Scarica Manuale di educazione al genere e alla sessualità, Lapov Zoran, antropologia di genere. e più Appunti in PDF di Antropologia solo su Docsity! MANUALE DI EDUCAZIONE AL GE NERE E ALLA SESSUALITA’ F. Corbisiero & M. Nocenzi CAPITOLO 1 : COME SI DEFINISCE IL GENERE 1.1. Le teorie classiche Il concetto di genere è stato definito dalle scienze sociali in modo puntuale solo nel corso del XX secolo, ma un’analisi di tipo scientifico rispetto alle differenze tra uomini e donne si è affermata a partire dalla seconda metà del XIX secolo. Il termine inglese gender descrive due categorie di un’entità sessuale e non come il suo equivalente termine italiano, genere, che polisemicamente, si riferisce a diversi ambiti disciplinari (genere letterario, genere nelle scienze fisiche...). Per questo motivo diverse discipline suggeriscono di utilizzare il termine in lingua originale, avendo un unico significato relativo alla costruzione sociale dell’identità sessuale. Nel corso del XX secolo questa accezione sarebbe stata ripresa in modo specifico dalla corrente della sociobiologia, che intese contrapporsi a quelle che erano divenute le tre prevalenti prospettive di analisi della trasformazione delle differenze sessuali in differenziazioni di ruolo, di identità e di aspettativa sociale. La prima può essere definita una prospettiva conflittualista e la si può considerare alle origini di un pensiero scientifico sul processo di costruzione sociale dell’identità di genere (gender). Già nel Seicento si deve all’osservazione di pensatori quali Poullain de la Barre e un secolo dopo al marchese Nicolas de Condorcet la rivoluzionaria affermazione secondo la quale l’opinione dell’inferiorità della donna era basata su un’effettiva inconsistenza scientifica, e quindi, sul pregiudizio alimentato da una cultura prevalente maschile.Questo pregiudizio era stato la causa, ma anche la conseguenza di una produzione di leggi e norme che nella prima metà del XIX secolo il filosofo Claude de Saint-Simon aveva definitio tipicamente maschile, al punto di precludere alle donne gran parte dei diritti spettanti, anche quelli più fondamentali, inalienabili per una persona umana, come la Rivoluzione francese aveva sancito. Si affermava così, una visione della società moderna secondo la quale ruoli e funzioni erano determinati da una cultura orientata da squilibri nell’accesso alle risorse economiche, politiche e sociali a favore degli uomini, che perpetuavano questo sistema per preservare la propria posizione dominante. Questa prospettiva, sulla quale nel corso del XX secolo si sarebbe innestata la lettura femminista dei fenomeni sociali, fu al centro delle riflessioni di molti studiosi sociali e, fra questi, anche di donne pioniere come Mary Wollstonecraft e Harriet Martineau. Se Mary Wollstonecraft, già nel corso del XVIII secolo sottolineava che le donne non erano inferiori per natura agli uomini, alla pensatrice americana Martineau si deve un’attenta riflessione in Society in America sull’inadeguatezza del sistema democratico, perché non garantiva l’uguaglianza fra i membri di una società, se differenti per sesso, e un pari accesso ai diritti di formazione, lavoro, rappresentanza politica, famiglia e salute. Si vedrà come anche questi principi, al pari di quelli emergenti dalla Rivoluzione francese, si sarebbero tradotti nelle idee a fondamento di movimenti di pensiero e azione quali quelli per l’emancipazione femminile, votati a definire e stabilire l’uguaglianza economica, politica e sociale dei sessi; fra questi, uno dei più noti fu quello delle suffragette. La seconda prospettiva è quella riconducibile alla corrente funzionalista, che guarda alle differenze biologiche e culturali fra uomini e donne come a loro attributi costitutivi e identitari. Ogni individuo, attraverso il percorso di socializzazione, apprende e interiorizza dal proprio contesto di riferimento quelle regole, valori e aspettative di ruolo che ne costruiranno l’identità di genere. Per i teorici del funzionalismo il margine di cambiamento sociale è limitato a quanto necessario per assicurare il perfetto funzionamento del sistema sociale, ossia il suo ordine, riproduzione e adattamento assicurati dalla divisione sociale dei ruoli, anche essa fondata sulle caratteristiche biologiche, anatomiche, fisiologiche maschili e femminili e sul loro valore sociale. La terza prospettiva di analisi è quella proposta dalla fenomenologia e dall’etnometodologia, secondo la quale, a determinare le differenze di genere sono le pratiche e i comportamenti che uomini e donne mettono in atto interagendo e utilizzando le risorse a disposizione. Rispetto alla visione conflittualista e funzionalista della costruzione del genere da parte della società, quella feno-etnometodologica punta sull’azione di ogni individuo che pone in essere servendosi del corpo, del linguaggio, della posizione sociale per produrre e riprodurre la propria identità di genere. Il livello di conformità o al contrario, di rifiuto individuale dei modelli forniti dalle agenzia di socializzazione rende proprio gli individui i promotori delle identità entro un ordine di genere che definisce ciò che è maschile e ciò che è femminile con il fluire delle relazioni sociali. 1.2. Le letture femministe Considerando quella femminile come la condizione tradizionalmente più svantaggiata rispetto al genere maschile, questa posizione critica verso la società è stata riconosciuta con il nome di femminismo. In esso confluiscono le proposte di studio, ideologiche e politiche di un complesso e articolato movimento sviluppatosi a partire dalle richieste per il riconoscimento del diritti di voto alle donne nella Francia della Rivoluzione francese. Si deve alla pensatrice e attivista Hubertine Auclert il primo riferimento al termine femminismo in un suo articolo per la sua rivista ‘La Citoyenne’ nel 1881. In questo articolo Auclert, denunciate le asimmetrie fra la condizione di vita di uomini e di donne e le dinamiche di opressione di genere, propose un modello sociale le cui leggi, norme e pratiche non assumessero il sesso biologico come fattore per modellare l’identità sociale e l’accesso ai diritti della persona. 1.3. Gli women’s studies Il femminismo ha portato un modo nuovo di vivere, pensare e vedere il mondo, prima di tutto da parte delle donne stesse. Ha affermato la necessità di trovare una propria tradizione di conoscenze, pratiche politiche e saperi. Alla fine degli anni Sessanta, con lo sviluppo del femminismo negli Stati Uniti e in alcuni paesi europei, sono nati e si sono sviluppati i corsi di women’s studies, basati sulle teorie, sulle metodologie e sulle pratiche femministe. Un approccio multidisciplinare, in ambito accademico, che voleva rispondere a quel vuoto di conoscenze che una cultura maschile e patriarcale aveva prodotto. Negli anni Novanta lo storico Georges Duby e la storica Michelle Perrot curavano la pubblicazione di un’importantissima opera storica che si può definire corale e considerare una pietra miliare in Italia e nel resto del mondo : Storia delle donne in Occidente. L’indagine e la conoscenza in questo campo hanno avuto come obiettivo principale l’individuazione e l’analisi delle false rappresentazioni delle donne su cui si basava la cultura dominante. I programmi dei corsi e dei seminari di women’s studies sono quindi, il risultato del lavoro portato avanti nell’ambito di associazioni, colletivi e organizzazioni femministe che, grazie alle stesse accademiche, in varie aree del sapere, hanno trovato spazio per dar valore all’esperienza diretta delle donne, anche a livello scientifico, facendo emergere il pregiudizio maschilista. Con lo studio e la ricerca hanno combattuto una discriminazione sistematica rispondendo con impegno nella società e nell’ambito della cultura e della scienza. Nell’ambito degli studi culturali, gli women’s studies si interfacciano con altre aree della conoscenza che trovano nell’impegno delle femministe la stessa radice : tra questi gli studi di genere, gli studi femministi e gli studi della sessualità. Quando ci si riferisce agli women’s studies lo si fa considerando la nascita di un canone condiviso di pubblicazioni, studi, opere e di realtà e di luoghi di donne dove ci si incontra, si studia e ci si impegna anche politicamente. Una di queste realtà è la National Association of women’s studies, nata nel 1977 negli Stati Uniti, che diventa subito spazio di incontri, convegni, produzione di saperi. Si scoprono storie e opere che non facevano parte dei canoni tradizionali, vengono esaminate tutte le tematiche che riguardano le donne come le questioni di potere, la divisione dei ruoli, la creazione e la cristallizzazione delle strutture sociali. Tra