Scarica "MANUALE DI GEOGRAFIA" di G. De Vecchis e E. Boria (RIASSUNTO COMPLETO) e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Geografia solo su Docsity! 1 CAP. 1 – ALLA SCOPERTA DEL SAPERE GEOGRAFICO 1. La geografia: questa sconosciuta La GEOGRAFIA è una disciplina che oltrepassa il puro nozionismo: apprendere le nozioni infatti non è un traguardo della geografia, ma solo il mezzo per raggiungere degli obiettivi specifici, come la relazione tra società e natura. La geografia è infatti la scienza che studia i processi di antropizzazione del Pianeta, cioè i rapporti che, nel tempo e nello spazio, hanno tra loro uomini, comunità, popoli e culture. Questi processi sono sempre più pervasivi e minacciano le forme di vita della Terra. Tutti i cambiamenti, che stanno accelerando, risultano sempre meno sostenibili e, insieme alla globalizzazione, stanno cambiando profondamente il mondo di vivere e agire nello spazio. La superficie terrestre, essendo formata da vari aspetti (socio-culturali, economici e politici), deve essere analizzata in tutte le sue parti, distinguendo i diversi impatti esercitati da popolazioni, gruppi sociali e individui, ognuno dei quali agisce con proprie specificità. È ben e quindi includere, nello studio degli spazi sociali, le disuguaglianze, per comprendere meglio i destini dell’umanità. La geografia perciò deve essere orientata verso finalità specifiche, per interpretare sia l’agire territoriale degli essere umani, con i loro bisogni e percezioni, sia le politiche spaziali di governi e multinazionali. La ricerca quindi deve includere la dimensione etica, utile per accordare le esigenze immediate degli uomini agli interessi globali, come la solidarietà e la sostenibilità. Tutte queste finalità riguardano il funzionamenti del mondo, ossia il progetto di abitare il Pianeta nella sua interezza e nella consapevolezza che tutte le sfere di cui è composto (litosfera, idrosfera, atmosfera ecc.) siano interconnesse, formando una struttura unica, cioè il Sistema Terra. 2. La composizione dei saperi geografici Prima dell’avvento della geografia scientifica nel Settecento, il mondo veniva descritto attraverso il mito, la religione, la poesia e il racconto. Ad esempio, i miti cosmogonici erano usati per spiegare la formazione dell’universo, la posizione della Terra nello spazio, l’alternanza del giorno e della notte, l’alternanza delle stagioni ecc. Queste spiegazioni rappresentavano la visione del mondo di un popolo, ma anche i risultati di osservazioni astronomiche, spesso esatti. I primi saperi geografici, collegati alle scienze della natura e matematiche e alla filosofia, si hanno nel periodo greco classico. La parola “geografia” infatti deriva dal greco “ghè”, cioè Terra e “graphìa, cioè “descrizione o disegno”. o ANASSIMANDRO, pensatore presocratico, fu il primo a dare un’interpretazione grafica delle regioni della Terra, concepita come un disco circondato dalle acque dell’Oceano, al cui interno è rappresentata la superficie terrestre in modo approssimato. o ERATOSTENE sosteneva la sfericità della Terra e fu il primo a usare il termine “geografia”, intitolando così una sua opera, nella quale si asseriva che Omero fosse il fondatore della disciplina o STRABONE compose un’opera, in cui sosteneva che la geografia fosse una “materia da filosofo” e cercava di congiungere la tradizione scientifica con gli aspetti antropici. o TOLOMEO, nella sua opera “Introduzione alla geografia”, formata da 8 libri, scriveva delle differenze tra geografia e corografia , delle misure della Terra e dei nomi e delle coordinate delle località. Lui costruì le basi della cartografia scientifica, rivalutata secoli dopo. Con la caduta dell’Impero romano (Medioevo) e lo sviluppo del monachesimo, la sfera socio-culturale cambia e anche la geografia subisce contraccolpi. Il termine stesso scompare e i vari saperi geografici vengono diluiti nella cosmografia o nelle arti liberali del quadrivio (aritmetica, geometria, musica e astronomia). La geografia così viene collocata fuori dallo spazio, senza nessun collegamento con la realtà, così che spesso va a confondersi con la fantasia e la magia. Nel ‘400/’500, periodo umanistico, ci furono grandi scoperte geografiche che hanno stimolato gli studiosi ad affrontare nuovi problemi e a ricercare soluzioni per facilitare i viaggi e le esplorazioni. Ad esempio, l’opera cartografica di Tolomeo ha aiutato molto nella navigazione, grazie alle coordinate descritte. Nel Seicento, grazie a scienziati come Francis BACON, CARTESIO e GALILEI, ci sono state invenzioni e scoperte importantissime che hanno dato un grande contributo alla scienza moderna. I progressi fatti portarono al desiderio di dominare il mondo, attraverso la matematica e i calcoli, che portano a verità chiare ed evidenti. Il metodo sperimentale è l’aspetto centrale della rivoluzione scientifica, utile anche per individuare le leggi e i segreti dell’ambiente. Grazie alle informazioni sulle nuove terre scoperte, i saperi geografici si ampliano, sempre però influenzati da aspetti fantastici. In questo periodo però rimangono sempre i collegamenti con la cartografia: la geografia infatti, nel Seicento, è una rappresentazione cartografica delle terre e dei mari e una esposizione delle nuove scoperte geografiche. 3. L’avvio della geografia scientifica Nella fine del Settecento, in Germania, ci fu un progresso negli studi geografici grazie a studiosi come HERDER e KANT. Kant è uno spartiacque tra l’antica e la moderna geografia scientifica. Lui, nella sua opera “Physische Geographie”, considera la geografia come propedeutica alla conoscenza del mondo, in grado di insegnare a comprendere l’”officina della natura”. Kant, inoltre, intende la globalizzazione come un cosmopolitismo al quale l’umanità tenderebbe, in quanto abitante di un Pianeta di forma sferica che avvicina gli uomini tra loro. Nell’800, sempre in Germania, due geografi furono molto importanti nella ricerca geografica: Von Humboldt e Ritter, che sostenevano i principi di interdipendenza e di comparazione per lo studio delle relazioni tra ambiente fisico e attività antropiche. VON HUMBOLDT, nelle sue opere, non descriveva soltanto i fenomeni e la loro distribuzione nello spazio, ma soprattutto la loro reciprocità e causalità: ad esempio, scrisse dell’influenza della posizione dei continenti sul clima, dell’andamento delle correnti marine, della diffusione delle piante ecc. RITTER, discepolo di Herder, concepiva la Terra in base alla sua concezione teologica: vede la Terra come indipendente dall’uomo e il rapporto tra umanità e natura è disposto in un disegno d ella provvidenza (antropocentrismo guidato da un ordine divino). Secondo lui, anche l’elemento storico è molto importante poiché,attraverso lo scorrere del tempo, si può rintracciare l’influsso dell’ambiente naturale nello sviluppo dei popoli. L’idea fondamentale di Ritter consiste nel comparare tra loro le varie regioni della Terra e le stesse regioni con se stesse in diversi periodi di tempo e poi compararle con le condizioni storiche dei popoli che l’hanno abitate nel tempo, per scoprire quanto le condizioni geografiche di un territorio possano determinare le condizioni storiche dei popoli. Nell’800, grazie ai valori della società borghese (fiducia nel progresso, importanza della razionalità ecc.), si sviluppa il Positivismo, durante il quale, come chiave interpretativa del mondo, si ha la concezione meccanicistica, che vede il mondo formato da quattro entità: spazio, tempo, materia e movimento. Si pensava che le leggi della meccanica fossero in grado di spiegare qualsiasi fenomeno, nello spazio e nel tempo, con l’acce ttazione del determinismo, considerato valido per ogni sfera della realtà. Questo principio rimanda all’idea di un sistema di leggi per cui in natura tutto avviene secondo relazioni di causa-effetto. 2 Un grande impulso alla scienza in questo periodo è dato da DARWIN, che dimostra l’evoluzione graduale delle specie attraverso il gioco di forze selettive ereditarie e ambientali. L’idea di Darwin si ritrova in RATZEL, studioso geografico tedesco, che inquadra la geografia in chiave evoluzionistica, per cui l’ambiente naturale risulterebbe decisivo rispetto a caratteri, comportamenti e azioni dell’uomo (determinismo ambientale). Alla fine dell’800, alcuni geografi di formazione storica, come VIDAL e BRUHNES, sostennero un ridimensionamento dell’influenza ambientale sull’uomo. FEBVRE suggerì il possibilismo geografico, con il quale sosteneva che le scelte dell’uomo non sono determinate in modo assoluto dalla natura. L’uomo infatti ha molte possibilità tra cui scegliere e non una già determinata dall’ambiente. Per rispondere agli stimoli ambiental i perciò l’uomo si trova davanti a una serie di scelte che lo porta a modificare la superficie terrestre, anche attraverso tecnologie avanzate. 4. I nuovi indirizzi Dopo la seconda guerra mondiale ci furono molti cambiamenti sociali e politici e anche la geografia ne risentì, andando a ric ercare nuove chiavi e metodologie per interpretare i cambiamenti in atto. Si diffonde così una nuova geografia, grazie allo sviluppo di modelli, schemi e formule tratti dalle scienze dure, che diventano sempre più estesi da far parlare di rivoluzione quantitativa. Questo approccio usa il ragionamento deduttivo e circoscrive i fatti geografici entro una misurazione espressa in termini quantitativi, ricercando delle leggi generali per regolare i meccanismi naturali, sociali ed economici. In questo contesto avanza anche il processo di legittimazione scientifica della geografia , avviata già durante il determinismo ambientale. Il trattamento matematico dei dati ha dato un contributo importante, introducendo le tecniche di rilevazione e il calcolo statis tico, con risultati positivo in molti settori, anche in chiave interdisciplinare. Negli ultimi anni del ‘900 si è imposta la questione ambientale, a causa anche delle gravi forme di inquinamento. Le tante sollecitazioni hanno influenzato anche la ricerca geografica, che ha avviato studi sugli ecosistemi e sul cambiamento globale. Si forma un indirizzo ecologista della geografia che si collega al paradigma dello sviluppo sostenibile, il quale ha avuto ufficializzazione durante il Summit della Terra nel 1992. In questo periodo nascono altri filoni di ricerca: la geografia della percezione, del comportamento e quella umanistica, la quale considera fondamentali le esperienze soggettive. La geografia della percezione, per interpretare il rapporto tra società e ambiente, pone l’attenzione sullo spazio vissuto, arricchito da elementi psicolo gici e sulla visione dei fruitori del territorio, con le loro passioni, impulsi ecc. La geografia della mente invece, cerca di analizzare l’ambiente attraverso l’arte, come con le parole di uno scrittore o il dipinto di un pittore. I saperi geografici sono arricchiti dall’influsso della matematica, ma anche della filosofia, psicologia e arte, discipline molto attente ai problemi ambientali, prodotti dall’interazione tra società e natura. Problemi così profondi, soprattutto nelle aree più industrializzate, da minac ciare il funzionamento della Terra, che per molti è considerata un serbatoio di risorse e materie prime, invece che un sistema da cui dipende l’umanità. Questa situazione è all’origine della recente affermazione dell’idea di Antropocene (periodo che parte dal la rivoluzione industriale fino ad oggi, in cui l’ambiente è fortemente condizionato dall’azione umana) che, anche se partita da motivazioni geologiche, viene analizzata anche da altre discipline, come quelle sociali. L’analisi viene condotta per esaminare le proiezioni delle attività umane sull’ambiente fisico, per rivisitare i processi di antropizzazione del Pianeta e per valutare i problemi generati dai bisogni sociali emergenti. Per stimolare nella ricerca un impegno civile, orientato al bene comune, è necessario quindi s tudiare gli impatti, spesso violenti, che l’azione umana produce sulla natura, ma anche sulla disparità di risorse. La comunità scientifica ha avviato dibattiti su questi temi, aperti anche al pubblico, per giungere alla legittimazione sociale della geografia (PUBLIC GEOGRAPHY) che la qualifichi come inclusiva, sensibile e critica, in grado di offrire contributi alle politiche della sostenibilità. CAP. 2 – TEMPO E SPAZIO: MISURE E RAPPRESENTAZIONI 1 . Tempo e spazio Ogni esperienza si svolge nel tempo e nello spazio, due categorie collegate nei concetti geografici di MOBILITÀ e di VELOCITÀ, che si calcola in base allo spostamento (rapporto tra il tragitto effettuato e il tempo impiegato a percorrerlo), misurato attraverso la relazione tra una lunghezza e un tempo. Il movimento e le trasformazioni lente o veloci hanno sempre fatto parte della storia dell’umanità; il mondo attuale, ad esempio, non si può comprendere senza analizzare tutti i movimenti, che portano tanti benefici, ma anche molti rischi sociali e ambientali per un eccesso di mobilità. Lo spazio antropico perciò è esito e testimonianza della storia delle società che nel tempo lo hanno vissuto. La geografia, per leggere e interpretare i fenomeni, non può soltanto analizzare il presente, ma deve esaminare il passato po iché l’ambiente plasmato nel passato influenza il presente e le azioni del presente influenzeranno il futuro. Per fare un’analisi completa dell’ambiente quindi, la geografia deve integrare le tre dimensioni temporali. La geografia perciò non è immutabile e statica, ma è considerata una disciplina cronospaziale, che ricerca le motivazioni dei fenomeni antropici, valuta l’organizzazione del territorio e gli interventi che lo modificano. Oggi, grazie alla rete informatica globale, ci sono state profonde trasformazioni nella mobilità. Le distanze sono quasi scomparse e tutte le persone possono compiere azioni, comunicare e soddisfare i loro bisogni in un tempo molto rapido e senza spostamento. 2. La Terra: forme e dimensioni Lo spazio quotidiano è il più coinvolgente, ma già in tempi lontani gli uomini esprimevano curiosit à su spazi lontani (Terra, Sole, sfera celeste). Oggi, grazie alle tecniche di misurazione e alle immagini dei satelliti si sa quale sia la configurazione della Terra; anche in passato alcuni geografi hanno fatto scoperte sorprendenti: i filosofi greci avevano già ipotizzato la rotondità della Terra e nel mondo greco-romano ci furono i primi tentativi di calcolo ed Eratostene misurò, quasi con precisione, la lunghezza della circonferenza terrestre. Oggi si fa che la Terra non è una semplice sfera ma, per lo schiacciamento ai poli, uno sferoide, un ellissoide di rotazione ottenuto ruotando un’ellisse intorno al suo asse minore, coincidente con l’asse terrestre. Lo sferoide che descrive la figura della terra è chiamato ellissoide internazionale. Questo sferoide è simile a un altro ellissoide che è determinato però anche dalla distribuzione delle masse nella superficie terrest re. Questo è chiamato geoide e la superficie è perpendicolare in ogni suo punto alla direzione della forza di gravità e corrisponde al livello marino medio (come se la superficie terrestre fosse ricoperta dalle acque). La superficie della Terra è regolare e il suo raggio misura circa 6400 km. 3. Meridiani e paralleli La posizione dei punti sulla superficie terrestre è determinata da un sistema di linee di riferimento, costruite attraverso il movimento di rotazione dell’ellissoide terrestre intorno al suo asse minore, i cui estremi corrispondono al Polo nord e al Polo sud. Il piano perpendicolare all’asse tra i due poli (passante per il centro della Terra ed equidistante dai poli) s’incontra sulla superficie terrestre lungo la sua circonferenz a massima, ossia l’Equatore, che divide la Terra in due emisferi: boreale (nord) e australe (sud). 5 10. Atlanti e classificazione delle carte geografiche L’ATLANTE è una raccolta sistematica e organica di carte geografiche, a scala media o piccola, usate per lo studio. Il primo atlante mo derno è stato il “Theatrum Orbis Terrarum” (1570). Ci sono tanti tipi di atlante, in base alla carte geografiche che contengono: Carte generali: possono essere fisiche (prevalgono gli aspetti naturali del territorio, come morfologia, idrografia ecc.), politiche (prevalgono gli aspetti antropici, come insediamenti, comunicazioni ecc.) e fisico-politiche (rappresentano entrambi gli aspetti) Carte speciali: realizzate per obiettivi specifici e usate per vari impieghi (es. carte nautiche o aeronautiche) o per sapere lìetà o la na tura di elementi naturali (carte geologiche) Carte tematiche: dedicate a un fatto o un tema specifico (es. geomorfologiche, climatiche, linguistiche, etnologiche ecc.), che può essere tra ttato con diverse modalità Gli atlanti, di solito, adottano tutti lo stesso criterio: all’inizio si collocano i planisferi, poi le carte del proprio Paese e di quelle dello stesso continente e solo dopo quelle degli altri Stati e continenti. Negli atlanti inoltre è inserito un indice toponomastico che elenca, in ordine alfabetico, tutti i nomi geografici riportati sulle carte geografiche. 11. Il telerilevamento e i Sistemi Informativi Geografici La cartografia si è sviluppata ultimamente grazie al contributo delle geotecnologie, all’informatica e al telerilevamento (rilevamento a distanza). Sono molto importanti i satelliti artificiali, dotati di attrezzature che captano e memorizzano impulsi magnetici e forniscono dallo spazio le immagini della Terra: la prima risale agli anni ’50, grazie ai programmi Mercury e Gemini; ultimamente è stato avviato il progetto Landsat, nato dalla collaborazione tra NASA e USGS, avviato con il primo lancio nel 1972. I dati, per essere analizzati, sono memorizzati sotto forma di fotografia e di numeri su nastri magnetici leggibili dai calcolatori elettronici: un esempio sono le immagini a falsi colori, che distinguono con colori diversi i diversi elementi del suolo (aree urbane, vegetazione ecc). Il telerilevamento è quindi molto importante per la gestione razionale delle risorse ambientali del Pianeta . Tra carta geografica e foto aerea ci sono analogie, ma anche molte differenze: una di queste è la selettività degli elementi raffigurati. La carta geografica infatti raffigura soprattutto territori in base ai temi utili al lettore, mentre la foto aerea registra tutto ciò che è presente in un dato luogo e momento. Inoltre entrambe le tipologie forniscono molte informazioni, poiché con la fotografia si possono notare molti dettagl i di un dato territorio, ma anche la carta geografica offre molte indicazioni, fisiche e culturali, grazie ai simboli. Le immagini dallo spazio sono poi utili per notare tutti i cambiamenti stagionali della morfologia e le trasformazioni antropiche di un territorio. Per questa finalità, sono molto utilizzati i visualizzatori di immagini dall’alto (da satellite o da aereo), come Google Earth e Google Maps che, come dei mappamondi virtuali, possono cambiare rapidamente scala e quindi permettere di visualizzare o meno i dettagli di un territorio. Anche i GIS (Sistemi Informativi Geografici), grazie all’innovazione, possono organizzare geo-database per realizzare cartografia digitale ed elaborati tridimensionali attraverso la dimensione temporale. 12. I limiti della carta geografica La carta geografica è una rappresentazione della realtà, perciò ha dei limiti sia tecnici che culturali. Tra i limiti tecnici troviamo la superficie curva della Terra che, nel momento della rappresentazione bidimensionale, verrà deformata, soprattutto nelle carte a piccola scala. Un altro limite è la violazione del principio di riduzione, per cui gli oggetti non sono riportati esattamente in proporzione alle misure reali (soprattutto oggetti molto piccoli posson o essere ingranditi per consentire una migliore leggibilità). Anche la forma degli oggetti può variare in base alla scala. Un limite culturale è invece il fatto che la carta rimanda all’ambiente culturale che l’ha prodotta, con le sue norme e valori: ad esempio la centratura sull’Europa nella tradizione occidentale e quella sull’estremo oriente in quella cinese. Un altro limite culturale è la distinzione tra carta simbolica e carta iconica, utilizzata soprattutto nell’antichità. Nella carta simbolica ci sono i simboli a rappresentare gli elementi di un territorio (es. il pallino per la città), che quindi si serve di categorie standard, mentre la carta iconica utilizza icone che rappresentano fedelmente gli elementi del t erritorio (es. immagine di una determinata città per rappresentare quella città). Si possono notare due atteggiamenti scientifici diversi, due interpretazioni diverse del rapporto tra uomo e natura: nella carta iconica l’uomo deve contemplare l’immagine e analizzarne tutti i dettagli per comprendere la natura, mentre nella carta simbolica l’uomo si affida alla scienza, con i suoi simboli e modelli, per comprenderla. Ormai infatti si usano soltanto carte simboliche, che il senso comune percepisce come fedeli alla realtà, grazie alle convenzioni sociali e alla conoscenza condivisa (si sa che la città è rappresentata da un pallino, è una convenzione). CAP. 3 - LITOSFERA: LE FONDAMENTA DELL’ABITARE 1. I tempi della Terra Tutte le scienze della Terra e quelle biologiche interagiscono tra loro per poter comprendere le relazioni tra il Pianeta e le società che lo abitano. La GEOLOGIA ha l’obiettivo di ricostruire la storia della Terra, iniziata quattro miliardi e mezzo di anni fa. I geologi suddividono ques to tempo in 4 archi temporali, chiamati eòni: i primi tre (che formano l’85% della storia del Pianeta) sono Azoico, Archeozoico e Proterozoico, mentre l’ultimo (il più breve), caratterizzato dalla manifestazione della vita, è chiamato Fanerozoico. Quest’ultimo è suddiviso, nella scala dei tempi geologici, in 3 ere, ciascuna articolata in più periodi ed epoche, a loro volta ripartite in più età (le più brevi unità del tempo geologico). Le tre ere geologiche sono: Paleozoica, Mesozoica e Cenozoica; il periodo finale di quest’ultima (fino a oggi) è il Quaternario, mentre l’ultima epoca del Quaternario è l’Olocene, associato all’inizio della fase del riscaldamento climatico, caratterizzato dalla scomparsa delle calotte glaciali e dall’innalzamento del livello marino. Oggi l’umanità vive nell’Olocene, più precisamente nell’età Megalaiana. Per alcuni studiosi, stiamo invece vivendo nell’Antropocene (nuova epoca, successiva all’Olocene), caratterizzata dall’alterazione dell’ambiente per l’impatto dell’uomo . Tuttavia, questa epoca ancora non è stata inserita nella Carta Cronostratigrafica e non si ha nemmeno una data di inizio: alcuni ne vedono l’origine nella Rivoluzione industriale del Settecento, altri a metà del XX secolo. 2. Formazione e struttura delle rocce La storia geologica della Terra ha assunto un rilievo geografico perché spiega alcuni risvolti economici derivanti dal rapporto tra età delle rocce e risorse minerarie. Le rocce più antiche infatti, soprattutto risalenti all’era Paleozoica, contengono molti minerali e metalli preziosi, a differenza di quelle più giovani. In Italia ci sono pochi giacimenti minerari: i più importanti si trovano in Toscana e in Sardegna. Nella produzione di gas naturale (mentano) invece, sono importanti i giacimenti della Pianura Padana e quelli dell’Adriat ico. Le rocce della crosta terrestre si formano attraverso 3 processi, che costituiscono il CICLO LITOGENETICO: magmatico, sedimentario e metamorfico. 