma è principalmente la convenzione sui diritti del fanciullo approvata dall’Onu nel 1989: un documento epoca che ha dato la spinta a produrre una serie di studi sull’infanzia. La sociologia dell’infanzia, ancora, ridefinisce i modelli teorici sulla socializzazione: quello deterministico, in cui i bambini hanno un ruolo passivo e quello costruttivista, in cui sono visto come agenti attivi. I bambini si appropriano della cultura dell’adulto, reinterpretano e ne riproduco i significati traducendola nello spazio, con l’obbietto di riorganizzare i mondi sociali che gli adulti creano. Durante le attività ludiche, a scuola o al nido, i più piccoli si confrontano con gli stereotipi e le aspettative sociali, in un contesto in cui gli spazi sono ben organizzati e differenziati, non neutri rispetto al genere. Importanza dello spazio Lo spazio rappresenta un elemento fondamentale nella vita quotidiana del bambino. Gli spazi per bambini vengono separati da quelli degli adulti e vengono pensati e progettati con una finalità ben precisa: proteggere e prendersi cura dei più piccoli. Questi spazi che riguardano gli asili nido, le scuole materne, le aeree di gioco, delineano dei confini bene precisi e sottomettono i più piccoli a un controllo vigile e attento dell’adulto. La limitazione nello spazio del bambino rappresenta una sorta di campo sociale obbligatorio attraverso cui confrontarsi con tutta una serie di ruoli imposti dagli adulti. L’organizzazione degli spazi scolastici riproduce e promuove lo svolgimento della mascolinità e della femminilità. Nelle aule scolastiche la decisione degli spazi maschili e di quelli femminili è uno dei primi elementi che emerge conferendo allo spazio-gioco il ruolo di riproduttore degli stereotipi di genere attraverso spazzi sessuati. Ciò che si sviluppa è una genderizzazione dello spazio del gioco infantile che, di conseguenza ha ripercussioni sulla formazione dell’identità di genere. In termini di analisi critica, la sociologia dell’infanzia suggerisce che gli ambienti scolastici dovrebbero essere quanto più neutri possibile rispetto alle dimensioni di genere ed essere sensibili e attenti a messaggi di giustizia sociale e di equità. Ma, soprattutto, la scuola dovrebbe migliorare i propri percorsi di educazione sul genere. La correlazione tra differenze di genere e gioco infantile è oggetto di molte indagini che fanno riferimento non soltanto allo strumento ludico, ma anche agli stili o agli atteggiamenti che questi ultimi adottano. È noto che parlare del gioco nello sviluppo del bambino è particolarmente importante in quanto, attraverso questo, i bambini esplorano e provano i ruoli di genere. Nel mondo del gioco il bambino costruisce la propria identità, conosce il mondo e fa emergere il proprio sé. Il gioco, dunque, è uno strumento indispensabile per l’identità di genere. Attraverso il gioco e il sistema di giocattoli l’adulto propone degli schemi di comportamento e trasmette, di conseguenza, dei condizionamenti culturali. Nelle prime indagini in cui si discuteva della correlazione che potesse esistere tra il gioco e il genere emergeva come la differenziazione avveniva soprattutto nel mercato dei giocattoli. Lo stile differenziato, durante le attività ludiche, resta sempre un tema discusso, poiché già dai primissimi anni, è visibile come bambini e bambine giochini in maniere diversa. L’interesse a cose che sono particolarmente associate al loro sesso, permettono al bambino di percepire il genere maschio e femmina, di riprodurlo e di perpetuarlo addirittura. Si ritiene, infine, che le bambine e i bambini scelgano proprio di giocare a cose diverse e in modi diversi e di farlo con compagni del loro stesso sesso. Kilvington e Wood ritengono come nei giochi all’aperto o per strada la segregazione di generi sia molto meno netta rispetto a cui contesti scolastici. E proprio in questi contesti che i bambini giocano con qualsiasi cosa indipendentemente dal colore che viene associato al loro genere. I bambini, infatti, amano anche e soprattutto con elementi della natura che non sono associabili a nessun genere. Favorire un’educazione outdoor non solo consentirà di creare ambienti fisici e sociali più inclusi in cui possono assimilare insegnamenti d giustizia ed equità sociale ma permetterà ai più piccoli di giocare con la fantasia in un gioco meno condizionato e segregato. Solo di recente si è diffuso un ulteriore filone di studi che celebra, sin dall’infanzia, il diritto all’autodeterminazione e la libertà di genere. Sono molti i genitori che riconoscono e considerano la propria bambina o il proprio bambino gender creative. Tale concetto è stato introdotto dalla psicologa Ehrensaft per sostenere un modello che consideri una gamma più vasta di genere. In questo modo, i bambini hanno diritto di definire la loro identità di genere individuale e gli adulti hanno responsabilità di ascoltare quest’ultimi, nonché il dovere morale di sostenere tale libertà. Le questioni legate alla fluidità di • L’uso del maschile come titolo professionale per le donne; • L’uso del maschile per indicare l’insieme dei membri di un gruppo formato da donne e uomini; • L’uso del maschile per designare una funzione astratta che potrà di volta in volta essere ricoperta da una donna o da un uomo. Per quanto riguarda i titoli professionali, si osserva speso ancora oggi una significativa diffusione della forma maschile del sostantivo per tutte le funzioni di maggior prestigio a prescindere dal genere di chi le svolge, mentre nelle funzioni meno alte si usa regolarmente il femminile. Questo la dice lunga sul fatto che la presenza femminile è storicamente consolidata e data per acquisita in alcuni ambiti professionali tradizionali non dirigenziali, mentre in quelli di livello culturale superiore la presenza della donna è un fatto relativamente recente. Da qualche tempo però le cose stanno lentamente cambiando: questo singolare uso del maschile per le donne non è più un dato indiscusso, anzi la pubblica opinione e i media si interrogano continuamente su questo tema, riflettendo una varietà di posizioni. La questione del genere, infatti, oggi produce frequenti dubbi. In ogni caso, col passare del tempo, la scelta di usare un genere grammaticale coerente col genere della persona a cui ci si riferisce è sempre più frequente. Ciò ha portato alla diffusione di molti sostantivi che fino acquisto momento non erano ancora stati utilizzati nella loro forma regolare femminile. Inoltre, quando ci si riferisce a un gruppo formato da donne e da uomini, anche nei casi in cui la componente femminile è maggioritaria, tradizionalmente si ricorre al maschile. Questa asimmetria nella grande maggioranza delle situazioni mette in evidenza la presenza degli uomini nei gruppi e opacizza la presenza delle donne. A questa asimmetria di genere, che svantaggia la componente femminile si sta cercando di porre rimedio con delle soluzioni: • La ripetizione del termine nei due generi, questa soluzione è elegante e corretta, ma ha lo svantaggio dell'allungamento del testo; • Il ricorso alla barra obliqua per separare le desinenze; • La scelta di termini che evitino di indicare il genere; • Il ricorso a elementi grafici come l'asterisco o la chiocciola per rappresentare simultaneamente i due generi con un solo carattere; • L’uso del simbolo fonetico detto schwa, rappresentato da una e capovolta, che ha il vantaggio rispetto all’asterico e alla chiocciola di essere pronunciabile; • L'uso di u come desinenza ambigenere; • La scelta del solo femminile motivata o dalla forte prevalenza delle donne in un gruppo con una minoranza di uomini o dalla rivendicazione in alcuni contesti politici del capovolgimento dei rapporti di potere a favore delle donne. Per quanto riguarda le funzioni astratte, questo è l'aspetto tra quelli indicati dalle linee guida di Alma Sabatini, in cui ci sono stati i minori cambiamenti nell'uso. Il secondo grande ambito nel quale gli usi linguistici sono estremamente significativi per accompagnare e sostenere i profondi cambiamenti sociali e culturali è quello che riguarda la scelta del genere grammaticale in relazione alle diverse categorie di persone incluse nell'acronimo LGBT+. Nel caso delle donne e degli uomini transgender, il sesso biologico definito alla nascita non coincide con l'identità di genere assunta successivamente dalle persone. La donna transgender era infatti stata registrata anagraficamente alla nascita come persona di sesso maschile, ma ha adottato poi una identità di genere femminile, viceversa vale per l'uomo transgender. La conseguenza logica di ciò è l'utilizzo del genere grammaticale corrispondente alla scelta biografica della persona, ovvero alla sua identità di genere acquisita. L'accordo grammaticale col sesso biologico e non con il genere acquisito rivela immediatamente un atteggiamento transfobico da parte di chi lo adotta. Nel caso invece di donne lesbiche e uomini gay, si tratta al contrario di persone che non hanno effettuato alcun cambiamento di genere, definite per questa ragione cisgender, termine che disegna chiunque non abbia transitato nel genere opposto. Le persone cis gender conservano infatti il genere attribuito alla nascita e vi si riconoscono sul piano anagrafico, identitario e socioculturale. Sul piano linguistico la logica conseguenza di ciò è l'uso del genere grammaticale femminile per le donne lesbiche e di quello maschile per gli uomini gay. Quando, invece, una persona eterosessuale usa ostentatamente il maschile parlando di una donna lesbica o il femminile parlando di un uomo gay, sta adottando un atteggiamento omofobico. Un ulteriore grado di complessità si è andato, infine, imponendo soprattutto negli ultimi anni con la progressiva evoluzione di nuovi modelli di comportamento e di nuovi tipi di identità. Infatti, appare necessario citare il genere non binario, cioè tutte quelle persone che rifiutano