le prime storiche che si sono particolarmente impegnate in quest’opera di ricerca della verità e di smascheramento di una realtà diversa da quella fino ad allora rappresentata, con la conseguente ridefinizione degli ambiti e delle modalità di ricerca, ricordiamo Joan Kelly e Carroll Smith, le quali opposero un secco rifiuto all’uso degli stessi strumenti e approcci di chi aveva agito l’esclusione dal punto di vista scientifico. Il nodo di indagine che sopratutto all’inizio destò maggiore interesse fu il rapporto donna-storia-politica. Uno dei primi studi di particolare valore fu la seconda edizione del libro di Eleonor Flexner “Century of Struggle : The Women’s Rights Movement in the United States”. Al centro dell’opera c’è lo studio del movimento emancipazionista ottocentesco americano; si tratta del primo studio documentato sulla lotta per il diritto di voto alle donne. Negli stessi anni anche l’antropologa nordamericana Gayle Rubin contribuì in modo significativo con il suo volume a esplorare le origini dei meccanismi di oppresione delle donne. La studiosa evidenzia la funzione centrale del genere, che trasforma la differenza sessuale biologica in un risultato dell’attività umana e attribuisce determinati ruoli in base al sesso di appartenenza, perpetuati dagli individui nel corso della loro vita secondo le aspettative sociali. Gayle Rubin evidenzia come questa istituzione fosse stata utilizzata per opprimere sessualmente le donne, il cui scambio avveniva fra gli uomini della famiglia privandole di un analogo diritto a scegliere liberamente per la propria sessualità verso gli uomini e per sé stesse. Se lo studio della condizione sessuale delle donne portò Rubin ad ampliare l’oggetto dei suoi studi verso le identità omosessuali, questo rimase focalizzato sui modelli di comportamento femminili per la psicoanalista Nancy Chodorow, che approfondisce il tema del complesso di Edipo, incontrato anche da Rubin. Le prime fasi della vita in famiglia per un bambino e per una bambina sono decisive per lo sviluppo della propria identità di genere : per i bambini la madre diventa il primo oggetto sessuale che vivono, emulando il comportamento possessivo del padre; per le bambine, l’amore per la figura maschile paterna, contrastata dal rapporto con la madre, si trasforma in una predisposizione femminile alla maternità, emulando la madre, e di oggetto dell’amore del maschio dominante. La compartecipazione di madre e padre a queste funzioni interromperebbe le dinamiche di indipendenza/dipendenza dai genitori al gruppo dei pari, passando per le organizzazioni di appartenenza e gli ambienti di lavoro. La riflessione sociologica costruttivista sulle identità sessuali si è inserita dentro la cornice di analisi più ampie, volte a cogliere i principali effetti sociali di alcuni processi allora in corso, quali industrializzazione, razionalismo e individualismo. A partire da questo periodo storico gli studi LGBT+ hanno posto in risalto anche le principali differenze che intercorrono nella costruzione dell’identità omosessuale tra uomini e donne. Il cosiddetto processo di omosessualizzazione viene descritto come un percorso in cui entrano in gioco il proprio sentire, ma anche la forte pressione esercitata da alcuni fattori esterni, che propongono l’eterosessualità come condizione identitaria obbligatoria. Gli anni ’80 sono stati segnati dalla drammatica diffusione dell’AIDS (malattia), ribattezzata in maniera stigmatizzante come “peste gay” e “GRID” (Gay Related Immune Deficiency). Infatti, nonostante l’elevato numero di contagi anche tra persone eterosessuali, in questo periodo si è assistito ad una vera e propria criminalizzazione della comunità omosessuale, condotta principalmente da medici ed esperti, supportati dal sistema mediale, secondo i quali gli uomini gay sarebbero stati i principali untori a causa dei loro comportamenti sessuali considerati promiscui. Tale contesto non solo ha stimolato la nascita e la diffusione di importanti campagne di educazione e di prevenzione del richio sociosanitario condotte negli ambienti omosessuali di tutto il mondo, ma ha anche favorito il proliferare di un filone di ricerca sull’AIDS trasversale a diverse discipline, tra cui la sociologia, la psicologia, l’epidemiologia e la medicina. In ambuto accademico, ha iniziato a farsi sempre più spazio il già noto approccio poststrutturalista, che si inserisce all’interno della riflessione sulle conseguenze della società postmoderna. Le principali caratteristiche della postmodernità possono essere riassunte : in perdita di fiducia nelle grandi narrazioni della modernità (come la religione, la politica, la famiglia); maggiore personalizzazione dei percorsi biografici (resa possibile da un processo di detradizionalizzazione che ha liberato gli attori sociali dagli schemi di aspettattive tradizionali); indebolimento degli schemi di orientamento dettati dalla tradizione. All’interno di questo scenario sociale gli attori sociali sono considerati più liberi di gire e di costruire la propria identità, anche sessuale, in quanto le biografie individuali appaiono ormai slegate dai principi universali e unitari tipici della modernità. Dunque, con la postmodernità la sessualità si scopre duttile, dal momento che gli attori sociali la vivono in maniera sempre più soggettiva, indipendentemente da vincoli prescrittivi, come ad esempio quelli riproduttivi. Come esito di queste profonde trasformazioni, nell’ambito della ricerca sulle identità sessuali, a partire dagli anni ’90 si sono fatti spazio sulla scena i queer studies. Il termine, di derivazione tedesca, è stato utilizzato per la prima volta nel 1990 da Teresa de Lauretis durante una conferenza presso l’Università di Santa Cruz per designare l’insieme delle teorie decostruzioniste dell’identità sessuale. La scelta di utilizzare il termine queer per indicare la direzione di questo approccio rappresenta una svolta linguistica da un forte significato simbolico. Infatti, nel linguaggio comune l’espressione queer era diventata nella lingua inglese del Novecento una sorta di sinonimo di stravagante, bizzarro, ma con un’accezzione quasi negativa in riferimento alle identità sessuali per insinuare il loro carattere deviante, perverso o anormale. La prospettiva dei queer studies ha fatto proprio il concetto di performatività di genere introdotto da Butler. La studiosa ha posto in risalto che la ripetizione ritualizzata di alcune forme di comportamento riconducibili al femminile e al maschile ha prodotto come effetto una visione socialmente condivisa dei generi fondata su un fittizio paradigma eterosessuale. Pertanto, trattandosi di una messa in scena, la rappresentazione del genere non solo è da considerarsi come un qualcosa di artefatto, ma nel contesto postmoderno, non poteva che cedere il passo ad una concettualizzazione dell’identità sessuale più composita, non riconducibile ad un’unica dimensione. L’assunzione di una prospettiva queer si è posta come possibile strumento utile a compiere un’operazione di decostruzione delle tradizionali categorie sociologiche di sesso, genere e identità sessuale, senza mai pervenire ad una sintesi. Dunque, la proposta di introdurre all’interno del panorama scientifico, la nozione di comunità queer ha rappresentato una possibile strategia da adottare per studiare e analizzare tutte le soggettività sessuali che, slegate da specifici fattori da cui partire per imbastire l’analisi, sono accomunate dal proprio essere lontane dalle categorie identitarie considerate omologanti. Le teorie queer hanno dato vita ad una serie di studi e di riflessioni volte a mettere in discussione il carattere stabile e definito delle identità sessuali, rifiutando la nozione tradizionale di genere. Alla base di tale prospettiva analitica vi è l’idea che occorra abbandonare una visione stereotipata e dicotomica dei sessi, dei generi, delle identità e degli orientamenti sessuali, in favore di forme meno cristallizzate e più fluide e instabili, perché esposte a riorganizzazioni che possono avere luogo durante la vita delle persone, risultato di fattori sociali, psicologici, culturali e biologici. Utilizzando tale chiave interpretativa, è possibile sostenere che i queer studies hanno promosso una decostruzione del gender-polarized world, ossia una concezione nettamente dicotomica della società sessuata, proponendo una visione inedita di considerare i modi di vivere il corpo, il desiderio erotico, la femminilità e la mascolinità. Gli studi queer hanno iniziato ad incoraggiare riflessioni e analisi sulle questioni che riguardavano le marginalità sessuali con il duplice obiettivo di promuovere la visibilità dei soggetti che si collocano oltre i tradizionali