6 Le rocce magmatiche (o ignee) si formano in seguito al raffreddamento e al consolidamento del magma; sono di due tipi: intrusive, se il raffreddamento avviene all’interno e molto lentamente, con una cristallizzazione completa del magma (es. granito) o effusive, se il raffreddamento avviene all’esterno, a contatto con l’ambiente esterno, in modo rapido, ma senza una completa cristallizzazione (es. basalto). Le rocce sedimentarie invece si formano in seguito alle trasformazioni, in tempi lunghissimi, che avvengono nella superficie ter restre o nei fondi marini, grazie all’interazione con l’idrosfera, la biosfera e l’atmosfera; per questo sono molto eterogenee. Si dividono in 3 gruppi: clastiche, derivate da rocce preesistenti disgregate, prodotte dal deposito e dall’accumulo di detriti e frammenti di varie dimensioni, poi compattati dalle pressioni dell’ambiente (es. argille); organogene, prodotte dall’accumulo e cementazione di materiali derivati da organismi viventi (conchiglie, scheletri ecc.) o da questi generati (scogliere coralline); chimiche, formati da fenomeni di origine chimica (es. gesso, calcare ecc.). Le rocce metamorfiche derivano invece da altre rocce che vengono spinte, per i movimenti interni della Terra, all’interno della crosta terrestre e si trasformano per le alte temperature e pressioni. Possono avvenire attraverso due tipi di metamorfismo: di contatto, quando le rocce vengono a contatto con materiale magmatico incandescente, e regionale, quando i movimenti terrestri fanno affondare le rocce all’interno della crosta e quindi vengono sottoposte ad alte temperature. Molte rocce, per le loro qualità (resistenza, estetica, duttilità), sono state utilizzate fin dall’antichità come materiale edilizio, ad esempio il tufo (ignea) e il travertino (sedimentaria) sono state molto utilizzate nelle costruzioni romane. 3.Struttura interna della Terra e tettonica delle placche Grazie allo studio delle onde sismiche dei grandi terremoti, è possibile conoscere la composizione interna della Terra, forma ta da involucri concentrici. Il centro del Pianeta è formato da un nucleo interno solido, a cui segue uno esterno fluido, formato da ferro, nichel e altri elementi; l’involucro successivo è chiamato mantello, è solido e formato da composti di ossigeno con silicio, magnesio e ferro. Lo strato più esterno è la crosta terrestre, che ricompre completamente la superficie e ha uno spessore dai 5 km a un massimo di 70 km in corrispondenza delle catene montuose. La crosta terrestre e la parte più esterna e solida del mantello formano la litosfera che, a differenza dell’atmosfera e dell’idrosfera, è prevalentemente immobile. Per questo motivo, la teoria della deriva dei continenti del geologo Wegener a inizio ‘900, secondo cui 200 milioni di anni fa, da un unico grande continente ( Pangea) , circondato da un unico oceano (Pantalassa), si formarono i continenti, attraverso la mobilità e il frazionamento delle masse terrestri, non fu accolta inizialmente dai geologi del tempo. Solo negli anni ’60, grazie alle nuove tecnologie, si sono potute spiegare le cause della deriva dei continenti, la distribuzione dei terremoti e dei vulcani e la formazione delle catene montuose, attraverso la teoria della “tettonica delle placche”, o “tettonica globale”. La tettonica è infatti il settore della geologia che studia la struttura e le deformazioni della crosta terrestre. Sotto la litosfera, la parte della superficie in movimento, c’è, all’interno del mantello, l’astenosfera e una zona meno rigida in cui avviene la fusione parziale del mantello e la formazione del magma. Nell’astenosfera si formano correnti convettive che, per la disomogeneità termica, ascendono dalle zone interne più calde a quelle esterne più fredde e viceversa: così si formano delle forze da cui nascono i movimenti delle placche litosferiche sovrastanti. Le correnti ascensionali spingono poi verso l’alto il materiale caldo, ma solido che, vicino alla superficie, per la minore pressione, fonde in parte e produce magma, il quale trabocca in corrispondenza delle dorsali oceaniche, formando margini costruttivi o divergenti. In queste zone si crea una nuova crosta terrestre, a causa del magma che raffredda e si solidifica. Le placche sono molto ampie (eurasiatica, africana, pacifica, nordamericana ecc.); l’Islanda è una dei pochi che fa parte di due placche distinte (nordamericana ed eurasiatica). Le placche della litosfera sono in continuo movimento: si scontrano, si spingono, s’incuneano l’una sull’altra, con una velocità da uno a venti centimetri l’anno. In alcune aree, per lo scontro di due placche convergenti (zona di subduzione), una delle placche può sprofondare, creando le fosse oceaniche (es. fossa delle Marianne), che formano i margini convergenti o distruttivi, perché lo scontro forma una forte pressione che deforma la litosfera, aumentando anche l’attività sismica. Due placche che si scontrano possono anche creare catene montuose (orogenesi), mentre la placca che va in subduzione torna a far parte del mantello. I margini non avviene costruzione né distruzione della litosfera sono detti conservativi o trascorrenti, perché lungo i bordi di tangenza delle placche avviene un movimento di scorrimento in direzione opposta o nella stessa direzione , a diverse velocità. Queste zone possono accumulare così tanta pressione che l’energia, con il tempo, può superare il limite di resistenza delle rocce, provocando i terremoti. 4. Le morfostrutture I movimenti delle placche originano le forze endogene (interne) che producono dislivelli, soprattutto in elevazione (es. orogenesi, dorsali oceaniche, fosse) e la presenza di vulcani e la sismicità; inoltre producono le forze esogene (esterne), attivate da fenomeni legate all’atmosfera, idrosfera e biosfera che, con agenti come acqua, vento e ghiaccio, tendono a eliminare i dislivelli creati, poiché questi agenti alterano le rocce e le ren dono facilmente attaccabili. Le MORFOSTRUTTURE (insieme delle forme dovute all’azione combinata delle forze endogene ed esogene) si dividono in 3 categorie di forme: convesse, concave e piane. CONVESSE: rappresentate dalle catene montuose, denominate in diversi modi, a seconda dell’altitudine, ma anche della latitudine (montagna, collina ecc). Per descrivere queste forme ci sono vari termini: vetta (il punto più elevato), versante (ogni lato inclinato) e passo (parte più bassa usata per l’attraversamento) CONCAVE: rappresentate dalle fosse tettoniche (la più famosa è la Great Rift Valley), che dipendono da cause tettoniche, e da valli fluviali e glaciali, che dipendono da agenti esogeni. PIANE: (o poco ondulate) possono essere di varia origine e altitudine; sono rappresentate dal bassopiano e dall’altopiano,il quale può essere assolutamente pianeggiante (tavolato) o circondato da catene montuose (acrocoro) Nella crosta terrestre avviene il ciclo d’erosione, quando una grande massa di litosfera si solleva e gli agenti esogeni iniziano ad alterare e t rasportare rocce, dando origine a diverse forme, le quali mutano nel tempo. Il ciclo di erosione è formato da 3 stadi: giovinezza, maturità e vecchiaia. Questo processo morfogenetico finisce con una situazione quasi pianeggiante (stadio finale) che però è soggetto a nuova mutazione per l’attiv ità delle forze endogene (nuovo sollevamento della litosfera) o per i forti cambiamenti climatici (es. diminuzione delle temperature che fanno aumentare la massa delle calotte glaciali e abbassare il livello del mare). In questo stadio finale si verifica un processo di ringiovanimento, che crea un nuovo ciclo d’erosione. Le forme dei rilievi e i processi di modellamento della crosta terrestre sono studiati dalla geomorfologia, scienza che si collega alla geologia, idrografia, climatologia e alla geografia. Le società, infatti, nella vita quotidiana, si devono confrontare con la varietà di forme naturali del terreno; inoltre anche la pervasività dell’azione antropica è così forte da alterare i processi morfogenetici della superficie terrestre. 7 5. Il vulcanismo: caratteri generali La tettonica delle placche dà origine, tra le attività endogene, al vulcanismo, di vari tipi perché caratterizzati da diversi fattori (inizio, materiali, tipi di eruzione ecc). il VULCANISMO consiste nella fuoriuscita di magmi (materiali rocciosi allo stato fuso e ricchi di gas). Il processo inizia nella parte superficiale del mantello, per cause fisico-chimiche, dove il magma si accumula in camere magmatiche; a causa poi della tettonica e di altri fattori (viscosità, volume, profondità, temperatura dei magmi), i magmi risalgono lungo delle fratture, originando i condotti o camini vulcanici che terminano con una o più aperture (cratere centrale e crateri laterali). I vulcani (o edifici vulcanici) sono formati da: vulcani centrali (si sviluppano nell’apertura a cratere) e vulcani lineari o fissurali (si sviluppano lungo profonde fessure della crosta terrestre). In base alla loro attività, i vulcani possono essere di 2 tipi: vulcani a scudo (di forma appiattita, poiché la lava è molto fluida e c’è scarsa attività esplosiva, che non fa accumulare magma) e vulcani-strato (i tipici vulcani, formati da strati di lava sovrapposti, conseguenti alle molte attività esplosive). Durante la risalita il magma può perdere i gas contenuti e fuoriuscire sotto forma di lava, producendo un’attività effusiva, mentre se il magma non perde i suoi gas, si ha una forte pressione che provoca un’esplosione del vapore dando luogo a un’eruzione violenta, producendo un’attività esplosiva. In quest’ultima, i materiali emessi sono: polveri sottili, lapilli, ceneri e blocchi; le sostanze più fini, trasportate dal vent o, possono cadere al suolo a distanza di kilometri o rimanere in sospensione nell’atmosfera. I pezzi di magma allo stato liquido invece possono assumere forma affusol ata e diventare bombe vulcaniche. Quindi, durante le eruzioni esplosive la colonna di gas e altri materiali può risalire nell’atmosfera oppure collassare e formare, ai fianchi del vulcano, i flussi piroclastici (colate di miscele di gas e ceneri ad alte temperature) che sono molto pericolose per gli esseri viventi. Se al materiale solido dei flussi si aggiungono grandi quantitativi d’acqua (per la presenza di un lago craterico, per la fusione improvvisa di neve e ghiacc io o per violenti nubifragi), si formano le colate di fango; questo materiale, pieno d’acqua, inizia a scorrere lungo i fianchi del vulcano, distruggendo tutto quello che incontra. Ci sono diversi tipi di eruzione: Hawaiane: eruzioni effusive, con lave fluide povere di gas che scorrono velocemente Islandesi: come le hawaiane, ma le lave fuoriescono da lunghe fessure e non dai crateri Stromboliane: la lava è viscosa e piccole esplosioni (di frammenti di lava, lapilli e ceneri) si alternano a colate di lava ed esplosion i più violente, con lancio di bombe e blocchi e ricaduta di materiale piroclastico Vulcaniane: molto esplosive con lava viscosa, che forma un tappo solido che intrappola i gas Pliniane: eruzioni molto esplosive, con emissione di grandi quantità di ceneri e formazione di flussi piroclastici; il cratere principale e la parte alta dell’edificio può collassare e formare un’ampia depressione (detta caldera), in cui può formarsi un nuovo cono Peléeane: magmi molto viscosi che solidificano nel camino ostruendolo; durante l’eruzione i magmi diventano semisolidi con molta emissione di gas e vapori ad alta temperatura (detti nubi ardenti), che scorrono veloci lungo i fianchi dell’edificio, provocando danni In base allo stato di attività i vulcani sono: attivi (es. Vesuvio, Etna, Stromboli, Vulcano, Campi Flegrei), estinti o spenti, se l’ultima eruzione risale a più di 10000 anni fa (es. Colli Euganei, Amiata) e quiescenti, se sono da molto tempo in fase di riposo, anche se hanno eruttato negli ultimi 10000 anni (es. Colli Albani). Nell’area dei Campi Flegrei, a volte compaiono lenti movimenti in verticale, verso il basso e verso l’alto, detti bradisismi, prodotti da una massa magmatica a qualche km di profondità. Il fenomeno vulcanico è collegato al movimento delle placche, perciò spesso seguono una distribuzione in allineamenti, come allineamenti lungo le dorsali oceaniche (sono i fenomeni più estesi, che contribuiscono alla creazione di nuova crosta terrestre), a llineamenti lungo i margini continentali (vicini alle fosse abissali o alle catene di isole, con grandi vulcani, la metà dei quali si trovano nell’Oceano Pacifico per formare la Cintura di fuoco). Solo una piccola parte di edifici vulcanici sono sparsi e non seguono un allineamento. Oltre alle eruzioni, ci sono fenomeni di vulcanismo secondario, come le fumarole e le solfatare (sorgenti di acqua calda e vapore misti a gas ricchi di zolfo), i soffioni (sorgenti di vapore d’acqua caldissimo e a forte pressione) e i geyser (emissioni d’acqua calda zampillante a intermittenza). 6. Risorse e rischi dei vulcani I vulcani, oltre alla pericolosità, offrono anche molte opportunità e risorse. Attraggono il turismo, sia per osservare l’edificio vulcanico e i fenomeni del vulcanismo secondario, sia per le opportunità che offre, come le acque termali per la cura di molte malattie (es. Saturnia). Possono anche essere usati nel settore energetico, sfruttando il naturale calore interno della Terra per produrre energia elettrica (geotermia), un’energia pulita e rinnovabile, nel settore edilizio, sfruttando le risorse ricavabili dalle estrazioni di minerali (es. tufo) e nell’agricoltura, poiché i suoli ricchi di materiali dovuti alla disgregazione di rocce vulcaniche, fanno diventare fertile il terreno. I vulcani sono però anche molto pericolosi, soprattutto, come in Italia, se i fianchi sono molto popolati. Grazie a osservato ri situati nelle vicinanze dei vulcani, si possono controllare alcuni fenomeni e predisporre piani di evacuazione della popolazione, anche se non è possibile prevedere il momento e le modalità di eruzione. Tra le eruzioni più disastrose c’è quella del vulcano Tambora in Indonesia, che provocò la morte di 90000 persone a causa dei flussi piroclastici, delle onde dello tsunami, dei gas sulfurei e delle carestie ed epidemie conseguenti; inoltre mutarono anche le condizioni meteorologiche per la salita delle ceneri più fini nell’atmosfera e l’altezza del vulcano, che si abbassò di più di 1000 metri, a causa dello sprofondamento della parte alta dell’edificio vulcanico. 7. I terremoti e il rischio sismico Il TERREMOTO (o sisma) è uno scuotimento del terreno prodotto da onde sismiche che si propagano dall’ipocentro (sito interno della Terra profondo da pochi km a circa 700) all’epicentro (zona della superficie che si trova in verticale in corrispondenza dell’ipocentro, in cui si verif icano le maggiori conseguenze). Le oscillazioni si susseguono per un periodo variabile da pochi secondi a qualche minuto; solo alcune scosse però sono avvertite dall’uomo, mentre la maggior parte è talmente debole da essere registrata solo dai sismografi. I terremoti sono causati dalla liberazione di energia meccanica quando le pressioni, alle quali sono sottoposte le masse rocciose per i movimenti delle placche, oltrepassano la soglia critica, tanto da deformare e poi provocare fratture con spostamenti dei margini. Quando si l ibera l’energia, ci sono vari tipi di onde sismiche che si propagano con differenti velocità: dall’ipocentro raggiungono la superficie generando onde superficiali che s i indeboliscono con l’allontanarsi dall’epicentro. 10 3. Fattori del tempo e del clima Le condizioni del tempo e la distribuzione dei climi sulla Terra dipendono da alcuni fattori: LATITUDINE: influisce sia per la quantità annua di radiazione, sia per la differente inclinazione dei raggi del Sole che colpiscono la Terra: pochi nelle zone polari a mezzogiorno, quando alla stessa ora sono perpendicolari (zenit) nella fascia intertropicale ALTITUDINE: l’atmosfera riceve il calore dalla superficie terrestre gli strati più bassi della troposfera, più densi e ricchi di vapore acqueo e pulviscolo, assorbono meglio la radiazione terrestre DISTRIBUZIONE DELLE TERRE E DEI MARI: influisce sia sull’umidità, sia sulla temperatura, molto influenzata dalle masse continentali e oceaniche. Le masse continentali assorbono il calore in breve tempo, ma lo rilasciano più rapidamente, mentre le masse oceaniche si riscal dano lentamente ma più in profondità (per la trasparenza e il rimescolamento delle acque), e rilasciano anche il calore più lentamente. CORRENTI: sono spostamenti lenti di masse d’acqua per i venti, le differenze fisico-chimiche delle acque e gli effetti della rotazione terrestre. le correnti, calde e fredde, sono importanti per l’equilibrio termico, in quanto trasportano il caldo dalle basse alle alte latitudini e i l freddo in senso contrario: ad esempio la “corrente del Golfo” che porta acqua calda dall’area tropicale all’Atlantico settentrionale ESPOSIZIONE: rispetto ai punti cardinali, influisce su temperatura, ventilazione e luce, soprattutto in montagna, dove i versanti posson o ricevere maggiore o minore radiazione solare o più o meno protezione dai venti VEGETAZIONE: soprattutto le aree boschive consistenti, producono un’azione mitigatrice grazie al vapore acqueo prodotto e al fogliame e ai rami che si frappongono ai raggi solari. 4. I tipi di clima Per la molteplicità degli elementi, è difficile classificare i climi. Un metodo di classificazione è stato proposto agli inizi del ‘900 dal geografo Koppen, che ha suddiviso i climi in 5 classi climatiche contrassegnate da lettere maiuscole, che procedono dall’Equatore ai poli: TIPI A (MEGATERMICI o TROPICALI UMIDI): collocati tra i tropici, con una temperatura media mensile non inferiore ai 18°C e con una grande quantità di precipitazioni durante l’anno. Tra questi si ha il clima equatoriale (o pluviale), con una temperatura elevata tutto l’anno e con piovosità abbondante tutto l’anno, che favorisce lo sviluppo della vegetazione della foresta pluviale (clima sviluppato in Congo, Rio delle Amazzoni e G olfo di Guinea). Un altro tipo di clima è il monsonico, con molte precipitazioni non uniformi, caratterizzato dai monsoni, ossia venti periodici dell’Oceano Indiano, che portano molte piogge. C’è anche il clima della savana, o tropicale con inverno secco, (clima dell’Africa e dell’America Latina), con minori precipitazioni; qui l’alternanza delle stagioni è scandita non dalla temperatura ma dalla piovosità (stagione umida e stagione secca). TIPI B (ARIDI): caratterizzati da poca vegetazione, da precipitazioni rare e da una forte escursione termica. Si dividono in climi desertici e predesertici. Nei climi desertici l’evaporazione è maggiore delle piogge, perciò non si trovano molti fiumi; soltanto durante le piogge brevi ma intense, l’acq ua si incanala in solchi molto ampi che, se riaffiora in superficie, forma le oasi, ricche di vegetazione e sedi di insediamenti. Se questo clima si trova a medie latitudini, si ha un inverno freddo (es. clima della Patagonia). I climi semiaridi o predesertici hanno un maggior apporto idrico, ma comunque insufficiente per la vegetazione (steppa asciutta), sia per l’elevata evaporazione sia per i lunghi periodi secchi. TIPI C (MESOTERMICI TEMPERATI): le stagioni sono ben distinte. Ci sono 3 tipi di clima: clima mediterraneo, con inverni miti e poche piogge durante l’estate (tipico delle fasce mediterranee, California, Sudafrica e Australia meridionale); clima sinico, caratterizzato da maggiori precipitazioni rispetto al mediterraneo, distribuite in tutto l’anno, senza periodi di siccità (tipici della Cina orientale, Giappone, USA); clima temperato fresco, con inverni miti e precipitazioni distribuite in tutto l’anno (Europa occidentale e Nord America) TIPI D (MICROTERMICI FREDDI): caratterizzati da inverni lunghi e gelidi (media di -3°C) ed estate calda (media di 10°C), con molte precipitazioni. C’è una forte escursione termica. Ci sono due tipi di clima: freddo umido, con un’estate calda, e freddo con inverno asciutto (tipico della Russia e della Cina settentrionale) TIPI E (NIVALI): sono climi senza estate, con molto freddo, poiché il Sole, anche in estate, non scalda molto per l’obliquità dei raggi e i l potere riflettente dei ghiacci. Le precipitazioni sono scarse e spesso nevose e l’escursione termica è minima. Ci sono due tipi di clima: tundra (con muschi e licheni) e del gelo perenne (caratterizzato da calotte glaciali). Esistono anche i CLIMI MONTANI, in cui la temperatura, al contrario dei nivali, varia durante il giorno e c’è una forte escursione termica. L’esposizione dei versanti, per cui il sole è più o meno presente durante il giorno, influenza il clima. L’Italia è formata da una varietà di climi, a causa della varietà di elementi: la latitudine (diversifica la temperatura da nord a sud), l’altitudine (diverso clima tra le aree di pianura e i rilievi), la vicinanza al mare (differenza tra la temperatura nella costa e quella delle zone interne), disposizione dei rilievi (le Alpi riparano la Pianura Padana dai venti del nord e gli Appennini dividono il clima tra il versante tirrenico, con venti umidi e piogge abbondanti, e il versante adriatico, con meno piogge). Il clima italiano sta peggiorando a causa del riscaldamento globale, che porta la circolazione intertropicale (calda e umida) verso settentrione, con rischio di ondate di siccità, ma anche di precipitazioni e alluvioni: si stanno infatti sviluppando i cicloni tropicali mediterranei. 5.Le relazioni tra società e clima Non è possibile produrre cambiamenti volontari sul tempo atmosferico, ma, artificialmente, è possibile creare condizioni più idonee permanenti o limitate nel tempo: ne è un esempio le “serre” in agricoltura, dove si possono controllare elementi climatici grazie agli impianti interni di riscaldamento e umidificazione. Molte attività devono controllare la variabilità atmosferica per proteggersi da danni provocati dal meteo , anche se spesso si hanno effetti positivi: il sole e il vento infatti consentono anche la produzione di energia rinnovabile, con impatto ambientale ridotto e senza gas serra e altri pericoli. Le relazioni tra società e clima sono influenzate dai cambiamenti dell’aria a causa delle attività antropiche. Dalla rivoluzione industriale infatti sono state immesse nell’aria moltissime particelle inquinanti che hanno provocato l’inquinamento atmosferico in tutto il mondo, dato che le particelle si diffondono nell’atmosfera anche lontano da dove sono state emesse. Le emissioni da combustioni sono le peggiori, tuttavia il carbone è ancora utilizzato per produrre energia elettrica. L’inquinamento genera lo smog (nebbia scura formata da piccolissime particelle derivanti dalla combustione, che ristagna nell’atmosfera) e le piogge acide (conseguenti all’emissione di ossidi di zolfo e azoto, che reagendo con l’acqua formano acido solforico e nitrico). A livello locale, il fenomeno dell’urbanizzazione porta all’alterazione del clima, come si può notare dal fenomeno dell’isola termica urbana, di cui un effetto è l’innalzamento della temperatura, anche d’inverno, per il calore immesso nell’aria dalle fabbriche, dal traffico, dal riscald amento domestico e dal calore trattenuto dall’asfalto. 6. La crisi climatica globale Per evitare una catastrofe globale bisogna operare su due fronti: 11 o Adattamento alle mutuate condizioni atmosferiche: il territorio deve essere reso più resistente alle situazioni meteorologiche peggiori, ma deve essere anche vissuto con più consapevolezza dai cittadini, anche attraverso una comunicazione corretta tra mondo scientifico e quello dell’informazione o Riduzione dell’anidride carbonica e di altri gas serra La crisi climatica coinvolge tutto il Pianeta e avrà effetti sempre più negativi se non si adottano misure adeguate: possiamo notare il riscaldamento globale, la siccità, le tempeste, l’acidificazione degli oceani, lo scioglimento dei ghiacciai, l’innalzamento del livello del mare ec c. Una delle cause maggiori della crisi è l’emissione dei gas serra, tra cui l’anidride carbonica. La comunità internazionale sta cercando di reagire nell’ambito della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici approvata nel 1992 alla conferenza “Summit della Terra”. L’organo decisionale è la Conferenza delle parti (COP), che si svolge annualmente. Nel 1997 è stato redatto il “protocollo di Kyoto” sulla riduzione dei gas serra, ma il primo accordo legalmente vincolante a livello mondiale è l’”Accordo di Parigi” del 2015, che punta a un aumento massimo della temperatura di 1,5°C. Questo accordo cerca di dare una risposta globale alla minaccia dei cambiamenti climatici nel contesto dello sviluppo sostenibile e degli sforzi che mirano a sradicare la povertà dei Paesi in difficoltà economica. Ciò però non sta dando gli esiti sperati, soprattutto per gli impegni non mantenuti dagli Stati. Molti leader politici si affidano alla progresso scientifico e tecnologico futuro per risolvere il problema, anche se la crisi è già molto avanti. Molti giovani oggi si stanno mobilitando con proteste. Tra le regioni più a rischio ci sono quelle polari, con lo scioglimento dei ghiacciai, che sta portando anche alla speculazione da parte di leader politici, che intendono sfruttare l’abbondanza di petrolio, gas e ricchezze minerali, più agevolmente sfruttabili grazie ai cambiamenti climatici, per arricchirsi. Molte regioni del mondo, per il rialzo delle temperature, che portano a perdere raccolti e bestiame e, quindi, alla diminuzione di cibo, non riescono a sopravvivere e sono costrette a emigrare in altri Paesi: ciò però porta a un emergenza economica e sociale. Sono soprattutto i cittadini dell’Africa sub sahariana a subire i danni maggiori, anche se non hanno contribuito al riscaldamento globale. 