di assumere un'identità orientata decisamente verso il maschile o verso il femminile. Dalla crescente diffusione di queste identità non binarie deriva, anche la sempre più diffusa scelta, nei modelli anagrafici di alcuni paesi di fornire a chi risponde, oltre le classiche risposte F e M, anche una terza opzione, definita con <altro>. Anche questa categoria di persone pone nuove interessanti questioni legate agli usi linguistici e al genere grammaticale, a cominciare dai nomi propri di persona e dai pronomi con cui è corretto riferirsi loro. Alcune delle soluzioni sono l'asterisco, la chiocciola, la u e soprattutto lo schwa. Anche per quanto riguarda i pronomi è in corso l'elaborazione di forme di gender neutral. La breve rassegna dei cambiamenti linguistici in corso in relazione alle questioni di genere conferma che le lingue sono strumenti adattivi che nel tempo acquisiscono dimensioni di uso e di forma corrispondenti alle innovazioni sociali e culturali. Inoltre, come già da tempo è stato osservato dalla letteratura del tema, esistono due spinte al cambiamento che producono effetti a volte contrapposti: • Quella della categorizzazione del genere, che va nella direzione dell'espressione della dualità maschile vs femminile; • Quella della decategorizzazione del genere, che spinge invece nella direzione opposta, cioè verso la cancellazione delle differenze anche grammaticali. La violenza Il tema della violenza interpersonale è oggi fra i più rilevanti della ricerca sociale. Si tratta di un fenomeno storicamente ricorrente, di cui si registrano manifestazioni in differenti momenti storici e in diverse culture. Il dibattito che ha accompagnato l’analisi di questo fenomeno negli ultimi cinquant’anni ha focalizzato l’attenzione su alcuni nodi critici che è possibile riassumere nel passaggio dalla normalità all’anormalità. Fino agli anni 60, la violenza interpersonale, in determinate circostanze e per precise motivazioni, era considerata come un’azione non ascrivibile alla casistica dei reati contro la persona. Le giustificazioni rispetto all’uso della violenza adottare in virtù della necessità di mantenere l’istituzione matrimoniale, o a fini apertamente correttivi nei confronti di soggetti reputati devianti, escludevano gran parte di questo tipo di azioni dall’elenco dei reati annoverati nei codici penali. In Italia, ad esempio, fino al 1981 il matrimonio estingueva il reato di stupro, mentre erano previsti sconti di pena per chi uccideva, a causa di uno scatto d’ira successivo alla scoperta di un tradimento. Dall’altro canto, le condotte violente rilevate in contesti marginali quando non poteva essere giustificate, venivano ricomprese all’interno del perimetro dei comportamenti propri delle subculture: erano considerati un effetto di stili di vita devianti. Gli studi che portano all’attenzione generale il tema della violenza contro le donne agita prevalentemente dagli uomini sono quindi abbastanza recenti e le prime riflessioni che ne pongono in rilievo una differente valutazione che estrapola la violenza contro le donne dai comportamenti tolleranti risalgono agli anni Settanta. La violenza contro le donne cominciava, quindi, a non essere reputata normale, a perdere la propria giustificabilità anche a fronte di motivazioni suffragate dai codici, e che convergevano nella necessità di mantenere o preservare l’istituzione matrimoniale. Le ricerche successive sottolineano gli aspetti sistemi e strutturali della violenza contro le donne, considerate membri subalterni della società. Gli studi di questa prima fase, inoltre, convergono nell’evidenziare la fallacia gnoseologica con cui la violenza contro le donne è stata a lungo considerata la manifestazione di una specificità del comportamento maschile. Da qui deriva la successiva critica al patriarcato. Il secondo snodo teorico identifica l’ampliamento concettuale che allarga ‘delle donne ad altri costrutti gerarchici di differenza e alla gender based violence. L’uso del termine violenza di genere è recente e risale al 1995, quando durante i lavori della 4° conferenza delle Nazioni Unite, fu evidenziata la necessità di sottolineare l’esistenza di soggettività fino ad allora destinate alla subordinazione. I primi studi mettono in relazione identità maschile e violenza giustificata dalla superiorità dei posizionamenti maschile. La violenza di genere è una violazione diffusa e sistematica dei diritti umani fondamentali e una forma di discriminazione basata sul genere. Secondo questo approccio, non si tratta di affermare che gli uomini siano naturalmente più violenti delle donne, ma di considerare come la violenza di genere si riproduca attraverso un dispositivo che Bourdieu chiama violenza simbolica, che rende invisibili le diseguaglianze e le asimmetrie in cui si situano le violenze. Gli studi di questi anni interpretano i rapporti di genere alla luce delle gerarchie di potere del patriarcato, inteso come sistema di strutture e pratiche sociali in cui gli uomini dominano, opprimano e sfruttano le donne. Altre ricerche sono volte a evidenziare la dimensione intersezionale della violenza. Si tratta di analisi che per un verso sottolineano gli effetti devastanti delle pratiche patriarcali oppressive, per un altro si oppongono alla teoria della naturalità dell’eterosessualità normativa e alla binarietà uomo-donna. A partire dalla metà degli anni Novanta sono state messe in luce alcune lacune nella comprensione della violenza sulle donne, in particolare per quanto riguarda le esperienze di donne appartenenti a gruppi marginalizzati. La letteratura sul tema dimostra, che il velo è stato introdotto per distinguere tra donne sposate e prostituite, tra il mercato del patrimonio e il mercato delle relazioni di breve durata, con il fine ultimo del controllo del potere procreativo femminile. Il caso del controllo del corpo di una donna, che si traduce nella scelta autonoma di velarsi il volto e i capelli, nasconde di fatto la violenza maschile all’interno di scelte religiose. La violenza nelle relazioni d’intimità e la violenza domestica sono sicuramente le forme di violenza più diffuse subite dalle donne: la metà delle donne uccise a seguito di violenze fisiche o sessuali sono morte per mano del partner o di un familiare. Si tratta di tenere in considerazione il sesso dell’aggressore oltre che quello della vittima. Proprio questa larga divisione di genere nei casi di violenza permette di evidenziare come sia spesso illusorio l’equilibrio tra rappresentazioni della parità e consenso sulla suddivisione di compiti e ruoli. In secondo luogo, sottolinea la dimensione di vicinanza nella relazione tra i soggetti. Le relazioni di prossimità, infatti, non sempre riguardano la vita intima e in esse non prevale sempre la violenza contro le donne agita da uomini. Evidenzia piuttosto come essa sia nella stragrande maggioranza dei casi il prodotto di una co-indipendenza, determinata da una prossimità emotiva oltre che fisica tra i soggetti. La violenza di prossimità è perpetrata in situazioni in cui l’amore molesto simula l’amore, fa sì che i perpetratori acquisiscono immunità e diritti sulla vittima con il consenso della vittima stessa. È una violenza autosufficiente, autoimmune e che esclude il conflitto. Essa è situata all’interno del contesto oppressivo e alla vittima del reato. Allo stesso tempo, emergono interpretazioni teoriche fondate sull’idea che un atto criminale non possa essere disgiunto dal suo autore. La preoccupazione è quella di mantenere in rilievo il rapporto fra vittima e autore di reato. Nel riconoscimento del ruolo attivo nella relazione, la vittima recupera la propria dignità rispetto allo studio della dinamica che sottende la relazione vittima-carnefice. In quest’ottica si procede al riconoscimento dei diritti anche della vittima, accompagnandola nel percorso d’uscita dallo stesso ruolo in cui può trovarsi imprigionata. L’attenzione alla vittima e alla sua individuazione come attore all’interno della dinamica vittimologica s’incentra nella necessità di attuare un percorso di sostegno per l’uscita dal ruolo di vittima. Dunque, è possibile affermare che la vittima di reato può avere un carattere ambivalente: da una parte c’è una persona che soffre a livello fisico, emotivo, le conseguenze di un’azione criminosa, dall’altra una persona che escogita il modo per ottenere benefici e privilegi di varia natura. Per avviare la specifica lettura delle dinamiche vittimologiche è necessario precisare che si è arrivati ad una definizione del processo, introducendo una distinzione tra vittimizzazione primaria e vittimizzazione secondaria. In specifico ci occuperemo della vittimizzazione secondaria, in quanto ci offre lo spunto per puntualizzare le difficoltà inerenti alla violenza di genere e le sue ripercussioni socioculturali. Se parliamo di violenza di genere, le vittime sono maggiormente donne, che rischiano di divenire vittime una seconda volta nel momento in cui, dopo aver denunciato, vengono giudicate secondo il metro socioculturale che ne caratterizza il contesto di vita. Sappiamo, che le vittime di violenza di genere sono spesso scoraggiate a presentare denuncia per evitare reazioni ancora più violenti da parte del reo. Per comprendere pienamente il fenomeno e come si può giungere alla vittimizzazione secondaria introduciamo come esempio l’intervento della Corte Europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo in merito ad un caso di violenza sessuale di gruppo nei confronti di una ragazza. L’Italia è stata condannata dalla CEDU a risarcire sia perché durante il procedimento le autorità nazionali non hanno protetto la vittima dalla vittimizzazione secondaria sia per le considerazioni poste in merito a come si sono svolti i fatti e al luogo in cui è avvenuto il reato. Negli studi sulla relazione tra vittima e l’esecutore del reato sono state individuate peculiarità e