binari da un lato, e dall’altro di riconoscere piena legittimità alle configurazioni identitarie trasversali e ai processi complessi e pluralizzati sottesi. Di conseguenza, la sessualità viene presentata così un terreno di sperimentazione, per cui l’omosessualità non può essere considerata più come un orientamento oppositivo all’eterosessualità, ma al contrario, diventa complementare ad essa. CAPITOLO 2 : SESSUALITA’ La sessualità costituisce un tema d’interesse per la teoria e la ricerca sociologica da qualche decennio. La sessualità può mettere in gioco uno o più elementi che richiamano l’appartenenza del soggetto alla società al suo legame più profondo con elementi della cultura di riferimento, quali norme e valori (dimensione sociale e culturale). La dimensione sessuale permette di rispondere ad un bisogno fondamentale per l’esistenza di una società, ovvero la condizione necessitante di entrare in relazione con l’altro. Tra le scienze sociali che si occupano della sessualità in termini non necessariamente connessi alla funzione riproduttiva, troviamo l’antropologia, per la quale il controllo della sessualità assume un ruolo centrale nella spiegazione delle genealogia e delle politiche della parentela. L’antropologia ha consentito di evidenziare come il controllo delle pulsioni sessuali da parte dell’essere umano sia collegato al processo di istituzionalizzazione della società, nella misura in cui la sessualità si distinguerebbe da quello animale, che è invece orientato al fine riproduttivo. La sessualità va canalizzata, direzionata in azioni legittimate socialmente, nella misura in cui, in assenza di queste, c’è il pericolo che l’eccesso pulsionale conduca ad un’aggressività reciproca. Anche la psicologia ha trattato a lungo di sessualità. Freud ha messo in rilievo la centralità assunta del controllo delle pulsioni sessuali come elemento che contribuisce al processo di civilizzazione. La sua distinzione fra Eros (piacere sessuale) e Thanathos (pulsione distruttiva) costituisce il processo attraverso il quale la psicologia perviene a spiegare l’istituzionalizzazione della vita e i meccanismi che portano alla creazione di una morale condivisa quale processo centrale per la formazione di una civiltà. Questi spiegano come lo studio della sessualità non può ridursi alle sole manifestazioni fisiologiche e biologiche, ma debba comprendere anche quei meccanismi di regolazione sociale e culturale che da sempre hanno circoscritto i modi di esprimersi di questa funzione così centrale per la sopravvivenza e la continuazione della specie. Dal punto di vista della sociologia, studiare la sessualità significa considerarla al pari di qualsiasi altro fatto sociale. La sociologia compie un ulteriore passo avanti : analizza l’affrancamento della sessualità dalla riproduzione e secolarizzazione dei valori, la progressiva tolleranza rispetto alle scelte nell’orientamento sessuale, la differenziazione fra sessualità e affettività, la pluralizzazione delle forme in cui gli individui autodefiniscono la propria identità sessuale. Per il Durkheim la sessualità doveva essere circoscritta all’interno di istituzioni specifiche che avevano il compito di predeterminare i comportamenti sessuali attesi di uomini e donne; tra queste istituzioni egli vedeva nel matrimonio quella più importante. La centralità assunta dall’ordine e la stabilità sociale nella sua teoria metteva ai margini le persone la cui sessualità non è finalizzata alla riproduzione e quei legami non convenzionali. Influenzato dalla morale del tempo, anche Parsons vedeva nella famiglia un’istituzione fondamentale per la riproduzione sociale e culturale della società. L’attenzione ai processi di socializzazione, in particolare a quelli legati al genere, era centrata, nel porre in evidenza ruoli e compiti differenziati fra i membri della famiglia, lungo le linee rigide delle dicotomie e del dimorfismo sessuale. Nella sociologia di Parsons le donne sono naturalmente predestinate al compito della cura dei figli e del focolaio domestico, che si specializza dunque nelle funzioni affettive a differenza degli uomini che si specializzano nella funzione intellettuale. Alle base di questa specializzazione dei ruoli sessuali, c’è un sistema patriarcale e sessista che assegna alla donna una posizione sostanzialmente subalterna all’interno di un ordine di genere e sessuale al cui apice troviamo l’uomo. In questa prima fase del ragionamento sociologico sulla sessualità poca attenzione è posta alla condizione della donna, la cui sessualità è stata costantemente repressa, associata solo ad un fatto procreativo, negandole ogni ambizione al piacere sessuale. L’approccio sociologico funzionalista tenderà a non problematizzare la sessualità, dando per scontato che uomini e donne debbano corrispondere a quei ruoli sociali che naturalmente essi sono chiamati a interpretare, proprio sulla base della loro differenza sessuale. La Scuola di Chicago, che tra gli anni ’20 e ’30 del Novecento inaugurò la prospettiva ecologica e interazionista intorno alla figura di Robert Park, la corrente drammaturgica, il cui principale esponente fu Erving Goffman, e in particolare l’approccio etnometodologico di Harold Garfinkel, getteranno le basi per una nuova ontologia della sessualità e una sua visione che porrà particolare enfasi sulle influenze poste dal contesto culturale, ovvero sull’immaginario che si crea, ricrea e si negozia intorno alla sessualità per tramite delle interazioni socio-sessualo, e in particolare attraverso il linguaggio. Nonostante possano riconoscersi molteplici differenze fra questi approcci, tutti hanno in comune una maggiore attenzione a individuare gli ambiti di senso all’interno dei quali l’esperienza sessuale è concretamente vissuta e a collegare aspetti di natura intrapsichica a quegli aspetti di natura culturale che forniscono orientamenti normativi e valoriali utili per l’esplicitazione delle pratiche sessuali. Esprimendo la necessità di denaturalizzare la sessualità, questi autori si pongono come obiettivo scientifico di mettere in evidenza quei fattori che conducono a trasformare una persona da essere sessuato in un essere sessualizzato all’interno di una specifica cultura. 2.1. La costruzione sociale dell’identità sessuale Le più recenti teorie interpretative hanno ormai superato l’idea che l’identità in generale sia qualcosa di dato e immutabile, stabilizzato nel tempo e nello spazio al di là delle esperienze e dei contesti di appartenenza. Durante la propria vita, gli attori sociali sono protagonisti di un processo volto alla scoperta e alla consapevolezza di sé. Questo percorso si nutre delle sollecitazioni provenienti dai contesti sociali e culturali, dalle esperienze vissute e dalle interazioni sociali. In altri termini, l’identità sessuale non può essere considerata solo un dato anagrafico, determinato esclusivamente dall’anatomia, ma anzi è un concetto multidimensionale che integra fattori biologici, psicologici, sociologici e culturali. Sin dalla più tenera età, i bambini sono spesso spinti da genitori, parenti e da altri agenti di socializzazione ad assumere comportamenti specifici in base al loro sesso biologico. Si tratta di sollecitazioni fornite talvolta in maniera implicita o inconsapevole : uno tra gli esempi più evidenti è rappresentato dal regalare giocattoli diversi a bambini e bambine, sulla supposta ipotesi che esistano balocchi per soli maschi e per sole femmine. Secondo Priulla, le aspettative sociali associate ai ruoli hanno retaggi antropologici legati alla biologia umana, alla struttura fisica e alla funzione generatrice femminile. Il ruolo degli adulti che incoraggiano bambini e bambine ad assumere comportamenti diversi sulla base del loro sesso biologico si configura come un importante fattore nella costruzione di quello che viene definito ruolo di genere, che si riferisce a modi, comportamenti e tratti di personalità che ciascuna società, cultura e periodo storico prescrivono come maschile o femminili. Di conseguenza, molti modi di agire, comportarsi e relazionarsi con gli altri possono essere condizionati nel percorso di crescita da questo tipo di attese sociali. Lo psicoanalista e psichiatra statunitense Lichtenberg ha individuato diverse fasi che si susseguono sin dall’infanzia nel processo di costruzione dell’identità sessuale. Già tra il primo e il secondo anno, i bambini sono incoraggiati da chi li accudisce ad assumere i comportamenti considerati maggiormente in linea con il ruolo sessuale. Entro i 3 anni i bambini generalmente si riconoscono come maschi o femmine. Il processo di apprendimento del ruolo di genere si consolida tra i 3 e i 7 anni, periodo durante il quale bambini e bambine hanno la facoltà di comprendere compiutamente ciò che viene considerato tipicamente maschile e femminile. Alcune persone possono avvertire un senso di disagio derivante proprio dall’incongruenza tra la propria identità sessuale e il sesso assegnato alla nascita. I soggetti che si discostano del tutto o in parte dalla cultura mainstream sono a rischio stigmatizzazione, dal momento che non aderiscono ai cosidetti stereotipi di genere, ossia i processi di astrazione e di definizione della realtà che collegano un gruppo di caratteristiche ad una categoria. Dunque, la filosofia dello stereotipo di genere presupporrebbe il rispetto di specifiche regole di condotta che pongono chi non vi si adegua in una condizione quasi di difetto. 