7. Il vento e i deserti I venti esercitano la loro energia in modo continuo e su ampi territori dando origine a una morfologia, detta eolica, infatti, con la sua azione di erosione, trasporto e deposizione, modella il terreno generando forme caratteristiche, soprattutto nelle zone con climi aridi (umidi e con poca vegetazione), tipici dei deserti. I principali deserti sono il Sahara, l’Arabico e il Gobi. Il Sahara, come altri deserti, si sta ampliando sempre di più, attraverso il processo di desertizzazione. Il vento esercita due azioni principali: o DEFLAZIONE: quando, a causa della mancata vegetazione, il vento rimuove e solleva in aria (erosione e trasporto) piccole particelle di terreno superficiale. Il processo è selettivo: le particelle più piccole (come i limi) sono alzati facilmente e trasportati lontano, mentre quelle più consistenti sono sollevate e trasportate da venti forti, come le tempeste di sabbia. La deflazione produce sul suolo delle conche non profonde, il cui diametro va da pochi metri a molti chilometri. o CORRASIONE: è un’azione abrasiva (di levigatura) e avviene in seguito all’urto delle particelle fra loro e sulla roccia; è più intenso vicino al suolo e meno sopra i due metri: causa fori, conche e archi naturali nella roccia. Le cavità nella roccia , anche di diversi metri, sono influenzate dalla resistenza delle rocce, dall’azione prolungata del vento e dalla sua intensità. Questo processo può originare cavità di dimensioni diverse (tafoni) c he, se assemblate tra loro, formano monumenti naturali, soprattutto nelle zone aride. Il trasporto delle particelle avviene per SOSPENSIONE (quando particelle molto piccole sono solevate dal vento e vengono trasportate anche a migliaia di kilometri; negli anni, accumulandosi, hanno formato agglomerati di colore giallastro, chiamati loess), TRASCINAMENTO (quando i granelli di sabbia, o materiali più grossolani, vengono trascinati per rotolamento sulla superficie) e SALTAZIONE (quando questi materiali grossolani sono sollevati per un piccolo tragitto e poi ricadono al suolo, compiendo piccoli salti e colpendo altri detriti che, a loro volta, si alzano). L’azione del vento dà origine ai deserti, che possono essere: rocciosi (hamada), ciottolosi (serir) e sabbiosi (erg). Il materiale trasportato dal vento forma dei depositi, come le dune, che possono essere vive (se il vento le fa cambiare forma) o fisse (se sono coperte da piante e le radici non le fa spostare). L forma delle dune vive cambia in base alle caratteristiche del vento e del materiale di cui sono formate: la parte esposta ha un pendio dolce perché il vento ci fa rotolare la sabbia che, raggiunta la cresta, cade nel lato opposto, protetto dal vento e più ripido. CAP 5 – IDROSFERA: LINFA ED ENERGIA VITALE 1. Gli stati dell’acqua e il bilancio idrogeologico L’acqua è un elemento indispensabile alla vita sulla Terra, ma oggi le attività antropiche stanno interferendo nel suo ciclo naturale, provocando inondazioni e siccità. L’IDROSFERA, grazie alla possibilità di trovarsi in tante forme e di spostarsi facilmente, si trova nella litosfera, nell’atmosfera e nella biosfera; infatti l’acqua, variando il suo stato fisico, evapora dagli oceani e si immette nell’aria per almeno una decina di giorni e poi torna sulla superficie terrestre allo stato liquido (pioggia) o solido (neve e grandine). Il 96% di acqua sul Pianeta è salata ( idrosfera marina), il 4% è dolce e si trova sui continenti in forma liquida o solida (idrosfera continentale). Il ciclo dell’acqua si sviluppa attraverso 4 componenti: evaporazione ed evapotraspirazione, precipitazione, infiltrazione e ruscellamento. Tutto ciò è possibile grazie all’energia del Sole, che permette gli scambi di materia ed energia tra l’atmosfera terrestre e le superfici di oceani e terre emerse. I continenti ricevono più acqua (stato solido e liquido) rispetto a quella che perdono per evaporazione, poiché il vapore acqueo, prima di cadere, viene trasportato dai venti a migliaia di km; ciò permette di avere un bilancio idrico positivo, essenziale alla vita e alle attività. L’eccedenza, usata per molti scopi, scorre in superficie o nel sottosuolo. Il deflusso può avvenire in mare, attraverso le foci dei fiumi (regioni esoreiche), oppure in laghi chiusi o aree desertiche (regioni endoreiche), come i salar, laghi salati presenti negli altopiani desertici delle Ande. A livello planetario, il bilancio idrologico è positivo, mentre in alcune zone, dette areiche, in prevalenza desertiche, non hanno un’idrografia superficiale, che si può ristabilire soltanto grazie alle rarissime precipitazioni (es. deserti del Sahara, Arabico e australiano). 2. Risorse e vulnerabilità dell’idrosfera L’idrosfera offre moltissime risorse: acqua potabile (essenziale per la vita), acque per l’irrigazione, per l’alimentazione, per l’estrazione di sali e minerali (noduli polimetallici presenti nei fondali marini), per la produzione di energia: i movimenti del mare sono fonti di energia rinnovabili, come anche l’energia idroelettrica ottenuta dai salti delle acque continentali, grazie alla realizzazione di dighe. Nei giacimenti in mare aperto inoltre, ci sono enormi quantità di 12 idrocarburi, che però sono un problema per l’ecosistema marino. L’idrosfera è inoltre importante per la navigazione marina, fluviale e lacustre e per le attività turistiche e sportive, nei mari, ma anche sulle montagne, come i ghiacciai utilizzati per lo sci. Le risorse idriche hanno favorito, fin dalla preistoria, all’insediamento in prossimità delle acque; pensiamo alle civiltà sviluppate lungo i fiumi Tigri, Eufrate, Nilo, Gange e Indo, o quelli tuttora insediati lungo le rive dei laghi, come in Myanmar (Lago Inle), dove sorgono villaggi su palafitte che vivono di pesca e agricoltura. Le fasce costiere attraggono sempre la popolazione, sia stabile, sia stagionale, per il turismo balneare. Nonostante i fattori positivi, l’incremento di anidride carbonica sta interferendo sugli equilibri degli ecosistemi marini e sta aumentando l’acidificazione degli oceani, poiché gli oceani assorbono anidride carbonica dall’atmosfera e la trasformano in acido carbonico; questo crea gravi danni alle comunità di plancton, coralli e altre creature marine. Anche le sostanze tossiche riversate in mare diventano molto dannose per gli esseri umani, poiché vengono restituite attraverso prodotti contaminati, come il pesce. Un disastro ambientale grave è il versamento in mare del petrolio, che inizialmente (avendo peso specifico minore dell’acqua) forma una patina superficiale impermeabile, che non lascia passare l’ossigeno e procura danni alla macrofauna, poi precipita in profondità e causa problemi agli organismi che si trovano sul fondo del mare. Si stima che, ogni anno, vengono dispersi in mare circa 4 milioni di tonnellate di idrocarburi. Un altro elemento che infesta i mari è la plastica, dalla cui disgregazione derivano le microplastiche secondarie (invisibili) che entrano nella catena trofica di molti organismi marini (pesci e invertebrati) che vengono poi consumati dall’uomo. 3. Caratteristiche del mare Più del 70% della superficie terrestre è occupata da acque salate. Le distese maggiori sono gli oceani (Atlantico, Pacifico e Indiano), a cui si aggiungono l’Antartico e il Mar Glaciale Artico, nei quali sono comprese le banchise, ossia grandi lastre di ghiaccio salato, mobili e galleggianti, che ormai sono in costante riduzione. Il mare invece è un’area racchiusa per lunghi tratti da terre emerse. La salinità si misura calcolando i grammi di sale contenuti in un kg d’acqua; la salinità media è 35g in 1kg. Tra i sali disciolti prevale il cloruro di sodio. Il grado di salinità varia da un mare all’altro e dipende da alcuni fattori: intensità di evaporazione, quantità di precipitazioni, disgelo dei ghiacciai e apporto di acque dolci dei fiumi; per questo nei mari tropicali la salinità è maggiore rispetto ai mari freddi. Le variazioni di salinit à sono rappresentate dalle isoaline, linee che uniscono tutti i punti con uguale valore di salinità. Un altro elemento importante per la vita marina è l’ossigeno, presente, in soluzione, nello strato superficiale dell’acqua, sia per l’interazione tra idrosfera e atmosfera, sia per l’attività delle piante che producono ossigeno. La temperatura dell’acqua dipende dalla profondità, perché la radiazione solare agisce soprattutto sullo strato superficiale, dalla latitudine e dall’andamento stagionale, soprattutto se le differenze termiche tra estate e inverno sono marcate. Le temperature maggiori si trovano nei mari tropicali, mentre quelle più basse nei mari polari, dove spesso l’acqua del mare ghiaccia a -2°C. Gli iceberg sono blocchi di ghiaccio continentale, con la parte sommersa 8 volte più grande di quella superficiale, che si staccano dalle lingue glaciali dell’Antartide o dalle isole artiche, andando alla deriva fino a zone lontane dal luogo d’origine. Costituiscono un pericolo e un ostacolo per le navi, costrette a deviazioni, anche lunghe, per schivarli. 4. I movimenti del mare Mari e oceani sono soggetti a continui movimenti che derivano da cause interne (densità, temperatura, salinità) o esterne (forze gravitazionali, vento). Il moto più evidente sono le ONDE, provocate dalla pressione esercitata dal vento. Sono formate da una cresta e un cavo: la distanza tra cresta e fondo del cavo è l’altezza dell’onda, la distanza tra due creste successive è la lunghezza d’onda, mentre l’intervallo di tempo tra il passaggio di due creste successive nello stesso punto è il periodo. Il moto ondoso è verticale e, avvicinandosi alla costa, l’onda si deforma, variando velocità, direzione e forma. Quando la profondità del fondale è pari alla metà della lunghezza d’onda si ha la rifrazione, con un cambiamento di direzione delle onde che avanzano parallelamente alla costa: questo si vede in prossimità di promontori (che vengono erosi dalle onde rifratte che accumulano energia) e di ba ie (in cui le onde perdono energia e accumulano materiali sabbiosi). Durante la giornata, l’altezza del mare varia per la MAREA, ossia un movimento ritmico di innalzamento (flusso) e abbassamento (riflusso). Al livello massimo dell’acqua si ha l’alta marea, a quello minimo la bassa marea; la loro differenza è l’ampiezza o l’amplitudine di marea. Il fenomeno della marea è influenzato dall’attrazione gravitazionale della Luna e, in minoranza, del Sole. La Luna regola soprattutto i tempi delle maree, mentre il Sole ne modifica le ampiezze: quando l’attrazione solare si somma a quella lunare al momento della congiunzione (novilunio) o dell’opposizione (plenilunio) dei due corpi celesti, si hanno le maree sizigiali, con ampiezze molto alte, mentre quando il Sole e la Luna sono in quadratura, cioè la forza di attrazione del Sole controbilancia quella della Luna, le ampiezze hanno valori molto bassi e si hanno le maree di quadratura. Le ampiezze maggiori si verificano in golfi direttamente collegati agli oceani. Altri tipi di movimenti sono le CORRENTI MARINE, ossia spostamenti di masse d’acqua che si muovono in modo costante, poiché hanno temperatura e salinità diverse da quelle delle acque circostanti. Si formano a causa del rigonfiamento delle acque marine della fascia equa toriale, dovuto alle alte temperature che ne provocano l’espansione e il deflusso verso latitudini maggiori: ciò permette il richiamo di acque più fredde dalle zon e polari. Le correnti sono anche influenzate dall’azione dei venti e dalla rotazione terrestre, soprattutto per quanto riguarda la direzione, tanto da creare dei circuiti oceanici di masse d’acqua. Anche la conformazione dei continenti determina la direzione delle correnti, così come le differenze di temperatura e salinità tra due aree oceaniche: la corrente tende a riequilibrare le diversità. Esistono infatti correnti fredde (dalle regioni polari a latitudini minori) e calde (dall’Equat ore a latitudini maggiori), così da avere un ruolo di equilibrio termico, con uno scambio di calore tra regioni equatoriali e polari (es. corrente del Golfo). 5. Il mare e le coste Il contatto tra idrosfera e litosfera avviene soprattutto sulla costa, dove le acque modificano la superficie (attività di erosione, trasporto e deposito) grazie all’energia meccanica del moto ondoso, rafforzata anche dai detriti che si trovano nell’acqua, che vengono lasciati verso le pareti di coste alte. Il mare inoltre, sbattendo contro pareti rocciose, comprimono e decomprimono in continuazione l’aria nelle fessure, ampliandole. Oltre alle onde, la costa si modella con l’alterazione chimica e con l’azione di organismi animali e vegetali. Le coste possono essere dritte o articolate, con sporgenze rientranze (promontori e baie). La costa alta è formata da un terreno che scende al mare in modo ripido, in cui le onde, sbattendo, producono una scanalatura (solco di battigia), che può provocare il crollo della roccia. Nelle zone pianeggianti, si ha una costa bassa. I tipi di costa alta sono: la falesia (parete rocciosa a picco sul mare, che indietreggia col tempo), la ria (insenatura lunga e stretta, perpendicolare alla linea di costa), il vallone ( insenatura lunga e stretta, parallela alla linea di costa) e il fiordo (insenatura dovuta all’erosione dei ghiacciai, stretta, con coste a picco, che si addentra nell’interno). Sulle coste basse invece, il movimento delle onde forma la spiaggia. L’azione costruttiva del mare consiste nell’accumulo di detriti, come sabbie e ghiaie, che può avvenire anche a distanza dalla costa, dove si forma una sottile striscia di sabbia (cordone litoraneo), mentre l’azione erosiva (processi di rifrazione) si ha soprattutto nei luoghi sporgenti, come promontori e capi. 15 CAP. 6 – BIOSFERA: SENSIBILE SPAZIO DI RELAZIONI 1. La biosfera: sistema complesso La biosfera (o ecosfera), è l’unico habitat del Pianeta e include le altre 3 sfere, con le quali interagisce: la parte più bassa dell’atmosfera, la quasi totalità dell’idrosfera e la parte superficiale della litosfera (fino al limite inferiore delle falde acquifere). La biosfera è la massima struttura di organizzazione biologica che ha inizio dell’eòne Fanerozoico (quello della manifestazione della vita, iniziato 541 milioni di anni fa) e fa parte del geosistema. La biosfera è fortemente modificata dall’azione antropica: gli esseri umani infatti stanno distruggendo boschi e foreste a vantaggio di piante per l’alimentazione e moltiplicando alcune specie animali a scapito di altre, per soddisfare la richiesta di cibo. Il geosistema è fortemente destabilizzato dal superamento dei limiti di equilibrio e alcune regioni, soprattutto quelle povere, soffrono più di altre gli effetti della globalizzazione squilibrata. Ciò preoccupa per il futuro dell’umanità, in quanto la Terra, mutando le sue caratteristic he, sarebbe ancora vivibile per alcune specie, anche senza presenza antropica. Gli esseri umani hanno modificato il loro ambiente, anche per bisogni non primari, senza tenere conto però che ogni essere vivente, anche animali e piante, possono muoversi e modificarlo per adattarsi meglio: la mobilità è il segno distintivo della biosfera. Tra il mondo vivente e inorganico ci sono relazioni strette: ad esempio l’atmosfera ha un ruolo importante nel funzionamento della biosfera, soprattutto con l’energia fornita dal Sole che permette il mantenimento di temperature adeguate alla vita e la fotosintesi clorofilliana. La fotosintesi avviene grazie agli organismi autotrofi (piante e fitoplancton, che producono da soli sostanze per il loro sostentamento), che si nutrono di sostanze inorganiche presenti nel terreno (acqua e Sali minerali) e nell’atmosfera (anidride carbonica, che entra nelle cellule delle piante e viene assorbita dalla clorofilla): da qui (interazione tra sfere) si origina il ciclo del carbonio, parte essenziale della vita sulla Terra. Purtroppo il bilancio di questo ciclo sta peggiorando, poiché nell’atmosfera entra più anidride carbonica di quanta ne esce, a causa delle emissioni antropiche. Un altro ciclo importante è quello dell’azoto, elemento che fa parte di biomolecole fondamentali per gli organismi (proteine, acidi nucleici, amminoacidi). Soltanto le piante (produttori)riescono ad assimilare direttamente l’azoto attraverso il suolo, sotto forma di nitriti, nitrati e ammonio, mentre gli animali (eterotrofi e consumatori) lo assimilano mangiando le piante o altri animali se predatori: le piante perciò, che producono materia organica cibandosi di quella inorganica, sono la base della catena alimentare di tutti gli esseri viventi. Gli organismi eterotrofi sono anche i decompositori, cioè batteri e funghi che usano i resti di animali e piante presenti nel terreno, e poi liberano componenti inorganici fruibili dai produttori. 2. La pedosfera La pedosfera (o suolo), è il sottile strato superficiale che si trova in parte delle terre emerse. È in continua evoluzione per la combinazione degli agenti atmosferici che alterano la roccia e gli organismi viventi che trasformano i detriti, e consente lo sviluppo della vegetazion e spontanea e delle colture. Il suolo quindi è influenzato dal clima, dalla morfologia, dalla vita biologica e dai sali minerali. Il suolo è formato da una parte solida, una liquida e una gassosa. La parte solida è composta da frammenti di rocce (argilla, sabbia ecc) e da materia organica animale e vegetale, viva o decomposta (funghi, foglie, batteri ecc); a questi si aggiungono i gas presenti nell’atmosfera e i liquidi (soprattutto acqua). Insieme generano dei processi fisici e reazioni chimiche che determinano le caratteristiche di ciascun suolo, più o meno idoneo allo sviluppo delle piante. Il processo che porta alla formazione del suolo è la pedogenesi, che nasce da alcuni fattori: roccia madre (dalla cui alterazione e disgregazione deriva il materiale solido inorganico), forme del terreno, tipo di clima e organismi presenti. Il suolo varia il suo spessore (a causa dei processi di trasformazione), ed è articolato in 3 livelli , detti orizzonti: il più superficiale è ricco di humus (sostanze organiche), l’intermedio è povero di sostanze organiche, mentre il più profondo è formato da roccia che fornisce i minerali. Con il tempo, il suolo raggiunge un completo sviluppo e un equilibrio dinamico con l’ambiente ed è detto suolo maturo: per questo è fondamentale per la biodiversità e per il controllo dell’anidride carbonica nell’atmosfera. L’equilibrio, come già detto, è sconvolto per impatti antropici aggressivi, come la desertificazione, dovuta allo sfruttamento delle risorse idriche, alla deforestazione, agli incendi, all’urbanizzazione eccessiva, ecc. 3. La vegetazione naturale La VEGETAZIONE NATURALE si può classificare in base ad alcuni elementi, tra cui la fisionomia: formazioni arboree (foreste, taiga..), arbustive (brughiere..), erbacee (praterie, steppe..) e desertiche (vegetazione rada in ambienti aridi). Il clima è molto importante per le piante; per le loro differenti esigenze termiche si dividono in: megaterme (temperatura sempre sopra i 20°C), mesoterme (tra 15 e 20°C), microterme (tra 0 e 15°C) ed echistoterme (sotto gli 0°C). In base alla necessità di luce e radiazioni, necessarie per la fotosintesi, le piante si dividono in: sciafile (non hanno bisogno dell’azione diretta dei raggi) e eliofile (hanno bisogno dell’illuminazione diretta). Per la vegetazione è fondamentale il regime pluviometrico (distribuzione delle precipitazioni) e la loro intensità, infatti piogge forti sono dannose perchè erodono il suolo e rovinano le piante. È inoltre importante considerare la relazione tra temperatura e acqua (evaporazione e umidità). In questo caso le piante si dividono in: igrofile (ambienti umidi), mesofile (media umidità), xerofile (zone secche o aride) e tropofile (successione di periodi secchi e umidi). Il clima (temperatura, umidità e vento) influenza molto la distribuzione e il ciclo della vegetazione spontanea . Lo sviluppo della vegetazione dipende anche da fattori geomorfologici (es. pendenza ed esposizione dei versanti) e da fattori edafici, ossia dalla conformazione e dalle condizioni fisiche del terreno (es. presenza e qualità di humus). 4. La salvaguardia della biodiversità La biosfera deve essere protetta, soprattutto bisogna salvaguardare la BIODIVERSITÀ, risultato di miliardi di anni di evoluzione. Per questo l’UNESCO, nel 1971, ha avviato il “programma MAB”, per promuovere approcci innovativi allo sviluppo economico. Grazie a questo progetto, sono state riconosciute le “Riserve della Biosfera”, cioè aree marine e terrestri che gli Stati membri devono salvaguardare insieme alle comunità locali, per promuovere una relazione equilibrata tra comunità umane ed ecosistemi. Molto importante è stata la Conferenza delle Nazioni Unite nel 1992, che ha adottato la “Convenzione sulla diversità biologica”, allo scopo di conservare l’equilibrio che può essere disturbato da eccessive attività umane. Ogni parte della Terra è diversa, così anche i livelli di biodiversità si differenziano da regione a regione: sono massimi ne lla foresta pluviale e minimi nelle aree urbane e agricole. Nonostante i vari progetti, non si riesce a mettere in pratica un piano univoco per ridurre gli impatti aggressivi nei confronti dell’ambiente, iniziati con la Rivoluzione industriale. Gli studiosi, a causa della scomparsa di molte specie animali e vegetali, parlano di una “ sesta estinzione”, dopo la quinta avvenuta nel Cretaceo superiore, in cui è scomparso il 75% delle specie viventi, come i dinosauri. Per questo è necessaria un’opera preventiva per evitare di superare il limite che il sistema ecologico ha per tornare indietro e autoripararsi ( limite di non ritorno, di resilienza). È necessario uno sviluppo sostenibile, cioè uno sviluppo che permetta il miglioramento della qualità della vita, senza stressare troppo l’ambiente. 