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Manuale di Letteratura e Cultura Inglese - Crisafulli, Sintesi del corso di Letteratura Inglese

Riassunto dal 1500 al 1800, manuale di Letteratura Inglese di Elam-Crisafulli

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

In vendita dal 16/04/2019

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Scarica Manuale di Letteratura e Cultura Inglese - Crisafulli e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura Inglese solo su Docsity! MANUALE DI CULTURA E LETTERATURA INGLESE IL CINQUECENTO (LA PROSA) La prosa del XVI secolo presenta una tale ricchezza, varietà ed eclettismo che ogni tentativo di sistematizzazione è destinato a rivelarsi inadeguato e parziale. Ciò che accomuna tuti i testi in prosa scritti in questo prolifico secolo è il dichiarato intento di seguire il noto principio oraziano dell’”utile dulci”, dell’unione cioè, fra utile e dilettevole come fine della poesia. Il precetto è ribadito da Philip Sidney in quella che è la maggiore opera di critica letteraria del periodo: “The Defence of poesy”, proprio in un passo in cui viene rivendicata la dignità della prosa. Tutti i lavori in prosa che videro la luce nel 1500 ruotarono variamente, liberamente, persino idiosincraticamente, ma ineluttabilmente, intorno ai due poli dell’intrattenimento e dell’edificazione. Obiettivo manifesto di “Utopia” di Thomas More è in modo più o meno diretto il “buongoverno” e interlocutore privilegiato è chi detiene il potere. Il testo fu scritto quando More si trovava nei Paesi Bassi in una missione diplomatica per conto di Henry VIII. È scritto in forma di dialogo e si divide in due libri, di contenuto assai diverso: nel primo troviamo un’aspra critica delle pratiche e delle istituzioni sociali, politiche e religiose contemporanee; mentre nel secondo viene descritto il funzionamento legislativo e i costumi degli abitanti di un’isola immaginaria in cui viene praticata la democrazia diretta e si vive seguendo i dettami della ragione. L’istruzione è anche il tema centrale di “The Schoolmaster” di Roger Ascham, ex tutore della giovane principessa Elisabetta. L’opera fu pubblicata per la prima volta nel 1570, si presenta come un vero e proprio trattato di pedagogia. Infatti, oltre ad occuparsi di cosa il giovane gentiluomo è opportuno che sappia, pone al centro della sua attenzione il metodo didattico più idoneo a veicolare tali contenuti, e afferma che il maestro, se non vuole provocare nei bambini un’avversione nei confronti della cultura, deve usare la gentilezza e l’elogio. Inoltre, allo studio dei libri deve sempre affiancarsi la pratica di passatempi come il giostrare, l’equitazione, il tiro con l’arco, i giochi con le armi, la corsa, la lotta, il nuoto, il tennis, ma anche danza, caccia e uso di strumenti musicali. Tuttavia, l’opera di carattere religioso più popolare del periodo fu il lavoro di John Foxe “The Book of Martyrs”, pubblicato nel 1563. Foxe cercò di sostituire alle vecchie leggende dei santi, cattoliche, esempi moderni di pia risoluzione, raccontando le sofferenze dei protestanti inglesi al tempo delle persecuzioni mariane. Un altro gruppo di scritti in prosa in cui è evidente l’intento didattico raccoglie i lavori di natura antiquaria e storica. Al centro della Riforma inglese vi era l’enfatica affermazione dell’indipendenza e dell’autonomia nazionale, istanze che trovarono espressione culturale in una letteratura che mirava ad unire il paese intorno ad un comune credo religioso. La Riforma, però, aveva anche significato la rinuncia, non sempre indolore e non sempre consapevole, ad una parte del patrimonio culturale che veniva identificato con un passato di matrice cattolica. La soppressione delle istituzioni monastiche aveva portato con sé la dispersione delle loro ricche biblioteche e la furia iconoclastica aveva purgato le chiese non soltanto del loro apparato di immagini, ma anche dei loro preziosi archivi, memoria storica delle comunità. Simili negli intenti furono le cronache in lingua inglese che, agli inizi del XVI secolo, mirarono ad alimentare il senso di identità nazionale in un paese che era reduce dalle sanguinose guerre civili e che sperimentava, per la prima volta dopo tanti anni, un governo stabile e un periodico di relativa pace. Non furono, tuttavia, soltanto gli storici a vedere negli eventi un percorso provvidenziale teso alla prosperità e all’affermazione dell’Inghilterra. Uno spirito ugualmente patriottico sottende i resoconti di viaggio di coloro che furono impegnati ad espandere l’influenza britannica sui mari. Questi racconti, avventurosi e pittoreschi, furono pubblicati da Richard Hakluyt nelle “Principall Navigation”. Altre opere in prosa mirarono in modo più vistoso all’intrattenimento di un pubblico che, grazie anche alla crescita esponenziale della metropoli londinese, si andava sempre più allargando e diversificando. Gli anni ’60 e ’70 videro un’esplosione di interesse per la novella. Traduzioni e adattamenti di novelle trovarono grande favore presso il pubblico inglese. Anche il romance in prosa di Philip Sidney, “Arcadia”, esercitò un’enorme influenza e non soltanto sui suoi contemporanei, ma anche sulle generazioni successive. Nell’Arcadia egli combinò il genere pastorale, allora molto di moda, con il romance cavalleresco. “The Unfortunate Traveller” è un pamphlet di Thomas Nashe, opera picaresca che segue le vicende del paggio Jack Wilton, ambientate durante il regno di Henry VIII. La voce narrante è lo stesso protagonista che, sempre molto consapevole del suo pubblico, racconta le proprie avventure mutando continuamente il tono per adattarlo ai temi e agli eventi presentati. Ne risulta un’opera, effervescente e caleidoscopica nello stile ed episodica nella struttura, che sembra rifuggire qualsiasi tipo di classificazione. Il lettore resta disorientato di fronte al virtuosismo narrativo di Nashe, che giustappone e mescola una molteplicità di generi e modi: gli scherzi al racconto di facezie, il sermone e il pamphlet moraleggiante, la satira, la letteratura di viaggio, la narrativa storia, i racconti di vendetta e la tragicommedia. I traduttori elisabettiani, per la natura stessa del proprio lavoro di artigianato che li portava a misurarsi con lingue retoricamente e lessicalmente più ricche, contribuirono in prima persona allo sviluppo e all’arricchimento della propria lingua, mediante la lingua o le lingue straniere con cui erano necessariamente in contatto. Il Cinquecento è contrassegnato da un’intensa attività traduttiva in lingua volgare. In un’epoca di grande mobilità sociale, linguistica e culturale, la traduzione trasportò dal passato e dal presente opere di ogni genere: dai trattati religiosi ai classici, ai manuali di scienze, di arti e di quotidiana utilità, ai libri di viaggio, alla narrativa, ai trattati comportamentali italiani. Questa frenetica attività traduttiva era alimentata dalla forte istanza divulgatrice dei traduttori e degli stampatori, supportata