condizioni che possono rendere un soggetto maggiormente a rischio nell’assumere il ruolo di vittima. Sono stati individuati dei fattori precipitanti e fattori predisponenti che possono avere una caratteristica generica o specifica. I fattori predisponenti sono diversi: bio-fisiologici, psicologici, economico sociali. Questi studi hanno portato alla distinzione più ampia tra vittime attive o passive, rispetto all’avere partecipato al processo di vittimizzazione con comportamenti di adesione o meno al rapporto con il reo. La vittima non è sempre attivamente partecipe ai fatti e non è detto che le sue reazioni producono un feedback da parte dell’autore del reato, tanto da poter essere considerata una vittima passiva. Diversi sono stati gli studi incentrati sulla ricerca dei soggetti a maggior o minor rischio di vittimizzazione a causa della propria condizione personologica e in base alla condizione della propria vita quotidiana. Il teorico che maggiormente si è occupato di questo approccio ha evidenziato quanto non vi sia un’equa distribuzione nella popolazione del rischio di vittimizzazione proprio a causa dei fattori favorenti. Ci sono vari modelli teorici. Il primo modello di vittimizzazione a cui fare riferimento è quello sistematico- lineare che si è sviluppato negli anni Ottanta a cura del criminologo Viano. In questo modello l’attenzione è posta sull’analisi della relazione interpersonale che si instaura tra l’aggressore e la vittima. Si tratta di una relazione circolare e per questo vengono posti al centro la posizione e il ruolo delle due parti. L’attenzione viene posta sulla relazione diadica tra i due e non è in questo senso possibile l’analisi delle singole parti senza tenere al cento il tipo di legame esistente. Questo approccio, ponendo al centro la relazione, da significato allo stesso ruolo della vittima, che essa svolga un ruolo attivo o passivo rispetto al reato specifico. La dimensione relazionale è fondamentale, in quanto i soggetti non sono singoli indipendenti dal contesto e dalla relazione con il modello circostante e con gli altri soggetti della scena, non solo nelle relazioni positive ma anche in quelle negative che si strutturano e che possono portare alla definizione di un reato. Questo concetto è ancora più forte nel momento in cui tra la vittima e il carnefice il rapporto è profondo. Il secondo modello è quello circolare che nasce dall’esperienza dei Centri Antiviolenza Italiani intorno al 2013. Il lavoro svolto grazie all’esperienza sul campo dei CAV ha permesso un riconoscimento del processo di vittimizzazione capace di superare l’idea che la vittima per poter chiedere aiuto avrebbe dovuto prima sviluppare la consapevolezza dell’essere vittima. Insieme alle operatrici dei CAV è possibile avviare il processo che può portare alla consapevolizzazione della propria condizione di vittima. Da qui si è arrivati alla definizione del modello circolare di vittimizzazione. Il percorso d’uscita dal ruolo di vittima è un percorso complesso che non sempre riesce a restituire serenità e dignità alla stessa. Questo percorso può essere facilitato soltanto dall’intervento di figure professionali specializzate e capaci di creare una rete di supporto rispetto alla lettura degli eventi. Dagli studi di Viano il processo di uscita dalla condizione di vittima viene suddiviso in 4 fasi: • Riconoscere il danno subito; • Riconoscersi nella condizione di vittima; • Decidere come intraprendere il percorso; • Ricevere l’aiuto per uscire dal processo di vittimizzazione. Alla luce di questa analisi si ritiene fondamentale il ruolo di tutela inalienabile dei diritti delle vittime, tanto da riconoscere il ruolo di salvaguardia del CEDAW, come organo di controllo sugli Stati europei, per continuare a garantire e supportare le vittime. Il documento lavora anche per riflettere sul contesto socioculturale in cui tali diritti devono essere esercitati. I due processi sono legati da molti elementi, tra i quali quelli ambientali e sociali, psicologici, culturali ed economici. Tutti i fattori che possono facilitare l’assunzione del ruolo subalterno. Anche per queste ragioni, la difficoltà di abbandonare il ruolo di vittima si scontra con modalità e adesione a modelli che nel corso della vita della vittima possono avere contribuito a facilitarne il percorso. Le storie delle vittime raccontate alle operatrici dei CAV le tante e diverse forme in cui le vittime hanno subito e accettano i comportamenti violenti. Criminalità organizzata Guardando alla letteratura scientifica prodotta negli ultimi vent’anni sulla questione della relazione tra genere e terrorismo è possibile individuare 4 approcci principali. Il primo approccio consiste nell’utilizzo del genere come variabile che può consentire di individuare le differenze tra gli uomini e le donne rispetto all’esperienza dell’esercizio della violenza terroristica. Il secondo approccio analizza il potere delle norme di genere di condizionare e modellare i ruoli di uomini e donne all’interno delle organizzazioni terroristiche, mentre il terzo si concentra sulle motivazioni e sui diversi fattori ideologici, culturali, economici e sociali che possono spiegare come e perché le donne e gli uomini scelgono di entrare a far parte di un gruppo estremista. Il quarto approccio, infine, cerca di analizzare in che modo la femminilità e la mascolinità possano innescare delle dinamiche in grado di influenzare i percorsi individuali e collettivi di radicalizzazione violenta. Le scienze sociali si sono concentrate soprattutto sulla crescente adesione delle donne a forme estreme e violente di pensiero e azione. I primi contributi hanno condizionato negativamente l’interpretazione del terrorismo femminile etichettandolo come irrazionalmente motivato da desideri di appagamento emotivo oppure interpretandolo come una scelta dettata da una sorta di codice materno-sacrificale. Le ricerche realizzate nei due decenni successivi sono state influenzate sia dall’intensificarsi del fenomeno sia dalla sua evoluzione storica. Il primo di questi è stato tracciato dalle ricerche che hanno analizzato il terrorismo perpetrato dalle donne adottando una prospettiva femminista, dalla quale sono emerse opposte interpretazioni del fenomeno: risultato della manipolazione e dell’oppressione delle donne da parte di una società patriarcale. Rientra a tal proposito lo studio di Berko ed Erez le quali, intervistando un gruppo di ex terroriste sono giunte a definire la loro come una situazione di non ritorno. Un ulteriore ricerca è rappresentata dallo studio di Miranda Alison sulle donne combattenti nei conflitti armati. Alison arriva a sostenere che in tutti i conflitti nazionalisti le donne combattenti sono spesso percepite come una anomalia necessaria ma temporanea in un periodo di crisi e di bisogno nazionale. Un secondo itinerario di ricerca è quello volto a esplorare le motivazioni alla base del terrorismo femminile e si articola in due principali macroaree di ricerca: quella relativa alle motivazioni personali delle donne che scelgono di esercitare la violenza terroristica e quella relativa alle motivazioni dei gruppi che decidono di coinvolgere le donne nelle loro azioni politico-militari. La prima macroarea di ricerca si è caratterizzata per una particolare attenzione ad una tendenza globale del female suicide bombing e ai fattori in grado di motivare una forma di violenza agita così estrema. Per quanto riguarda la seconda macroaerea di ricerca tra gli studiosi nel ritenere che la scelta da parte delle organizzazioni terroristiche di includere le donne debba essere interpretata tenendo presenti i molteplici vantaggi legati al reclutamento femminile. Il processo decisionale che orienta i leader verso il coinvolgimento delle donne nelle missioni terroristiche appare dunque una combinazione di pensiero strategico e opportunismo: le donne vengono scelte dai gruppi terroristici per la loro capacità di attirare l’attenzione dei media, ma anche perché la loro presenza garantirebbe supporto e conforto fisico, emotivo e psicologico agli uomini. Diversi studi, inoltre, hanno messo in evidenza che la presenza delle donne è stata particolarmente importante nelle organizzazioni terroristiche secolari e di estrema sinistra, mentre i gruppi terroristici religiosi o di estrema destra hanno spesso escluso le donne. L’era dei social media, tuttavia, ha contribuito a mutare le caratteristiche e l’intensità della presenza femminile non solo nelle organizzazioni terroristiche di matrice religiosa ma anche nei gruppi neonazisti. Il fenomeno definito come criminalità organizzata è relativamente recente. In generale, è possibile definire la criminalità organizzata come un’attività delinquenziale collettivamente esercitata ai fini di lucro e orientata a trarre reddito dalla produzione di bene e servizi vietati dalla legge. Negli ultimi decenni è stata fatta luce sugli effettivi ruoli svolti dalle donne nelle diverse organizzazioni criminali. Per un lungo periodo l’opinione pubblica e le testimonianze degli stessi uomini di mafia che le donne di tali ambienti avessero soltanto un ruolo passivo di madri e mogli sostanzialmente all’oscuro degli atti criminali perpetrati dai loro uomini. Queste donne apparivano a tutti gli effetti come delle soggettività passive inserite in contesti di tipo tradizionale e subordinate alle regole di un mondo sostanzialmente patriarcale. Tuttavia, le rotture dei precedenti equilibri familiari e organizzativi hanno fatto emergere un’immagine molto diversa e ben più articolate della presenza femminile nell’universo mafioso. Studiando le donne che hanno legami di sangue con una famiglia mafiosa oppure che sono divenute membri di una famiglia mafiosa perché ne hanno sposato un membro, Cayili ha identificato qualcuno fattori chiave di modellare il comportamento e differenziare i principali profili di donne mafiose: commettere