16 5. Ecocidio e malattie Oltre alla crisi climatica, la vita del Pianeta è messa a rischio dal generale degrado, soprattutto nei Paesi poveri, che porta alle disuguaglianze sociali, economiche e ambientali, associati spesso a danni per la salute. La pandemia a causa del COVID-19 fa capire come il mondo sia interconnesso, l’esistenza delle disparità tra società ricche e povere (maggiormente colpite) e come la situazione ambientale e di salute sia collegata al consumo e all’economia. I cambiamenti nell’equilibrio ecologico possono accrescere il rischio di malattie: possiamo vedere come l’avvicinamento forzato tra uomini e animali sia in grado di trasmettere facilmente virus, mediante un ospite intermedio. Una delle minacce più forti alla salute della popolazione, a causa delle condizioni ambientali, sono proprio le zoonosi, infezioni animali trasmissibili all’uomo: il COVID-19 ha evidenziato la fragilità e vulnerabilità del nostro Pianeta. Anche la crisi climatica, soprattutto l’aumento della temperatura, interferisce sulla salute, perché permette la trasmissione di patogeni letali (es. febbre gialla) attraverso le zanzare. Inoltre l’innalzamento delle temperature sta facendo sciogliere il permafrost, con la conseguente liberazione di specie congelate al suo interno, potenzialmente patogene. Anche le carestie dovute alla crisi climatica sta facendo sviluppare nuove malattie, in quanto gli abitanti di Paesi poveri iniziano a utilizzare risorse alimentari anche dannose, prima mai utilizzate. Oltre a questo, anche l’allevamento e le attività agricole intensive, la deforestazione (con la distruzione degli habitat degli animali, costretti ad avvicinarsi ai centri abitati), contribuiscono all’aumento delle malattie. In tutto il Pianeta stanno aumentando casi di ECOCIDIO, distruggendo l’ecosistema e, di conseguenza, uccidendo l’umanità. Pensiamo alla deforestazione dell’Amazzonia, fonte importante di ossigeno per tutto il Pianeta. Gli incendi che stanno distruggendo la foresta stanno aumentando, minacc iando la sopravvivenza di molte specie animali e vegetali, nonchè di molti indigeni. Un altro caso è il prosciugamento del Lago d’Aral, poiché le acque sono state deviate per rendere produttive le aree steppiche, un tempo utilizzate per la pastorizia nomade. Il lago ha quasi esaurito la propria acqua e il conseguente sale tossico e sabbia trasportati dai venti stanno provocando problemi di respirazione nella popolazione. Anche lo smaltimento dei rifiuti è un grande problema, soprattutto nei Paesi industrializzati che non riescono a ridurre la quantità di spazzatura: di sol ito si passa l’inquinante da un ambiente all’altro, senza preoccuparsi degli effetti. Ad esempio, la combustione per rimuovere rifiuti organici trasferisce nell’atmosfera nuovi composti tossici, oppure il riversamento di prodotti pericolosi nelle acque diventano nocivi per la vita acquatica. Un esempio in Italia è la Terra dei fuochi, tra Napoli e Caserta, chiamata così per i continui falò appiccati dai camorristi ai cumuli di rifiuti tossici illegali, con conseguente dispersione nell’aria di sostanze nocive e inquinanti. Fortunatamente ci si sta impegnando per progettare nuovi metodi per il recupero di materiali ed energia, grazie alle tecnologie innovative, e per riciclare i rifiuti e convertirli, per non farli finire in discarica. 6. I biomi Ogni porzione di biosfera è divisa in BIOMI, con climi simili e specifiche comunità animali e vegetali. La vegetazione in ogni bioma si trasforma gradualmente fino a raggiungere una sua stabilità, detta stadio di climax. In ogni ambiente le popolazioni animali e vegetali interagiscono tra loro, formando una comunità biologica (biocenosi), in una determinata porzione di territorio (biotopo). Biotopo e biocenosi insieme formano un ecosistema, un sistema funzionale autosufficiente formato da organismi viventi e da materia inorganica che interagiscono. Gli ecosistemi sono aperti e possono scambiare materiali ed energia con ecosistemi vicini (es. palude e bosco). I biomi terrestri sono: FORESTA PLUVIALE: anche detta equatoriale, con clima umido e caldo. Sono presenti molte specie arboree vicine e vegetazione molto densa e sempreverde (erbe, liane, arbusti, alberi molto alti) che spesso non fa arrivare la luce solare al suolo. Ci sono anche molti legnami pregiati, che subiscono uno sfruttamento intenso e distruttivo. La fauna è abbondante: ci sono soprattutto scimmie e uccelli, mentre gli animali a terra sono pochi e piccoli, a eccezioni di tartarughe e coccodrilli. Simile alla foresta equatoriale ci sono la pluviale tropicale e la monsonica, quest’ultima tipica della giungla, con alberi che perdono le foglie nella stagione asciutta. SAVANA: si trova nelle regioni a basse latitudini calde tutto l’anno. qui c’è un bioma di transizione, con una vegetazione mista di a rbusti, erbe e alberi. Nella stagione asciutta si ha la caduta delle foglie e l’appassimento di molte erbe (es. graminacee). Gli alberi sono isolati tra le erbe: i più diffusi so no le acacie e il baobab. La fauna è ricca di erbivori (zebre, giraffe, elefanti, antilopi ecc) e carnivori (leoni, leopardi ecc), ma anche di rettili e uccelli. Purtroppo la colonizzazione europea ha trasformato il paesaggio della savana, rompendo l’equilibrio tra società e ambiente, attraverso l’i ntroduzione di piantagioni industriali, sfruttamento agricolo, espansione dell’allevamento e sfruttamento delle risorse forestali che hanno impoverito il suolo, erodendolo. DESERTO: la vegetazione e la fauna che possono vivere in ambienti con scarsità di pioggia e mancanza di acqua sono poche. Tra la veg etazione si hanno piante che possono estendere le radici fino alle falde acquifere per ricercare acqua o con foglie piccole e dure, per diminuire la superficie di evaporazione. Tra la fauna troviamo animali che resistono alla sete, come dromedari e cammelli, ma anche piccoli roditori e retti li FORESTA DECIDUA: si ha un clima temperato e l’alternanza di un periodo freddo e di uno caldo. Sono presenti poche specie arboree, latifogli e con caduta delle foglie in inverno (querceto, faggeta). Uno degli animali tipici è l’orso PRATERIA: le precipitazioni sono scarse e le temperature molto variabili. La vegetazione è quasi esclusivamente erbacea (graminacee) . Un tipo di prateria a erbe basse, che si trova sia nei climi caldi sia nei freddi, è la steppa, con una vegetazione che si raggruppa in ciuffi e si distribuisce nel terreno in modo irregolare. Un’altra formazione erbacea e arbustiva è la landa (o brughiera), formata da ericacee, tipica delle regioni a clima fresco MACCHIA MEDITERRANEA: è sempreverde. Sono presenti formazioni arbustive(ginestre, ginepro ecc) e arboree basse, con foglie piccole e dure (olivi, sugheri, lecci). La fauna è composta da cinghiali, daini, caprioli e istrici. FORESTA DI CONIFERE: si trova a settentrione, in climi rigidi, con vegetazione di aghifoglie e semp reverdi. Gli alberi sono il pino e l’abete, mentre tra gli animali ci sono la renna, l’ermellino, il lupo, il visone ecc. Sia la foresta di conifere che quella decidua sono sfruttate in quanto il loro legname è pregiato ed è usato nell’industria del mobile e per la produzione di cellulosa. La taiga, formazione con conifere sempreverdi, è sempre più attaccata da incendi, a causa del riscaldamento globale TUNDRA: tipica dei climi subpolari e polari, quindi freddi. La vegetazione diviene priva di alberi, poiché il suolo ghiacciato non riesce a far penetrare le radici: sono presenti soprattutto muschi e licheni, mentre i poli sono privi di vegetazione. Tra gli animali troviamo l’ orso bianco, il bue muschiato, i pinnipedi (foche e trichechi) e gli uccelli I biomi dell’idrosfera sono molto più estesi di quelli terrestri e sono divisi in due tipologie: acque interne (dolci) e acque marine. 7. Il paesaggio Il PAESAGGIO è un sistema vivente in costante evoluzione su uno specifico spazio, formato da comunità vegetali, animali e umane. E’ un modo di vedere il mondo, un insieme di valori in uno spazio circoscritto. Nel paesaggio il tempo si concretizza nello spazio, per cui nel presente si manifestano tutte le scale del passato, anche lontanissimo: nel paesaggio quindi è possibile comparare i differenti modi con cui i gruppi umani e le società si sono relazionati con lo spazio nel corso dei millenni. La Convenzione europea del paesaggio ha dato una definizione di paesaggio: “ determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni (importanza della soggettività delle percezioni individuali e della collettività), il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e umani e dalle loro interrelazioni (dimensione relazionale, superando le scomposizioni tra naturale e antropico). Il paesaggio influenza molto il benessere, per cui deve essere salvaguardato da ciascuno. 17 I turisti stanno apprezzando sempre di più i caratteri geologici dei paesaggi, grazie al riconoscimento di geositi, che permettono di valorizzare e tutelare un territorio, ma anche di ammirarlo e visitarlo. Da qui nasce il geoturismo, forma di turismo che migliora il carattere distintivo di un luogo e, quindi, ottimo strumento di valorizzazione di un territorio. CAP 7 – UMANITA’ SULLA TERRA: POPOLAZIONE E DINAMICHE DEMOGRAFICHE 1. Le persone, i luoghi e… il Pianeta La geografia studia i processi di antropizzazione del Pianeta, perciò è bene analizzare anche gli aspetti socio-economici e culturali delle società. Sono proprio le varie comunità che, interagendo tra loro e con l’ambiente, costruiscono e configurano luoghi e territori, trasformando gli spazi fisici della Terra, anche attraverso la mobilità, sviluppando collegamenti reali e virtuali sempre più intensi. L’attività antropica è molto ampia e complessa e per questo viene studiata da molte discipline (interdisciplinarietà), ognuna delle quali evidenzia aspetti peculiari. Per studiare i problemi ecologici e i vari modi di agire dell’umanità, anche la geografia umana e quella fisica si incontrano, soprattutto nell’analizzare il concetto di Antropocene. È molto difficile capire il progetto umano di “vivere” il Pianeta senza un riferimento alla dimensione areale (e la sua rappresentazione cartografica) e al quadro fisico e naturale dove gli umani si collocano. La geografia si fonda infatti sulla prospettiva spaziale, per analizzare sia i modi in cui persone, luoghi e cose sono organizzati sulla Terra, sia il perché si trovino proprio in quella posizione e così distribuiti. La riflessione sul “dove” si deve però sempre affiancare al “quando”, per comprendere azioni future. 2. L’ecumene ai tempi dell’Antropocene L’ecumene è lo spazio terrestre dove la comunità umana riesce a risiedere stabilmente (abitare) e svolgere le sue attività. A questo vo cabolo se ne sono affiancati altri, come anecumene, ossia le regioni disabitate, sempre più ridotte di estensione a causa del progresso delle tecniche di intervento sull’ambiente. Il subcumene invece è la fascia territoriale di transizione abitata soltanto periodicamente (es. per l’allevamento nomade) perché le condizioni, non proprio favorevoli, consentono una breve permanenza. Questi tre vocaboli fanno riferimento alle terre emerse. Esiste anche l’ecumene marittima, grazie allo sviluppo della navigazione, che si riferisce ai mari navigati regolarmente e a quelli dove è praticata la pesca. Dalle ricerche sull’ecumene, nella prima metà del ‘900, è nato un filone basato sul concetto di frangia pioniera, che ha assunto vari significati, come l’esplorazione e la conquista di territori di aree anecumeniche o subcumeniche, in parte destinate all’agricoltura e spesso con danni ambientali enormi. Spesso queste sono zone aride o molto alberate, come le foreste di conifere dell’Amazzonia, che vengono utilizzate dall’uomo per vari scopi, come l’utilizzazione delle risorse del sottosuolo, in particolare i giacimenti di petrolio, ad esempio quelli scoperti nelle zone desertiche. Le terre anecumeniche sono molto diverse tra loro per caratteristiche geografiche e occupano un quinto della superficie terrestre; si trovano sopra ttutto nelle zone polari, troppo fredde per un insediamento umano, e nei deserti, con un clima troppo freddo per vivere. Anche le zone con una vegetazione molto fitta, come in Amazzonia, ma unita a un clima non favorevole, impediscono il popolamento o lo limitano soltanto a picco li gruppi: purtroppo questa zona ultimamente è minacciata dalla deforestazione. Nel concetto di ecumene quindi, la parola chiave è “abitare”; l’abitante è colui che si appropria in qualche modo dello spazio in cui vive, anche se oggi è difficile dare un significato a questa parola, dato che la popolazione è in continuo movimento. L’Antropocene è il periodo storico in cui la Terra, completamente antropizzata e divenuta tutta ecumene, sta soffrendo in tutte le sue sfere. Per questo l’ecumene, inteso come la relazione tra umanità ed estensione terrestre, possa essere compresa per responsabilizzare le azioni umane. 3. La distribuzione della popolazione La distribuzione della popolazione rappresenta la disposizione del carico demografico sulla superficie terrestre: le popolazioni non sono distribuite in modo uniforme, per vari motivi e regioni prima non popolate possono diventare attrattive (es. per la bonifica di un territorio o per la scoperta di risorse) e viceversa (es. a causa di una catastrofe naturale). La distribuzione mondiale odierna è influenzata soprattutto da cause climatiche e geomorfologiche, ma anche da processi storici: ad esempio le aree montuose rendono difficoltosa una residenza permanente, mentre le aree intertropicali sono molto attratt ive. La Rivoluzione industriale, i processi di urbanizzazione e i flussi migratori hanno causato molti spostamenti di popolazione in tutto il mondo, mutando continuamente la ripartizione della demografia sulla Terra. La popolazione è più concentrata in Asia (Cina, Giappone, India ecc) e nella fascia atlantica degli USA. Degli 8 miliardi di persone, la maggior parte abita nell’emisfero settentrionale, soprattutto nelle fasce temperate e subtropicali. L’Africa sub sahariana è più popolata rispetto al passato. In Italia la distribuzione demografica ha prodotto forti trasformazioni tra società e ambienti naturali, soprattutto nei territori rurali e in quelli montani e collinari. Fino alla metà dell’800 la maggior parte della popolazione viveva nelle zone montane, poiché le pianure erano acquitrinose e soggette all’azione della malaria. In montagna però non c’erano molte zone libere per coltivare, per questo è iniziato il disboscamento: tuttavia non si riusciva a soddisfare a pieno l’obiettivo alimentare, perché le zone montane, a eccessive altitudini, non permettevano un sufficiente sviluppo delle coltivazioni. Dalla fine dell’800 fino alla Seconda guerra mondiale, grazie all’industrializzazione, all’urbanizzazione e allo sviluppo di vie di comunicazione , la popolazione è scesa dalle aree montane verso le pianure e le coste, abbandonando in stato di degrado i terreni e le attività agricole: questa è una concausa della desertificazione e del dissesto idrogeologico di vaste aree. La rilevazione della popolazione avviene tramite stime (effettuate dagli uffici anagrafici dei singoli Stati) e censimenti (con rilevazione diretta). In Italia, l’ente principale di elaborazione di statistiche è l’ISTAT, che ha tra i suoi obiettivi quello di condurre ricerche per contribuire alla conoscenza della realtà ambientale, economica e sociale dell’Italia. In Italia il primo censimento è stato fatto nel 1861, dopo l’Unità d’Italia; da allora fino al 2011 è stato effettuato ogni 10 anni, a eccezione di qualche anno. Nei censimenti si tiene conto della “popolazione residente”, con dimora abituale nel comune (anche se alla data di censimento è temporaneamente assente), ma anche della “popolazione presente”, ossia persone presenti nel comune alla data del censimento (comprese quelle con dimora abituale in altro comune o all’estero). Dal 2018, l’ISTAT ha avviato una nuova modalità di raccolta di dati con censimenti permanenti, attraverso rilevazioni non di tutta la popolazione, ma di campioni rappresentativi (di popolazione, abitazioni, imprese e a gricoltura); ciò viene svolto a cadenza annuale e triennale. Questo modo riesce ad essere esaustivo e ad aumentare la quantità e qualità dell’offerta informativa. 4. La densità di popolazione La densità di popolazione, concetto di geografia umana, indica il numero di abitanti per unità di superficie: è un rapporto aritmetico che si ottiene dividendo il numero di abitanti per la superficie di un territorio dove questi risiedono (espressa in km quadrati). Questo rapporto pone in relazione diretta popolazione e spazio, consentendo anche una comparazione tra regioni diverse. Purtroppo però è un dato molto generale, perché indica il valore medio di una regione, senza considerare la distribuzione degli abitanti nello spazio: ad esempio, il valore medio dell’Italia è 199 ab /km2, ma le differenze sono 20 La mobilità migratoria influenza l’evoluzione demografica di un’area geografica, insieme al movimento naturale di nascite e morti. L’Europa è il continente più coinvolto nella mobilità umana. Gli studi geografici hanno sempre analizzato le migrazioni. Nel 1880 Ravenstein ha sviluppato la “teoria della migrazione umana”, in cui proponeva dei punti salienti: la maggior parte dei flussi migratori si sviluppa a breve distanza; le donne si spostano maggiormente all’interno del loro Paese di nascita e meno all’estero; le persone si trasferiscono maggiormente per vivere in territori poco popolati e meno nei Paesi ad alta densità demografica; i flussi principali riguardano spostamenti dalle campagne alle città. Fino alla metà del secolo scorso, le migrazioni avvenivano soprattutto per scompensi economici o demografici (es. conseguenza logica del sovrappopolamento) o per traumi bellici e catastrofi naturali: serviva quindi per tornare a una sorta di equilibrio demografico ed economico. Negli ultimi decenni invece, il fenomeno migratorio è dovuto soprattutto a fattori di repulsione e di attrazione. Nel primo caso, la scelta di emigrare deriva da condizioni di povertà o insicurezza o da situazioni ambientali e climatiche non adatte alla sopravvivenza (profughi ambiental i), ma anche da una politica del Paese molto instabile, con guerre e persecuzioni. I fattori di attrazione invece, esercitati dalla meta da raggiungere, sono impostati sul desiderio e sulle aspettative di una vita migliore, in cui poter trarre frutto delle proprie competenze, non valorizzate nel Paese di origine. 5. Caratteri e classificazioni delle migrazioni Ci sono vari tipi di classificazione per lo studio delle migrazioni, anche se oggi il fenomeno è molto più complesso. Le classif icazioni avvengono secondo le categorie di spazio (raggio dello spostamento) e tempo (periodo di distacco dal Paese di residenza). In base allo spazio, l’attraversamento del confine politico consente la distinzione tra migrazioni interne o nazionali (dove il cittadino conserva gli stessi diritti civili e politici e si esprime nella stessa lingua) e internazionali (confronto con mondi socio-culturali ed economici molto diversi). Riguardo alla durata, le migrazioni possono essere permanenti o temporanee. Alcuni Paesi però concedono un visto (turistico) con un limite di durata di pochi mesi, per cui il migrante deve rientrare spesso nel Paese d’origine. Nelle migrazioni temporanee il movimento può essere ciclico o periodico: il movimento periodico comporta una maggiore permanenza lontano dalla residenza (es. per lavoratori stagionali), mentre quello ciclico (che non è migratorio) si svolge in un’area a breve raggio e per un periodo di tempo definito (es. quotidiano), come il pendolarismo. Quando questo movimento prevede l’attraversamento di un confine politico, è detto frontaliero (diffuso in Svizzera, per i molti lavoratori italiani) In base al numero di migranti, le migrazioni possono essere di massa, quando coinvolgono gruppi massicci di persone o intere popolazioni (es. negli esodi forzati), o per infiltrazione, quando riguardano singoli individui o nuclei familiari. Quest’ultimo movimento spesso si concretizza con legami tra i migranti di ieri (già stabiliti nel nuovo Paese) e quelli di oggi (che vogliono raggiungere la propria comunità nel nuovo Paese). 6. Migrazioni spontanee, organizzate, forzate I movimenti migratori possono essere: Spontanei (o volontari): compiuti volontariamente dopo una valutazione dei vantaggi e svantaggi derivanti dallo spostamento Organizzati: predisposti dallo Stato o da istituzioni locali, per la pianificazione, colonizzazione o bonifica di un territorio (es. flussi migratori per la bonifica delle Paludi Pontine nel ventennio fascista). Forzata: quando, spinti dalla povertà e dalla fame, ci si sposta per cercare una situazione migliore Spesso le migrazioni sono dovute all’azione combinata di varie motivaz ioni. Oggi i governi tendono a considerare la migrazione volontaria come migrazione economica, attribuendole connotazioni negative, associandola all’irregolarità e alla clandestinità, giudicandola c ome reato. La ricerca geografica deve analizzare il viaggio, ossia il percorso che l’immigrato deve affrontare e tutte le conseguenze (accelerazioni, fermate, estorsioni, espulsioni ecc), che non finiscono mai, perché il viaggio non è solo materiale, ma soprattutto mentale (inizia prima della partenza e no n si conclude mai, perché l’immigrato sarà costretto a numerosi cambiamenti e interazioni con il nuovo Paese). I governi internazionali non sono in gra do di affrontare le migrazioni forzate, spesso dovute a deportazioni ed espulsioni, ma anche a traffici di esseri umani (per cui bambini, donne e uomini vengono privati di ogni libertà di scelta e sfruttati). Spesso i fuggitivi chiedono asilo politico e di essere riconosciuti come rifugiati (persone costrette a scappare dal loro Paese per sfuggire alle persecuzioni). Simile alla migrazione forzata è la diaspora di un popolo costretto a lasciare la propria terra d’origine per disseminarsi in varie parti del mondo (famosa nell’antichità è la diaspora degli ebrei). Le diaspore moderne sono quella armena, quella curda e quella palestinese. La forma più tragica di migrazione forzata è la tratta degli schiavi, decine di milioni di persone catturate in Africa e costrette a lavorare nelle piantagioni di cotone, caffè e canna da zucch ero negli USA, in Brasile e in America Latina. Un passo verso l’abolizione della schiavitù avvenne nel 1807 con lo Slave Trade Act, in cui il parlamento inglese avviò un processo che portò anche gli altri Stati alla fine del colonialismo. La tratta ebbe serie ripercussioni in Africa, ma anche in America, con la modifica degli assetti demografici, socio-culturali ed economici. 7. Emigrazione europea nei nuovi continenti L’emigrazione europea ha interessato due continenti: America e Australia. La colonizzazione dell’America fu avviata nel ‘500 a opera dei conquistadores spagnoli e portoghesi, spinti dal proposito di arricchirsi; poi, dalla metà dell’800 alla Seconda guerra mondiale, tantissimi altri milioni di europei emigrarono in America, per vari motivi: popolazione eccessiva in rapporto alle risorse alimentari, disoccupazione degli artigiani in seguito alla Rivoluzione industriale, conflitti e carestie. Un fenomeno di rilievo nel popolamento degli Stati Uniti è stato il trasferimento dei nativi americani in apposite riserve, p rivati delle loro terre, che venivano suddivise tra i coloni. La colonizzazione dell’Australia iniziò nel 1788 a opera della Gran Bretagna, che trasferì qui migliaia di detenuti, mutando completamente l’assetto demografico, in precedenza abitato solo da una popolazione indigena di cacciatori e raccoglitori. Questi furono espulsi dal territorio da allevatori di bestiame e da società minerarie; inoltre agli aborigeni venivano sottratti i bambini, che perdevano i legami con i genitori, con i loro nomi e con la lingua madre e a cui veniva insegnata la dottrina giuridica di Stato. Questa dottrina fu abolita agli inizi degli anni ’90. Nella colonizzazione di Stati Uniti e Australia hanno avuto un ruolo importante i trasferimenti forzati delle popolazioni native: gli immigrati hanno sottomesso ed eliminato gli autoctoni. 8. L’Italia e i flussi migratori La Prima guerra mondiale pose termine alle grandi migrazioni oltreoceano (decisione degli USA di frenare l’immigrazione). In Italia l’emigrazione ebbe un grande impatto, in quanto oltre 27 milioni di persone hanno lasciato il Paese per l’oltreoceano (USA, Argentina e Brasile) e pe r l’Europa (Belgio, Svizzera, Germania). Con il boom economico, tra gli anni ’50 e ’60, il volto dell’Italia cambiò, grazie alla crescita economica e il passaggio da un’economia agricola a quella industriale. In questo periodo, in Italia le migrazioni furono soprattutto interne, dovute al divario tra le varie regioni: correnti migratorie dal sud al nord e dalle zone montane e rurali a quelle urbane. Tutto questo ha trasformato moltissimo l’assetto demografico del Paese. 21 Dagli anni ’70, l’Italia, da Paese d’emigrazione, è diventato un Paese d’immigrazione: un episodio è stato lo sbarco, nel 1991, della nave a Bari con a bordo decine di migliaia di albanesi, emigrati per la crisi politico-economica in Albania. Questo ha provato l’incapacità dell’Italia di governare un fenomeno come l’immigrazione: gli immigrati infatti furono segregati in un impianto sportivo, con conseguenti rivolte, rimpatri e fughe . Sono soprattutto le differenze socio-economiche tra Paesi che danno avvio alla migrazione, come si può notare nei flussi migratori dai Paesi poveri africani all’Europa. 