dai bassi costi della stampa che rendevano il libro un prodotto largamente accessibile ai cosiddetti “illetterati”, coloro cioè che non erano in grado di capire le lingue straniere sia classiche che moderne. Il volgare era d’obbligo: nel primo caso perché si poteva fare a meno dell’intermediazione degli uomini di chiesa così come rivendicato nella Riforma; nel secondo caso perché era più facile autoistruirsi in una società moderna in cui era sentita la necessità di consultare manuali di ogni genere e di conoscere il mondo dell’antichità con la lettura dei classici da poco riscoperti e il mondo circostante con la lettura di opere contemporanee di paesi culturalmente più avanzati. A volte lo scopo didattico della traduzione veniva espresso estesamente dal traduttore. Per Wilson, come gli elisabettiani, la storia era intesa come una maestra di vita in grado di offrire lezioni al presente. Lezioni che l’uomo elisabettiano sapeva cogliere non solo dagli antichi ma anche dai suoi contemporanei, come Nel brano di Hoby a proposito della traduzione e della lingua volgare, essa è considerata inadeguata rispetto alle lingue moderne. L’istanza democratizzatrice che spingeva a tradurre dagli antichi e dai moderni, cioè in senso verticale e in senso orizzontale, per abbattere le barriere culturali tra letterati e illetterati, era accompagnata dalla difesa della traduzione intesa non solo come mezzo per accedere al sapere, ma anche come mezzo di arricchimento della propria lingua. L’Italia, rinomata non solo per le traduzioni in volgare ma anche per uomini e donne che, con poca o nessuna conoscenza del latino, erano diventati noti per le loro opere in rima e in prosa volgare. Di conseguenza, la traduzione era essa stessa il sapere. IL SEICENTO Alla morte di Elizabeth I al trono salì James VI Stuart, che con il nome di James I riunì i regni di Scozia, Irlanda e Inghilterra. Il figlio di Mary Stuart, l’odiata cugina di Elizabeth, ereditò una situazione complessa a causa dell’irrisolta questione religiosa che divideva il paese fra anglicani, cattolici e puritani; il sovrano, accolto con diffidenza dalla maggior parte della popolazione, scoperte astronomiche del tempo che destavano la curiosità e lo stupore non solo di scienziati e filosofi, ma anche dell’uomo comune, sempre più coinvolto nell’avventura scientifica che stava rapidamente trasformando e modificando i codici etico – culturali di un’intera epoca. L’opera di Godwin fornisce un esempio chiarissimo di quell’intreccio fra scienza e immaginazione, rigore razionale ed evasione fiabesca, che caratterizza non pochi scritti del secolo non soltanto in campo strettamente letterario, come dimostrano opere di eminenti scienziati quali Bacon e Keplero. In tale clima culturale acquistò nuovo vigore la letteratura lunare, che si inserisce nel più vasto ambito della letteratura di viaggi interplanetari. Punto chiave dell’opera di Godwin è il viaggio nello spazio verso la luna per mezzo di uccelli o di altri animali alati o con l’aiuto di ali posticce. Le leggende che esprimono il desiderio dell’uomo di librarsi in volo si perdono nella notte del tempo; fu tuttavia nell’Inghilterra del XVII secolo che mito e nuova scienza concorsero per la prima volta a formare un racconto completo di un viaggio lunare: la strana storia di un uomo che viene trasportato sulla luna da uno stormo di uccelli. Il grande interesse suscitato dagli strumenti ottici percorre molta letteratura del Seicento e del primo Settecento: ne è un esempio famoso il capolavoro di Swift “I viaggi di Gulliver”, il quale non fa altro che utilizzare i medesimi strumenti ottici: tramite le proprietà delle lenti poste al servizio dell’immaginazione e della satira, il mondo viene capovolto, ogni suo codice alterato e sconvolto, i suoi vizi ingigantiti e le sue presunzioni ridotte a dimensioni risibili; l’opera di Swift offre l’esempio più celebre di come il rovesciamento delle misure possa farsi strumento di satira e di denuncia delle umane follie. A partire dalla metà del secolo iniziano ad apparire opere in prosa che preludono allo sviluppo del saggio giornalistico e del romanzo. Fra gli autori di racconti e di romanzi spicca la figura di Aphra Behn, scrittrice eclettica e feconda di prosa e di teatro, personaggio affascinante quanto scomodo, per le scelte sia personali che letterarie insolite; addirittura considerate scandalose per una donna a quei tempi. Fu infatti la prima scrittrice professionista, la prima donna nella letteratura inglese a guadagnarsi da vivere scrivendo. “Oroonoko or the royal slave”, pubblicato nel 1688, è una vera pietra militare nello sviluppo del romanzo inglese. Ambientato nel Suriname, colonia britannica in America, narra le disavventure e la tragica morte di un nero dalla rara bellezza, cultura e intelligenza, nelle cui vene scorre sangue regale. Per la prima volta la figura di uno schiavo nero viene messa al centro di un racconto che inizia in Africa e si conclude nel Suriname, dopo aver percorso le varie tappe della schiavitù e del colonialismo che coinvolgono Europa, Africa e Caraibi. L’autrice, che si identifica con l’io narrante, si pone fin da subito come testimone oculare della vicenda, stabilendo con il lettore, a cui si rivolge costantemente lungo il testo, un patto narrativo che costituirà una costante in questo genere letterario: un patto che richiede una complessa fiducia da parte del lettore stesso circa l’affidabilità del racconto. Figlia del suo tempo, e dunque anche di una cultura che sempre più consolidava la propria politica coloniale, Aphra Behn dimostrava un atteggiamento ambiguo nei confronti della schiavitù. L’eroico protagonista Oroonoko, infatti, proviene da un mondo, l’Africa, dove la schiavitù è praticata normalmente, per cui la condanna dell’autrice è diretta a come essa viene praticata in Occidente, dove si è trasformata in un gratuito esercizio di crudeltà. Trascurati dunque i risvolti politici ed economici del problema, l’attenzione della Behn si incentra sostanzialmente sul comportamento coraggioso di Oroonoko e sugli esiti tragici della sua storia d’amore con Imoinda, la sposa che egli uccide con le proprie mani, assieme al figlio che ella porta in grembo, per difendere il suo onore e impedire che cadano entrambi in schiavitù. I sermoni, sia scritti che orali, godettero di una grandissima popolarità, grazie anche alle molte arti come la retorica, la logica, l’erudizione teologica e linguistica che venivano utilizzate nei modi più diversi: la gamma di stili e figure usati era vastissima e andava dal tentativo di suscitare l’emozione del lettore con immagini forti e grottesche ai ragionamenti a fil di logica e alla spiegazione dei testi. IL SETTECENTO La “Glorious Revolution” segnò la definitiva sconfitta della corte e dell’aristocrazia come classe egemone, elevò il Parlamento a soggetto dominante e fonte di sovranità, e stabilì il diritto alla libertà di ogni possessore di proprietà, identificando così grazia divina e beni posseduti. La