un crimine; fornire un supporto psicologico all’organizzazione criminale; decidere di confessare e decidere di agire contro le mafie. Secondo lo studioso, gli strumenti del patriarcato sarebbero impiegati per definire il ruolo delle donne all’interno delle organizzazioni mafiose. Le radicali conservatrici attive hanno maggiori possibilità di essere dell'emittenza Rai, con una vera e propria guerra di ascolti e l'affermazione progressiva dell'emittenza privata su quella pubblica. Tornando alle rappresentazioni di genere, un programma come drive in di Antonio Ricci, rappresenta molto bene la nuova filosofia delle tv berlusconiane. Vediamo qui comparire le ragazze fast food, donne formose che si offrono allo sguardo del politico e che propongono uno stereotipo di donna passiva e compiacente nei confronti degli uomini. Gli anni successivi continuano a essere caratterizzati da questa tendenza, si cerca di proporre una tv basata sull’ironia e l'autodeterminazione femminile. In quegli stessi anni arrivano anche le veline, le showgirl che nella trasmissione Striscia la notizia portavano ai conduttori le veline appunto, cioè le notizie, così definite in gergo giornalistico. Le veline sono una mora e una bionda, non parlano, sorridono, mettono in scena soltanto balletti e stacchetti, e sono un modello agognato e desiderato da molte bambine adolescenti. Negli anni 90 la situazione non migliora, quanto a modelli di rappresentazione della donna. Soltanto per fare un esempio, un programma come <Non è la Rai= era caratterizzato dalla massiccia presenza di ragazze molto giovani, intende a esibirsi in balletti e canzoni. Soltanto qualche anno dopo <Uomini e Donne> di Maria De Filippi promuove un preciso concetto di femminilità e maschilità. L'uomo e la donna possono corteggiare o essere alternativamente corteggiatori e corteggiatrici, ma i modelli estetici proposti sono tutti orientati alla bellezza estetica e a specifici canoni corporei: il ragazzo macho, palestrato e tatuato, la ragazza quasi sempre snella, di gradevole aspetto e vestita all'ultima moda. Al termine di questa rapida e semplificatoria carrellata, ci chiediamo allora se oggi ci sia ancora spazio per i modelli alternativi di femminilità e soprattutto per altre soggettività che non devono necessariamente essere ricondotte al modello di uomo forte, direttivo e competente e di donna bella, oggettivata e stupida. Qualche spiraglio può essere rintracciato nella programmazione televisiva più recente. Se da un lato programmi come <Matrimonio a prima vista> ancora non prevedono la presenza di coppie omosessuali, dall'altro trasmissioni come la stessa <Uomini e Donne> o <Primo appuntamento> hanno mostrato di abbandonare i pregiudizi dando spazio anche alla partecipazione delle persone omosessuali. I media digitali La trasformazione digitale permette alla tv di assumere forme nuove. Vengono rinnovati i contenuti seguendo le dinamiche di mercato, si modificano le strategie industriali e cambiano le pratiche spettatoriali, poiché si assiste a un mutamento dei luoghi e degli stili di fruizione. Nell'età della convergenza occorre pensare il medium televisivo come sistema. La cultura convergente è il paradigma che permette di comprendere la nascita dei moderni prodotti culturali e viene declinato in diversi significati: la convergenza tra consumatori e produttori, tra vecchi e nuovi media, tra linguaggi, da convergenza economica e culturale. La convergenza favorisce la creazione di prodotti transmediali e lo sviluppo di una fandom culture: gli eroi della Marvel non sono più solo al cinema, ma diventano prodotti di merchandising, dall'abbigliamento ai costumi dei bambini. In questo nuovo contesto, in cui sono facilitati contatto e condivisione, le aziende progettano i loro prodotti incorporando in essi gli aspetti collaborativi e partecipativi, coinvolgendo i consumatori all'interno delle campagne di marketing e comunicazione. In questo quadro, Netflix rappresenta un esempio molto interessante di azienda televisiva che include nella sua filosofia e nel suo modello di business l'interesse per le questioni di genere. Il modello di business di Netflix è assestato su bassi investimenti iniziali e produzioni locali, a costi contenuti, con attori sconosciuti e a cachet ridotto. L’azienda ha puntato su idee che intercettassero i bisogni di espressione di comunità specifiche di spettatori che a loro volta hanno usato il passaparola, attivando forme di pubblicità gratuita per l'azienda. Ciò ha fatto sollevare in alcuni casi sospetti di pinkwashing, cioè l'accusa di aver sfruttato la visibilità fornita dal movimento LGBT+ o femminista, ma Netflix si è difesa affermando di avere sempre abbracciato una politica inclusiva e rispettosa di ogni differenza. Nel confezionamento di questi prodotti si pone grande attenzione alla rappresentazione dei corpi, alle scene erotiche, all'evoluzione dei personaggi attraverso prove nella vita reale. Le saghe familiari sono da sempre il luogo di rappresentazione di modalità di vita che non riproducono le norme tradizionali. Il family drama è il genere ideale per mettere in scena i coming out, poiché all'interno della famiglia si vive l'accettazione o la repulsione di orientamenti e generi non conformi. Bechdel notò che fino a Jane Austen i personaggi femminili avevano subito una rappresentazione stereotipata. Da quel disegno è nato il test che ha offerto la possibilità di misurare la rappresentazione delle donne in una fiction. • Nel film appaiono almeno due personaggi femminili? • Questi personaggi interagiscono tra loro? • Nell'interagire, parlano di qualcosa che non riguardi un uomo? Gli studi recenti sull'industria dei media hanno mostrato che i film che superano il test di Bechdel hanno prestazioni finanziarie migliori di quelli che ricevono un punteggio basso. Le/gli influencer I social si caratterizzano per la straordinaria possibilità da parte dei pubblici di partecipare, creare, ma anche e soprattutto condividere, nella logica dello sharing dei contenuti. Social media come Facebook o Instagram pongono sul piatto nuove questioni legate alla rappresentazione e diffusioni delle immagini e dei corpi. La moltiplicazione esponenziale dei selfie e soprattutto di una loro precisa grammatica di realizzazione mette nuovamente al centro il corpo come protagonista. E parlando di social e selfie non possiamo non citare gli influencer e le influencer, che mostrano con evidenza la doppia funzione del sistema mediale: quella di far sì che i soggetti possono essere contemporaneamente soggetto e oggetto dei media. Nel primo caso i media offrono loro uno spazio di azione ed espressione inedito, mentre nel secondo diventano oggetto della comunicazione mediale perché ne vengono in qualche modo dominati. Un caso emblematico è quello di Kim Kardashian, che attraverso i social documenta quotidianamente ogni singolo aspetto della sua vita mostrandosi spesso in pose sexy e che pongono al centro il corpo. Le/gli influencer rappresentano una categoria riconoscibile dei social media e in particolare di Instagram: la loro fortuna dipende in gran parte dal numero di follower che li segue, proprio perché nel tempo riescono a costruirsi un'affidabilità e autorevolezza orizzontale. La loro fortuna economica è anche legata al ruolo di testimonial di famosi brand internazionali che vengono regolarmente sponsorizzati. Ci si domanda se davvero i social media ci oggettivino o se siamo noi a scegliere di essere oggettivati tanto da non essere più oggetti. Pensiamo al caso di Chiara Ferragni, anche la sua vita è costantemente scandita dalla presenza dei social che documentano la sua vita familiare, con foto dedicate, oltre alla sua persona, alla sua casa, ai suoi bambini, al suo cane. Su di lei è stato anche girato il documentario Unposted uscito nel 2019 e un docu-reality TheFerragnez. E, per rivolgerci a un'influenza leggermente meno nota, ragioniamo sull'impatto che può aver avuto un libro come quello di Giulia de Lellis <Le corna stanno bene su tutto. Ma io stavo meglio senza!> sulla socializzazione delle adolescenti al tema del tradimento, a come affrontarlo comparando la propria esistenza con quella di una quasi coetanea che per loro diventa un punto di riferimento. Occorre riflettere anche sulla capacità degli influencer di entrare nel dibattito pubblico esprimendo le proprie opinioni su temi di attualità. Cio è avvenuto in occasione del concerto del 1° Maggio 2021, quando Fedez, famoso cantante rap e influencer ha attaccato in diretta tv un senatore della Lega che aveva osteggiato il Ddl Zan. Media e violenza Il modo in cui i media rappresentano la violenza di genere e un tema che suscita spesso dibattuti. In particolare, con riguardo al fenomeno del femicidio, il dibattito si è concentrato anzitutto sulla sua precisa definizione. In genere quando si parla di femminicidio si parla dell’omicidio di una donna in quanto donna, agito da parte di un uomo. Diverse ricerche hanno mostrato come sia difficile offrire una corretta informazione sul fenomeno del femminicidio. Un volume che rende conto una ricerca condotta in Italia analizza la rappresentazione del femminicidio attraverso lo studio di diversi ambiti: la cronaca giornalista, il punto di vista dei professionisti dell’informazione, i discorsi dei tribunali e delle sentenze. Il volume descrive le modalità utilizzate dalla cronaca per raccontare il modo in cui i media hanno narrato le vicende di donne uccise in Italia. Questo segmento di ricerca ha fatto emergere una serie di evidenze: • Il tasso costante di questo tipo di omicidio è il suo frequente contesto domestico fanno pensare che non vi siano tante cause sociali alla base del suo verificarsi, quanto cause individuali; • L'ambiente domestico si conferma come quello più pericoloso per la donna e a compiere l'omicidio è il partner; • Le motivazioni sono riconducibili alla