9. Le frontiere dell’emigrazione Ci sono molte frontiere dell’emigrazione nel mondo: di rilievo sono quelle dell’Europa mediterranea (Italia, Spagna, Grecia, Malta). La situazione è aggravata dai campi di raccolta e detenzione, come quelli in Libia, realizzati in seguito alle misure adottate dai Paesi europei per contrastare le rotte migratorie attraverso il Mediterraneo e gestite da organizzazioni criminali; qui migliaia di person e sono detenute in condizioni terribili e sottoposte a gravi violazioni dei diritti umani. Anche all’interno dell’Europa ci sono molte frontiere, tra cui la rotta balcanica (percorsa da siriani, afghani ecc), in cui, passando per la Turchia e la Grecia, ci si dirige verso la Macedonia, la Serbia e l’Ungheria per raggiungere Germania, Francia e Gran Bretagna. Per contrastare ciò , l’Unione Europea ha dato il compito alla Turchia di controllare le frontiere europee in cambio di finanziamenti. La funzione di confine può anche essere concretizzata con l’erezione di barriere, per segnare dei limiti politici insuperabili; ad esempio, il Muro di Berlino, simbolo di barriera culturale e ideologica che segnava, durante la Guerra fredda, la Cortina di ferro, linea di confine tra zona degli USA e zona sovietica e impediva fughe e scambi dei tedeschi orientali verso la Germania occidentale: questo è diventato il paradigma di divisione sp aziale a scala mondiale. Il suo abbattimento, per scopi politici, ha aperto la strada a nuovi flussi migratori da est verso l’Occidente. In Europa, molti Paesi, anche quelli che vedevano come una liberazione l’abbattimento del Muro di Berlino, stanno costruendo barriere contro l’immigrazione: ad esempio le città di Ceuta e Melilla, in cui le forze militari hanno messo in atto misure punitive contro i migranti africani. Nel 2012 è stato realizzato anche un muro di filo sp inato tra Grecia e Turchia e, nel 2015, un muro in Ungheria per contrastare il flusso dei migranti nel corridoio balcanico. Non solo in Europa, ma anche nel resto del mondo sono stati eretti muri contro gli immigrati, ad esempio il muro che divide gli USA dal Messico . I muri comunque non riescono a bloccare i flus si di migranti, che cercano altre rotte per entrare in un Paese, ma servono soltanto a portare ulteriori divisioni e chiusure politiche, sociali e culturali. Le soluzioni devono venire da accordi globali internazionali attraverso la realizzazione di un assetto politico-economico sostenibile ed equo. 10. Legislazione ed emigrazione Il fenomeno migratorio ha significati diversi in base alle politiche sull’immigrazione dei vari Stati; i confini politici sono il primo argine a difesa del territorio nazionale. I ritmi dei flussi vengono disciplinati con misure coercitive, invece che con l’analisi delle motivazioni che hanno spinto alla fuga e con la ricerca di possibili soluzioni impostate sul sostegno e sulla tutela della dignità della persona: molti governi infatti preferiscono la via dell’espulsione e dei respingimenti. All’interno degli Stati ci sono luoghi di raccolta dei migranti: in Italia sono attivi dei centri “Centri di permanenza per i rimpatri”, in cui gli immigrati irregolari vengono trattenuti, in attesa di provvedimenti di allontanamento. Ci sono diverse procedure legislative adottate dai governi nei confronti della regolarità della migrazione: sono regolari i migranti con visti e permessi, i rifugiati (riconosciuti dalle convenzioni internazionali) e i richiedenti asilo, mentre sono irregolari tutti coloro che non hanno l’autorizzazione da parte del governo a risiedere nel Paese di destinazione. Le convenzioni di base che regolano la materia sono: la Convenzione di Ginevra dell’ONU del 1951 e il Protocollo di New York del 1967. 11. Capacità di carico L’emigrazione è anche conseguenza della sovrappopolazione, ovvero di un carico demografico superiore alle possibilità di vita, in relazione alle risorse di sussistenza o allo spazio disponibile. Quando infatti la componente antropica oltrepassa i limiti di equilibrio, il sistema Terra va in crisi. Il dibattito sul rapporto tra il numero di abitanti e la capacità di sostentamento dell’ambiente è iniziato alla fine del ‘700 con l’economista Malthus: egli ipotizzò che l’incremento demografico, dovuto al progresso, avrebbe portato al blocco della crescita economica, perché la popolazione sarebbe aumentata in progressione geometrica, mentre la disponibilità delle risorse in progressione aritmetica. Questa situazione avrebbe portato all’insorgere di carestie ed epidemie che, riducendo la popolazione con la morte, avrebbe ristabilito il giusto equilibrio. Sebbene questa teoria fu smentita dai fatti, gli studi sulle capacità di carico e sui limiti delle risorse e dello sviluppo sono continuati, attivando, negli anni’70 del ‘900, un dibattito sui limiti dello sviluppo. Il dibattito si è concentrato sull’impossibilità di misurare con precisione le risorse (variabili nel tempo) e il rapporto tra q ueste e la popolazione. Il dibattito è ancora aperto con temi sempre nuovi, come quello sulla crisi ambientale, che sta causando molti problemi, anche riferiti alla salute. La crescita della popolazione comunque riguarda soprattutto i Paesi poveri, che hanno impatti molto inferiori rispetto alle s ocietà ricche, inquinanti e consumiste; la pressione antropica infatti non dipende solo dal numero della popolazione, ma anche dagli aspetti qualitativi, conseguenti ai redditi e ai modelli di vita. La crisi ambientale e le disuguaglianze socio-economiche devono essere affrontate secondo una visione unitaria , partendo dalla povertà (la più evidente delle disuguaglianze) che nelle forme estreme porta alla fame e alla morte, in contrasto con l’accumulo di averi. Alla fine del secolo scorso è stato introdotto, attraverso l’impronta ecologica, un nuovo rilevamento per misurare il consumo di risorse naturali rispetto alle capacità della Terra di rigenerarle: questo indicatore (una sorta di termometro ambientale) misura tutte le risorse utilizzate dagli esseri umani e i rifiuti da essi prodotti, rapportandoli agli ettari di terreno necessari per creare queste risorse e per eliminare quei rifiuti. Calcola praticamente uno spazio/tempo che le attuali generazioni stanno erodendo attraverso il prelievo di risorse ereditate da quelle precedenti. L’umanità sta utiliz zando più risorse di quante ne possiede, e questo sta danneggiando il Pianeta e il suo futuro. CAP 9 – FORME E PROCESSI DELL’INSEDIAMENTO 1. Nomadi e sedentari Analizzando la distribuzione della popolazione nei diversi spazi e tempi, si possono identificare sia le evoluzioni nel modo di abitare il mondo, sia le ripartizioni del carico demografico sulla superficie terrestre. Per riposarsi e proteggersi, gli uomini primitivi usavano ciò che trovavano in natura, come caverne, ripari naturali sotto le rocce o semplici schermature realizzate all’aperto, come paraventi (formati da intrecci di rami, conficcati sul terreno a semicerchio) nei climi semiaridi, e parapioggia (formati da un’unica copertura di foglia di palma inclinata) in ambienti umidi. Le caverne artificiali, scavate nella roccia, erano molto diffuse, anche nell’area mediterranea: un esempio sono i Sassi di Matera, grotte abitate dal Paleolitico fino ad alcuni anni fa, e dichiarate Patrimonio mondiale dell’umanità. Il principale segno dell’occupazione sulla superficie terrestre è l’abitazione, che testimonia una modalità di organizzazione spaziale. La capanna è la tipica abitazione primitiva, che può essere di forme diverse e costruita con materiali facili da reperire (rami, pelli, paglia ecc); diventa palafitta quando viene posta su un tavolato con pali infissi verticalmente su aree paludose, per difendersi dall’umidità o dalle aggressioni. 22 La popolazione terrestre si è sempre divisa in nomade e sedentaria: si caratterizzano per la divisione del lavoro e per gli spazi occupati, che avviene per fasi molto lente. Infatti la domesticazione delle piante e degli animali, nel Neolitico, è avvenuta in parallelo al nomadismo, in tempi molto lunghi, finchè lo sviluppo sia del nomadismo, sia dell’agricoltura (sedentaria) non ha prodotto conflitti ( es. territorio conteso tra allevamenti e agricoltura), fonti di scissione dello spazio. I nomadi improntano la loro vita sulla pastorizia e sulla mobilità, spostandosi di continuo alla ricerca di pascoli idonei, in sintonia con le condizioni ambientali. Del bestiame i nomadi utilizzavano tutto (latte, carni e pellame). Il nomadismo pian piano si è ridotto, sia per la rarefazione vegetale, sia per la discriminazione che subiva la popolazione dei nomadi da parte delle culture dominanti, caratterizzate dallo sviluppo dei trasporti e dall’estrazione del petrolio e del gas nelle aree desertiche. I nomadi vivevano nelle tende, ripari leggeri che potevano essere trasportati durante gli spostamenti. Le tende hanno diverse forme e sono costruite con vari materiali. Un tipo di tenda è la tenda mongola (gher); la Mongolia, fino al secolo scorso, è stata pressoché una società nomade, poi divenuta sedentaria durante il periodo dell’influenza sovietica. Gran parte dei pastori e allevatori nomadi si sono trasferiti nei quartieri periferici di una importante città, per entrare nel proletariato urbano, vivendo però ancora nelle tende, formando un insediamento con condizioni di vita precarie, senza acqua corrente ed elettricità. Anche nell’area balcanica e mediterranea erano presenti società nomadi. L’Italia, fino a poco tempo fa, era caratterizzata dalla transumanza degli ovini e dall’alpeggio bovino per i pascoli estivi: erano pratiche di seminomadismo, in quanto, durante l’inverno, i pastori abitavano in dimore fisse. La transumanza è ancora presente in Paesi poveri. 2. Insediamento rurale ed evoluzione storica del fenomeno urbano Segno dell’insediamento rurale è la casa contadina o rurale: è disposta isolata o a piccoli gruppi ed è espressione di situazioni economiche e sociali e di tradizioni culturali. Le case si differenziano per vari elementi (numero di piani, disposizione dei locali, scale, balconi ec c). Queste abitazioni erano molto legate alla natura e all’ambiente, come dimostrato dal materiale edilizio scelto e dall’attenzione alla situazione climatica. L’insediamento può essere sparso o accentrato. Il primo è formato da dalla popolazione distribuita in case isolate di campagna, mentre il secondo è formato da una popolazione che risiede in case vicine, raggruppate in centri abitati: dal piccolo villaggio di campagna ( insediamento rurale) alle grandi città (insediamento urbano). In passato si considerava l’insediamento rurale come segno della vicinanza dell’uomo alla natura, mentre quello urbano come simbolo di supremazia dell’uomo sulla natura. Oggi non c’è più una distinzione chiara tra campagna e città e, dal XIX sec, si ha il fenomeno dell’inurbamento: la campagna viene urbanizzata in qualche modo, con modi di vita e servizi propri della città. Nel caso di espansione della città nelle aree rurali vicine, si parla di processi di rurbanizzazione. Le città hanno avuto origine in zone connesse allo sviluppo dell’agricoltura, dove c’era abbastanza cibo per nutrire tutta la popolazione, anche se concentrata in uno spazio ristretto: i primi nuclei urbani sono nati in Mesopotamia, lungo le valli del Nilo, dell’Indo e del Fiume Giallo. Le città poi si svilupparono nell’area mediterranea, prima in Grecia, le cui città (polis) avevano grandi spazi pubblici usati come luoghi d’incontro (agorà), di svago (teatri) e di culto (templi), e poi nell’antica Roma, la cui supremazia politica e militare consentì la creazione di un sistema spaziale collegato da una rete stradale imponente e funzionale. La fine dell’Impero romano portò a un regresso dell’urbanizzazione in Europa, mentre negli altri continenti si svilupparono grandi città (in Asia lungo la Via della Seta, in Africa nella fascia del Sahara e in America le città degli Inca, Maya e Aztechi). Le grandi scoperte (dal XV sec), grazie alle nuove rotte marittime, influirono molto sulla configurazione urbana mondiale, permettendo lo sviluppo di città costiere, ma penalizzando anche alcuni centri interni, prima importanti nodi commerciali. L’urbanesimo si sviluppa nell’Ottocento, con l’affermazione della Rivoluzione industriale e dei trasporti, che ha portato molti operai, soprattutto contadini, a lavorare nelle fabbriche, perché le macchine ormai avevano sostituito il lavoro manuale dei campi e i contadini erano eccessivi. Il legame tra città e industria è durato fino a metà ‘900, quando molte fabbriche sono state trasferite fuori dalle aree urbane, per il loro eccessivo impatto sull’ambiente e sulla salute, come si può notare dal caso dell’industria siderurgica ex Ilva di Taranto. 3. Città: dimensioni territoriali e demografiche Le CITTÀ sono i paesaggi artificiali, sottoposti però alle leggi naturali che governano il geosistema. Le città sono agglomerati di popolazione fabbricati, le cui concentrazioni si misurano in base alla densità che, rapportando la superficie considerata alla popolazione e ai fabbricati, dà una prima indicazione sul modo di vivere dei residenti (parametri quantitativi), da approfondire con parametri qualitativi. Per essere misurati, i parametri quantitativi hanno bisogno di dati precisi, soprattutto dei limiti della città, sempre meno individuabili per l’espansione disordinata delle città nei territori circostanti. Un altro parametro quantitativo è il numero di abitanti, che determina se un centro abitato può definirsi città. Le città, anche se occupano poca superficie terrestre, hanno livelli altissimi di concentrazione demografica. Il processo di urbanizzazione in un primo tempo ha coinvolto solo i Paesi più industrializzati, poi ha accelerato e, dal 2009, la popolazione urbana ha superato quella rurale. Il livello di urbanizzazione proseguirà anche in futuro, soprattutto in Paesi più poveri, come l’Africa sub sahariana, dove la maggior parte della popolazione vive ancora in villaggi rurali in forte degrado. Il cambiamento più importante del fenomeno di urbanizzazione è stato il passaggio dalla città nucleare (con la parte edificata distinta dalla campagna limitrofa) alla città estesa (parte edificata che si estende anche nell’area rurale). Per definire l’estensione, spesso senza controllo, nelle aree rurali , si usa il termine “sprawl urbano”. Il processo estensivo, che tende a saturare ogni spazio disponibile, può evolversi per agglomerazione (con la dilatazione di una grande città nei territori circostanti) o per conurbazione (espansione di due o più centri che si uniscono). In aree già abitate, la crescita può avvenire per periurbanizzazione, cioè con la creazione di nuovi insediamenti urbani, collegati a vecchi villaggi o a vie di comunicazione importanti; le conseguenze sono negative, sia sulla qualità di vita dei residenti, sia per l’ampio consumo di suolo. Più recenti sono le città discontinue e multicentriche (città-rete), in aree con ampia disponibilità di spazio (aree metropolitane). Ci sono due termini per definire i processi di urbanizzazione: megalopoli, tante grandi città talmente interconnesse da costituire un’unica super metropoli (es. fascia atlantica degli USA, estesa per oltre 700km e megacittà, ossia una singola città talmente grande da superare i 10 milioni di abitanti (in aumento soprattutto nei Paesi emergenti ed economicamente più poveri). 4. Morfologia e funzioni urbane La geografia studia anche gli aspetti morfologici e funzionali che caratterizzano una città: la posizione (città in rapporto al territorio circostante), il sito (luogo geografico in cui è sviluppata), la pianta (planimetria con relativa distribuzione tra spazi costruiti e liberi, pubblici e privati) e le funzioni che esercita (industriale, commerciale, turistica ecc), le quali la caratterizza. La planimetria è influenzata dai processi di sviluppo della città (storici, religiosi, culturali), ma anche dagli aspetti ambientali (idrografia, rilievo, forma delle coste). La planimetria può essere regolare, irregolare o ancora priva di un disegno. Tra le morfologie regolari ci sono: le piante a scacchiera, radio centrica (o concentrica) e lineare (città sorte lungo un asse, rappresentato da una strada, un fiume ecc). La pianta a scacchiera è molto diffusa nell’Occidente europeo, essendo anche stata adottata dai Romani, anche per impostare gli accampamenti; la pianta di Torino ne è un esempio. Nel Medioevo era diffusa la pianta radio centrica, con un nucleo al centro (castello, duomo ecc), dal quale partono strade divergenti a raggiera; ne è un esempio Milano. Spesso le g randi città hanno una pianta composita, non omogenea, simbolo ei diversi momenti di sviluppo; un esempio è Bari. Una caratteristica della città è la capacità di svolgere attività che assicurino bisogni interni (funzioni locali) ed esterni (funzioni esportatrici); da questa caratteristica dipende la tendenza a esportare beni e servizi, relazionandosi con altre località e la sua divisione interna in zone (residenziali, commerciali, 25 ‘900 un nuovo indirizzo di ricerca ha portato la geografia culturale a porre l’attenzione non sugli aspetti materiali, ma sulle rappresentazioni, sull’immaginazione (espressioni della cultura), ossia sul senso dei luoghi e sull’importanza del vissuto. Il territorio venne letto in stretta c onnessione con il contesto storico-culturale e si è iniziato a indagare il paesaggio urbano, con i suoi valori estetici e i simboli che lo connotano. Non si studia quindi più il rapporto meccanico di causalità tra uomo e natura. 3. Territorialità e territorializzazione La territorialità è l’attitudine alla valorizzazione e allo sfruttamento dell’ambiente di vita da parte dei gruppi umani; ogni specie animale h a infatti un istinto ad adattare il proprio territorio in base alle proprie necessità pratiche (di sfruttamento), simboliche (di individuazione dell’identità) e politiche (di controllo). Attraverso la territorialità l’ambiente assume una precisa connotazione, che traduce in concreto l’attitudine collettiva di p ensare lo spazio. Lo spazio geografico perciò è la proiezione al suolo della società che l’ha creata (es. struttura geometrica dei confini = concezione razionalista moderna occidentale dello spazio visto come geometrico e vuoto). I segni della presenza umana sul territorio non si dispongono a caso, ma sono conseguenze di processi di territorializzazione propri di ogni cultura. Il paesaggio quindi diventa la risposta di ogni gruppo umano per soddisfare l’esigenza di organizzare la propria esistenza in un determinato spazio che abita, che muta nel tempo; infatti in ogni territorio ci sono continue fasi di smantellamento di un modello di territorialità (deterritorializzazione) e una sostituzione con un altro modello (riterritorializzazione). Il rapporto tra una comunità e un territorio si realizza attraverso 3 attività: Di tipo intellettuale: pensare un preciso territorio. Ogni gruppo umano infatti concepisce la propria esistenza in un preciso ambiente ed elabora strategie per sfruttarlo, attribuirgli un’identità e controllarlo Di tipo materiale: lasciare tracce sul territorio; in questo modo un gruppo umano cerca di imprimere significati specifici al proprio ambiente d i vita, legittimando così la propria presenza, manifestando le proprie intenzioni e assegnandogli specifiche connotazioni culturali Di tipo relazionale: ricevere sollecitazioni dal territorio. Il gruppo umano accoglie le spinte all’adattamento provenienti dall’ambiente; ad esempio, le migrazioni hanno richiesto ai gruppi umani di adeguare le loro tecniche per ottimizzare lo sfruttamento del nuovo ambiente Il principio di territorialità quindi, da una parte accomuna tutti i popoli, i quali hanno la stessa necessità di adattarsi al proprio spazio di vita, ma al lo stesso tempo diversifica le culture (lingua, arte, costume, religione), perché ognuna deve adattare le strategie in base al proprio ambiente. E’ molto importante trasmettere queste conoscenze all’interno del proprio gruppo, per consolidare tali modalità di relazionarsi al territorio e t ramandarle alle nuove generazioni. Questa pluralità di culture sono il segno di evoluzioni che seguono traiettorie diverse e non consentono di stabilire gerarchie tra culture. 4. La diffusione delle culture Ogni cultura ha avuto momenti di espansione (nei quali si è estesa sulla superficie terreste) e momenti di contrazione (nei quali la sua area di diffusione si è ridotta). Il termine “area culturale” definisce una specifica porzione di territorio contraddistinta da una comunità residente dotata di caratteri culturali comuni. Ogni disciplina però definisce l’area culturale in modo diverso; la geografia sostiene che l’area culturale sia rifer ita sia a comunità numerose, sia a gruppi più concentrati, in rapporto con il territorio e i fenomeni sociali. Per comprendere le varie culture, la geografia ne analizza lo spazio, ossia la loro distribuzione sulla superficie, i centri di irradiazione e le logiche di propagazione. Per analizzare le culture, la ricerca geografica deve affrontare due problemi: il primo è la continua trasformazione ed evoluzione di ogni cultura (dinamismo continuo), il secondo è il fatto che ogni cultura non è distinta perfettamente dalle altre, ma spesso si ibrida con le altre (diversità interna); ci sono a volte dei salti spaziali, quando una cultura si distribuisce su aree non contigue (es. con la diaspora, dove una comunità vive lontano dal luogo orig inario). Queste due caratteristiche sono presenti sia in culture di un’intera civiltà sia di una comunità ristretta. Nella storia dell’umanità, per molto tempo, gli scambi culturali tra comunità sono stati molto limitati, a causa della distanza spaziale, dei confini politici e delle differenze linguistiche, che rendevano difficili i contatti e agivano da barriera alla propagazione della cultura. Eccezioni si avevano nel caso di migrazioni di massa; in questo caso si potevano avere 4 possibili effetti: 1. Distruzione completa della cultura locale, come nel caso della colonizzazione dell’America da parte degli europei, che imposero il loro sistema culturale in un tempo breve 2. Sostituzione della cultura locale con quella degli invasori, anche se rimangono alcuni elementi locali, come la lingua o i toponimi, che arricchiscono la nuova cultura 3. Fusione delle due culture, che ne formano una nuova (processo di transculturazione), come successe ai galli a contatto con la cultura romana 4. Coesistenza di due culture distinte sullo stesso territorio; ciò è pericoloso perché può innescare fenomeni di intolleranza e prevaricazione di una cultura sull’altra A parte questi casi, fino all’età moderna gli scambi culturali hanno richiesto tempi molto lunghi. Con l’inizio dell’età mode rna invece, le diverse aree del Pianeta hanno iniziato a intensificare i contatti e a contaminarsi, attivando scambi culturali. Oggi, gli scambi culturali, c he avvengono tramite comunicazione, sono accelerati grazie a Internet, che ha permesso di creare un ambiente integrato; c’è però la preoccupazione di un’omologazione culturale tra le aree del Pianeta, con conseguente eliminazione delle differenze culturali. 