pubblicazione dei “Due trattati del Governo” (1690) di John Locke sancì la moderna teoria del contratto e il principio dell’equilibrio costituzionale. Risolti i sanguinosi contrasti interni, l’Inghilterra si avviò fiduciosa verso uno sviluppo maturo e raffinato che suggeriva un confronto con lo splendore dell’antica Roma. Tale ambito cronologico è spesso indicato come un’epoca di pacificazione e compromesso tra le ali estreme del Parlamento inglese, di dominio dell’oligarchia Whig, di forti mutamenti economici e infine di controllo esercitato dal primo ministro Robert Walpole. Durante i regni di George I e George II egli operò in modo da mantenere la pace all’estero e una politica fiscale che favorisce sia i proprietari terrieri che l’industria manifatturiera. Con L’Act of Union (1707) nacque ufficialmente la Gran Bretagna che accorpava il Regno d’Inghilterra, Irlanda e quello di Scozia. Contestualmente si consolidò il potere della classe mercantile anche con una serie di guerre con le altre nazioni europee. Sullo sfondo si stagliava in modo sempre più esplicito il problema del dominio coloniale, ma anche la forse unione interna in funzione anticattolica, soprattutto nei confronti della Francia, l’eterno “altro” da cui distinguersi, rivale nel controllo sul Nord America e India. Quanto all’espansione coloniale, con la guerra di successione spagnola la Gran Bretagna acquisì la Baia di Hudson e Terranova. La Rivoluzione Industriale chiuderà l’epoca, inasprendo il contrasto tra l’esibizione del lusso delle classi agiate e la miseria dell’ignoranza del popolo, e smascherando le ambiguità del compromesso. Il rovesciamento degli equilibri fu analizzato con grande acume da pensatori scozzesi, quali Adam Smith, che seppero accorgersi del cambiamento in atto. L’età Augustea è l’età della prosa e l’età della ragione. La celebrazione di sé e del proprio paese, il dibattito pacato sui temi del giorno, le aperture su altri mondi portate dalle conquiste militari o dai meravigliosi viaggi di esplorazione e rilevamento scientifico, si traducono di fatto in alcuni dei generi letterari peculiari del secolo: l’autobiografia, il romanzo, il giornalismo, la scrittura di viaggio. La razionalità condiziona la religione nella forma del Deismo, o si contrappone all’emotività religiosa del metodismo che peraltro contribuisce a rinfocolare il sentimento religioso dando una ragione di vita alle masse dei diseredati che la chiesa ufficiale sembrava ignorare totalmente. IL ROMANZO DEL SETTECENTO La storia presentata nel “novel” vuole essere riconosciuta credibile e plausibile, e a tal fine viene normalmente preceduta da un’avvertenza nella quale il curatore spiega com’è venuto in possesso di un manoscritto e garantisce la veridicità degli eventi che va a raccontare. L’autore da un lato previene censure di stampo etico relativamente alla menzogna della fiction e dall’altro invita il lettore a cercare l’identificazione nelle situazioni e nei personaggi narrati. L’innovazione dei codici culturali si accompagna dunque ad un nuovo messaggio e a nuovi processi della comunicazione. Al nuovo pubblico gli autori di romanzi offrono esempi riconoscibili di comportamenti e situazioni, e modelli di adeguamento sociale. Il tema fondante il novel è la ricerca, da parte dell’eroe, della sopravvivenza e di un ruolo appropriato e confortevole nella società. La forma prescelta nella prima fase dello sviluppo del romanzo è la narrazione in prima persona “nei modi della confessione” o del diario o delle lettere: è questa la modalità preferita di Defoe e Richardson. Fare la storia del romanzo di lingua inglese, della sua nascita e del suo fortunato sviluppo, implica contestualmente l’apertura di un metadiscorso, dato che il genere si accompagna da subito a considerazioni teoriche condotte dai suoi stessi “padri” e “madri”. Una riflessione Readers-oriented deve anche tener conto della nuova società dei consumi e delle peculiarità del mercato editoriale della Gran Bretagna. Ciò da un lato porta alla progressiva scomparsa dai testi di lettere ai mecenati e dall’altro al proliferare di prefazioni e introduzioni, metadiscorsi che chiamano direttamente in causa proprio il lettore e se ne accaparrano l’interesse. Nel numero 420 dello Spectator, Addison discute gli effetti del racconto sul lettore, e la necessaria strategia “temporale” che l’autore deve mettere in campo per creare attesa, curiosità e quindi interesse emotivo alla lettura. A metà del secolo Samuel Johnson dedica un intero numero del suo “Rambler” alla narrativa, da lui definita “work of fiction” o “story”. Da tali interventi campionati a inizio e a metà secolo denunciamo una serie di osservazioni: innanzitutto il fatto che la discussione si svolga dalle pagine di giornali a vasta diffusione, inoltre l’assenza del termine “novel” da entrambi i testi che pure parlano espressamente del genere; e infine l’attenzione al processo della ricezione del testo, quindi al lettore più che al testo stesso. La seduzione del testo letterario va creata dagli autori partendo dalle nuove condizioni di fruizione: il pubblico è vasto e diversificato, e fra di loro le donne sono in numero sempre crescente; il modo della lettura sta cambiando per farsi privato, silenzioso, individuale. Il problema terminologico rimbalza da un capo all’altro del ‘700, all’interno di un’attività di teorizzazione che coinvolge gli autori e i recensori in discussioni intorno al “romance”, alle “histories” e al “novel”, toccando problemi formali, contenutistici ed etici. Il termine oggi in uso esisteva nella lingua inglese già sotto forma di aggettivo, sia come sostantivo plurale, anche nell’accezione di “novella italiana” dall’inizio del Seicento. L’area semantica era in ogni caso quella della novità, ed è su questo elemento che la maggior parte degli sperimentatori si concentra dando prova di una profonda consapevolezza teorica. Samuel Richardson sottolinea la qualità nuovissima del suo prodotto: chiama “Pamela or Virtue Rewarded”, romanzo del premio alla virtù, una nuova specie di scrittura. Fielding in Tom Jones nella trama disegna il primo ritratto di vita inglese, e un eroe ben lontano dalla perfezione ma assolutamente accattivante. Richardson e Fielding rappresentano dunque due tradizioni distinte dalla fiction inglese, entrambe consapevolmente innovative: dall’uno deriva il romanzo di introspezione e di scavo psicologico, e l’uso dello stile epistolare per una finzione confessionale in grado di teatralizzare i dilemmi delle scelte morali individuali; dall’altro la tradizione di uno stile arguto e l’ironia della commedia sociale. Ma la genialità di Fielding sta nella gestione del plot. Se il romance poteva ancora parlare alla nobiltà e ai suoi modelli comportamentali, il novel apre alla diffusione di idee e comportamenti e valori quanto i saggi periodici del giornalismo. Emarginando il meraviglioso, l’illusione e l’incredibile in funzione di una messa a fuoco del probabile, il novel viene anche a incarnare le