gelosia, all'abbandono e alle liti. Il coltello è l'arma più utilizzata per compiere l'omicidio. Dalle parole degli intervistati si rileva come i media e, in particolare, il mezzo televisivo siano fattori determinanti per favorire l'emersione e il consolidamento del tema all' interno dell'opinione perché hanno contribuito a tematizzazione come problema per la società la violenza di genere e il femminicidio sono diventate oggetto di numerose trasmissioni televisivi. Amore criminale e un esempio molto noto di questa tendenza. Un altro programma che ha avuto in questo un ruolo importante è stato chi l'ha visto. Importante, infine, anche il ruolo della trasmissione presa diretta. Certamente non mancarono le criticità anche relativamente a queste rappresentazioni uno dei nodi riguarda proprio l'uso del termine femminicidio sul quale non si rintraccia tra i professionisti una posizione condivisa. Secondo alcuni intervistati, infatti, l'uso di questo termine si renderebbe necessario per identificare il tipo di omicidio, mentre per altri il suo uso sarebbe ingiustificato. Un altro elemento critico riguarda il modo in cui I media strutturano le narrazioni su questi temi. Lo storytelling prevalente del femminicidio e caratterizzato da stori che hanno come protagonisti uomini e donne giovani e belli che hanno buona probabilità di avere sviluppi futuri. In conclusione, i media giocano un ruolo ambivalente nella definizione del femminicidio: da un lato costruiscono rappresentazione che necessitano di essere problematizzate, ma dall'altro hanno il merito di porre la questione al centro del discorso pubblico come questione culturale. Cyberbullismo omofobico La digitalizzazione dell'informazione e la penetrazione dei social media nei consumi mediali dei giovani hanno rivoluzionato il contesto nel quale si diffondono le prepotenze e i discorsi di odio. Nell'ultimo decennio si è consolidata una solida letteratura in tema di bullismo e, più recentemente, di cyberbullismo. Il bullismo è diventato oggi un fenomeno di attualità. L'attenzione pubblica in tema di bullismo è evidente anche dalle numerose iniziative di comunicazione istituzionale, ad esempio come il telefono azzurro o Save the Children. L'impegno maggiore, tuttavia, è stato senz'altro riscontrabile in istituzioni quali il ministero dell'istruzione e la polizia di stato. Nonostante la crescita di attenzione pubblica nei confronti del tema, persiste molta confusione intorno al bullismo. Il termine bullismo viene usato nella letteratura internazionale per connotare il fenomeno delle prepotenze tra pari in un contesto di gruppo. In Italia le ricerche sul bullismo si sono sviluppata solo verso la • i media non sono trasparenti; • le persone sono ricettive e non passive nei confronti dei media; • è possibile educare a un uso critico e responsabile. La media education, inoltre, coinvolge diversi contesti, formali e informali, dalla scuola all'extra scuola, e diverse generazioni, da quelle più giovani a quelle più mature. Dal punto di vista linguistico, quando parliamo di media education ci riferiamo, inoltre, a due accezioni: • educazione ai media, termine con il quale si far riferimento al processo di insegnamento e apprendimento centrale sui media; • media literacy, che ne costituisce il risultato La definizione di literacy è stata formulata da Sonia Livingstone che distingue l'abilita di accedere, analizzare, valutare e creare messaggi. La media literacy si connette al tema delle competenze, e in particolare, delle competenze digitali. Accanto a competenze relative all'accesso o alla produzione di contenuti, assumono sempre più importanza le competenze etiche e quelle relative alla gestione del sé e delle relazioni sociali all'interno dei social media. Importante è anche la competenza legata alla capacità di riconoscere fonti autorevole e meno autorevoli per non incorrere in trappole. Senza dubbio i media hanno contribuito a rendere ancora più globale la società. Dall'altro canto l'emergenza pandemica ha mostrato da un lato la forza e, dall'altro, la debolezza della comunicazione mediatica. Oltre al pericolo rappresentato dalle fake news, che spesso hanno ostacolato e reso più difficile la diffusione di una corretta informazione sulle dimensioni e le caratteristiche della pandemia, i media hanno rappresentato la cartina di tornasole degli effetti del covid. Da una parte le donne hanno pagato alto il prezzo dell'emergenza sanitaria, subendo un peso ancora maggiore del lavoro di cura con un aumento esponenziale nelle responsabilità delle attività domestiche, mentre sull'altro versante i media hanno continuato a offrire una rappresentazione piuttosto squilibrata del loro ruolo nella società. Sugli schermi televisivi si sono avvicendate figure esperte che hanno assunto la caratteristica di detentori della verità e della competenza sui temi scientifici e sull’azione politica legata alla pandemia. La presenza femminile si è limitata a rarissime eccezioni o, quando c’è stata, è stata posta nelle condizioni di essere interprete e modello stereotipato. LGBT+ L’acronimo LGBT+, che nel corso del tempo è andato ad arricchirsi di ulteriori lettere e simboli, è un espediente introdotto a partire dai primi anni del XX secolo per riferirsi contemporaneamente a tutte le minoranze sessuali e di genere. Si tratta evidentemente di una soluzione semantica che tiene insieme una pluralità di soggettività che, pur godendo ciascuna di caratteristiche proprie e specifiche, sono accomunate dal fatto di discostarsi dagli stereotipi associati alla mascolinità e alla femminilità. Ognuna delle lettere dell’acronimo non descrive soltanto l’appartenenza a una categoria identitaria, ma è metaforicamente rappresentativa anche delle lotte sociali e culturali condotte per rivendicare il diritto di poter essere sé stessi in ogni ambito della propria esistenza. È necessario fare il punto sulle componenti dell’identità sessuale, ossia dei fattori che compongono la dimensione individuale e soggettiva del percepirsi sessuati. In ambito scientifico, studiose e studiosi hanno individuato quattro elementi che sostanziano l’identità sessuale: sesso biologico, identità di genere, espressione di genere e orientamento sessuale. Il sesso biologico riguarda i caratteri sessuali con i quali una persona nasce. Questo viene definito su vari fattori: patrimonio genetico, organi genitali e quadro ormonale. Tali criteri determinano l’assegnazione delle persone al sesso maschile o a quello femminile. Esistono, infatti, anche delle situazioni intermedie che non consentono l’assegnazione al sesso maschile o femminile, che hanno luogo quando sul piano genetico si registrano delle variazioni rispetto agli standard. I soggetti che rientrano in questa categoria sono definiti intersessuali. L’identità di genere può essere definita, invece, come la relazione di adeguatezza o inadeguatezza che un individuo ha con il proprio essere biologico. L’identità di genere intesa quale l’identificarsi come uomini e donne può essere definita come un processo dinamico e negoziabile, che è condizionato anche dal contesto sociale e culturale di appartenenza. Le persone che si riconoscono nel sesso assegnato alla nascita sono definite cisgender. Nel caso in cui, invece, una persona non si riconosca nel sesso assegnato alla nascita, questa viene definita trans. Il mancato allineamento con il sesso biologico può dare origine a un processo di transizione verso il genere opposto, che si realizza attraverso una serie di operazioni chirurgiche e di terapie ormonali. Occorre precisare, inoltre, che esistono anche soggetti che non si riconoscono né nel genere maschile né in quello femminile (non binary), che sentono di appartenere a entrambi i generi, contemporaneamente (bigender) o in maniera alternata (gender-fluid o genderqueer). L’espressione di genere rappresenta il modo in cui i soggetti manifestano il proprio genere nelle relazioni interpersonali. Identità di genere ed espressione di genere possono essere considerate in effetti due facce della stessa medaglia, dal momento che la prima può essere ricondotta all’esperienza soggettiva, intima e individuale, mentre la seconda può essere definita come l’espressione pubblica dell’identità di genere. Infine, per quanto concerne le prime tre lettere dell’acronimo queste fanno riferimento all’orientamento sessuale, ossia: all’attrazione affettiva e sessuale da parte di un individuo verso altri individui che possono essere del suo stesso sesso, del sesso opposto o di entrambi. In relazione al proprio orientamento sessuale le persone vengono etichettate come eterosessuali, quando si è attratti dall’altro genere rispetto alla propria identità sessuale, omosessuale, quado si è attratti dallo stesso genere rispetto alla propria identità di genere e infine bisessuale, quando si è attratti da entrambi i generi. L’acronimo LGBT+ accoglie al proprio interno anche il simbolo matematico-scientifico più, proprio per indicare che l’elenco delle identità sessuali non mainstream è più ricco ed articolato. A proposito di orientamenti sessuali, negli ultimi anni diversi studi hanno mostrato che i membri delle generazioni più giovani vivono la propria identità sessuale come più fluida e in continuo divenire. Entro questa cornice si collocano la demisessualità, definita come un orientamento sessuale grigio, dal momento che l’attrazione si attiva solo nei confronti di persone con cui si intrattiene un forte legame emotivo, indipendentemente dalla loro identità sessuale; la pansessualità, orientamento che presuppone un’attrazione emozionale o fisica nei confronti degli individui indipendentemente dal loro sesso o genere; l’abrosessualità, con cui ci si riferisce a un interesse sessuale fluido e mutevole. All’interno dell’acronimo più inclusivo è presente anche la lettera Q, che sta sia per Questioning, sia per Queer. Nel primo gruppo rientrano