5. Le scale dell’identità culturale, dal locale al globale La geografia culturale sostiene un rapporto biunivoco tra territorio e cultura; la cultura costruisce un’identità collettiva, perché costruisce e mantiene il senso di attaccamento di un gruppo umano a un determinato territorio, mentre il territorio costruisce un’identità culturale, perché alimenta il senso di attaccamento a quel determinato territorio e ai suoi elementi. L’identificazione tra luogo e cultura può avvenire in scala della collettività locale (identificazione nella comunità locale), in scala regionale e nazionale, in scala continentale (forme di adesione a una grande area culturale, come riconoscersi nella civiltà europea) e in scala cosmopolitica (identificarsi nell’intera specie umana). Le manifestazioni di auto identificazione con un’area geografica si esprimono sotto varie forme e spesso si tende a marcare dei confini per agevolare la distinzione del territorio della propria comunità: una comunità quindi marca il proprio territorio per sottolineare la propria identità (es. le bande metropolitane segnano il terri torio con i graffiti). Le espressioni di identità non sono assolute, ma possono cambiare; una persona inoltre può provare contemporaneamente più forme di attaccamento (a una città, a uno Stato, a una civiltà di un intero continente ecc). In passato i caratteri culturali di singoli individui erano molto influenzati dalla comunità locale (dialetto locale, precisi stili di vita ecc). Oggi invece si tende ad oltrepassare i confini e alcune mode e stili di vita vengono seguiti dall’intero Pianeta, grazie all’interconnessione del mondo globalizzato. I caratteri culturali di intere comunità stanno cambiando rapidamente, soprattutto nei giovani. Inoltre, si può notare, dalla compresenza di diverse culture nelle nostre città, come ogni cultura non abbia confini precisi, ma come in ogni luogo sia presente una dimensione multiculturale che comporta sfide alla convivenza; 26 ciò comporta che a uno stesso luogo ogni comunità dia significati diversi. Oggi anche la cultura occidentale non appare più dominante come un tempo, ma influenzata da usi e costumi di altri continenti. Gli scambi culturali però non devono portare a un annullamento della cultura locale; fortunatamente ci sono dei luoghi molto intraprendenti che riescono a connettersi al mondo globale, mantenendo i caratteri locali: questo è possibile grazie alle capacità di questi luoghi di inserirsi attivamente nelle reti globali, senza limitarsi soltanto a mettere a disposizione le proprie risorse materiali o immateriali, che possono diventare causa di perdita di valori ambientali e culturali. Le piccole località devono invece valorizzare le proprie risorse, e non sprecarle, puntando sui saperi tecnici locali o attivando il turismo sostenibile per salvaguardare le proprie bellezze naturali e promuovere il patrimonio artistico. CAP 11 – GEOCULTURA. I CARATTERI: ETNIA, LINGUA, RELIGIONE 1. Etnie e minoranze etniche L’ETNIA è una comunità di persone unita da affinità culturali (lingua, religione, costumi e abitudini). Questi legami vengono svilupp ati nel tempo e sono funzionali a distinguere i membri del gruppo (autoctoni) dagli altri (allogeni) e a rafforzare le relazioni interne. Le etnie si caratterizzano per uno specifico territorio originario: la geografia analizza proprio il contributo che il territorio dà all’identità della comunità etnica e i segni culturali che l’etnia lascia. L’identità etnica comunque può non sviluppare tutti gli elementi culturali, ad esempio gli ebrei sono accomunati dalla religione, ma non dal la lingua (esistono due lingue: ebraico e yiddish). Le comunità etniche in diaspora invece possono rinunciare alla loro individualità territoriale unica, come successo per gli ebrei e gli armeni, che conservano la loro identità anche se risiedono lontanissimo dal territorio originario del gruppo etnico, attraverso la permanenza di elementi che tengono vivo il sentimento di appartenenza e la volontà di tramandarlo alle generazioni future: ciò è permesso grazie a un patrimonio culturale comune, alla memoria collettiva e a reti organizzative interne che alimentano la solidarietà reciproca e l’identificazione individuale. L’etnia non va confusa con la razza, che si basa sul presupposto errato che si possa distinguere gli esseri umani in gruppi aventi caratteri fisici ereditari comuni (colore della pelle, degli occhi, statura ecc). Si può distinguere invece tra fenotipo, ossia l’aspetto esteriore degli individui (varia all’interno della stessa specie) e genotipo, dato dal genoma o DNA dell’individuo. Il concetto di etnia favorisce l’analisi congiunta di caratteri biologic i e strutture culturali. Il razzismo è condannabile, in quanto individua una gerarchia naturale in base a qualche criterio, come il progresso tecnico, civile o al tro e produce pregiudizi e comportamenti discriminatori. Alcuni fenomeni del razzismo sono stati: il colonialismo, le idee di purezza della razza, le leggi razziali, il commercio degli schiavi ecc. La geografia invece studia le differenze tra le comunità, per promuoverne la conoscenza e valorizzarne le pecul iarità. Alla fine dello scorso millennio, a causa delle accelerate dinamiche di mobilità delle popolazioni e della formazione di configurazioni multiculturali nello stesso luogo, i tradizionali modelli di convivenza sono stati ripensati, perchè incapaci di soddisfare i bisogni di comunicaz ione tra individui con radici diverse. Il criterio etnico può essere visto come un criterio di ordine per riconfigurare un quadro politico in un momento di crisi e malessere sociale, come successo nei Paesi dell’ex Unione Sovietica, in cui convivevano un centinaio di etnie diverse. Un elemento fondamentale dell’etnia è l’autoconsapevolezza, cioè il sentimento di appartenenza individuale. Se questo sentimento si indebolisce in gran parte della comunità, allora l’unità del gruppo è a rischio. Per evitare ciò, sono fondamentali tutti quei simboli (folklore, tradizioni enogastronomiche, paesaggio etnico: aspetto delle dimore, modi di coltivare, luoghi di culto) che favoriscono il riconoscimento nelle proprie radici. Le minoranze etniche, cioè i piccoli raggruppamenti che si trovano in un luogo dove è dominante un’altra etnia, spesso sentono mina cciata l’integrità del gruppo. Ciò è presente in molti Paesi, dato che la maggior parte sono plurietnici; gli Stati perciò devono rispettare i diritti delle minoranze, ma anche salvaguardare il bisogno di un’etnia integra che permetta una stabilità interna della società: alcuni Stati sono rispettosi, mentre altri no, perché vedono nelle minoranze una minaccia all’integrità culturale e sociale. Ciò spesso crea disuguaglianze e rischi di marginalizzazione e segregazione della minoranza, fino al pericolo di estinzione. L’estinzione può avvenire in 3 modi: incidentale (lenta e progressiva assimilazione da parte dell’etnia dominante), naturale (per ragioni demografiche in comunità poco numerose) e provocata (tramite pratiche di pulizia etnica, spesso per cause religiose). L’estinzione provocata ha l’obiettivo di rendere omogenea una popolazione e può avvenire in vari modi, in base alla violenza impiegata: assimilazione forzata, espulsione, massacro etnico e genocidio (come nel caso dell’olocausto). 2. La geografia delle lingue La geolinguistica studia la distribuzione geografica delle lingue di oggi e del passato, la quale è un indicatore delle relazioni tra gruppi umani e dei loro percorsi migratori. Ad esempio, i prestiti linguistici rivelano l’esistenza di rapporti stretti tra due culture, mentre un territorio dove per molto tempo coesistono diverse lingue, indicano una scarsa coesione tra le comunità. Sono importanti 3 concetti: substrato, ossia la lingua diffusa in un’area prima che un’altra si sovrapponesse ad essa (es. gallico prima del francese), superstrato, cioè una lingua che si sovrappone a quella in uso in un’area (es. lingue longobarde e germaniche in Italia) e adstrato, cioè due lingue distinte che sono in contatto culturale e riconosciute entrambe sullo stesso territorio (es. italiano e tedesco in Trentino Alto Adige). Tra gli alfabeti, il più diffuso è quello latino, espansosi soprattutto in età moderna, quando venne esportato dagli europei in tutto il mondo durante il colonialismo. Le lingue non servono solo per comunicare e comprendere gli altri, ma anche per organizzare il pensiero secondo una logica precisa. Ogni cultura usa specifici codici di comunicazione, che creano specifiche strutture di pensiero. Inoltre le lingue sono in continua evoluzione, anche con l’introduzione di parole nuove. Ogni lingua quindi trasmette una propria concezione del mondo che poggia su una propria base di pensiero, per questo non è possibile immaginare un’esatta sovrapposizione dei contenuti di due lingue. Ad esempio, si può vedere il fallimento nei tentativi di produrre delle lingue artificiali, per dare una lingua unica a tutta l’umanità, come successo con l’esperanto, inventato nell’Ottocento e diffuso in ambienti colti. Ogni lingua quindi, oltre che elemento di appartenenza di un individuo alla comunità e sistema di codificazione proprio di un a cultura, è un elemento del patrimonio culturale dell’intera umanità. Per questo, l’estinzione di una lingua è un grave danno, soprattutto nelle aree come l’Oceania e l’Amazzonia, dove le parlate dei nativi sono sopraffatte da quelle ufficiali. Stessa cosa vale per i dialetti italiani ed europei. 3. Le lingue del mondo La linguistica storico-comparativa distingue tra famiglie linguistiche, gruppi e sottogruppi. Il numero delle lingue nel mondo è variabile, poiché ci sono diversi criteri per definire il concetto di lingua e diverse opinioni sul fatto di considerare certi idiomi come lingue a sé o come varianti dialettali di una stessa lingua. L’analisi delle lingue è anche influenzata da variabili storico-politiche: ad esempio, la lingua di serbi e croati è stata sia considerata come unica, sia come due forme dialettali diverse dello stesso ceppo originario, in base al periodo storico-politico in cui si trovavano (in passato nello stesso Stato, oggi in due Stati distinti). Gli studi tecnici di linguistica devono quindi essere integrati da altri criteri. L’autonomia di una lingua è anche influenzata dall’avere o meno un’entità politica indipendente in grado di dare forma all’unità culturale di un popolo ( koinè); ad esempio, la lingua albanese si è formata solo dopo la nascita dello Stato di Albania. Lo sviluppo di uno Stato infatti tende a favorire lo sviluppo di una cultura nazionale unitaria. 27 I linguisti, come abbiamo detto, ripartiscono gli idiomi in famiglie, gruppi e sottogruppi, in base alle loro affinità e orig ini. Ciò non comporta una gerarchia tra le lingue, ma soltanto una diversa origine e successiva trasformazione. La famiglia linguistica più diffusa al mondo è quella indoeuropea, mentre la lingua più parlata è il cinese mandarino, il quale fa parte però di un’altra famiglia. Nella famiglia indoeuropea, l’inglese (sottogruppo) fa parte del gruppo tedesco, mentre l’italiano (sottogruppo) fa parte del gruppo delle lingue romanze (o neolatine). Alcune lingue invece sono isolate, sen za un gruppo (greco, albanese e armeno). Altre lingue, che non fanno parte della famiglia indoeuropea, sono ancora più isolate,cioè non fanno parte di nessuna famiglia al mondo (es. basco). La diffusione di una lingua può interessare aree non contigue, soprattutto a causa dei flussi migratori c he hanno creato nel tempo arcipelaghi linguistici (es. quello delle comunità germanofone stanziate nell’area del Volga) e isole linguistiche che, in base alla scala, possono essere: grandi isole, piccole isole e atolli. 4. Il destino di una lingua Il numero di parlanti di una lingua è molto variabile, infatti la dinamica della geografia delle lingue è molto rapida. La sopravvivenza o l’estinzione, l’espansione o l’emarginazione, l’evoluzione o l’isolamento di una lingua dipende da alcuni fattori: Demografia: ad esempio, negli Stati Uniti, le disuguaglianze demografiche tra i vari gruppi etnici sono molto marcate e ciò influenza la diffusione delle lingue Migrazioni: prendiamo sempre come esempio gli USA, in cui la lingua spagnola è penetrata rapidamente grazie ai flussi provenienti dall’ America latina. I flussi migratori generano casi di multilinguismo: ad esempio in Francia, le diverse comunità immigrate, oltre alla lingua ufficiale nazionale, conservano l’uso delle loro lingue d’origine; ciò permette di mantenere la propria identità, ma sono anche un fattore di esclusione, in quanto non permettono di integrarsi completamente nella società. Storia politica: le conquiste sono sempre state un vettore di propagazione della lingua del conquistatore, ma anche di regresso per quella del conquistato. Ad esempio, il latino, da cui derivano le lingue romanze, si è diffuso con l’espansione dell’Impero romano. Il colonialismo ha ridisegnato la carta linguistica di interi continenti. Oltre alle conquiste, anche le vicende politiche hanno modificato le l ingue: ad esempio, sotto il centralismo franchista in Spagna, le lingue non castigliane (gallego e catalano) hanno attraversato periodi di difficoltà. Diritto: le lingue minoritarie spesso subiscono la sopraffazione da parte della lingua parlata dalla maggioranza nel Paese; per questo, nei Paesi più avanzati, una lingua minoritaria viene difesa e tutelata (ad esempio, attraverso la promozione dell’uso nelle scuole o ne lle radio). Ad esempio, in Svizzera sono riconosciute 4 lingue (francese, tedesco, italiano e romancio). Tutte le lingue ufficiali sono considerate allo stesso livello dalla legge. A volte però, come in Messico (Stato multilingue), sono riconosciute ufficialmente molte lingue, ma in realtà lo spagnolo domina in ogni ambito della comunicazione, a discapito delle altre lingue. Mezzi di comunicazione: una lingua è viva quando ha i mezzi per diffondere il proprio messaggio e aggiornarsi. Ad esempio, per le comunità immigrate, i canali televisivi satellitari sono un mezzo per rimanere in contatto con la cultura d’origine, anche a distanza. Religione: ogni religione ha una specifica lingua di riferimento che spinge i fedeli a conoscerla; ad esempio gli ebrei studiano l’ebraico, mentre i musulmani l’arabo Turismo: per migliorare l’accoglienza, le mete di destinazione turistica spingono la popolazione locale ad apprendere le lingue dei turisti (es. l’inglese nei Caraibi) Commercio: lo scambio di merci e servizi richiede capacità di comunicazione nella lingua dell’interlocutore o in una lingua d’uso internazionale; ciò penalizza le lingue meno usate nell’offerta dei prodotti. Fascino: molti non nativi decidono di imparare una lingua perché affascinati da essa e dalla cultura che rappresenta; ciò accade anc he per le lingue morte (greco e latino). Le Nazioni Unite riconoscono 6 lingue ufficiali: inglese, francese, russo, cinese, spagnolo e arabo. L’inglese ha un’egemonia linguistica in campo internazionale in molti settori (musica, cinema, diplomazia, ricerca scientifica ecc) ed è riconosciuta come lingua ufficiale o semiufficiale in 70 Paesi. Il dominio dell’inglese è più forte soprattutto nei Paesi poveri che l’hanno adottato come lingua ufficiale; in questi Stati la lingua inglese diventa uno strumento delle elitè, le uniche che possono permettere ai figli di apprendere questa lingua. La lingua d el colonizzatore perciò diventa superiore e attribuisce prestigio a chi la parla. Il fenomeno della superiorità linguistica non si ha solo con l’inglese, ma anche in tutti i contesti delle aree plurilingui, dove le persone possono usare più lingue in base alla situazione (sfera pubblica: lingua dominante; sfera privata: lingua materna). 5. Le minoranze linguistiche in Italia In Italia è difficile identificare il numero delle lingue parlate in un’area geografica, per la grande presenza di dialetti e di atri idiomi parlati dalle minoranze. Nel Medioevo in Italia era presente una pluralità di idiomi volgari, tra cui si è imposto il fiorentino per ragioni letterarie e politiche. Una volta codificato come italiano ufficiale, per effetto dell’Unità nazionale durante il Risorgimento, è diventato l’idioma nazionale, che doveva essere conosciuto (scritto e parlato) dalla nuova classe di burocrati. Fino a quel momento solo il 10% della popolazione però usava l’italiano, per ragioni culturali (bassa scolarizzazione), politiche (frammentazione in Stati indipendenti) ed economiche (assenza di una rete produttiva e commerciale integrata). Dopo l’Unità, soprattutto con il fascismo, si ha un’omologazione linguistica e una repressione dei dialetti e delle lingue minoritarie. Soltanto dagli anni ’80 c’è stato un risveglio delle identità linguistiche e una critica all’omologazione. Ci sono 5 grandi aree dialettali: area gallo-italica (piemontesi, lombardi, liguri, emiliani), veneta (veneti, trentini, giuliani), centrale (romanesco, marchigiani, umbri, laziali), alto-meridionale (abruzzesi, molisani, campani, lucani, pugliesi) e meridionale estrema (salentini, siciliani, calabresi). Oltre ai dialetti ci sono le lingue delle minoranze, non imparentate con l’italiano e parlate da gruppi etnici. Queste sopravvivono in base alla vitalità demografica delle comunità che le parlano, sempre però minacciate dalla diffusione dell’italiano. I sistemi linguistici autonomi sono il sardo e il friulano (non semplici dialetti), ma sono presenti altre minoranze linguistiche neolatine (francese, catalano e ladino) e non neolatine (albanese, sloveno, tedesco, romanì). 6. Geografia delle religioni Lo studio delle religioni serve anche per capire meglio le società, infatti le religioni sono alla base del bagaglio culturale e del sistema di valori di ogni comunità umana. La distribuzione geografica delle religioni infatti coincide con quella delle etnie e delle lingue, che dimostra proprio la differenziazione di interi sistemi culturali. Ad esempio, il culto degli antenati presso le religioni animiste, favorisce un’organizzazione sociale fondata su legami di sangue, mentre il confucianesimo favorisce il rispetto e la subordinazione ai superiori di rango e di età, inducendo una struttura sociale e politica immobile dominata dagli anziani. In passato l’analisi geografica delle religioni era soprattutto descrittiva e mostrava la loro distribuzione nel mondo, formando carte delle religioni. Nel tempo invece si sono analizzate le valenze delle religioni per studiare il rapporto tra l’uomo e il suo ambiente di vita, infatti le religioni producono effetti sul paesaggio in molte forme: ad esempio, condizionano i tipi di colture praticate (es. l’alternanza della coltivazione della vite in Maghreb), le abitudini alimentari (divieto dell’uso della carne di maiale nella religione islamica), lo spazio urbano (es. centralità di edifici religiosi e separazione in quartieri, come i ghetti ebraici). 30 esclusiva sul loro territorio, come gli Stati falliti (es. Somalia) o gli Stati a sovranità limitata (come successo durante la Guerra fredda per Paesi la cui politica estera era condizionata da una superpotenza). Nel corso del tempo comunque il numero degli Stati è cambiato molto, s oprattutto durante la decolonizzazione, che ha prodotto l’indipendenza di molti Stati africani e durante gli sfaldamenti dell’Unione Sovietica e della Iugoslavia, che ha prodotto la formazione di nuovi Stati. La forma è una caratteristica morfologica degli Stati: ci sono Stati a forma circolare, allungata o frammentata. La questione della forma è stato fondamentale quando si riteneva che le organizzazioni politiche dovessero corrispondere a unità geografiche naturali: ad esem pio, per i deterministi (fine ‘800), lo Stato doveva avere come forma ideale quella circolare e la sua capitale doveva essere collocata al centro. Anche se ora la forma non ha più molto significato, aveva rilevanza un tempo, quando le società erano meno dinamiche e le comunicazioni dovevano superare ostacoli ( monti, mari, deserti ecc): una forma irregolare era un freno allo sviluppo, mentre una forma compatta favoriva trasporti, sviluppo e coesione interna. In base alla forma troviamo lo Stato polimerico, cioè formato da territori estesi separati tra loro (es. Stati Uniti con l’Alaska, separata dal nucleo principale a causa del Canada). Altre definizioni sono quelle di enclave, cioè unità amministrative interamente circondate da un’altra (es. San Marino) e di exclave, cioè territori che appartengono a un soggetto politico, ma non confinano coi suoi territori (es. Gibilterra che appartiene alla Gran Bretagna). Il concetto di Stato nasce in Europa, ma già in antichità erano presenti delle organizzazioni politiche ben strutturate: gli imperi (Mesopotamia, Egitto, Cina ecc). Imperi e Stati differiscono per i principi costitutivi. Gli imperi hanno due caratteristiche principali: il potere è legittimato dalla derivazione divina (è quindi astorico, cioè non ha una limitazione alla propria durata) e ha una struttura accentrata garantita dal controllo milit are; inoltre gli imperi, a differenza degli Stati-nazione, possono accorpare popoli diversi, con culture differenti, per questo devono accettare e salvaguardare le diversità; l’autorità suprema ha una funzione di guida, più che di rappresentanza. Gli imperi inoltre non hanno un territorio di riferimento preciso, ma possono essere composti da territori anche non contigui.. Ad esempio, l’Impero romano era formato da culture molto eterogenee e territori vasti, che però erano sempre tenuti uniti grazie alla struttura di comando accentrata, all’apparato militare esteso, alla fitta rete di comunicazioni e all’efficiente pubblica amministrazione. Dopo gli imperi prese nacque la città-Stato, un’entità autonoma e sovrana sviluppata in un territorio molto ridotto. È stata l’organizzazione della Grecia classica, dove prese il nome di polis; qui non era presente un’organizzazione nazionale unica e il territorio era molto frammentato: nonostante ciò, tutte le comunità si identificavano con la civiltà ellenica. Oggi, alcuni casi di città-Stato sono San Marino, il Vaticano e il Principato di Monaco. Oggi, l’organizzazione politica più importante è lo Stato moderno, nato in Europa e poi diffuso in tutto il mondo con le colonizzazioni. L’affermazione del modello statale è quindi un dato storicizzabile, riconducibile a una specifica tradizione giuridico-politica elaborata da una specifica civiltà. Lo Stato si fonda su un esteso apparato amministrativo e su un unico comando concentrato un tempo nelle mani del monarca, mentre oggi nelle istituzioni repubblicane (da quando è stata sancita la divisione tra potere temporale e spirituale). Lo Stato ha un suo preciso territorio, il quale è fondamentale per esercitare la sovranità. Questa forma politica ha un carattere nazionale, cioè i suoi membri sono uniti dal senso di appartenenza a una stessa comunità nazionale. Gli Stati però sono sempre stati multinazionali e plurietnici, quindi la corrispondenza tra territorio e diffusione della nazione non sempre coincidono (sia per gli immigrati, sia per gli emigrati). Le diverse culture presenti in uno Stato però non sono simbolo di debolezza o divisione; da sempre invece, ciò che diminuisce il senso identitario della popolazione sono le differenze economiche tra ceti sociali e tra regioni (forze centrifughe). Quando invece il fattore economico non presenta disparità in uno Stato, l’identità nazionale e la coesione si rafforzano (forza centripeta), così come alti tassi di istruzione rafforzano la coscienza civica e la condivisione di valori. Ogni Stato ha un proprio modello organizzativo: sistemi centralizzati, in cui il potere è concentrato nelle mani del governo nazionale e le autorità locali hanno funzioni soltanto amministrative (es. in Francia e in Cina), e sistemi federali. Negli Stati federali c’è un equilibrio tra potere centrale e potere locale, con il secondo dotato di organi elettivi, capacità di darsi le proprie leggi e attuare politiche autonome. Il potere centrale si occupa soprattutto di politica estera e di difesa, dei trasporti e del commercio internazionale, mentre riguardo all’istruzione, la sanità e il fisco, i sin goli membri hanno una certa autonomia (es. in Canada , Stati Uniti e Australia). Le capitali delle federazioni non erano originariamente città di primaria importanza (es. Brasilia, Canberra o Ottawa). Nonostante le difficoltà per attuarlo, oggi il sistema federale è molto diffuso perché c’è l’idea che resisti meglio alle forze centrifughe. Ci sono anche forme intermedie tra questi due sistemi, che hanno però la stessa duplice finalità: assicurare l’unità dello Stato e tutelare le tradizioni lo cali. Un esempio di modello intermedio è lo Stato italiano, che dà la potestà legislativa anche alle regioni riguardo ad alcune materie, tranne che per la determinazione dei principi fondamentali. Come negli Stati centralizzati però, è l’autorità nazionale che affida alcune prero gative agli organismi locali, mentre nelle federazioni sono le autorità locali che delegano alcuni poteri al centro. Oggi gli Stati accusano segnali di indebolimento che coinvolgono tutti i settori della vita delle società: campo istituzionale (erosione della sovranità degli Stati e riduzione delle loro capacità normative: es. cessione dei poteri degli Stati all’UE), campo culturale (indebolimento della coesione nazionale per il riemergere delle identità locali), campo economico (globalizzazione che accresce i flussi internazionali che gli Stati non riescono a controllare), campo politico (difficoltà di contrastare le minacce globali, come i problemi ambientali), campo della sicurezza (incapacità di assicurare la difesa dei propri confini). Non si può stabilire il futuro degli Stati, ma si può ipotizzare un loro adattamento a una nuova situazione, con la trasformazione verso entità post- nazionali che rinuncino all’idea di omogeneità etnica. Anche dal punto di vista geografico, si può immaginare una relazione diversa con il territorio, con forme articolate in cui sfuma l’esclusività del principio della sovranità (oggi elemento fondamentale su cui s i fonda uno Stato). 