implicazioni positive di credibilità e contemporaneità. Nei primi 50 anni del secolo approcci così diversificati alla narrativa tradiscono la mancanza di una direttrice unica: il genere non nasce preconfezionato, ma prende da subito una varietà di forme che esibiscono una differenza esplicitamente rivendicata e sbandierata al lettore al fine di attrarlo alla lettura si va dalle biografie esemplari di personaggi comuni di Defoe – o attraverso la forma epistolare di Richardson, che segnano il centro dell’attenzione nelle persone dei protagonisti, a salaci storie segrete; dalle relazioni di viaggio in forma romanzata, o decisamente fittizie, come “I viaggi di Gulliver” o “Rasselas” di Samuel Johnson. Il fatto che il Robinson venga normalmente indicato come il punto di inizio del romanzo moderno è questione legata alla sua utilizzabilità più come icona culturale che non quale vero pioniere: l’Incognita di Congreve, “Oroonoko or the Royal Slave” di Aphra Behn è di qualche anno precedente. Il primo personaggio di Defoe incarna, come del resto il suo autore, peculiarità epocali e una complessa e intrigante dialettica tra realtà e finzione, nonché un’assenza totale dell’amore e della sessualità, sostituiti da problematiche di obbedienza e controllo dell’altro e della materialità del mondo. Rielaborando il resoconto di un naufrago, Defoe presenta un’intraprendente suddito middle-class che, usando gli strumenti messi a disposizione dalla civiltà sotto forma di abilità e cultura ma anche di singoli e utensili, fa di necessità virtù con tale successo da trasformare la propria disgrazia quale il naufragio in occasione di proficuo progresso. Il legame quasi erotico con che Defoe abbia appreso da quello stile un po’ approssimativo a dar vita al genere più fortunato del romanzo, mentre Addison viene ricordato per il giornale legato al suo nome. Al lettore medio, con scarsa o nulla confidenza con gli universali filosofici e con la scrittura alta che media la realtà attraverso l’allegoria e l’analogia, i giornalisti dedicarono uno sforzo di controllo che fu anzitutto linguistico, scegliendo uno stile confidenziale, ma soprattutto chiaro; e affrontarono temi di interesse comune ma anche culturalmente alti, porgendoli però in modo accessibile a molti. “The Book of the Civilized Man” di Daniel of Beccles, un lungo poema di 3000 versi latini del XIII secolo, è a tutt’oggi ritenuto il primo esempio di “conduct book”, genere letterario che divenne popolarissimo in Inghilterra a partire dal ‘400, e di cui il ‘700 fornì esempi di grande impatto culturale. Costituendo ben più di un galateo, piuttosto una ver e propria filosofia di vita, codice di principi e di comportamento etico a cui ispirare la propria esistenza, il conduct book fin dal primo Seicento aveva contribuito a diffondere indicazioni morali e istruzioni pratiche di vario tipo, guidando il comportamento sociale, la salute della famiglia, la scrittura privata e la gestione della casa. I conduct books più numerosi del Settecento sono quelli destinati alle lettrici e costituiscono un blocco normativo di comportamento etico adeguato. Un formato più sintetico e meno raffinato di tali libri circolava però per le strade della provincia inglese, insieme ai fogli periodici: si trattava di quelli che l’Ottocento definirà “chapbooks”, commercializzati da venditori ambulanti di mercanzia varia, insieme ai tradizionali libri di facezie e alle ballate che l’intermezzo del Commonwealth aveva cercato di sopprimere. Spesso si trattava di versioni ridotte di opere più ampie e destinate a lettori più dotti e più ricchi, su eroi nazionali o letterari, ma tuttavia in grado di diffondere anche fra gli umili il senso di orgoglio nazionale e i valori comuni che costituiscono il discorso politico del secolo. Questa letteratura popolare spesso incrocia il lettore-bambino per il quale ancora non è prevista una scrittura specifica, ma a cui si destinano versioni edulcorate di testi letterari o di storie di eroi come “Robin Hood”. La scrittura polemica o più genericamente politica, fu anch’essa molto vivace per tutto il secolo, e profittò della palestra del giornalismo per manipolare abilmente il lettore: esemplare il caso di Jonathan Swift che usò la satira soprattutto nei pamphlet di argomento irlandese, intesi a mettere a nudo il carattere coloniale del rapporto fra Gran Bretagna e Irlanda. In “A Modern Proposal”, Swift sfruttò pregiudizi, stereotipi e l’esasperato entusiasmo per la progettualità e il progresso dei contemporanei. Di un’altra importante funzione va dato atto ai giornali saggistici, quella cioè di una regolamentazione pubblica dell’autobiografismo, di cui assorbirono la pratica sotto le spoglie dei vari personaggi fittizi, l’uno diverso dall’altro. Le riflessioni del singolo stese in solitudine approdarono così allo sguardo del pubblico e persino la “life of Samuel Johnson” (1791), dove l’oscillazione tra biografia e autobiografismo continua. Il discorso vale del resto per quasi tutta la letteratura di viaggio. Sulla finzione dell’assoluta privatezza si reggono anche due casi famosi di autobiografismo femminile: Frances Burney aveva a 16 anni dato inizio a quel diario che aveva come destinatario ideale nientemeno che Nobody, il signor Nessuno, anche se, altri lettori furono implicati, e il diario si trasformò in lettere alla sorella Susanna. Il peso della scrittura epistolare nel Settecento si riversò su tutti i generi, ma si impose anche in autonomia in forme che partecipavano sia della privatezza della comunicazione riservata sia della fruizione pubblica, dell’autenticità come dell’artificiosità dell’arte. Indirizzate a un destinatario, è noto che molte di queste epistole che ci sono arrivate nella forma dell’arte erano lette da molti, ma in particolare per le donne costituivano prova di autobiografismo secolare, sganciato cioè dalla funzione di scavo penitenziale. Autobiografie/biografie fittizie furono anche i primi esempi di romanzi, una filiazione ovvia in una cultura in cui l’autoanalisi sfociava nella stesura di diari, o dove i casi di famosi criminali venivano fatti oggetto di biografie estemporanee e popolarissime. Nelle “Lives of the English Poets” Samuel Johnson rivendicava al proprio secolo il merito di aver stabilito principi di critica letteraria universalmente validi. La sistematica comparsa di “Preface” nelle opere in prosa dell’epoca testimonia di questa diffusa preoccupazione degli autori di spiegare ai propri lettori come selezionare e come leggere i testi. Lo sforzo critico era prevalentemente orientato sul lettore, scopo primario offrirgli piacere: le “Lives” di Johnson sono essenziali alla storia della costruzione dell’identità e del primo canone letterario, prefiguravano un lettore ideale. Addison si proponeva come la guida amica che consente di assaporare il piacere interno terapeutico dato alla contemplazione degli oggetti grandi, rari o belli, al di là della tensione che lo sforzo di capire può provocare. Siamo alla nascita