tutti quei soggetti che si interrogano sul proprio orientamento sessuale, sul proprio genere o sulla propria identità di genere, sospendendo l’adesione a una o più categorie identitarie in modo permanente o temporaneo, in attesa di comprendere meglio la propria identità sessuale. Per quanto concerne, infine, l’espressione queer, si tratta di un termine utilizzato in prevalenza da coloro che si oppongono al pensiero binario, promuovendo l’unicità di ogni essere umano al di là degli stereotipi. Cittadinanza sessuale L’origine di una riflessione più recente sul concetto di cittadinanza sessuale o intima va rintracciata nei primi anni Novanta del secolo scorso, quando l’associazionismo e il movimentismo di genere hanno portato alla luce istanze connesse alle politiche sessuali che chiedevano una maggiore equità e giustizia sociale. Superando la prospettiva più circoscritta di cittadinanza sessuale così come era stata coniata dal femminismo, la sociologia estende il concetto oltre la sfera pubblica per includere i più intimi anfratti della sfera privata: «il corpo, quindi, diventa il luogo centrale di interesse per le storie della cittadinanza intima». Questa messe di studiose/i e militanti mostra come l’ipotesi marshalliana della saldatura tra diritti di cittadinanza e diritti umani non valesse per la comunità omosessuale, che ancora oggi oscilla entro un continuum che da un lato vede la completa esclusione dal pacchetto di diritti e dall’altro una cittadinanza approssimativa che non restituisce una piena titolarità dei diritti. In tal senso, uno degli obiettivi dei Paesi democratici di tutto il mondo contemporaneo è quello di fornire alle cittadine e ai cittadini LGBT+ la garanzia di uguaglianza nell’attribuzione delle forme di diritto, diversificando il contenuto in base alle necessità ed alle appartenenze identitarie, così come le pratiche di cittadinanza e l’applicazione del diritto si diversificano a seconda dei territori e delle circostanze storiche. Da questo punto di vista, nell’ultimo decennio l’Unione Europea ha messo in campo politiche, orientamenti e strategie per fronteggiare la discriminazione fondata sul genere e sull’orientamento sessuale, basando tale attività sul principio che tutti i cittadini europei, in quanto tali, hanno eguale valore e dignità. Sono diversi i Paesi in Europa che hanno adottato il matrimonio tra le persone dello stesso sesso o forme di riconoscimento giuridico a ridosso dell’istituto matrimoniale. Sebbene la normativa dell’UE non obblighi a consentire o a riconoscere le relazioni o i matrimoni tra persone dello stesso sesso, ponendo il principio del divieto di discriminazione per orientamento sessuale, essa ha consentito alla giurisprudenza di obbligare i suoi Stati a trattare le coppie dello stesso sesso in maniera uguale alle coppie di persone di sesso diverso, nelle ipotesi in cui la tipologia di legame giuridico fra di loro sia la medesima. Dopo essere stata genderizzato e razzializzato, il tema della cittadinanza sessuale si estende anche alle persone LGBT+. Nonostante le questioni relative alla cittadinanza sessuale riguardino molte categorie sociali e diverse questioni quali il consenso alle attività sessuali, i diritti dei minori di essere liberi da abusi sessuali, le violenze sessuali e contro le donne, i diritti de* sex worker ecc., le discussioni sulla cittadinanza sessuale LGBT+ forniscono una prospettiva critica per molti temi chiave, a partire dal dibattito universalismo- particolarismo. In questo discorso si innesta la prospettiva queer, che si traduce in un dispositivo strategico di identificazione e di rinnovamento delle istanze omosessuali, attraverso obiettivi politici condivisi e azioni militanti comuni, con l’obiettivo principale di superare i condizionamenti imposti dell’essenzializzazione delle sessualità e dell’eteronormatività. La mobilitazione omosessuale supera temporaneamente le valenze espressive e ruvide della protesta urbana per dedicarsi a riscrivere i diritti di cittadinanza su un piano più squisitamente politico e giuridico. Una richiesta di integrazione e di legittimazione dei propri diritti a cui contribuiscono da una parte i trend internazionali – ad esempio la politica antidiscriminatoria dell’Unione Europea – e dall’altra anche le forme più contemporanee di mobilitazione mediatica, come i social network, che non provengono dalla tradizione dei movimenti sociali degli anni Settanta e Ottanta e che dunque costituiscono una cornice alternativa al movimento e una nuova rivendicazione di cittadinanza egualitaria. Da questo punto di vista, l’Europa costruisce gradualmente la propria unione anche sul concetto di cittadinanza delle minoranze sessuali. I principi del documento di Copenaghen dei primi anni Novanta, che assumono tra i principali criteri per l’adesione il rispetto dei diritti umani e la tutela delle minoranze come valori condivisi, non menzionano esplicitamente la discriminazione delle sessualità o degli orientamenti sessuali come motivo di sanzione. Nonostante nel marzo del 2021 il Parlamento europeo abbia dichiarato l’Unione Europea una zona di libertà LGBT+, in una protesta simbolica contro le politiche discriminatorie promosse da Polonia e Ungheria, bisogna ricordare che anche negli Stati che forniscono il riconoscimento sociale e legale delle relazioni omosessuali esistono ancora disparità rispetto ai diritti concessi ai cittadini eterosessuali. I diritti alla genitorialità, ai sistemi procreativi medicalmente assistiti, al matrimonio, all’adozione sono alcuni dei diritti di cittadinanza di cui le persone omosessuali sono private. Nella battaglia di rivendicazione identitaria anche in Europa, è di enorme impulso la graduale influenza delle organizzazioni L’omofobia si traduce in repulsione, disgusto o chiusura nei confronti dell’omosessualità, che può sfociare, nei casi più gravi, anche in forme più o meno accentuate di violenza fisica o verbale. In un discorso pubblico del 1998, l’autrice, attivista e leader dei diritti civili Coretta Scott King ha definito l’omofobia come una forma di fanatismo che, al pari del razzismo e dell’antisemitismo, disumanizza un ampio gruppo di persone, negando la loro dignità e personalità. Altre teorie sviluppate nell’ambito della psicoanalisi descrivono inoltre l’omofobia come una risposta agli impulsi omosessuali che un individuo può provare. Sminuire, stigmatizzare e allontanare l’omosessualità, pertanto, si configurerebbe anche come un modo attraverso il quale alcune persone tenterebbero di reprimere o negare una parte di sé che non accettano o che hanno timore di esplorare. Esiste poi una forma di omofobia, detta interiorizzata, che prende forma all’interno della stessa comunità omosessuale. Con questa locuzione ci si riferisce infatti a un’avversione agita nei confronti dell’omosessualità proprio da parte di uomini e donne omosessuali. In particolare, le persone omosessuali che accettano o promuovono pregiudizi, etichette negative e atteggiamenti discriminatori verso sé e, più in generale, nei confronti dell’omosessualità sono tendenzialmente quelle che vivono con disagio la propria identità sessuale o che avvertono il bisogno di conformarsi alle aspettative culturali imposte dall’eteronormatività. Alcuni studi hanno posto in risalto che situazioni di stigma interiorizzato sorgono quando il soggetto sente che il proprio orientamento sessuale è in contrasto con la propria immagine idealizzata di sé. In situazioni estreme, tale condizione può causare occultamento e repressione della propria identità, fino ad arrivare a forme più o meno acute di depressione clinica. La paura di essere identificati come omosessuali, inoltre, è stata definita come una forma di omofobia sociale. Questo spiegherebbe, in parte, come mai l’omofobia sia maggiormente diffusa in alcuni ambienti stereotipicamente considerati maschili, come ad esempio in quelli sportivi. Si utilizza l’espressione omofobia istituzionalizzata in riferimento a tutte quelle forme di disparità di trattamento tra soggetti sulla base dell’orientamento sessuale che sono condotte dalle istituzioni. L’omofobia istituzionale prende forma anche in tutti quei territori in cui alcuni diritti di cittadinanza sono esclusivo appannaggio delle persone eterosessuali, come ad esempio l’accesso al matrimonio, all’adozione o alle pratiche di procreazione medicalmente assistita. Per quanto riguarda l’ambito della religione, molte confessioni contengono insegnamenti antiomosessuali o considerano soltanto le relazioni procreative tra uomini e donne come legittime. La maggior parte delle organizzazioni internazionali per i diritti umani lotta da anni per l’abolizione delle leggi che considerano le relazioni omosessuali tra adulti consenzienti un crimine. Dal 1994, il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite ha anche stabilito che questo tipo di leggi viola il diritto alla privacy. Anche la comunità LGBT+ è molto attiva per combattere l’omo-bi-transfobia ed infondere una cultura maggiormente inclusiva pronta a riconoscere valore e dignità a tutte le identità. Omofobia nel mondo Nel mondo contemporaneo, le pene a cui le persone omosessuali sono sottoposte cambiano da Paese a Paese. In cinque Stati dell’Africa e dell’Asia l’omosessualità è punita con l’esecuzione capitale. I comportamenti omosessuali sono puniti in 10 Stati e prevedono una reclusione che può andare da un minimo di 14 anni fino all’ergastolo. In altri 55 Paesi del mondo, le persone omosessuali possono essere condannate fino a 14 anni di carcere. Anche la metà dei Paesi asiatici ancora criminalizza l’omosessualità e una parte di quelli che non lo fanno compromettono comunque la libertà di espressione delle minoranze sessuali e di genere. La retorica promossa da pubblicazioni accademiche, giornalistiche e politiche, nelle quali si è insistito sullo scontro fra civiltà, ha avuto come