2.2. La socializzazione alla sessualità in famiglia I processi di socializzazione alla sessualità sono definibili come un insieme di pratiche, significati, modelli di comportamenti trasferiti attraverso le principali istituzioni di riferimento della persona, secondo una direzione inter e intra- generazionale, sia di tipo verticale (gli adulti verso i giovani), sia orizzontale (fra pari). In merito ai processi di socializzazione e in particolare alla capacità delle agenzie di socializzazione di regolare i comportamenti, questi vanno inquadrati mettendo in evidenzia : sia il mutato clima culturale e sociale, rispetto al passato, entro il quale tali agenzie oggi si trovano a operare, sia le specificità che ognuna di esse reca con sé e che necessitano dunque di riflessioni non sovrapponibili. 6 Negli ultimi decenni, va inoltre affermandosi nella famiglia contemporanea una visione puerocentrica : se in passato i figli sacrificavano sé stessi per gli obiettivi più ampi della famiglia, al contrario oggi è la famiglia a conformarsi alle esigenze dei più giovani, aspetto che ha trasformato il sistema da istituzione che svolgeva compiti fondamentali di riproduzione sociale e culturale, a sistema privato di relazioni regolate dalla norma e dal codice dell’affettività. In merito alla pluralità di istituzioni chiamate in gioco nel processo di socializzazione al genere e alla sessualità, un ruolo determinante è da sempre quello svolto dalla famiglia. Ci sono molti studi che hanno messo in evidenza il rolo di questa istituzione nei processi di socializzazione al genere e alla sessualità, concependo la seconda questione come un aspetto derivato e conseguente dai principali modelli di genere impartiti tra le mura domestiche secondo linee che prevedono comportamenti Il sesso diviene, secondo Garfinkel, un’attitudine naturale socialmente costruita che definisce i contorni di accettabilità sociale di maschilità e femminilità. Potere e carattere normativo si articolano anche all’interno delle femminilità e all’interno delle maschilità o richiedendo correzioni o aggiustamenti per tutti quei corpi che, in qualche modo, vengono percepiti come eccedenti o imprevisti. È questo il caso delle persone intersex, che presentano delle caratteristiche che non permettono la classificazione sessuale in un sistema binario maschile femminile. La loro stessa esistenza metterebbe in qualche modo in discussione la griglia di lettura che applichiamo ai corpi, facendo emergere la presenza di una varietà anatomica, ma tale è la pervasività del paradigma binario che la richiesta, è quella di agire tempestivamente nei confronti di questa ambiguità, attraverso interventi di chirurgia estetica genitale. Si tratta di interventi irreversibili e invasivi che vengono operati su soggetti in età precoce e che nel 2016 sono valsi all’Italia un’ammonizione da parte del Comitato delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità perché considerate forme di mutilazione genitale. Così, l’unica modalità di pensarsi sessuali diviene quella eterosessuale, perfettamente integrata nel modello binario che intreccia corpo, genere e sessualità. Imparare a essere sessuali significa quindi imparare a interpretare parti del corpo, azioni e interazioni come sessuali, a distinguerle da ciò che sessuale non è. Simon e Gagnon parlano di copioni sessuali; questi agirebbero su tre livello : quello degli scenari culturali, quello interpersonale e quello intrapsichico. Ciascun livello non agirebbe in modo isolato né indicherebbe una serie fissa di istruzioni da seguire senza alcuna possibilità di adattamento, malleabilità e modifica; al contrario, richiederebbero un processo continuo di improvvisazione, interpretazione e negoziazione, agite attraverso e sul corpo. Il livello degli scenari culturali fornisce una serie di significati disponibili, di requisiti da soddisfare, di punti di orientamento per stabilire il chi, dove, quando e come della sessualità. Quello interpersonale riguarda l’applicazione di tali scenari in una data situazione. L’ultimo livello, quello intrapsichico, si riferisce allo spazio del sé, al luogo di produzione delle fantasie e dei desideri. Smarcare la sessualità da una mera lettura biologica, far emergere il sociale nel sessuale, implica riconoscere che anche il corpo è immerso in una sofisticata costruzione sociale. Costruzione sociale che ordina gerarchicamente tali corpi anche nel loro essere sessuati e nel loro divenire sessuali. All’invenzione dei corpi e delle sessualità partecipano i saperi e le pratiche mediche e scientifiche, le istituzioni, le diverse agenzie di socializzazione e i mass media e le produzioni culturali. 2.5. Le pornografie plurali Con il termine pornografia audiovisiva ci riferiamo a delle interazioni sessuali programmate, performate e riprese affinché vengano fruite da terze persone non necessariamente coinvolte e presenti nell’interazione suddetta. La pornografia è uno degli scenari culturali più popolari e diffusi a cui attingere nei processi di costruzione sociale dei generi e delle sessualità. Per molto tempo la pornografia è stata considerata come un genere prodotto e pensato per un pubblico esclusivamente maschile che riservava alle donne il solo ruolo di performer. Le donne si pensava non potevano essere interessate a quel tipo di prodotto. Prima dell’avvento del videoregistratore, la visione del film porno avveniva principalmente in luoghi percepiti come inaccessibili per le donne. Il dibattito attorno al tema della pornografia è stato nel corso del tempo molto vivace e prolifico. Talmente tanto da essere riconosciuto con il termine sex wars e a scontrarsi due diverse correnti, che vedevano nella pornografia una forma di violenza e uno strumento di oppressione sessuale o un mezzo dal potenziale rivoluzionario per l’emancipazione femminile e la liberazione dei suoi desideri. Tale conflitto ha vissuto una fase particolarmente vigorosa soprattutto durante la cosiddetta golden age dell’industria pornografica, ma in realtà, non si è mai esaurito. Eppure, a partire dalla prima metà degli anni ’80, hanno iniziato a farsi strada prodotti che vedevano le donne protagoniste. Da queste prime esperienze, il panorama delle pornografie audiovisive ha subito numerosi cambiamenti, tanto dal punto di vista dei processi produttivi che da quello degli immaginari proposti. CAPITOLO 3 : SOCIALIZZAZIONE, EDUCAZIONE E LINGUAGGIO La socializzazione e il genere sono due aspetti che hanno forti legami con la costruzione dell’identità, che è esito stesso del processo di formazione dell’individuo. Il modo in cui siamo, ci comportiamo e pensiamo è il prodotto finale della socializzazione. Attraverso la socializzazione impariamo anche ciò che è appropriato e improprio per i generi in base alla dimensione di appartenenza sessuale. La socializzazione è un processo relazionale tra generazioni differenti e ha come obiettivo la costruzione dell’identità; in questo caso sessuale e di genere. 