7. Il naturale complemento dello Stato moderno: la nazione Lo Stato moderno può anche essere definito “STATO-NAZIONE”, a indicare che lo Stato è l’espressione politica della nazione. La geografia è interessata al concetto di nazione, in quanto fa riferimento al territorio, in quanto in ogni nazione, i suoi membri devono risiedere su un territorio. Il territorio quindi è un elemento imprescindibile, in quanto legittima il senso politico del progetto di convivenza comune: la comunità deve quindi sentire di possedere un radicamento territoriale stabile. Per lo Stato-nazione, ma anche per l’impero e i localismi, il territorio è esclusivo, cioè non può appartenere allo stesso tempo a due diverse organizzazioni politiche, diversamente da quanto concepito da altre ideologie, come il marxismo. Il territorio diventa un’unità spaziale distinta da tutte le altre per la sua unicità; in questo modo identità sociale e territoriale tendono a coincidere, generando un doppio attaccamento dell’individuo, sia a una comunità, sia a uno spazio. Oggi, il concetto di nazione è diventato anche la chiave del successo di molti partiti poli tici, che promuovono la riscoperta del sentimento nazionale. Ci sono diversi studi sulla nazione, ma tutti concordano nel considerare la nazione un gruppo umano che condivide: o Alcuni tratti culturali, che consentono di distinguersi da altri gruppi e sviluppare il senso d’identità (es. religione, lingua, elementi della tradizione) o Vicende storiche comuni, che danno la sensazione di condividere lo stesso passato (es. indipendenza nazionale vista come festività) o Aspirazioni politiche, infatti la nazione si presenta come un gruppo etnico politicizzato. Ad esempio, nella nazione elvetica , l’ide a di comunità politica indivisibile prevale sui tratti culturali comuni o Auto identificazione dei membri, cioè il senso di appartenenza alla comunità, che deve essere rafforzato con rituali (feste laiche) e simboli (canti patriottici), perché l’identificazione soggettiva di appartenenza muta nel tempo (es. i palestinesi si sono percepiti come una comunità 31 nazionale solo dopo la nascita dello Stato d’Israele). Il sentimento di appartenenza è quindi psicologico ed emotivo, per quest o spesso le nazioni lo alimenta, sviluppando proprie iconografie ed eroi o Un territorio, il quale ha lo scopo di dare un radicamento territoriale alla comunità e di rafforzare quel sentimento richiamando nel paesaggio la nazione, attraverso statue e strade dedicate ai suoi eroi. Il territorio funge quindi da patria della nazione. L’evoluzione del rapporto tra nazione e territorio ha percorso due strade: la territorializzazione della nazione e la nazionalizzazione del territorio. La territorializzazione è un processo in cui la nazione si forma solo quando essa si dota di una base territoriale; in questo modo la nazione scopre di estendersi su un territorio e da questa consapevolezza nasce il rapporto tra i due elementi da cui derivano specifici diritti e doveri: diritto di considerarlo proprio e dovere di garantire la cittadinanza a tutti coloro che vi sono nati ( ius soli). La nazionalizzazione del territorio invece consiste in una nazione che preesiste già prima di essere istituzionalizzata, dove c’è già una coscienza nazionale prima di occupare un territorio e dove il diritt o alla cittadinanza viene concesso per discendenza, cioè in base all’appartenenza alla nazione, a prescindere da dove si nasce o si risiede ( ius sanguinis); ne fanno parte tutte le nazioni che solo tardi hanno costituito uno Stato indipendente (es. Italia). Il processo di nazionalizzazione continua ad estendersi fin q uando non saranno incorporati nello Stato tutti i territori abitati da comunità affini per tratti culturali, per questo può produrre rivendicazioni, come successo all’Italia prima della Prima guerra mondiale, per reclamare regioni abitate da popolazioni italiane rimaste sotto la sovranità stranera (Istria, Dalmazia, Trentino e Venezia Giulia). Anche il separatismo e il secessionismo sono processi di rivendicazione di una comunità nazionale che chiede una maggiore autonomia o la piena indipendenza. Spesso le lotte separatiste sono generate dai confini coloniali che hanno lasciato nello stesso Stato gruppi rivali ostili. Le manifestazioni separatiste avvengono spesso in regioni periferiche, in cui c’è una condizione di disuguaglianza sociale ed econom ica rispetto al gruppo dominante: ciò è un fattore per aumentare la partecipazione alla lotta della minoranza che si sente oppressa culturalmente, socialmente ed economicamente. La nazione è quindi un prodotto culturale, non dato in natura. A volte più nazioni si identificano in uno stesso territorio: ciò porta a rivalità, con conseguenti atti politici vendicativi, perché ci si contende un territorio percepito come indispensabile alla piena realizzazione della n azione. Tutte queste espressioni di esaltazione del sentimento nazionale e di azioni politiche, prendono il nome di nazionalismi: gli elementi principali sono il territorio, specifici caratteri culturali e il sentimento di appartenenza. Il nazionalismo si fonda sull’idea che l’umanità sia divisa in nazioni e che gli individui vi appartengano, senza poter avere identità ibride: ciò rafforza l’identità e inasprisce le rivalità. Stessi effetti li ha il patriottismo, che però si fonda sul sentimento di attaccamento e al senso di fedeltà non a una nazione ma a uno Stato. Ci sono 3 prospettive di analisi della nazione: primordiali sta, modernista ed etno-simbolista. PRIMORDIALISTA: la nazione è un’estensione della famiglia, dunque è insita nella natura umana, un suo tratto genetico presente in ogni epoca e continente; ne fanno parte le visioni ottocentesche e le filosofie ariane e razziste, che hanno trasformato la nazione da ispiratrice di ideali a ideologia aggressiva e intollerante. La nazione quindi non va discussa, ma esiste in sé e, sul piano geografico, è formata da un nucleo centrale in un territorio ridotto. MODERNISTA (o costruttivista):la nazione è un prodotto culturale nato durate il passaggio dalle società tradizionali a quelle moderne, dunque i movimenti nazionali precedono la formazione della nazione. Ebbe origine quindi durante la prima Rivoluzione industriale (con l’esplosione demografica, l’urbanizzazione e le migrazioni dalle campagne alle città), in cui c’era l’esigenza di una maggiore standardizzazione sociale e strumenti che stabilizzassero la società. Ciò è stato permesso attraverso la diffusione dell’idea nazionale, come strumento (insieme alla diffusione dell’istruzione e della stampa) che promuove valori comuni e omologazione linguistico-culturale. Dal punto di vista geografico, lo Stato nazionale si sviluppa su un territorio esteso, perché assume a modello le grandi monarchie di cui prende il posto. È soprattutto con la Rivoluzione francese che lo Stato territoriale diventa Stato nazionale e l’idea di nazione deriva dagli interessi della borghesia. La nazione è quindi un fenomeno storico che, così come è sorta, può anche entrare in crisi se venissero meno le esigenze che l’ha prodotta, che si rifletterebbe poi nella perdita di forza dei dispositivi comunicativi che la ali mentano. I nazionalismi infatti sono stati facilitati dall’avvento di canali di omologazione sociale (stampa, telegrafo, rete viaria e ferroviaria, s cuola, social). I nazionalismi inoltre si sono diffusi dall’alto verso il basso: l’esigenza di una pedagogia nazionale ha portato nuove forme espressive, nuove strategie nella comunicazione politica, rivolta alle masse e basate sulle emozioni. ETNO-SIMBOLISTA: la nazione nasce in uno specifico contesto storico, ma usa tradizioni e legami etnici preesistenti, cioè le nazioni si manife stano in età moderna ma sono legate al passato, con radici nei miti di discendenza comune e nelle vicende storiche e culturali condivise. Quando i membri acquistano consapevolezza della loro appartenenza, si ha il passaggio da etnia a nazione. Da qui, è necessario un lavoro di conservazion e della memoria e di divulgazione dei miti che trasformano la natura apolitica della nazione in un fenomeno politicizzato e di massa, attraverso mitologie e simboli. Dal punto di vista geografico, si ha il territorio di riferimento degli avi: ad esempio, la nazione greca odierna riconoscerebbe come suo territorio quello della Grecia antica. 8. I confini politici attraverso la storia Un confine chiaro e riconosciuto è fondamentale per ogni Stato, altrimenti la sua esistenza potrebbe essere messa in discussione. Un tempo il territorio non aveva bisogno di confini, perché molti territori erano separati tra loro ma uniti dalla fedeltà comune a un regnante, mentre in l’epoca moderna, la sovranità si definisce in forma territoriale e il territorio diventa un’area controllata da uno specifico potere. Definendo il confine, la posizione geografica diventa il parametro principale per stabilire diritti e doveri, cioè l’area entro cui hanno validità la sovranità e le leggi di uno Stat o. Tra geografia e diritto quindi c’è una relazione reciproca: la geografia si serve delle regole del diritto per rapportarsi e sfruttare un territorio, mentre il diritto, attraverso le forme di occupazione del territorio, si materializza, altrimenti perderebbe la capacità di regolare le relazioni. Più del 40% dei confini odierni sono stati disegnati durante la colonizzazione, quando si utilizzavano confini geometrici, cioè lineari, perché di facile applicazione. In Europa invece, i confini sono il risultato di lunghi processi storici e sono naturali, cioè due Stati vengono divisi seguendo un elemento naturale, come una catena montuosa (linea di cresta o di displuvio) o un corso d’acqua (linea mediana tra le due sponde o linea di massima profondità del corso). Il confine naturale comunque può non segnare confini precisi e questo può dar luogo a controversie, infatti tra comunità che si trovano divise da una montagna o un fiume (via di comunicazione che permette il contatto), spesso ci sono molte affinità che le accomuna (sociali, culturali, economiche) e hanno bisogno di confrontarsi con lo stesso ambiente naturale, perciò i confini segnano nettamente la divisione tra due Stati, ma non quella tra fenomeni sociali. I confini sono comunque tutti artificiali, decisi dall’uomo. In passato si credeva anche che il confine fosse un disegno preordinato espresso attraverso la natura; queste teorie hanno motivato progetti politici aggressivi, come l’irredentismo italiano, con la rivendicazione di estendere i confini italiani fino al Brennero, perché c’era l’idea che esso segnasse lo spartiacque alpino. La convinzione antica che il confine abbia funzione difensiva, porta allo sviluppo di ragioni strategiche e militari che lo considerano un “buon confine”. Poiché lo Stato nazionale è considerato lo Stato ideale, in quanto etnicamente omogeneo e le nazioni si distribuiscono seguendo i caratteri morfologici del territorio, allora il confine politico migliore sarebbe quello naturale; in questo modo il confine politico assume anche un significato spirituale, in quanto segnato dalla natura e quindi voluto dal destino. I confini coloniali invece sono frutto di prevaricazioni, in quanto imposti da un potere esterno indifferente alle condizioni di vita e ai caratteri etnici d i una popolazione; in questo caso infatti i confini non sono dettati dalla ragione, ma sono disegnati sulla base del procedere delle esplorazioni geografiche, che hanno raggruppato in uno stesso territorio comunità rivali e diviso quelle omogenee. 32 9. Funzioni ed effetti del confine Lo spazio definito dal confine è uno spazio omogeneo all’interno di uno Stato (autorità, giurisdizione, lingua uguale per tut ti i cittadini), che si differenzia molto dagli altri Stati. Il confine è ancora considerato come elemento di difesa da presidiare (associato al concetto di frontiera). La funzione più antica del confine è quella difensiva, per cui oltrepassarlo rappresenta un atto ostile; per questo sono state costruite strutture difensive, come la Grande Murag lia cinese. I confini erano fasce di territorio usati per la difesa, quindi con postazioni e fossati collegati tra loro da una rete viaria costantemente pattugliata e inaccessibile alla popolazione; come queste fasce, ci sono anche altre forme di confine, come le terre di nessuno, ossia fasc e di separazione disabitate. Tra le funzioni dei confini c’è anche quella commerciale, con cui l’autorità può effettuare un controllo e una migliore regolazione del mercato interno e quella fiscale, per cui il confine permette di istituire regimi tariffari specifici e di adottare misure speciali (barriere e dazi doganali ). I confini quindi servono per controllare il territorio. Recentemente, i confini stanno perdendo la loro funzionalità, a causa della crescente mobilità delle merci e dei processi di associazione tra Stati: la defunzionalizzazione però non vale per le persone, poiché molti migranti non riescono a trasferirsi in un altro Paese. Un’altra funzione è quella identitaria: da quando si sono sviluppati gli Stati-nazione, il territorio è diventato parte dell’identità collettiva, poiché è un elemento posseduto esclusivamente da ogni nazione. Ciò però porta all’idea che i confini non separino solo gli Stati, ma anch e le culture differenti. La coscienza dell’identità nazionale trova il proprio riferimento simbolico proprio nel territorio, infatti ogni comunità nazionale sviluppa un proprio senso di appartenenza a un territorio. Anche oggi rimane l’idea che i confini politici servano per raggruppare persone appartenenti allo stesso popolo e dividere quelli appartenenti a popoli diversi: ciò si basa sulla convinzione che sia possibile attribuire ciascun individuo esclusivamente a un popolo, e ciò è molto superficiale. Il confine divide, ma può anche unire, poiché crea un effetto di disparità spaziale, cioè tende ad amplificare la differenza tra ciò che c’è ai suoi due lati e ciò porta a una relazione conveniente tra i due versanti del confine. Il confine quindi implica sempre una relazione, che può essere pacifica, con infrastrutture che facilitano l’attraversamento e con forme di cooperazione transfrontaliera (tipico dell’UE). Se il rapporto è conflittuale, al confine ci saranno elementi di controllo e militarizzazione (tipico del confine tra le due Coree). Ci sono casi invece in cui i due lati del confine hanno situazioni differenziate; ad esempio, il confine tra Messico e USA permette agli abitanti degli Stati Uniti di oltrepassarlo con facilità, mentre per i messicani è molto difficile. La rigidità di un confine quindi dipende dal lato in cui mi trovo. I confini però non sono assoluti, ma mutano in base all’evoluzione deg li equilibri di potere. Nei rapporti tra ogni comunità politica perciò, i confini fungono da punto di equilibrio e indicatore della loro potenza relativa. 10. Frontiere e forme dei confini Il confine lineare rigido dell’epoca moderna è solo un tipo di confine. Gli imperi antichi classici, ad esempio, concepivano gradienti spaziali della sovranità, in cui la capacità di esercitare il potere e il controllo sul territorio era diversificato: al centro (sede dell’autorità imperiale), il potere era forte, mentre se ci si distaccava dal centro, il controllo sul territorio si perdeva gradualmente fino a quasi scomparire; questo è presente anche oggi in Congo, dove le autorità centrali non riescono a esercitare un pieno controllo sulle regioni orientali. In queste regioni poco controllate, i confini prendono la forma di frontiere. Il confine è una barriera politica fissa, che stabilisce un cambio di regime sovrano e una chiusura, mentre la frontiera è l’intera area (regione) in cui gli effetti del confine tendono a scomparire e dove si mescolano gli elementi; è quindi mobile e fluida e non richiama la chiusura, ma l’apertura a scambi e conquiste. La frontiera è uno spazio di confronto, sia pacifico, sia conflittuale. Il passaggio di frontiera (borderscape) è eterogeneo, poiché è uno spazio di transizione e non ha canoni da rispettare, è auto-organizzato. Tra le altre forme di confine ci sono le marche di frontiera, aree che non separano, ma proteggono dall’attacco e facilitano nuove conquiste. Inoltre ci sono dei confini che non si trovano ai limiti dello Stato, ma all’interno di esso, ad esempio i luoghi come aeroporti o centri di accoglienza per migranti, che svolgono funzioni di filtraggio e separazione dalla popolazione già residente. Queste modalità a volte sono collocate all’esterno dello Stato che esercita il controllo (es. controlli sulle merci o sui migranti che avviene sul territorio dello Stato di partenza). Oltre ai confini terrestri, esistono anche quelli marittimi, i quali non si basano su criteri storici, culturali o etnici, ma sull’attribuzione di fasce di controllo a una specifica nazione, che porta al fenomeno di territorializzazione del mare, innescato dalla caccia alle sue risorse. Il mare quindi non è una barriera, ma una posta in palio. Il diritto internazionale marittimo ha fissato un sistema di spazi in successione su cui gli Stati esercitano prerogative proprie: o Acque interne (laghi, fiumi, lagune ecc): lo Stato ha sovranità assoluta, anche nella porzione di mare entro la linea di base, cioè il tra cciato geometrico antistante la costa, che comprende anche isole e golfi o Acque territoriali (fino a 12 miglia dalla costa): lo Stato ha la sovranità assoluta, ma possono essere attraversate liberamente anche da imbarcazioni di altri Paesi, soprattutto per il traffico internazionale o Fascia contigua (fino a 24 miglia): uno Stato può esercitare il diritto di far valere le proprie leggi doganali e sanitarie, anche intraprend endo azioni repressive se necessario o Zona economica esclusiva (fino a 200 miglia): le risorse sono di pertinenza di un unico Stato, che ne ha il pieno diritto di esplorazione e sfruttamento o Mare aperto: libero da ogni forma di appropriazione I diritti sul mare hanno sempre avuto un peso politico e spesso sono stati al centro di dispute, soprattutto per la ricerca d i uno sbocco stabile al mare, che consente di non incorrere in dogane, pedaggi e incidenti burocratici; inoltre è pure un fattore psicologico di potenza. Oggi molti Stati richiedono un’estensione maggiore di sovranità sul mare, ma anche sui fondali, che limiterebbe la navigazione degli altri Paesi: ciò comporta l’opposizione delle potenze marittime che hanno tra i principali fattori di forza proprio la libertà d’azione in mare. La regolamentazione dei confini, in futuro, non interesserà solo gli ambienti terrestri e marittimi, ma anche quelli atmosferici e cosmici. 11. Confini e conflittualità Spesso i confini sono il risultato di un fatto bellico, più che l’esito di un accordo tra le parti che divide. È soprattutto l’ambiente marino, ricco di zone di pesca e di risorse minerarie, che è al centro di contese. Anche l’Italia ha contese aperte con la Tunisia e la Croazia per le riven dicazioni di zone esclusive. Oggi però si tende a non usare più il confine come potere solo per l’appropriazione di risorse, per questo si tende a usare anche logiche meno formalizzate di confine, che sorvegliano grazie all’uso di telecamere, droni e raggi infrarossi, che non destano l’attenzione del cittadino e possono essere estese a ogni luogo del territorio. I confini hanno attratto l’attenzione di molte discipline, grazie agli studi sul cosmopolitismo, che è sia un atteggiamento individuale, sia una corrente ideale che considera tutti gli uomini appartenenti a un unico grande spazio globale. In questo senso, i confini dovrebbero essere attenuati, per consentire il dialogo tra le popolazioni del mondo e per affrontare i problemi globali, come la questione ambientale. Secondo la prospettiva cosmopolitica, le previsioni sul futuro dei confini sono contraddittorie: c’è chi pensa che i processi di globalizzazione supereranno i confini ( prospettiva globalista) e chi sottolinea che la diversificazione dei confini permetta una gestione dei fenomeni che li coinvolgono (cosmopolitismo plurale), che vede emergere nuove forme di confine di vario aspetto e natura (dinamico, immateriale, etnico, religioso, culturale) che perpetuerà il dominio dell’Occidente per difendersi da immigrazione e 35 disponibile è in gran parte di pessima qualità a causa dell’inquinamento, in quanto il terreno non riesce ad auto depurarsi perché i carichi inquinanti sono superiori alle capacità di smaltimento; questo costringe l’uomo ad attivare tecnologie di depurazione, che però non sono disp onibili a tutti, così come la desalinizzazione dell’acqua dei mari. L’uso di queste tecnologie è riservata alle popolazioni ricche del Pianeta, perciò è un elemento discriminante che genera conflittualità o Crescente aumento dei consumi: triplicato rispetto al 1950. L’acqua per gli usi alimentari, su cui incide l’aumento della popolazione mondiale, che colpisce soprattutto i Paesi poveri, è pari al 5% dei consumi mondiali. Il resto dei consumi è destinato all’agricoltura (80%), l’industria e gli usi igienici: la meccanizzazione dell’agricoltura e l’estensione delle terre irrigate ha inciso molto sull’aumento dei consumi, così come anche l’uso industriale, dato che per produrre un kg di acciaio sono necessari 80l di acqua e gli usi igienici, a seguito del miglioramento del tenore di vita, soprattutto dei Paesi ricchi, che ha portato l’acqua in tutte le case e diffuso l’uso di elettrodomestici per il lavaggio o Commercializzazione: si considera l’acqua un bene da sfruttare economicamente secondo logiche per cui il prezzo di vendita deve garantire il recup ero del costo di produzione e la migliore gestione prevede l’affidamento a un organismo indipendente della politica. In questo modo l’acqua non è più considerata un bene collettivo, ma individuale, e gli sprechi sono considerati come conseguenza del fatto che il suo prezzo n on ne riflette il valore. Questo ha portato allo sfruttamento e alla trasformazione di società pubbliche a private, che ha permesso la riduzione degli sprechi e dei prezzi, ora soggetti alla concorrenza. Nei Paesi poveri invece c’è stata una diminuzione negli investimenti per la manutenzione delle infrastrutture e quindi una diminuzione della qualità dell’acqua. È bene ricordare però che l’acqua non è un bene di consumo in concorrenza, ma una risorsa collettiva e un bene comune. Il bisogno continuo di acqua a fronte di condizioni di indisponibilità porta a situazioni di conflitto per il suo controllo tra Paesi, e ciò incide sui loro rapporti di forza. Ad esempio, un Paese a monte di un fiume è in una posizione più favorevole rispetto a quello a valle e può fruttare la sua posizione e usare l’acqua come arma di ricatto (es. come successo in Turchia nei confronti di Iraq e Siria). Fortunatamente la maggior parte delle volte, lo sfruttamento dell’acqua è regolato in modo pacifico e condiviso. Oggi c’è la concezione prevalente della sovranità limitata, per cui tutti gli Stati a valle formano una comunità di interessi e gli Stati a monte non devono pregiudicare lo sfruttamento di quelli a valle. CAP. 14 – GEOECONOMIA. PAESAGGI E RISORSE 1. L’approccio geografico al tema Le componenti spaziali contribuiscono a determinare il funzionamento dell’economia. I soggetti e i temi dell’economia possono avere natura materiale (fabbrica, miniera, porto) o immateriale (sistema dei redditi, flussi finanziari); ciò che li accomuna è il possesso di una spazialità. Tutti questi elementi infatti hanno una loro distribuzione geografica (non sono ripartiti uniformemente in tutti i luoghi). Tra attività economiche e territorio c’è una relazione biunivoca: le attività inducono differenze tra i territori (es. aggravando le disparità tra le condizioni di vita degli abitanti) e il territorio influenza la realtà economica (es. sviluppando un certo insediamento produttivo invece che un altro). Tra territorio e realtà economica ci sono relazioni di tipo verticale, ossia tutte le attività che prevedono un rapporto diretto con l’ambito locale e le sue condizioni naturali (es. giacimento estrattivo, insenatura per realizzare un porto) e relazioni di tipo orizzontale, che intercorrono tra soggetti siti in luoghi diversi che sono connessi tra loro per degli scambi (informazioni, merci ecc). L’approccio geografico per analizzare tutto questo adotta come criterio la distinzione per tipologia di paesaggio (montuoso, rurale, urbano, marino ecc), all’interno del quale si evidenzierà il grado di alterazione degli equilibri ambientali provocato dalle attività economiche: questo criterio permette di cogliere il nesso società-natura. 