dell’estetica. La storia letteraria tracciata da Johnson è un progressivo avanzamento verso la raffinatezza non solo dei potei ma anche del pubblico. Forse solo un auspicio, che Johnson stesso avrebbe visto smentito dal gusto per il gotico e per L’Ossian di Macpherson, che si andava diffondendo negli stessi anni. Shakespeare rappresentò l’età dell’oro da contrapporre alla venalità del presente e il giudizio negativo di Voltaire, che accusava il commediografo di essere privo di buon gusto e di ignorare le regole, fu accolto da bordate di risposte patriottiche. Johnson ribadì la necessità della conoscenza del contesto per una lettura corretta. In ambito filologico, nel suo “Dictionary of the English Language”, egli aveva del resto già chiosato molti termini sia shakespeariani sia di altri autori, nell’impegno di conservare un patrimonio di vocaboli usati dalle migliori penne, lasciando da parte neologismi modaioli: un estremo sforzo di tenere unita una nazione che la settorialità e la specializzazione rischiavano di frammentare. La nascita dello storico di professione si accompagnò alla separazione della storia dalla voce autobiografica modificando anche il modo di raccontare il passato: non più come esperienza vissuta ma al di fuori della prospettiva dei protagonisti. A fine secolo nuove forme di biografia e memoria contribuiranno a ridisegnare il rapporto fra vita vissuta e tempo della storia, tornando di fatto alle radici secentesche. IL ROMANTICISMO Nel 1825 il saggista e critico William Hazlitt pubblica un volume di saggi dal titolo emblematico di “The spirit of Age”, in cui cerca di cogliere i tratti essenziali del periodo che la sua nazione sta attraversando tramite una galleria di ritratti di figure rappresentative dei diversi campi culturali, dalla filosofia, alla poesia, alla politica. I suoi saggi rivelano chiaramente che gli scrittori del momento compreso a grandi linee tra la perdita delle colonie americane (1783) e l’ascesa al trono della regina Victoria (1837) hanno tuttavia una grande coscienza di appartenere ad un’epoca distinta, ovvero a una fase di intensi cambiamenti e rivoluzioni in tutti i campi dell’agire, del pensiero e della creazione. È più accurato definire il Romanticismo letterario della Gran Bretagna come un momento di intersezione tra diversi modi di scrittura, ovvero un “periodo romantico” in cui temi e stili nuovi si intrecciano in una convivenza vivace e feconda con gli elementi ancora vitali della letteratura e delle arti del passato. Fra gli altri eventi che segnano il periodo, come la Rivoluzione industriale, si aggiunge la guerra con la Francia che culminerà solo nel 1815 con la sconfitta di Napoleone. Anche a livello letterario e culturale molte sono le linee di continuità con il secolo precedente. L’estetica neoclassica raccoglie ancora ampi consensi e molte sono le tracce di questo suo influsso prolungato in campo letterario. Ad esempio, l’ode e il poema meditativo dei romantici sono radicati nelle sperimentazioni relative a questi generi da parte dei poeti del periodo augusteo. Anche il romanzo del periodo romantico si innesta saldamente sul tronco del genere settecentesco. Infine, il medievalismo reso popolare da Walter Scott ha le sue radici nelle teorie storiografiche e nelle rivalutazioni storiche dell’Illuminismo scozzese, così come la stessa riscoperta delle letterature antiche o esotiche è il prodotto della curiosità e del cosmopolitismo tipici del pensiero illuminista. A livello ideologico emerge una nuova concezione dell’identità individuale fondata su un sé autocosciente e autonomo, nonché un’idea complessa di identità nazionale. Iniziano inoltre a diffondersi ideologie e codici tipici delle classi medie come la sempre più netta separazione fra sfera maschile e femminile o gli ideali domestici e religiosi moralizzatori propugnati dal movimento evangelico della chiesa anglicana. Nel contempo, si fanno sempre più pressanti anche le istanze liberali, tra cui il proto-femminismo di fine Settecento, i movimenti di rivendicazione dei diritti dei non anglicani, il riformismo politico e istituzionale e l’abolizionismo. Nell’ambito della produzione culturale si ha l’ampliamento del mercato dei libri e del pubblico dei lettori, così come si assiste all’emergere della figura del letterato di professione indipendente dal mecenatismo privato. In questo contesto, inoltre, acquistano importanza le riviste di recensioni letterarie intese a formare il gusto del pubblico e ad influenzare le scelte. Al tempo stesso la figura dello scrittore viene progressivamente a occupare un ruolo marginale rispetto ai grandi dibattiti della sfera pubblica. Elementi chiave della nuova estetica sono un ritrovato sperimentalismo poetico, la creazione di nuovi generi o la ricreazione di generi già esistenti come il poema lungo, il rinnovato interesse per il sonetto, la moda del frammento, il romanzo gotico o quello di maniera, o il dramma storico. A livello tematico, per contro, si diffondono la descrizione e l’analisi dei sentimenti e degli stati d’animo, un interesse per l’esperienza e la coscienza individuali come sedi di un sentire privilegiato, un’idea della natura e del cosmo come organismi viventi e sensibili, la rappresentazione dei lati oscuri e delle pulsioni inconfessabili dell’essere umano, la riflessione sul potere dell’immaginazione, un deciso schieramento della creazione letteraria in senso politico, nonché un senso della storia come divenire complesso e un’attrazione per i luoghi sia in senso temporale che geografico. La letteratura del periodo romantico è un articolato intreccio di elementi della tradizione e nuove manifestazioni in un periodo di drammatici cambiamenti storico. Il rispetto e l’amore per il passato vanno di pari passo con il rilancio della letteratura verso orizzonti nuovi. Al pari delle rivoluzioni di questa breve ma concitata epoca, la scrittura e la cultura dei romantici affiorano dal rapporto di stretta continuità con la cultura settecentesca, anticipando d’altra parte le molteplici espressioni letterarie e culturali del periodo vittoriano e del Novecento. LA POESIA DEL ROMANTICISMO Tradizionalmente si fa risalire l’inizio del Romanticismo inglese all’anno 1798, data della prima pubblicazione della raccolta di poesie Lyrical Ballads di William Wordsworth e Coleridge, che siglò una svolta radicale nei temi, nello stile e nella sensibilità poetica rispetto alla precedente produzione neoclassica. La “Preface” alle Lyrical Ballads è da sempre considerata il manifesto dell’intero movimento romantico inglese. Oggi, tuttavia, la critica anglosassone preferisce collocare il Romanticismo britannico in un arco di tempo più ampio. Molti critici ritengono che lo si possa porre fra gli anni della Rivoluzione americana e della Dichiarazione di indipendenza delle colonie americane dalla Gran Bretagna e gli anni ’30 del 1800. Si anticipa dunque l’inizio del Romanticismo di circa un ventennio andando a includere buona parte di quello che nel passato