3.1. Aspetti della relazione socioeducativa La socializzazione al genere è una dimensione importante nel processo di costruzione dell’identità, in quanto la distinzione fra maschile e femminile è la prima in cui l’essere sociale si trova immerso. Questo tipo di socializzazione è un processo attraverso cui un individuo apprende e rielabora una propria identità di genere, confrontandosi con una cultura comune, con ruoli e attese relative al maschile e al femminile, all’interno di un determinato contesto socioculturale. In questo percorso si acquisiscono le credenze, i valori e le norme riguardo ai ruoli e le aspettative che sono associati a ciascun sesso e ai ruoli di genere. Il processo di socializzazione è alla base della vita della società, in quanto è il modo attraverso il quale ogni individuo diventa un essere sociale a tutti gli effetti. La socializzazione diversificata in base al sesso è una forma più mirata di socializzazione; è il modo in cui le nuove generazioni sono socializzate nei loro ruoli di genere in ogni società. Tutto ciò si origina nelle esperienze socializzate che ciascun soggetto vive e sperimenta, ossia dal fatto che la trasmissione dei modelli di genere avviene comunque attraverso l’asse generazionale, in famiglia, a scuola e nel rapporto con gli adulti e oggi, anche nelle relazioni coi pari e nell’esperienza socioculturale del contesto di nascita e crescita. La formazione dell’identità avviene secondo il duplice processo socializzativo/educativo che coinvolge la società, il gruppo e l’individuo e si apre alle dimensioni del rischio, della scelta e della responsabilità. Il processo di socializzazione implica dunque un ruolo fondamentale di soggetti socializzatori, che mediano tra l’individuo e il sistema sociale. I mutamenti presenti nella società hanno portato a dei cambiamenti. In primo luogo, il processo di socializzazione può essere visto nei termini di un riferimento verso l’alto (socializzazione verticale), verso agenti preposti in maniera istituzionale e riconosciuta ad una funzione socializzante : la famiglia e la scuola. In secondo luogo, esso può essere considerato nel senso di un riferimento orizzontale, ovvero verso i gruppi di pari, la classe sociale e l’appartenenza di genere e i media. Infine, poiché la socializzazione è un processo che dura nel tempo, si può pensare anche ad un riferimento di tipo cronologico e longitudinale. Il cambiamento principale a cui si assiste nella società contemporanea è quello di una crescente importanza del gruppo dei pari e dei media nella socializzazione delle nuove generazioni. 3.2. Le relazioni familiari La famiglia viene considerato come un piccolo gruppo, ma la sua specificità è quella di essere un gruppo con storia, in cui sono fondanti i rapporti tra le generazioni. La socializzazione al genere all’interno delle relazioni familiari evidenzia anche la dimensione temporale della trasmissione di stili e aspettative tra genitori e figli. Il confronto tra queste due generazioni può mettere in luce differenze anche marcate. I genitori di oggi hanno probabilmente attese diverse da quelle che avevano i loro genitori, e i figli hanno attese ancora diverse. Ciò richiede un approfondimento sul come oggi avviene la trasmissione delle differenze basate sul sesso e si costruisce l’appartenenza di genere. Per quanto riguarda tale trasmissione, la famiglia è caratterizzata da un modo specifico di vivere e di costruire le differenze di genere. In particolare, nella famiglia la caratterizzazione di genere è presente nelle individualità dei genitori che hanno dato origine al nuovo essere umano. La relazione con il padre e la madre assume quindi un’importanza fondamentale nella definizione dell’appartenenza di genere, in quanto essi costituiscono per il figlio e la figlia le prime esperienze di relazione con il maschile e il femminile. Da queste premesse, s’intuisce come la famiglia rappresenti un luogo e un tempo in cui si sperimenta la relazione tra generi e generazioni e sia di conseguenza un ambito di studio privilegiato per analizzare il rapporto tra i generi, perché assume un’importanza fondamentale all’interno del processo di costruzione dell’identità di genere, in quanto è la prima realtà con il quale il bambino e la bambina entrano in contatto. 3.3. La socializzazione a scuola La scuola, o in generale, l’insieme delle istituzioni formative è un contesto educativo e socializzativo. I percorsi formativi costituiscono un ambito relazionale importante che interviene nello sviluppo del soggetto anche dal punto di vista delle differenze di genere. Per quanto riguarda in particolare le differenze di genere, un primo aspetto fondamentale è quello del rapporto tra uguaglianza e differenza che si è creato all’interno dell’ambiente scolastico in Italia negli ultimi decenni. La realtà scolastica è un contesto di attribuzione, costruzione o ricostruzione di significati e di strutturazione di motivazioni, atteggiamenti e comportamenti legati direttamente all’appartenenza di genere. L’aspetto negativo di questo tipo di opzione è stato la crescente tendenza a considerare l’ambiente scolastico come neutro e indifferenziato. In sostanza la scuola deve capire come affrontare la costruzione dell’identità assistito ad un vuoto problematico, creato attraverso il sistema neutro della coeducazione indifferenziata, oggi questo deve essere probabilmente colmato attraverso un apprezzamento della diversità di genere e una sua problematizzazione. Un secondo aspetto è costituito dal fatto che nell’assolvere la funzione socializzante, la scuola trasmette i valori propri della cultura in cui si trova emersa. Ancora oggi, per quel che riguarda i ruoli sessuali, il modello proposto a bambini e a giovani per molte generazioni è quello di una netta dicotomia tra l’uomo proiettato all’esterno e la donna ripiegata solo sulla famiglia, come figlia, moglie e madre. Questi stereotipi si apprendono in modi e contesti differenti : guardando la tv, leggendo o discutendo con gli amici. Essi però possono essere trasmetti anche dalle istituzioni, come la famiglia o la scuola. Genitori e insegnanti possono modificare questi modelli oggi anacronistici, ponendo l’accento sulle differenze. 3.4. Generi e generazioni in dialogo Nella società contemporanea la rappresentazione del maschile e femminile è profondamente mutata rispetto alle generazioni precedenti. Due tendenze sono compresenti nei processi di socializzazione delle nuove generazioni : la prima sostiene la necessità di una maggiore omogeneizzazione dei comportamenti, la seconda pone l’accento sull’importanza della differenziazione e del mantenimento delle diversità tra i generi. Nella società attuale assistiamo all’omogeneizzazione dei percorsi di crescita secondo il genere, perdendo o eliminando l’importanza della dimensione biologica di appartenenza. Dall’altra parte le istanze che stressano la distinzione in modi e tempi diversi si legano all’idea che ci siano dei percorsi differenziati anche all’interno dell’ambito maschile/femminile. Infine, tutto ciò si origina nelle esperienze socializzative che ciascun soggetto vive e sperimenta. La realizzazione dell’identità di genere/sessuata è conseguentemente un percorso relazionale, in cui la relazione si stabilisce sul coinvolgimento responsabile di diversi attori appartenenti a generazioni diverse con diversi background culturali. È un processo che può idealmente essere suddiviso in fasi che accompagnano lo sviluppo fisico, psicologico e sociale del soggetto. La prima fase è caratterizzata dall’iniziale riconoscimento della propria appartenenza biologica ad uno dei due sessi. In un secondo momento, si presenta la fase della ricerca, in cui il soggetto cerca di definire la propria identità di genere anche in base agli stimoli culturali ricevuti dal contesto. Oltre a diversificarsi nel tempo, l’identità di genere si differenzia anche in base ai contesti in cui si realizza, poiché il processo è sia individuale sia sociale. Nel rapporto tra generazioni un tema importante è quello della differenza/indifferenza oppure disuguaglianza/uguaglianza di genere. Tale aspetto risulta fondamentale in una società sempre più multiculturale in cui i contesti socializzativi sono caratterizzati da prospettive culturali differenti e a volte concorrenti. Il rapporto tra le generazioni è oggi più complesso e apre spazi di rinegoziazione sul che cosa significa essere donna e uomo rispetto al modo in cui lo intendono le generazioni precedenti. 3.5. Spazi di socialità Secondo la sociologia dell’infanzia i bambini non hanno un ruolo passivo nei processi di socializzazione; al contrario, questo approccio all’educazione al genere sottolinea l’impotenza dell’attività di riproduzione interpretativa. Nella sociologia classica il bambino e la bambina sono considerati oggetti di socializzazione adulta. Utilizzando un’espressione di tipo foucaultiana, tra i bambini e gli adulti vige una relazione di possesso, ma anche di cura e di potere; la società forma e educa i bambini conferendogli uno status sociale inferiore rispetto agli adulti. Questa prospettiva adultocentrica ha oscurato l’interesse nei confronti dell’infanzia, che diventa un oggetto di studio relativamente recente. Tale cambio di rotta riconosce l’importanza dei bambini nelle scienze sociali, facendo crescere l’esigenza di studiare i bambini come agenti sociali. La nuova sociologia dell’infanzia offre al bambino un nuovo teatro in cui diventano soggetti attivi, socialmente competenti e in grado di partecipare all’interazione sociale. In questo senso, la nuova sociologia dell’infanzia assegna un nuovo significato a questa e considera i bambini soggetti capaci di assegnare significato a ciò che li circonda. A contribuire allo sviluppo di questo paradigma è principalmente la convenzione sui diritti del fanciullo approvata dall’ONU nel 1989 : un documento epoca che ha dato la spinta a produrre una serie di studi sull’infanzia. La sociologia dell’infanzia ridefinisce i modelli teorici sulla socializzazione : quello deterministico, in cui i bambini hanno un ruolo passivo e quello costruttivista, in cui sono visto come agenti attivi. I bambini si appropriano della cultura dell’adulto, reinterpretano e ne riproducono i significati traducendola nello spazio, con l’obiettivo di riorganizzare i mond i sono i luoghi depositari di una cultura ancora più radicata in modelli tradizionalisti in cui le discriminazioni sono più resistenti. È necessario continuare a lavorare sul concetto di cittadinanza di genere, nel rispetto di tutte le differenze e disuguaglianze, per la costruzione di un clima educativo e formativo paritario inclusivo. 