controreazione lo sviluppo di una serie di studi che si focalizzano sui motivi che hanno prodotto nei contesti delle ex colonie il clima di intolleranza che si respira nei confronti degli omosessuali, motivi che, per questi studiosi, vanno ricercati anche nel retaggio coloniale e nelle più ampie diseguaglianze sociali ed economiche che si riproducono a livello globale fra Paesi industrializzati e Paesi in via di sviluppo. Appartengono a questo filone, ad esempio, lo studio di Khaled El-Rouayheb, che nel rintracciare i motivi della supposta incompatibilità fra omosessualità e mondo arabo-musulmano, descrive attraverso una rilettura della storia la tolleranza e l’apertura del mondo arabo-musulmano premoderno verso la diversità di genere e l’orientamento sessuale non eteronormativo, tolleranza perduta per effetto delle politiche di dominazione coloniale. Alla stessa conclusione, giunge lo studio Joseph Massad, che sviluppa un’analisi sistematica e plurisecolare della letteratura e della poesia nel mondo arabo-musulmano, dei romanzi e dei trattati di medicina. L’analisi di Massad sull’evoluzione delle identità sessuali e politiche nel mondo arabo-musulmano si rivela critica nei confronti di quella che egli definisce «lobby internazionale gay». Secondo questo autore, a partire dagli anni Ottanta, «l’international gay» avrebbe attuato un’incitazione al discorso sulla sessualità per categorizzare e distinguere le identità sessuali che fino a quel momento erano state abbastanza sfumate nei Paesi arabi. Per questo studioso l’attuale clima di odio nei confronti degli omosessuali in questi Paesi è visto come l’effetto della riproduzione su scala globale della causa degli omosessuali occidentali. In realtà, già prima di queste recenti pubblicazioni si evidenziava che il clima di ostilità di questi Paesi verso l’omosessualità fosse un retaggio coloniale, risalente a un’eccessiva preoccupazione che si registrò tra i Paesi europei per le questioni eugenetiche, tra le quali quelle della contaminazione tra le razze e del contagio delle malattie. Ritornando ai tempi recenti, nonostante l’indipendenza acquisita, alcune delle ex colonie, in Asia come nel continente africano, hanno rinforzato l’ordine sociale proprio attraverso un discorso che in parte recupera queste preoccupazioni e che fonda il suo discorso sui valori familiari, sulla promozione del matrimonio monogamico eterosessuale e in particolare sulla criminalizzazione delle sessualità e dei generi non normativi. Attraverso una rilettura dei testi sacri alcuni studiosi dimostrano come l’Islam, al contrario di quello che si pensa, riconosce e sostiene l’uguaglianza di genere, ribadendo come nel corso dei secoli una ristretta élite maschile ha imposto interpretazioni distorte delle sacre scritture e sostenuto il patriarcato in nome del Corano. Come precisa Coppola oggi più che mai riflettere in maniera critica sui temi riguardanti l’Islam è assai faticoso. Si è soliti ridurre, infatti, la complessità di questa religione a luoghi comuni e categorie di pensiero stereotipate; si giudica l’Islam seguendo linee guida della cultura occidentale, dimenticando che i percorsi e le evoluzioni storiche dell’Occidente, da un lato e del Oriente dall’altro sono state diverse. Sul versante atlantico, Jasbir Puar sviluppa il concetto dell’omonazionalismo al fine di comprendere in che modo il movimento gay e lesbico mainstream abbia soffocato i movimenti LGBT+ radicalmente anti- neoliberali. L’omonazionalismo ci parla dei modi in cui i poteri occidentali mettono in circolazione determinati tipi di idee circa le altre culture, al fine di produrre un’immagine dell’Occidente come culturalmente, moralmente e politicamente avanzato e superiore. L’omonazionalismo si sofferma in particolare sui modi attraverso cui le retoriche sui diritti di genere e sessuali acquisiscano un ruolo centrale nelle forme contemporanee di egemonia occidentale. Su tale scia Hilary King ha evidenziato l’uso strumentale delle retoriche sui diritti sessuali degli Stati Uniti, che hanno costruito un’immagine di sé come di un Paese progressista e moralmente superiore. La studiosa prese in esame il discorso tenuto il 22 marzo del 2014 da Joe Biden. Secondo King, ribadendo l’impegno della politica estera americana sui diritti LGBT+, Biden si dichiarò promotore dei diritti umani, denunciando come l’odio verso gli individui LGBT+ non potesse più essere giustificato con la scusa delle norme culturali. Per la studiosa, Biden nel suo discorso fece nessuno accenno alle discriminazioni che ancora subiscono molti gay e lesbiche negli Stati Uniti. Gli effetti dell’omonazionalismo diffuso nei Paesi occidentali sono stati evidenziati dalle ricerche condotte sulle rappresentazioni sociali dei soggetti migranti e queer nel contesto del Québec in Canada. Lo studioso, ricorrendo alla definizione di soggetto etno-sessuale, descrive come la sessualità dei migranti pone ancora in luce la persistenza di un modello di dominazione e di alterazione tipico dell’epoca coloniale. Le comunità di origine dei migranti LGBT+ sono considerate come comunità omofobe, in particolare quelle degli individui provenienti dai Paesi musulmani. I migranti che condividono tale origine etnica, nazionale e religiosa sono considerati come portatori di un’omofobia interiorizzata. Compito allora delle società di accoglienza è di sensibilizzare questi immigrati imponendo loro un contratto morale che li conduca ad accettare tali valori comuni, che si basano sul rigetto dell’omofobia e del sessismo. Migranti LGBT+ In base ai dati contenuti nel rapporto Fleeing Homophobia, ogni anno in Europa 10.000 LGBT+ stranieri pongono domanda di protezione internazionale per orientamento sessuale e identità di genere. Sono persone che scappano da contesti dove l’omosessualità è considerata un reato, dove sono frequenti aggressioni, stupri e uccisioni di persone sorprese o sospettate di svolgere pratiche omosessuali; spesso sono proprio le famiglie a denunciare alle autorità i propri membri, considerando l’omosessualità un abominio, un aspetto giudicato come contro natura e in collisione con quelle che sono le norme morali e religiose condivise. Laddove non è possibile occultare un’identità non riconducibile al paradigma rappresentato dall’eterosessualità e dal sistema binario di genere, la scelta di migrare costituisce pertanto un percorso obbligato, che culmina nella richiesta di protezione internazionale in uno dei Paesi che prevedono forme di tutela specifiche per persone perseguitate per via dell’orientamento sessuale, dispositivo che in letteratura è definito con l’acronimo SOGIESC (Sexual Orientation, Gender Identity and Expression, and Sex Characteristics). Nei Paesi europei la possibilità dei migranti di richiedere una protezione per via di una condizione SOGIESC è assicurata per applicazione di quanto previsto dalla Convenzione di Ginevra (1951), che stabilisce con l’art. 1 la possibilità di fare richiesta di protezione per motivi di persecuzione concernenti la razza, la nazionalità, la religione professata, nonché opinioni politiche o perché appartenente a un determinato gruppo sociale. Le persecuzioni SOGIESC, dunque, rientrano in quest’ultima possibilità, non avendo previsto la Convenzione all’epoca della sua redazione tale opportunità. Per gli operatori delle associazioni e per i funzionari dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), diverse sono le difficoltà che gli stranieri incontrano nei Paesi di immigrazione (tra i quali l’Italia) per ottenere il riconoscimento di questo diritto. Tra le difficoltà evidenziate, centrale è il modo cui gli attori istituzionali chiamati a concedere questo riconoscimento interpretano quelle che sono le leggi che sottendono il dispositivo di protezione internazionale per motivi SOGIESC. Un altro aspetto sottolineato dalle associazioni LGBT+ è legato alla difficoltà da parte delle persone straniere richiedenti asilo di aderire a un orizzonte di senso «intriso di stereotipi di genere che si strutturano attorno a narrazioni di autenticità, di libertà individuale, di sofferenza e di desiderio proprie di una cultura individualista quale è quella occidentale». Le associazioni LGBT+ che in questi anni hanno attivato percorsi di tutela dedicati ai migranti LGBT+ richiedenti asilo sono spesso chiamate a preparare il soggetto migrante, che deve sostenere un’audizione nel compito di corrispondere ai bisogni di coerenza e linearità richieste dalle commissioni territoriali che valutano le storie. Si mette in evidenza l’esercizio di una violenza simbolica che sottende il percorso amministrativo e giuridico del dispositivo SOGIESC, che si esprime attraverso una progressiva trasformazione di questi in soggetti, in persone vulnerabili. La violenza simbolica si esercita attraverso un processo che obbliga il soggetto migrante ad aderire a un modello di vulnerabilità idealtipico e nel quale l’autenticità e la credibilità della storia sono costantemente messe in dubbio. I componenti delle Commissioni devono quindi valutare la credibilità del richiedente sulla base della sua sola testimonianza, ma per i motivi già citati le persone LGBT+ migranti trovano difficoltà a spiegare la loro condizione di persecuzione davanti alle Commissioni. Non mancano situazioni nelle quali i giudici chiedano misure accertative della presunta omosessualità attraverso pareri di esperti psicologici o psichiatri chiamati a sessuale. Il peso delle discriminazioni che queste donne sperimentano dentro la società statunitense e dentro le comunità etniche di appartenenza le conducono a costruire delle comunità immaginarie entro le quali si sentono loro stesse, offrendo supporto e aiuto a coloro che vivono la loro stessa condizione, di donne migranti e omosessuali. È quanto succede alle donne migranti le cui storie sono prese in esame dalla ricerca di Masullo e Ferrara. Dalle interviste