veniva definito pre- romanticismo. Nel caso di William Blake è la sua intera poesia ad ergersi contro ogni forma di schiavitù, mentale, politica o perfino religiosa. Un significativo esempio nella produzione di Blake, di esplicita opposizione alla politica di sfruttamento e disuguaglianza è il poemetto “The little black boy”. Nella poesia, scritta in prima persona, la voce del piccolo africano esprime il desiderio di parità di tutti i suoi bambini di fronte a Dio e una gioiosa fraternità con il bimbo bianco. Se l’economia capitalista fiorì in Gran Bretagna, sede della grande rivoluzione industriale e dell’avvento di nuove tecnologie tra la fine del XVIII secolo e l’inizio del XIV, lo si deve in gran parte al denaro scaturito dal commercio degli schiavi. La Rivoluzione industriale d’altronde trasformò l’etica protestante del lavoro in etica del profitto tracciando gradualmente una separazione profonda tra le diverse sfere dell’identità sociale e dell’appartenenza a classi, generi ed nature” perché contengono due elementi cardini: il potere di suscitare la simpatia del lettore e il potere di “defamiliarizzare” il mondo, vedendolo come per la prima volta attraverso il potere dell’immaginazione. Coleridge spiega inoltre il procedimento poetico adottato nelle ballate liriche dei due autori: lo stesso Coleridge avrebbe scelto personaggi e situazioni soprannaturali, ma impregnandoli di sentimenti ed emozioni del tutto umani, li avrebbe resi verosimili, obbedendo implicitamente al patto di “sospensione dell’incredulità” stipulato con i lettori. Dell’incantamento e dell’emozione Wordsworth continuò ad occuparsi ben oltre le ballate liriche arrivando a coniare in “The Prelude” la definizione di “spots of rime” per indicare i momenti di rivelazione che hanno luogo allorché l’io e il mondo misteriosamente si compenetrano generando vere e proprie epifanie: è allora che la poesia di Wordsworth acquista la dimensione di un magico realismo, visione e memoria diventano una medesima categoria. Attraverso la memoria l’acuta sensibilità del poeta riporta al presente accadimenti e persone incontrati nel passato e li fa rivivere con la stessa intensità percettiva provata la prima volta grazie ai colori caldi dell’immaginazione. In tale procedimento creativo, Wordsworth coniuga la trasparenza segnica con la trasparenza espressiva al fine di rendere il linguaggio un efficace mezzo di comunicazione e una sorgente di emozioni, liberato da orpelli retorici che ne causerebbero l’opacità. Il sodalizio fra i due poeti, iniziato nella città di Bristol e continuato nel Lake District, tornando così ai luoghi dell’infanzia, ebbe come testimone e ulteriore protagonista la sorella di William, Dorothy, autrice di straordinarie pagine diaristiche e di poesie sul mondo naturale nelle quali lo sguardo poetico si pone orizzontalmente a ciò che canta. La prospettiva di Dorothy è l’occhio oggettuale: quello del fiore o della zolla d’erba; ma anche dei diseredati che abitano un giorno senza tempo. Nei diari e nelle poesie ancora una volta l’occhio botanico femminile è al lavoro. Sapientemente Dorothy dà nome a piante e fiori mentre il suo orecchio paziente riconosce gli uccelli dal canto e, senza fatica, il suo sguardo circoscrive lo spazio, dimorando sicuro anche in un’intera vallata. Nelle pagine di Dorothy la natura sembra diventare essa stessa casa, luogo d’integrazione fra pensiero e immaginazione, tanto che nelle sue poesie e nei diari ogni confine fra micro e macrocosmo sembra rimosso, sebbene restino qui e là striature dell’inquietudine provata nell’infanzia. John Keats frequentò, assieme ad altri preminenti artisti del Romanticismo il circolo che si era formato a Londra nel secondo decennio dell’800 intorno a Leigh Hunt, editore del giornale liberale “The Examiner”. I membri del circolo di Hunt venivano violentemente attaccati dalla critica conservatrice che definiva con spregio il loro gruppo per le idee politiche ed estetiche che professavano. Keats, appartenente alla piccola borghesia londinese, morì di tisi a soli 25 anni ed era appassionato di antichità classiche, greche e romane, la cui moda era in grande voga sin dalla seconda metà del 1700 in seguito agli scavi di Pompei e Paestum, e, attraverso la mediazione pontificia gestita da Winckelmann, aveva invaso tutta Europa approdando in Inghilterra tramite produzioni pittoriche, ceramiche e bassorilievi. Oltre al fascino per la classicità, Keats subì quello del mondo medievale. Sebbene i poemi “Endymion” e molte delle Odi si attingano alla mitologia classica, la nostalgia di un tempo passato, il senso di declino e di perdita che vi si respira, ampiamente teorizzato nel mondo tedesco nella distinzione fra “moderni” e “antichi”, li rendono invece affini a poesie che riguardano più direttamente il mondo del romance medievale. Il medievalismo di Keats emerge in effetti chiaramente in “La belle Dame sans merci” e nei poemetti raccolti nell’ultimo volume del 1820, imperniati sul tema di un amore intenso e travagliato, quando non tragico. Secondo Cox la modernità di Keats risiede nell’eroe che queste poesie sprigionano e nel rovesciamento che egli compie rispetto al tradizionale romance che nella poesia keatsiana non si concentra sulle azioni di leggendari dame e cavalieri, pur protagonisti dei suoi versi, ma esclusivamente sulle passioni che li consumano e per le quali essi sono pronti a morire. E se l’eros è il motore della poetica keatsiana, è proprio il desiderio che da esso irradia a riempire i suoi versi e a sovvertire ogni regola e tradizione. Il desiderio e l’eros che queste poesie sottendono non investono solo uomini e donne ma anche tutta la natura, i fuori e i boschi, la luna e le stelle che diventano l’unica realtà tangibile, mentre il fantastico e il soprannaturale, a cui le poesie ricorrono, restano categorie sospese, rese irreali, e pertanto implicitamente decostruire da quella ironia romantica che altrove si manifesta nel continuo interrogarsi sul valore dell’arte e sui suoi effetti. È interessante a questo proposito ricordare la differenza che Keats propose fra Shakespeare e Wordsworth, entrambi da lui ammirati ma nei quali individuava caratteristiche opposte. In William Shakespeare Keats vede il campione del “poeta camaleonte” nel quale egli stesso si identificava, in grado di nascondere la propria identità e di dare vita a creature autonome e distinte. In Wordsworth Keats vede il poeta filosofo e ciò che definisce “egotistical sublime”, un sublime prodotto da un io poetico totalizzante che filtra e si appropria nel mondo circostante, osservando, giudicando ed elevandosi a sensibilità universale. Nella sua ode forse più celebre, “Ode on a grecian Urn”, il poeta canta le scene di vita quotidiana istoriate su un’urna greca. La verosimiglianza dei bassorilievi che rappresentano musici, pastori, coppie di innamorati contrasta con l’immutabilità dei loro gesti, congelati per l’eternità, dall’arte che li raffigura. La bellezza dell’arte è fulgida ma il suo