3.10. L’espressione linguistica del genere Le trasformazioni in corso nei rapporti tra i generi in campo sociale, culturale ed educativo iniziano a sentirsi in modo significativo anche per quanto riguarda gli usi linguistici. Le altre lingue sono infatti, dei sistemi dinamici che cambiano nel tempo. L’italiano presenta un sistema a due genere, maschile e femminile. Quando ci riferiamo ad una inanimata che non ha un suo genere come gli esseri umani o gli animali, pure siamo costretti ad assegnarle un genere. Nel riferirci a esseri viventi e soprattutto a esseri umani, il genere grammaticale riflette il genere che viene attribuito alla persona a cui ci si riferisce. La linguista Alma Sabatini ha evidenziato tre principali categorie di uso del genere grammaticale che sfuggono all’accordo di genere e ha mostrato come in questi usi non coerenti con la norma si rifletta chiaramente un privilegio sessista e maschilista. L’uso del maschile come titolo professionale per le donne; l’uso del maschile per indicare l’insieme dei membri di un gruppo formato da donne e uomini; l’uso del maschile per designare una funzione astratta che potrà di volta in volta essere ricoperta da una donna o da un uomo. Per quanto riguarda i titoli professionali, si osserva spesso ancora oggi una significativa diffusione della forma maschile del sostantivo per tutte le funzioni di maggior prestigio a prescindere dal genere di chi le svolge, mentre nelle funzioni meno alte si usa regolarmente il femminile. Questo la dice lunga sul fatto che la presenza femminile è storicamente consolidata e data per acquisita in alcuni ambiti professionali tradizionali non dirigenziali, mentre in quelli di livello culturale superiore la presenza della donna è un fatto relativamente recente. Da qualche tempo però le cose stanno lentamente cambiando : questo singolare uso del maschile per le donne non è più un dato indiscusso, anzi la pubblica opinione e i media si interrogano continuamente su questo tema, riflettendo una varietà di posizioni. La questione del genere, oggi produce frequenti dubbi. In ogni caso, col passare del tempo, la scelta di usare un genere grammaticale coerente col genere della persona a cui si riferisce è sempre più frequente. Ciò ha portato alla diffusione di molti sostantivi che fino a questo momento non erano ancora stati utilizzati nella loro forma regolare femminile. Inoltre, quando ci si riferisce ad un gruppo formato da donne e da uomini, anche nei casi in cui la componente femminile è maggioritaria, tradizionalmente si ricorre al maschile. Questa asimmetria nella grande maggioranza delle situazioni mette in evidenzia la presenza degli uomini nel gruppo e opacizza la presenza delle donne. A questa asimmetria di genere, che svantaggia la componente femminile si sta cercando di porre rimedio con delle soluzioni : la ripetizione del termine nei due generi, questa soluzione è elegante e corretta, ma ha lo svantaggio dell’allungamento del testo; il ricorso alla barra obliqua per separare le desinenze; la scelta di termini che evitino di indicare il genere; il ricorso a elementi grafici come l’asterisco o la chiocciola per rappresentare simultaneamente i due generi con un solo carattere; l’uso del simbolo fonetico detto schwa, rappresentato da una ‘e’ capovolta, che ha il vantaggio rispetto all’asterico e alla chiocciola di essere pronunciabile; l’uso di ‘u’ come desinenza ambigenere; la scelta del solo femminile motivata o dalla forte prevalenza delle donne in un gruppo con una minoranza di uomini o dalla rivendicazione in alcuni contesti politici del capovolgimento dei rapporti di potere a favore delle donne. Per quanto riguarda le funzioni astratte, questo è l’aspetto tra quelli indicati dalle linee guida di Alma Sabatini, in cui ci sono stati i minori cambiamenti nell’uso. Il secondo grande ambito nel quale gli usi linguistici sono estremamente significativi per accompagnare e sostenere i profondi cambiamenti sociali e culturali è quello che riguarda la scelta del genere grammaticale in relazione alle diverse categorie di persone incluse nell’acronimo LGBT+. Nel caso delle donne e degli uomini transgender, il sesso biologico definito alla nascita non coincide con l’identità di genere assunta successivamente dalle persone. La donna transgender era infatti stata registrata anagraficamente alla nascita come persona di sesso maschile, ma ha adottato poi una identità di genere femminile, viceversa vale per l’uomo transgender. La conseguenza logica di questo è l’utilizzo del genere grammaticale corrispondente alla scelta biografica della persona, ovvero alla sua identità di genere acquisita. L’accordo grammaticale col sesso biologico e non con il genere acquisito rivela immediatamente un atteggiamento transfobico da parte di chi lo adotta. Nel caso di donne lesbiche e uomini gay, si tratta di persone che non hanno effettuato alcun cambiamento di genere, definite per questa ragione cis gender, termine che designa chiunque non abbia transitato nel genere opposto. Le persone cis gender conservano infatti il genere attribuito alla nascita e vi si riconoscono sul piano anagrafico, identitario e socioculturale. Sul piano linguistico la logica conseguenza di questo è l’uso del genere grammaticale femminile per le donne lesbiche e di quello maschile per gli uomini gay. Quando una persona eterosessuale usa ostentatamente il maschile parlando di una donna lesbica o il femminile per un uomo gay, sta adottando un atteggiamento omofobico. Un ulteriore grado di complessità si è andato, imponendo soprattutto negli ultimi anni con la progressiva evoluzione di nuovi modelli di comportamento e di nuovi tipi di identità. Appare necessario citare il genere non binario, cioè tutte quelle persone che rifiutano di assumere un’identità orientata decisamente verso il maschile o verso il femminile. Dalla crescente diffusione di queste identità non binarie, deriva anche la sempre più diffusa scelta, nei modelli anagrafici di alcuni paesi di fornire a chi risponde, oltre le classiche risposte F e M, anche una terza opzione, definita con ‘altro’. Anche questa categoria di persone pone nuove interessanti questioni legate agli usi linguistici e al genere grammaticale, a cominciare dai nomi propri di persona e dai pronomi con cui è corretto riferirsi loro. Alcune delle soluzioni sono l’asterisco, la chiocciola, la u e soprattutto lo schwa. Anche per quanto riguarda i pronomi, è in corso l’elaborazione di forme di gender neutral. La breve rassegna dei cambiamenti linguistici in corso in relazione alle questioni di genere conferma che le lingue sono strumenti adattivi che nel tempo acquisiscono dimensioni di uso e di forma corrispondenti alle innovazioni sociali e culturali. Inoltre, come già da tempo è stato osservato dalla letteratura del tema, esistono due spinte al cambiamento che producono effetti a volte contrapposti : quella della categorizzazione del genere, che va nella direzione dell’espressione della dualità maschile vs femminile; quella della decategorizzazione del genere, che spinge invece nella direzione opposta, cioè verso la cancellazione delle differenze anche grammaticali. CAPITOLO 4 : COMUNICAZIONE E MEDIA Per cominciare ad analizzare, occorre partire da due elementi : il genere e i media. Per quanto riguarda il genere, l’evoluzione degli studi ha evidenziato la progressiva affermazione di un approccio costruttivista in contrapposizione alla prospettiva del determinismo biologico. In questo senso, mascolinità e femminilità sono concepite come norme e convenzioni costruite culturalmente e socialmente con riferimento al comportamento e all’aspetto fisico di donne e di uomini e sono dunque il risultato di processi di negoziazione e interazione che avvengono tra i soggetti presenti in una