2. L’economia degli ambienti montani Gli ambienti montani oggi sono meno popolati rispetto ad altri paesaggi, mentre prima erano più popolate le montagne rispetto alle valli. Il processo di spopolamento e l’emigrazione della popolazione ha valle è stata favorita dallo sfruttamento del terreno e dalla richiesta di spazi pianeggianti, ma anche dalla costruzione di infrastrutture, come le centrali idroelettriche, le quali hanno sviluppato laghi artificiali in aree abitate, che hanno costretto la popolazione a trasferirsi, così come è avvenuto nelle Alpi. Fortunatamente, il settore che più ha inciso sul paesaggio alpino è quello turistico, il quale ha sviluppato l’economia della montagna e ha ridato vitalità a località in crisi e ha frenato lo spopolamento con nuovi posti di lavoro (strutture ricettive, impianti sciistici ecc). Questi elementi però hanno stravolto l’ambiente naturale montano, con la costruzione di reti stradal i (gallerie, viadotti) e moderni centri residenziali. Accanto ai vantaggi economici quindi ci sono anche svantaggi per l’amb iente naturale, ma anche culturale, perché le tradizioni vengono soffocate. 3. L’economia degli ambienti rurali pianeggianti La prima forma di modifica dell’ambiente è stata la sedentarizzazione degli agricoltori, con la comparsa dell’agricoltura e dell’allevamento, in Mesopotamia, Cina e America centrale, che ha avuto ripercussioni sulla vita sociale, soprattutto sul nuovo modo di usare le r isorse naturali. I paesaggi naturali vennero modificati, con l’estensione delle terre coltivate nelle regioni temperate e con l’arretramento delle foreste e delle aree boschive, processo giunto fino a oggi. Oggi le coltivazioni sono estese in tutti gli ambienti, anche quelli meno favorevoli, a eccezione delle zone polari; inoltre, l’agricoltura moderna, grazie ai progressi nella conservazione dei cibi, ha reso disponibili i prodotti in ogni mo mento dell’anno. Anche la crescita della fertilità del terreno ha reso molta più produttività, in grado di soddisfare la crescente domanda per l’incremento della popolazione. Tutti questi successi nell’agricoltura, oltre a essere distribuiti non equamente nel Pianeta, sono stati raggiunti con l’uso di pesticidi e concimi chimici che, nel tempo, penetrano nelle falde acquifere e diventano anche pericolosi per la salute dell’uomo, perché possono depositarsi sulle parti commestibili di frutta e verdura e possono essere ingeriti. Oggi l’agricoltura biologica è una risposta a questi problemi, che eleva anche la qualità dei cibi. Anche l’allevamento ha subito trasformazioni. Ormai non si usa più l’allevamento tradizionale, ossia quello montano, con l’alpeggio e la transumanza, ma si è spostato a valle, in grandi stalle che ospitano migliaia capi di bestiame. Qui sono presenti attrezzature molto avanzate in grado di fornire a ogni animale la quantità di alimentazione prevista e di dividere le attività che separano i bovini da macellazione dalle vacche da latte e i polli da carne dalle galline ovaiole. Le pratiche agricole e l’allevamento quindi avvengono separatamente rispetto al passato. Un'altra attività economica svolta in pianura e invasiva è lo sfruttamento dei corsi d’acqua per l’estrazione di materiali da costruzione (ghiaia, sabbia e argilla). Le cave fluviali ad esempio sono una risorsa facile da sfruttare ed economica. Quest’attività però impatta molto sull’ambiente, infatti i letti dei fiumi si abbassano a causa dell’asportazione di materiale e ciò può comportare sia problemi al corso naturale del fiume, sia perico lo per gli abitanti. 4. L’economia degli ambienti periurbani La prima Rivoluzione industriale, avviata in Inghilterra nel 1776 con l’invenzione della macchina a vapore, capace di facilitare l’estrazione del carbone, cambiò l’organizzazione economica del territorio; le fabbriche infatti erano tutte concentrate in uno stesso luogo e non disperse sul territorio, come le botteghe artigiane. In questo modo, la vicinanza di alloggi e industri, portò alla rapida crescita demografica delle prime ci ttà industriali, come Manchester. Con la seconda Rivoluzione industriale (fine ‘800), l’avvento di nuove fonti energetiche, come il petrolio, portò la nascita di nuove industrie presso i porti. Le prime fasi favorirono relazioni verticali, mentre le ultime quelle orizzontali: ciò modificò la relazione tra economia e t erritorio. Le industrie (tessili e del 36 vetro) furono costruite anche vicino a grandi città, come Londra e Parigi, che attraevano sia per l’ampio mercato, sia per l'offerta di forza lavoro. Le relazioni orizzontali permesse dalla seconda Rivoluzione permise di mettere in contatto l’Europa con il resto del mondo. Anche il settore dei trasporti, con la diffusione delle ferrovie, cambiò molto i paesaggi europei, accentuati anche dallo sviluppo di altre vie di comunicazione (strade, ponti, canali ecc), distribuiti in modo non uniforme, avvantaggiando alcuni luoghi a discapito di altri. La trasformazione di territori da artigianali a industriali permisero di rendere più autonomi i singoli territori: prima i territori avevano un’economia chiusa, senza scambi con altre aree, e dipendevano dalle proprie dotazioni sia in termini di risorse naturali, sia di condizioni storico-antropiche. Le relazioni orizzontali (relazioni tra vari territori) invece permisero di aumentare anche la competitività economica di ogni luogo; ad esempio, il richiamo di manodopera specializzata permetteva a un territorio di essere più produttivo e di offrire quindi condizioni migliori rispetto agli altri luoghi, aumentando anche il profitto. 5. L’economia degli ambienti urbani I centri abitati sono l’espressione più evidente della presenza umana e delle sue attività economiche nel territorio; essa è anche invasiva per gli equilibri ambientali, infatti la concentrazione di persone nello stesso luogo trasforma la natura di quel territorio per adattarsi alle esigenze della società: queste alterazioni si accentuano con il crescere della densità abitativa e raggiungono l’apice nelle conurbazioni con milioni di abitanti. La concentrazione della popolazione in un luogo ha alla base ragioni sociali ed economiche legate alle funzioni che svolge la città: di tipo direzion ale, di servizio alla cittadinanza, produttive, culturali, distributive. Sono tutte funzioni del settore terziario, connesse alla distribuzione di beni e servizi (settore del commercio, del turismo, dei trasporti). Esiste anche il settore terziario avanzato, relativo alle attività intellettuali, come la ricerca scientifica e la tecnologia dell’informazione. Di solito un centro abitato ha molte funzioni, ma a volte alcuni centri ne svolgono una prevalente che li qualifica come città specializzate. La storia economica dà luogo alla distinzione tra: Città preindustriali: ci sono insediamenti nati in età medievale (es. Italia centrale), con edifici bassi, mura difensive e strade strette e irrego lari. Erano organizzati secondo una rigida ripartizione, con il centro abitato destinato a nobili, mercanti e intellettuali e le periferie per gli strati sociali più umili Città industriali: si trovano in centri vicini a giacimenti di materie prime e nei Paesi protagonisti della Rivoluzione industriale. Sono città cresciute rapidamente in un contesto formato da dimore scadenti (quartieri operai) e ampi edifici (fabbriche) Città post industriali: sono le città integrate pienamente nel terziario avanzato, con attività di decisione, comando e pianificazione, ossia le città globali, che integrano in uno stesso luogo varie istituzioni politiche, culturali e multinazionali, industrie ad alta tecnologia e borse valori. Qui vivono professionisti qualificati, inclini alla mobilità e al multiculturalismo. L’interconnessione tra le città globali grazie a infrastrutture come aeroporti e reti telematiche porta a una rigerarchizzazione degli spazi mondiali, con nuove centralità e nuove marginalità. Dalla prima Rivoluzione industriale c’è stato il fenomeno di inurbamento (enorme flusso di popolazione emigrata nelle città), diverso tra Paesi ricchi, cominciato già a fine ‘700, e Paesi poveri, in cui è stato un fenomeno più recente che spesso ha avuto impatti negativi sull’ ambiente, ad esempio a causa dell’inquinamento dell’aria, causa di molte malattie respiratorie; questo fatto è più diffuso nei Paesi poveri, dove è alimentato da gas dal piombo dei gas di scarico, dalle forme di riscaldamento antiquate e dalle emissioni tossiche delle industrie: un esempio è Città del Mess ico. Anche il tema dei rifiuti è un problema di alterazione dell’ambiente nelle società consumistiche contemporanee, soprattutto in quelle che consumano plastica non biodegradabile: per questo bisogna migliorare i processi di riciclaggio e smaltimento; ciò è molto difficile nei Paesi poveri che non hanno tecnologie e finanziamenti necessari per sistemi di raccolta e trattamento dei rifiuti adeguati. Le città quindi sono il nodo critico del rapporto tra ambiente e crescita economica, e molte di esse oggi si confrontano con i loro limiti allo sviluppo: limiti di spazio, di livelli di inquinamento, di approvvigionamento di risorse ( acqua ed energia). L’obiettivo è quello di aprire una strada verso la sostenibilità dell’ecosistema: la priorità è la sostenibilità umana, cioè il soddisfare i bisogni degli abitanti tutelando però anche l’ambiente. Bisogna rivedere le condizioni di vita nelle città, che sono critiche, attraverso le opportunità di riconversione delle ex aree industriali, attraverso la possibilità di ridisegnare parti di città con più attenzione all’ambiente. A Berlino, ad esempio, interi quartieri sono stati ricostruiti in un’ottica ecologica, con sistemi di risparmio energetico, depuratori, spazi verdi, sistemi di riciclaggio dei rifiuti e forme di mobilità sostenibili, come le piste ciclabili. I modelli di urbanistica ecologica considerano la natura come parte costitutiva della pianificazione urbanistica. La trasformazione degli spazi urbani con misure di promozione alla sostenibilità permette il coinvolgimento anche dei cittadini, per questo sono importanti le iniziative dal basso, che mirano a valorizzare la fruizione di giardini creando occasioni di incontro in spazi pubblici. Il tema del verde in città è strategico e ha l’obiettivo di consentire ai cittadini di mantenere un rapporto con la natura, soprattutto in questo secolo dove la popolazione urbana ha superato quella rurale. 6. L’economia degli ambienti marini e litoranei Le attività economiche marittime sono legate all’industria ittica, ai giacimenti minerari in mare e ai trasporti. La pesca è un’attività centrale nella vita economica di molti popoli (giapponesi, islandesi, norvegesi), ma può impattare anche molto sull’ecosistema marino, soprattutto quando viene praticata in modo errato, senza cura per il ripopolamento marino, ad esempio con la pesca a strascico. L’ecosistema marino inoltre è inquinato da scarichi di rifiuti industriali e maree nere, cioè versamenti di greggio in mare dovuto a incidenti di petroliere. L’economia marittima cresce soprattutto, oltre che con la pesca, con le esplorazioni minerarie, in quanto ci sono molti giacimenti di petrolio e gas, ma anche di molti metalli. Gli ambienti marini offrono anche la possibilità per lo sviluppo del settore delle telecomunicazioni, attraverso investimenti nel cablaggio sottomarino per migliorare la trasmissione dati. In campo medico vengono usate alghe e microrganismi, da cui si estraggono principi attivi benefici. Il litorale è una zona di contatto tra terra e acqua, per questo ha forme originali di organizzazione dello spazio che valorizzano le attività economiche. Ci sono 3 settori che sfruttano le risorse sia della componente terrestre che di quella marittima (industria del sale, acquacoltura costiera e turismo balneare), sia riguardo le risorse naturali (sale, fauna ittica, paesaggio), sia le esigenze economiche che soddisfano (industria degli alimenti e tempo libero). Anche il porto è un’infrastruttura legata sia alla componente marittima che terrestre: esso è il luogo di interazione tra il mare aperto (via di comunicazione) e l’entroterra (generatore di domanda di scambi e risorse); il porto più grande d’Europa è Rotterdam. I porti sono anche gli elementi centrali delle industrie siderurgica e petrolchimica. Lo sviluppo delle attività legate alla nautica da diporto ha fatto moltiplicare i porti turistic i, mentre gli scambi marittimi hanno fatto sorgere porti enormi per accogliere imbarcazioni molto grandi (fenomeno del gigantismo navale). Questi fenomeni esercitano una pressione sulle coste, e la colonizzazione delle spiagge a fini turistici comportano lo sviluppo di costruzioni che sconvolgono l’ecosistema dei litorali. 7. L’economia dello spazio atmosferico ed extra-atmosferico Lo spazio è diviso in strati. Fino a pochi anni fa solo la troposfera (strato inferiore) aveva un’utilità, soprattutto per il trasporto aereo; oltre a questo però non aveva nessun’altra utilità economica: le missioni spaziali e lo sbarco sulla Luna avevano più un valore simbolico nel dimostrare la superiorità tecnologica di un Paese più che un valore economico. Oggi invece lo spazio è affascinante sia per il primato tecnologico, sia per le attività economiche a esso connesse: oltre che per uso militare (a fini informativi) e scientifico (esplorazione di altri pianeti, osservazione dei fenomeni terrestri), lo spazio è usato anche per attività di tipo commerciale (legato a servizi di connessione dati e geolocalizzazione), per la possibile estrazion e di minerali dal suolo lunare e per 37 il futuro turismo spaziale, che attira i privati. Questi ultimi sono una svolta per il mondo dell’economia spaziale, in quanto significa che le attività spaziali sono stabilizzate e offrono profitti sicuri, ad esempio con il lancio di satelliti a basso costo in orbita terrestre. Lo spaz io extra-atmosferico è il meno contaminato dall’uomo, ma sta progressivamente perdendo questa caratteristica, come dimostrano le orbite e l’ammasso di detriti artificiali che lo occupano. 8. L’economia degli ambienti sotterranei Le RISORSE NATURALI sono le materie usate dall’uomo e fornite direttamente dalla natura, che si trovano sia sul suolo (vegetazione) sia nel sotto suolo (minerali). Spesso le risorse naturali entrano nei processi di produzione come materie prime, dove acquisiscono valore di mercato e sono soggette al gioco della domanda e della risposta. Le risorse possono essere rinnovabili, cioè quelle che non inquinano e che si rigenerano in tempi rapidi (acqua, vento, luce), oppure non rinnovabili, quelle che si riproducono in tempi lunghissimi (petrolio, carbone, minerali). La riserva invece è la parte della risorsa che può essere sfruttabile dall’economia e dalle tecnologie del momento, infatti a volte lo sfruttamento di una risorsa potrebbe non essere conveniente in quanto troppo costoso (es. estrazione del petrolio più costoso del guadagno). Ad ogni momento storico quindi corrisponde una diversa quanti tà di riserve e i fattori che incidono sulla loro disponibilità sono le condizioni economiche di mercato per quella specifica risorsa e le capacità tecnologiche di cui si dispone per il suo utilizzo. La consapevolezza del valore delle risorse umane ha portato al concetto di bene comune, ossia una risorsa che non è di proprietà, ma è fruibile e condivisa da tutta la collettività; degli esempi di bene comune di natura geografica sono lo spazio extra-atmosferico e gli oceani. Il sistema terrestre, al contrario di quanto si pensasse in passato, pone limiti sia alla disponibilità di risorse naturali non rinnovabili, sia alla necessità di salvaguardare gli equilibri dell’ecosistema. Le risorse naturali molto importanti nelle attività economiche sono quelle minerarie, che entrano nel processo produttivo come materie prime, ad esempio una miniera di ferro fornisce il materiale di base che, una volta lavorato nell’industria, produce l’acciaio. Le risorse minerarie hanno due caratteristiche: non sono rinnovabili, tendono quindi a esaurirsi e hanno uno stock che a ogni dato momento risulta limitato (ma potrebbe aumentare ad esempio per un progresso tecnico che riduce i costi di estrazione e permette un guadagno) e si trovano in un punto preciso del sottosuolo, che dipende dalla conformazione geologica di quel punto e che influenza anche le modalità di estrazione. Lo sfruttamento di queste risorse può avvenire direttamente nel luogo dove si trovano oppure possono essere trasportate nei luoghi di consumo e lavorate lì. Ci sono 3 tipi di regioni: quelle altamente consumatrici con una carenza di risorse rispetto alla necessità (Europa occidentale e Medio Oriente), quelle altamente consumatrici ma ben dotate (America settentrionale) e quelle esportatrici (Siberia, Golfo Persico). Il trasporto può avvenire via nave (petroliere) o via terra (linee ferroviarie); inoltre, sono presenti oleodotti (trasportano petrolio) e gasdotti (trasportano gas naturale), che sono lunghi tubi presenti sul sottosuolo o sui fondali marini che trasportano queste risorse a grandi distanze. Ci sono risorse minerarie (risorse energetiche fossili) che servono per produrre energia, come il petrolio, il carbone e il gas naturale. La loro distribuzione è molto concentrata (il 60% delle riserve si trova nel Medio Oriente). Il carbone, simbolo della prima Rivoluzione industriale, è la risorsa energetica meno adatta ad essere trasportata, infatti gran parte dell’energia che produce viene consumata vicino il luogo di estrazione, quin di ha un utilizzo limitato. Il carbone però è molto diffuso, soprattutto nelle regioni temperate (Europa, Cina, Russia, USA), mentre il petrolio è concentrato in poche aree (Ara bia). Il carbone però è molto inquinante, per questo, nella seconda metà del ‘900, il petrolio ha preso il sopravvento diventando la risorsa energetica più usata al mondo, anche se il carbone viene ancora usato nei Paesi produttori (Cina). Il petrolio, nonostante le critiche per l’inquinamento ambientale, è la risorsa più utilizzata, soprattutto grazie alle nuove tecnologie di estrazione e al ricorso del “petrolio di scisto”, ossia il petrolio estratto da rocce permeabili a seguito della loro frantumazione, metodo usato anche per il gas naturale. Questa tecnica è usata soprattutto dagli USA, che detengono il primato di produzione di petrolio e gas naturale, superando Arabia Saudita e Russia. Questa tecnica non è molto diffusa in Europa, più attenta ai problemi ambientali. Il gas naturale ha molti vantaggi: minore impatto sul clima, economico da estrarre e quindi più economico anche per il consumatore. Questi vantaggi ne aumentano sia la produzione (Australia e USA) sia il consumo (Asia) e viene commercializzato in forma gassosa o liquida (gas naturale liquefat to). Queste risorse non sono distribuite equamente sulla Terra e la disparità tra Paesi ricchi di risorse e quelli poveri ha due effetti: il Paese che dispone della risorsa e ne detiene il controllo in esclusiva (alcuni Paesi invece condividono il controllo) ha una rendita economica diretta e una fonte di potenza che lo fa diventare un Paese ricco e, inoltre, l’accaparramento genera conflitti tra i soggetti politici, quindi diventa un fattore di competizione, in quanto anche i Paesi importatori guardano il mercato e acquistano dal Paese più economico. Spesso la competizione, soprattutto per il petrolio, sfocia in una guerra aperta, come si nota dai molti conflitti in Africa, soprattutto in Nigeria (area con più giacimenti). 9. Le energie alternative Le risorse fossili sono le fonti principali per ricavare energia, ma esistono anche le risorse rinnovabili, anche se non si usano molto. I Paesi occidentali (tra cui l’Italia) hanno continuato a sfruttare le risorse non rinnovabili, provocando però un forte impatto ambientale, con le risors e fossili che sprigionano grandi quantità di anidride carbonica nell’atmosfera, contribuendo all’effetto serra, ma provocando anche l’incapacità di riuscire a procurare tutta l’energia necessaria a soddisfare la domanda. Oggi si cerca quindi di trovare energie pulite e rinnovabili, attraverso la transizione ecologica, che punta a valorizzare le energie alternative. Queste energie provengono dal calore terrestre (energia geotermica), vento (energia eolica), mare (energia talassotermica), corsi d’acqua (energia idroelettrica), prodotti organici di scarto (biomasse), sole (energia solare) e dalle maree. Nonostante questo, la decarbonizzazione (processo di abbandono dei combustibili fossili), richiede tempi lunghi, soprattutto perché ha una resa energetica maggiore d elle energie rinnovabili. CAP. 15 – GEOECONOMIA. LA LOCALIZZAZIONE E I NUOVI SCENARI 1. Il taglio applicativo del sapere geografico Le teorie geografico-economiche studiano le strutture produttive e i processi territoriali e di localizzazione ad esse collegate, che permettono di mostrare l’evoluzione nel tempo dei rapporti tra attività umane e variabili geografiche: la geografia infatti pensa lo spazio in corre lazione alle attività umane. Per localizzare le varie attività economiche bisogna contestualizzare nei vari periodi storici dei fattori, attraverso 3 teorie di studiosi vissuti in epoche diverse, applicate rispettivamente al settore primario, secondario e terziario, in cui il fattore chiave era la distanza. Oggi invece si nota che ci sono altri fattori che incidono sulle dinamiche localizzative, perché il paesaggio economico è cambiato e il confronto con il passato serve sia a confutare le teorie precedenti, sia a il ragionamento induttivo della geografia, che parte dalla realtà per elaborare teorie (e non il contrario come nelle teorie passate). Le scienze geografiche inoltre non si limitano a elaborare soltanto teorie, ma la conoscenza della localizzazione delle industrie ha anche fini pratici: aiutare le industrie a capire i vantaggi e gli svantaggi di avere una certa localizzazione. Il ragionamento geografico ha un presupposto implicito, uguale ad ogni altro studio geografico: la configurazione spaziale delle attività economiche non è casuale, ma dipende da molti fattori che attraggono o respingono le attività in un certo luogo. 2. Le teorie della localizzazione Thunen studiò le logiche alla base dello sfruttamento degli spazi agricoli, notando una distribuzione ad anelli attorno ai centri ab itati: nelle vicinanze c’erano certe colture, mentre più lontano altre; il concetto fondamentale quindi è la distanza, infatti il valore del terreno dipendeva dalla sua lontananza dal