futuro è segnato. Nei giorni del commercio e del materialismo, l’arte, che è l’unica consolazione, rischia il tramonto e sta al poeta custodirla e celebrarla come un sacerdote celebra la propria fede. In Keats etica ed estetica sembrano sovrapporsi: l’arte, che è piacere infinito, può lenire l’infinita pena del vivere e trasformare la realtà, anche la più cupa, in un sogno o in un romance. In Byron e Shelley l’impegno cosmopolita andò di pari passo con le preoccupazioni nei confronti della propria terra, nonostante l’esilio volontario in Italia che li vide entrambi simpatizzare con le lotte pre-risorgimentali. Per i due poeti patria e patriota furono il lessico della speranza con la quale ripartire dopo la sfiducia degli anni del Terrore e della Restaurazione che aveva segnato la prima generazione romantica con la quale i più giovani poeti romantici aprirono un’ironica contrapposizione a distanza, puntualmente annotata nelle loro opere. Byron si divise fra le preoccupazioni delle sorti dell’Inghilterra, che attraversava un periodo particolarmente turbolento, e l’interesse verso i popoli oppressi ai quali offrì sostegno morale e finanziario. Sebbene Byron vestisse i panni del dandy scettico e ironico, il suo impegno politico si rivelò precocemente, come del resto quello dello stesso Shelley che lo esercitò in modo più radicale. Dopo il Grand Tour, Byron riprese con decisione il suo posto nella Camera Alta in un momento storico caratterizzato dall’egemonia del partito Tory. Il partito Whig, più aperto e liberale, al quale Byron era affiliato, era stato posto in minoranza. Nel 1816 Byron partì per il suo secondo Grand Tour, questa volta lungo il Reno e poi tra Francia e Svizzera, che si concluse con la decisione di stabilirsi in Italia che divenne il suo paese d’adozione. Byron giunse in Italia nel 1817 e vi rimase per sette anni, quando partì per la Grecia, ove morì. L’Italia è per Byron, come per Shelley, un coacervo di contraddizioni: a un tempo paradiso dei sensi e amara realtà sociale, ma percepita comunque come una seconda patria della quale di volta in volta lamentare il degrado o esaltare la bellezza naturale e il glorioso passato politico e culturale. LA NARRATIVA NELL’ETÀ DELLE RIVOLUZIONI (1780 – 1830) Tra le numerose possibili definizioni del cruciale periodo che comprende gli ultimi decenni del Settecento e i primi dell’Ottocento, l’età delle rivoluzioni appare la più incontestabile e anche la più adeguata a spiegarne la ricca e complessa produzione letteraria, e narrativa in particolare, come reazione ai profondi mutamenti che investono la società britannica in conseguenza dell’enorme sviluppo, in termini di potere economico e politico, della middle class nei suoi vari strati. Il nuovo occhio borghese educato dall’economia politica di Adam Smith trasforma tutto in un oggetto di sfruttamento e di profitto. Il paesaggio rurale cambia profondamente per effetto della moda di migliorare le case della vecchia aristocrazia feudale in senso spettacolare-celebrativo del potere del nuovo proprietario e per effetto delle enclosures, ossia le recinzioni delle terre comuni da parte del proprietario con il pretesto di un più moderno e proficuo sfruttamento, con il conseguente necessario allontanamento di agricoltori e contadini verso le città industriali a formare il nuovo proletariato urbano. La campagna si svuota così dei suoi abitanti, anche perché lo sviluppo della nuova industria tessile ha eliminato la principale delle loro fonti tradizionali di reddito. Nelle città diventa sempre più visibile la differenza tra ricchi e poveri, tra il lusso sfrenato dei nuovi ricchi e la mendicità del nuovo proletariato. In tale situazione sociale di continuo e spesso convulso mutamento, la stampa diventa il principale mezzo di comunicazione di massa, con molteplici funzioni, dall’istruzione, al divertimento e alla propaganda. Leggere rimane un’attività molto cara e di distinzione sociale. I prezzi dei volumi permangono ali perché, in tempi così duri e incerti, gli editori non vogliono correre rischi e pubblicano solo per chi può comprare, per chi non può ci sono le “circulating libraries”. A mettere in evidenza le potenzialità economiche del romanzo e a determinare quindi il suo ingresso nella sfera d’azione maschile era stata proprio la “paper war of ideas”, ossia lo scontro intellettuale e politico cui la narrativa aveva dato corpo a cavallo dei due secoli, dimostrando che i romanzi servono a indottrinare il lettore e sono sempre impegnati, anche quando sembrano solo un innocuo strumento di divertimento. Per tutto il primo ventennio dell’800 è la poesia con Scott e Byron a dominare il gusto e il mercato; poi negli anni 20 i grandi editori smettono di investire in poesia, mentre le riviste incominciano a pubblicare racconti e romanzi a puntate, preparando così la via al trionfo del romanzo nel periodo vittoriano. Il romanzo gotico ha a lungo occupato nelle storie letterarie una posizione di secondo piano, come letteratura popolare d’evasione ed è stato genericamente definito con l’etichetta di “romanzo nero” e una corrispondente ricetta di temi e topos ricorrenti: la fanciulla perseguitata, il villain, sinistri castelli, orribili segrete, monaci diabolici, delitti, spettri ecc. Il romanzo gotico riflette il rimosso nel tentativo di esorcizzarlo, ha una funzione psicanalitica. Ciò che esso ci mostra è una coscienza, e quindi una visione, confusa e divisa, come teorizzato da Burke nel suo concetto di sublime. Proprio in quanto specchio che denuda ed espone la coscienza borghese, il romanzo gotico è stato marginalizzato con il pretesto del suo infimo valore letterario. Ma il giudizio critico cambia se per valutarlo si usano i parametri giusti, che non sono quelli del novel, bensì quelli del romance fantastico: i personaggi non possono essere piatti senza profondità psicologiche, non individualizzati, non solo perché sono sempre moralmente ben definiti, ma soprattutto per favorire l’identificazione del lettore e la sua partecipazione all’avventura, che è ciò che veramente conta. “The castle of Otranto” di Walpole è considerato il prototipo del genere, con la sua combinazione di ambientazione medievale ed esotica ed elementi di soprannaturale e sensazionale. L’aggettivo “gotico” che compare nel sottotitolo della seconda edizione, va inteso nel senso di “medievale”, la cui influenza è evidente nel lungo racconto, sia sul piano della forma, sia su quello della visione della società cavalleresca, i cui valori di onore e generosità trionfano nella conclusione. Il tema centrale, come in Macbeth, è quello dell’usurpazione: Manfred, principe di Otranto, ha tradito il suo dovere verso gli Aragona, impadronendosi del principato che era stato affidato alla sua protezione insieme con la legittima erede, Isabella, che egli vorrebbe far sposare al proprio figlio, dando inizio così a una nuova dinastia. Il soprannaturale, che sotto forma di un elmo gigantesco schiaccia il figlio di Manfred cancellando il suo