determinata società. I mezzi di comunicazione o media possono essere concepiti come apparati che incorporano tecnologie di comunicazione e come dispositivi che veicolano contenuti simbolici attraverso l’uso di linguaggi e codici specifici. Essi sono diventati sempre più importanti nella nostra vita quotidiana perché ne sono ormai parte integrante. I media ci servono per comunicare con gli altri, ma anche per informarci e intrattenerci, ma soprattutto sono stati riconosciuti come agenzie di socializzazione, costruzione dell’identità e della realtà sociale che affiancano in maniera sempre più significativa le istituzioni tradizionali, facendo emergere la loro fondamentale funzione di rappresentazione sociale del genere e di socializzazione dei ruoli di genere. Nell’ambito del percorso di sviluppo dei media, si è registrato un passaggio epocale dei media tradizionali e media digitali sino alle nuove frontiere dei social media, della network society e della cosiddetta platform society. I media tradizionali sono i cosiddetti media di massa, che si sono diffusi a partire dai primi anni del 2000 e che si caratterizzano per un modello broadcast. In questo caso, ci riferiamo alla radio e alla televisione, senza dimenticare la stampa di massa e il cinema. A partire dagli anni ’70, gli sviluppi nel campo dell’informatica e delle telecomunicazioni hanno determinato il passaggio ai nuovi media, che hanno inaugurato e accompagnato la transizione al digitale. Prima la diffusione di pc, e poi quella del World wide web hanno favorito cambiamenti sostanziali nei modelli di consumo. Gli ultimi anni hanno visto un’ulteriore evoluzione per quanto riguarda le caratteristiche dei media. L’arrivo del web 2.0 e dei social media a partire dalla fine degli anni ’90 ha determinato un cambiamento fondamentale perché ha inaugurato la stagione dei media partecipativi, contraddistinti dalla possibilità di interagire in modo inedito con i contenuti mediali, modificandoli, remixandoli e producendo nuovi artefatti. Le piattaforme social hanno determinato uno straordinario cambiamento che offre agli utenti la possibilità di produrre contenuti comunicativi sempre più ricchi e variegati. Per quanto riguarda il rapporto tra genere e media, le principali aree di interesse di analisi scientifica sono le seguenti : rappresentazione, produzione e consumo. Rappresentazione : il tema della rappresentazione ha a che vedere con la soggettività che ottengono visibilità all’interno dei media. Le rappresentazioni mediali hanno rilevanza quantitativa, nel senso che hanno a che fare con le percentuali di presenza di donne e uomini nei media, perché si interfacciano con i ruoli e le posizioni rivestite da diversi generi nell’ambito dei media. Produzione : l’area di indagine relativa alla produzione mediale è legata all’industria dei media, che è stata in gran parte condizionata dall’impatto del digitale. Per un periodo i diversi mezzi di comunicazione quali la stampa, il cinema, la televisione erano considerati come comparti separati. Oggi la convergenza dei processi produttivi e dei contenuti impongono di ripensare in maniera radicale la struttura e funzionamento dell’industria mediale. Consumo : l’area di analisi relativa al consumo è quella che si occupa del modo in cui i pubblici ricevono e rielaborano le informazioni dei media. Attraverso l’analisi delle teorie degli effetti sociali dei media è possibile individuare un percorso che va da un ricevente sostanzialmente passivo sino a teorie più avanzate come l’approccio usi e gratificazioni o come cultural studies, che riflettono sulla capacità dei pubblici di negoziare i significati mediali. Gli studi sul genere in media si intrecciano con i femminismi. Il legame forte che viene rielaborato dalle studiosi dei gender media studies è quello con il cosiddetto post-femminismo. Potremmo definire il post-femminismo come una tendenza culturale o meglio una sensibilità, come la definisce Rosalind Gill che è rivolta all’analisi dei prodotti culturali e mediali della contemporaneità. La rappresentazione del genere nella televisione italiana è coincisa per lungo tempo con la rappresentazione della donna. La televisione degli esordi era una televisione definita pedagogica. In questa fase storica la donna in TV coincide quasi esclusivamente con la presentatrice televisiva, la cosiddetta “signorina buonasera” che dava l’annuncio dei programmi televisivi o con la soubrette del varietà in onda il sabato sera : le gemelle Kessler. Inizia, inoltre, l’era delle vallette che fanno da spalla al conduttore principale del programma. Facendo un passo indietro è opportuno ricordare che gli anni ’70 sono stati caratterizzati dall’emergere della questione dei diritti delle donne. L’introduzione del divorzio e la legge sull’interruzione volontaria di gravidanza avevano comunque segnato un cambiamento epocale. In quel periodo si segnalano trasmissioni come processo per stupro. Negli anni ’80c’è cambiamento strutturale. Si avvia un cambiamento nella direzione della cosiddetta neotelevisione. La TV delle reti private è una TV che si differenzia da quella precedente soprattutto per un radicale cambiamento dei linguaggi e dei codici comunicativi. Una TV più spensierata con il quale instaura un rapporto di complicità, a partire dai conduttori. In questa situazione sociale si innesta un cambiamento nella rappresentazione della donna virgola in particolare del suo corpo, caratterizzato da un’identità spinta al consumismo e all’individualismo. Sono gli anni in cui si afferma un fenomeno politico, ma anche culturale, che è stato definito berlusconismo per indicare una tendenza legata alla personalità dell’ex imprenditore edile Silvio Berlusconi, inaugura un impero imprenditoriale basato sul possesso delle televisioni o meglio di un impero mediale, ma soprattutto su una formula basata sulla centralità della triade sesso-potere-denaro, il tutto in una cornice caratterizzata dalla parola d’ordine libertà. Le TV di Berlusconi ingaggiato immediatamente una sfida nei confronti dell’emittente RAI, con una vera e propria guerra di ascolti e l’affermazione progressiva dell’emittente privata su quella pubblica. Tornando alle rappresentazioni di genere, un programma come drive in di Antonio Ricci, rappresenta molto bene la nuova filosofia delle TV berlusconiane. Vediamo qui comparire le ragazze fast food, donne formose che si offrono allo sguardo del politico e che propongono uno stereotipo di donna passiva e compiacimento nei confronti degli uomini. Gli anni successivi continuano a essere caratterizzati da questa tendenza, si cerca di proporre una TV basata sull’ironia e l’autodeterminazione femminile. Negli anni ’90 la situazione non migliora, quanto a modelli di rappresentazione della donna. Soltanto per fare un esempio, un programma come “non è la rai” era caratterizzato dalla massiccia presenza di ragazze molto giovani, intende ad esibirsi in balletti e canzoni. Soltanto qualche anno dopo “uomini e donne” di Maria De Filippi promuove un preciso concetto di femminilità e maschilità. L’uomo e la donna possono corteggiare o essere alternativamente corteggiatori e corteggiatrici, ma i modelli estetici proposti sono tutti orientati alla bellezza estetica e a specifici canoni corporei : il ragazzo macho, palestrato e tatuato, la ragazza quasi sempre snella, di gradevole aspetto è vestita all’ultima moda punto. Al termine di questa rapida e semplificatoria carrellata, ci chiediamo allora se oggi ci sia ancora spazio per i modelli alternativi di femminilità e soprattutto per altre soggettività che non devono necessariamente essere ricondotte al modello di uomo forte, direttivo e competente e di donna bella, oggettività e stupida. Qualche spiraglio può essere rintracciato nella programmazione televisiva più recente. Se da un lato programmi come “matrimonio a prima vista” ancora non prevedono la presenza di coppie omosessuali, dall’altro trasmissioni come la stessa “uomini e donne” o “prima appuntamento” hanno mostrato di abbandonare i pregiudizi dando spazio anche alla partecipazione delle persone omosessuali. 