emerge l’opera di ricomposizione del sé che le donne migranti lesbiche, bisessuali e queer applicano nel tentativo di gestire i differenti lati della loro identità, evidenziando come la gestione di questi tratti sia strettamente collegata ai diversi ambiti nei quali si relazionano e al valore che questi ambiti assumono per la loro persona. Futuro Proposto nel 1989 dalla giurista nordamericana Kimberlè Williams Crenshaw per definire la sovrapposizione fra diverse identità sociali da cui derivavano subordinazioni, oppressioni e discriminazioni, il termine intersectionality riprende visivamente l'intersezione che in geometria si ottiene nel punto in cui più rette si intersecano. L’approccio teorico intersezionale sottolinea l'importanza di ogni elemento caratteristico di una persona e della sua totale interazione con tutti gli altri tratti per poter definire perfettamente l'identità dell'individuo. Proprio perché le teorie classiche hanno prevalentemente analizzato processi di esclusione e di discriminazione in modo non integrato -ad esempio l'omofobia, il razzismo o la xenofobia - l'approccio intersezionale può restituire: • La più reale relazione fra questi processi e ricondurli a un più generale sistema di oppressione che si manifesta in forme differenti; • Le profonde dinamiche alla base delle rappresentazioni sociali di tratti dell'identità individuale su cui si fonda un processo di discriminazione oppressione, come ad esempio lo sono il genere, la sessualità, la classe. Parlare di intersezionalità significa riferirsi a: • Come si determinano le categorie sociali che classificano gli individui; • Quale sia il processo di interazione di queste categorie sociali. Perché si possono superare le categorie invalse in una società da cui derivano rispettive metodologie d'indagine: • individuare una categoria prevalente e ricostruire in linea gerarchica quelle associate; • determinare classi di categorie dominanti, ad esempio perché associate alla gestione del potere; • analizzare i processi di decostruzione delle categorie. I contributi teorici Le scienze sociali non sono arrivate del tutto impreparate alla proposta di un approccio intersezionale di analisi della società. Si devono intendere come orientati all'analisi delle interconnessioni studi come quello di Max Weber sul concetto di ceto, cui giunse connettendo fra loro le categorie di classe, stato e appartenenza politica; Ma anche quello di Pierre Bourdieu che proponeva l'approccio metodologico delle multiple correspondence analysis per scomporre in categorie dominanti identità e fenomeni sociali. Si deve all'accademica nera e attivista Kimberlè Williams Crenshaw, la prima puntuale definizione dei meccanismi di oppressione e discriminazione, prendendo in considerazione la posizione sociale delle donne nere e intersecando fra loro già solo le due categorie del genere e della razza. Il contributo di Crenshaw è stato decisivo non soltanto per aver ufficializzato questo nuovo paradigma analitico, ma anche per aver portato in superficie il lavoro di diverse altre studiose nere e femministe. Gran parte di queste studiose sono state allieve di esponenti di spicco della seconda ondata del femminismo che avevano individuato nell'approccio teorico e metodologico dell'intersezione di poche ma decisive categorie come il genere, la classe e l'etnia uno strumento scientifico su cui basare concrete strategie di intervento. Alla formalizzazione dell'approccio intersezionale sono state avanzate anche critiche, che si potrebbero riassumere con quella più argomentata da Barbara Foley secondo la quale una categoria classificatoria come la classe è di per sé onnicomprensiva di tutti i processi di oppressione e discriminazione. Le altre categorie considerate dall'analisi intersezionale non sarebbero, in realtà, se non altro che rappresentazioni identitarie. Schemi intersezionali Secondo le teorie elaborate dall'approccio intersezionale, la discriminazione sociale avviene secondo tre dinamiche: • concomitante: due o più fattori si uniscono a determinare una condizione di esclusione/ oppressione. • Additiva: relativa a specifici ambiti sociali nei quali agiscono due o più fattori di discriminazione cumulandosi fra loro. • Composta: i fattori di discriminazione si aggiungono l'uno all'altro, ma si rafforzano anche reciprocamente nei diversi ambiti sociali nei quali insistono. Le nuove frontiere metodologiche dei gender studies Negli ultimi anni, a un ampliamento degli studi di genere è andato accompagnandosi lo sviluppo di nuove metodologie e tecniche per lo studio di molti fenomeni sociali. A tal proposito, trovano spazio le indagini standard di tipo survey, accanto alla conduzione di focus group, d interviste cognitive e testimoni privilegiati, le raccolte di storie di vita e testimonianze di donne impiegare attivamente sul fronte dell’advocacy e della tutela dei diritti umani. Nel contesto dei gender studies è utile sollevare una diversa questione metodologica emergente relativa alla raccolta dell'informazione sull'identità di genere e sull'orientamento sessuale. A livello nazionale, il dibattito scientifico-metodologico sulle tecniche di rilevazione del dato sull'orientamento sessuale e sull'identità di genere è ancora poco sviluppato. Tuttavia, si fa sempre più strada l'esigenza di andare oltre la categorizzazione binaria standard, per raccogliere un'informazione più accurata. La determinazione binaria tende a escludere tutti e tutte coloro che non rientrano nella categoria alternativa di uomo o donna, lasciando poco spazio all'espressione di differenze che possono contribuire a interpretare e comprendere più efficacemente alcuni fenomeni sociali. L'apertura al non-binario consente di elaborare nuovi strumenti di rilevazione del dato, in grado di superare l'invisibilità statica in cui cadono alcuni gruppi che sfuggono alla definizione binaria standard. Ne consegue che le esperienze di questi individui sono rilegate ai margini dell'analisi o ne sono del tutto escluse. Proseguire nell'utilizzo della sola categoria binaria contribuisce a rendere invisibile una parte della popolazione che non può non essere considerata. Un'opportunità per restituire visibilità a questi gruppi minoritari è oggi offerta dall'utilizzo dei big data. Infatti, come dimostrato da Welles, è possibile estrapolare da dataset con milioni di osservazioni. I gruppi minoritari sono così più facilmente raggiungibili e trattabili staticamente. Bisogna inoltre chiarire in che modo e in base a quali caratteristiche, definire l'identità di genere e l'orientamento sessuale di una persona. A tal proposito si registrano diverse sperimentazioni di sistemi di rilevazione dell'identità di genere, dell'orientamento sessuale e dell'Intersex. Per quanto concerne l'identità di genere si evidenziano essenzialmente tre modalità: l'approccio a due passi; l'approccio a item singolo; la valutazione dell'espressione del genere. Il primo metodo risulta combinato di una domanda sul sesso alla nascita e sull’autodichiarazione dell'identità di genere al momento dell'intervista; il secondo metodo prevede che il soggetto intervistato scelga un termine a suo piacimento che meglio descriva la sua identità di genere; il terzo, infine, consiste in una serie di domande volte a valutare i modi in cui il genere è espresso. La gender expression può essere rilevata in base all'autovalutazione dell'intervistato o in base a come il rispondente ritiene che gli altri lo vedano. La ricerca in questo ambito fa largo uso di interviste cognitive, ossia di tecniche molto efficaci per la messa a punto di quesiti idonei a catturare informazioni particolarmente sensibili e a rischio di risultare invadenti di una sfera molto privata della vita della persona. Anche per la rilevazione dell'orientamento sessuale sono stati sperimentati metodi diversi. Si tratta di procedure in base all'autodeterminazione dell'orientamento sessuale da parte del soggetto rispondente; al suo comportamento sessuale; all’attrazione sessuale. Per quanto concerne, poi, le persone intersex, coloro cioè che alla nascita o nel corso dello sviluppo presentano o sviluppano una particolare anatomia fisica, negli ultimi anni l'attenzione sulle questioni metodologiche relative alla loro individuazione e visibilità nella ricerca è indubbiamente cresciuta. Indagare oltre la dicotomia di genere Le scienze sociali segnalano da tempo oramai che il genere è fluido e performativo e trascende i confini del corpo umano. La fluidità di genere è la capacità di diventare liberamente e consapevolmente uno o più di un numero illimitato di generi, per qualsiasi periodo di tempo in maniera autodeterminata. La differenza sessuale e la dicotomia di genere servono a legittimare l'organizzazione biopolitica delle società e a perpetuare i rapporti di potere. Quando un corpo ha un aspetto ambiguo, si farà di tutto, per inserirlo nella normalità del modello della doppia differenza sessuale, impedendo così a quel corpo di destabilizzare l'organizzazione della società. Un esempio servirà a rendere più chiara l'idea che la sessualità non può essere ridotta a una dicotomia. Uno degli spazi sociali più allarmanti per le persone transgender sono i bagni pubblici. L'impulso biologico impone una scelta regolare tra una delle due porte con etichette diverse, uomo-donna. Browne definisce questa condizione la questione del bagno, scrivendo che le donne trans e tutte coloro che appaiono mascoline sperimentano regolarmente molestie e difficoltà in tali luoghi. Per affrontare questi problemi e creare un ambiente più inclusivo e sicuro per persone trans e altre persone non conformi alla dicotomia di genere, attivisti e accademici sostengono da tempo l'introduzione di bagni gender neutral. Il genere continua ancora oggi a essere una struttura strutturante che, nella diversità dei suoi significati e usi produce conformismo logico e immorale.