4.1. I media digitali Il cyberbullismo presenta peculiarità specifica che non solo lo differenziano dal bullismo tradizionale, ma che diventano centrali per tutti coloro che operano, a vario titolo, nel contrasto alle discriminazioni basate sulle diversità, siano essere di genere, di origine etnica, di abilità fisiche o cognitive. Il bullo che agisce da dietro un computer o uno smartphone può sentirsi ancora più forte del bullo tradizionale. Nell’analisi del fenomeno, la ricerca si è concentrata soprattutto su due variabili che caratterizzano lo cyberbullismo : l’età e il genere. La prima variabile è stata di particolare interesse per educatori e psicologi, che hanno prestato attenzione al passaggio dalla preadolescenza all’adolescenza individuando caratteristiche e comportamenti differenti in base all’età. Sono numerosi gli studi che tentano di restituire uno spaccato delle caratteristiche di genere è di cyberbulli. Anche in Italia sono state condotte indagini di questo tipo che appaiono concordi su un punto: il fenomeno del cyberbullismo coinvolge tutto il complesso mondo della preadolescenza e dell’adolescenza. Ma il tema del genere apre la strada ad un’altra specifica categoria di bullismo elettronico. Nello specifico, ci si riferisce a quell’insieme di prepotenze rivolte a ragazzi e ragazze che sono omosessuali in quanto non corrispondono alle aspettative di genere socialmente costruite e che costituiscono la base del fenomeno dell’homophobic cyberbulling. Il bullismo omofobico è definito come una tipologia di molestia esplicitata dall’uso di etichette peggiorative o frasi denigratoria nei confronti di individui percepiti come appartenenti alla popolazione queer. La ricerca sul cyberbullismo omofobico è solo agli albori, sebbene i primi studi evidenziano già le conseguenze di questa forma di violenza spessa considerata invisibile proprio a causa dell’assenza di un contatto fisico o di ripercussioni direttamente osservabili sulla vittima. Non è solo la popolazione LGBT+ a essere oggetto di queste forme di cyberbullismo, in quanto rientrano anche altre categorie: gli adolescenti che vengono percepiti come omosessuali o con identità di genere non conformi alle norme sociali basate sugli stereotipi vigenti; gli adolescenti con familiari apertamente omosessuali; gli adolescenti eterosessuali che escono fuori dagli schemi e che non vengono considerati conformi alle norme culturali. Gli studi sul cyberbullismo omofobico evidenziano disagi e disturbi, nelle vittime, simili a quelli che caratterizzano altre forme di bullismo, con due peculiarità che sembrano emergere con maggiore decisione : il ruolo centrale delle immagini e il fenomeno dell’omofobia interiorizzata. Da un lato, le azioni di cyberbullismo basate sul genere e sull’orientamento sessuale si prestano particolarmente all’utilizzo di immagini e video che hanno anzitutto lo scopo di deridere la vittima. D’altro lato, gioca un ruolo importante quella che in letteratura è stata definita omofobia interiorizzata, ovvero il frutto dell’accettazione passiva da parte delle persone omosessuali di tutti i pregiudizi in cui sono immersi. Ad oggi le ricerche sul cyberbullismo omofobico si sono concentrate soprattutto su due aspetti : il ruolo e la capacità di intervento di chi assiste in qualità di spettatore online alle vessazioni; la correlazione alla perdita di inibizioni online e l’aumento di casi di atti di bullismo nei confronti delle minoranze di genere. Negli episodi di cyberbullismo omofobico, è importante il ruolo dei cyberstander, ovvero di chi si assiste in rete al sopruso. Gli spettatori delle vessazioni intervengono più facilmente nelle relazioni online sia in difesa della vittima sia nel ruolo di chi denuncia. Per comprendere e contrastare il cyberbullismo omofobico è necessario qualche rielaborazione rispetto alle forme più tradizionali di cyberbullismo. 4.5. Prospettive educative e sviluppi futuri In una società che è sempre più complessa, globale e multiculturale e che recentemente è stata colpita anche dall’ondata pandemia, che ha messo a dura prova le nostre numerose certezze e ridefinito i paradigmi di lettura della realtà sociale, è infatti importante riconoscere l’esistenza di una gamma sempre più vasta di soggettività che chiedono di prendere parola e di potersi esprimere, esercitando il loro diritto di cittadinanza anche attraverso la comunicazione. Come osserva Capecchi, ciò significa in primo luogo pensare in modo più articolato ai pubblici, che sono composti non soltanto da individui di genere maschile e femminile, ma anche da soggetti che non si identificano nella gabbia dicotomica tradizionalmente delimitata dai due generi. Secondo Capecchi, comunicare in ottica generale significa : abbandonare una visione della realtà presentata come neutra; accettare la parzialità dei punti di vista maschili sulle realtà e dare valore agli altrettanto punti di vista femminili; considerare il genere femminile e quello maschile in relazione dialettica tra loro; tendere all’uguaglianza tra uomini e donne; abbattere gli stereotipi di genere e il sessismo. Nel settore dell’informazione è importante che le notizie siano scelte, scritte e trattate nel rispetto di tutti i ruoli di genere. Tuttavia, si tratta di una professione declinata prevalentemente al maschile, dove soltanto recentemente si sta affermando con particolare forza la presenza femminile. Per quanto riguarda la pubblicità stiamo assistendo anche qui a cambiamenti sostanziali. Pensiamo al fenomeno del femvertising nell’ambito del quale si propongono pubblicità che utilizzano modelli di rappresentazione della donna differenti e alternativi rispetto a quelli tradizionali. In particolare, questo tipo di pubblicità si basa sull’empowerment, sull’idea cioè che le donne abbiano il controllo delle loro scelte identitarie. Infine, questa sensibilità nei confronti del genere e della prospettiva delle pari opportunità si sta affermando progressivamente anche all’interno delle politiche pubbliche e aziendali. Le amministrazioni pubbliche e le aziende cominciano a comprendere quanto l’adozione di una prospettiva di genere possa essere conveniente anche per i loro profitti. La socializzazione ai ruoli di genere è un processo molto complesso e articolato che vede concorrere numerose agenzie di socializzazione. Tuttavia, accanto alle agenzie cosiddette tradizionali, da diversi anni è emerso con particolare evidenza anche il ruolo dei media nell’ambito dei processi di socializzazione al genere. Ciò concorre a formare modelli di maschio e di femmina. Il ruolo dei media nella socializzazione al genere è il presupposto per riflettere sulla esigenza di promuovere strategie educative legate ad un suo corretto e produttivo dei mezzi di comunicazione. A tale proposto, è di fondamentale importanza ragionare sulla media educazione, un ambito interdisciplinare di competenza che parte da alcuni semplici presupposti : i media sono agenti di comunicazione; i media non sono trasparenti; le persone sono ricettive e non passive nei confronti dei media; è possibile educare ad un uso critico e responsabile. La media education coinvolge diversi contesti, formali e informali, dalla scuola all’extra scuola, e diverse generazioni, da quelle più giovani a quelle più mature. Dal punto di vista linguistico, quando parliamo di media education ci riferiamo a due accezioni : educazione ai media, termine con il quale si fa riferimento al processo di insegnamento e apprendimento centrale sui media; media literacy, che ne costituisce il risultato. La definizione di literacy è stata da Sonia Livingstone che distingue l’abilità di accedere, analizzare, valutare e creare messaggi. La media literacy si connette al tema delle competenze, e in particolare, delle competenze digitali. Accanto a competenze relative all’accesso o alla produzione di contenuti, assumono sempre più importanza le competenze etiche e quelle relative alla gestione del sé e delle relazioni sociali all’interno dei social media. Importante è anche la competenza legata alla capacità di riconoscere fonti autorevole e meno autorevoli per non incorrere in trappole. Senza dubbio i media hanno contribuito a rendere ancora più globale la società. Dall’altro canto l’emergenza pandemica ha mostrato da un lato la forza e dall’altro, la debolezza della comunicazione mediatica. Oltre al pericolo rappresentato dalle fare news, che spesso hanno ostacolato e reso più difficile la diffusione di una corretta informazione sulle dimensioni e le caratteristiche della pandemia, i media hanno rappresentato la cartina di tornasole degli effetti del cosiddetto. Da una parte le donne hanno pagato alto il prezzo dell’emergenza sanitaria, subendo un peso ancora maggiore del lavoro di cura con un aumento esponenziale nelle responsabilità delle attività domestiche, mentre sull’altro versante i media hanno continuato a offrire una rappresentazione piuttosto squilibrata del loro ruolo nella società. Sugli schermi televisivi si sono avvicendati figure esperte che hanno assunto la caratteristica di detentori della verità e della competenza sui temi scientifici e sull’azione politica legata alla pandemia. La presenza femminile si è limitata a rarissime eccezioni o, quando c’è stata, è stata posta nelle condizioni di essere interprete e modello stereotipato.