disegno, è l’equivalente e surreale della condanna del grande peccato contro l’ordine gerarchico naturale. Nell’ambito del romanzo gotico si è soliti trattare anche Frankenstein di Mary Shelley la cui stesura nasce dalla lettura di racconti dell’orrore e da una gara di scrittura tra gli Shelley e Byron sul lago di Ginevra nel giugno del 1816. In realtà Frankenstein è molto più di un romanzo gotico e non sol perché può a pieno titolo essere reclamato come capostipite della narrativa fantascientifica; infatti è una di quelle opere che sono entrate nell’immaginario collettivo come emblema potente di un incubo che perseguita la coscienza borghese dominata dal mito della conoscenza. Frankenstein anticipa i temi di quella scomoda letteratura della distopia, lo scienziato usurpa insieme il ruolo del trovando in questi temi la possibilità di sfruttare sia le doti descrittive sia la capacità di rappresentazione drammatica. La difficoltà del ceto borghese nei confronti degli operai era esacerbata dalla paura. La folla di poveri provenienti dalle campagne in cerca di lavoro faceva temere la malattia, la violenza, la rivoluzione, e infatti quella gente veniva respinta in zone delle varie città lontane dalla vista dei ceti più agiati il cui benessere dipendeva dal loro lavoro. Nella narrativa di Charles Dickens, le denunce dei padroni delle fabbriche fioccano fitte come le minuscole fibre di cui l’aria degli stabilimenti era piena e che portavano la morte a un numero altissimo di operai per la bissinosi. LA LETTERATURA COLONIALE Letteratura coloniale può ritenersi quella prodotta a seguito di un’esperienza di viaggio, sia esso esplorativo e colonizzatore, al di fuori dei confini nazionali, al fine di conoscere aree geograficamente remote, mete di successiva invasione militare. Testi coloniali sono i memoriali, le lettere, i resoconti, i diari di bordo, gli articoli di viaggiatori, esploratori e scienziati ecc, che per primi si spinsero alla ricerca di nuove terre dove porre la bandiera della propria nazione come simbolo di conquista ed appropriazione. In secondo luogo, si considera letteratura coloniale quella pubblicata durante il periodo storico di massima espansione imperialista, vale a dire l’800, che tratta argomenti direttamente o indirettamente connessi al concetto di colonialismo e imperialismo anche se prodotta in Inghilterra. La letteratura coloniale raggruppa dunque svariate produzioni provenienti sia dal centro, sia dalla periferia dell’impero (colonie), fino a trasformarsi in letteratura postcoloniale. Tale termine viene usato in riferimento alle opere scritte nel periodo successivo la prima fase di colonizzazione di un territorio, quando gli autori manifestano, attraverso i loro testi, una riflessione più diretta e politicamente più esplicita circa il concetto di identità singola e nazionale distinta rispetto a quella del paese invasore, perché frutto di sviluppi ed evoluzioni storiche, economiche e culturali seguite alla prima occupazione. Il colonialismo implica un consolidamento esplicito del concetto imperialista, manifestandosi nell’effettivo controllo militare ed economico su una determinata aerea geografica. Di conseguenza la letteratura coloniale riflette uno stato di contatto e conflitto con una controparte incognita in termini ambientali e umani, percepita, nella maggior parte dei casi, come aliena, capace di suscitare curiosità, stupore, ma anche e soprattutto paura e repulsione. La letteratura prodotta già alla fine del 1700 e agli inizi del 1800 in Inghilterra ebbe un ruolo fondamentale nel dar forma estetica al discorso imperialista che andrà consolidandosi durante il periodo vittoriano, promuovendo o contrastando il progetto coloniale, divulgandone gli stereotipi o diffondendone le resistenze. La produzione letteraria romantica e tardo romanica non può essere interpretata in maniera univoca come essenzialmente a sostegno della dominazione imperialista, poiché questi stessi autori hanno saputo dar voce all’impegno sociale nelle loro poesie e nei loro romanzi. Inoltre, opere valutate da sempre conformi alle norme del canone letterario ottocentesco si sono rivelate in conflitto con il pensiero coloniale contemporaneo. Esiste inoltre un largo e articolato numero di pubblicazioni che manifestano una vivace resistenza alla cultura imperialista: basti pensare alla produzione abolizionista di scrittori e scrittrici provenienti da classi sociali diverse, con credenze religiose varie e contrastanti. Alla fine del secolo la Gran Bretagna poteva vantare il più vasto impero della storia mondiale, con una popolazione di oltre 400 milioni di persone distribuite su tutti i continenti. Le motivazioni e le conseguenze economiche e politiche che accompagnarono il fenomeno coloniale di questo periodo ebbero una portata tale da influenzare complessivamente tanto le abitudini sociali delle nazioni colonizzate quanto quelle delle nazioni colonizzatrici. Insieme agli esploratori uomini, molte furono le viaggiatrici donne che consegnarono ai posteri una testimonianza scritta circa la loro esperienza di vita nei paesi lontani dalla madrepatria inglese. Si tratta di mogli accompagnatrici, intraprendenti in cerca di lavoro o marito, oppure di galeotte deportate. Esse hanno scritto interessanti memoriali, lettere e diari di bordo nei quali narrano di un incontro con un mondo “altro” che si dimostra diverso e complementare rispetto a quello maschile. Il loro punto di vista si manifesta più simpatico nei confronti della realtà e degli abitanti delle nuove terre, perché riflette una posizione sociale discriminata dalla stessa società in cui queste donne vivevano e operavano. Di conseguenza, anche un resoconto di viaggio implica un atto colonizzatore del nuovo, per la volontà che lo scrittore manifesta nel fare proprio quello che è sconosciuto e diverso da sé. Non a caso, la maggior parte delle terre visitate dai primi viaggiatori inglesi diventerà, successivamente, colonia dell’impero britannico: Canada, Australia, isole nell’Oceano Pacifico e Atlantico e Africa. I numerosi resoconti di viaggio pubblicati in Inghilterra tra 1700 e 1800 influenzarono enormemente la produzione letteraria successiva. Si tratta di opere firmate da autori che sperimentarono in prima persona la vita nella colonia ormai già avviata dopo un primo periodo di insediamento, ma anche di coloro che non uscirono mai dalla loro terra natale. La colonia è dipinta come luogo esotico, paradisiaco, simbolo di desiderio di conoscenza ma, allo stesso tempo, è anche paura dello sconosciuto e quindi si trasforma in un incubo. Molte delle metafore coloniali utilizzate dagli scrittori romantici e vittoriani derivano dalle “Arabian Nights”, già note al pubblico britannico. Un’altra importante icona narrativa condiziona il romanzo coloniale vittoriano: la figura di Robinson Crusoe ideata nel secolo precedente da Defoe. Storie di naufragi, isole del tesoro, abitanti indegni e cannibalismo, popolano narrazioni con ambientazioni coloniali sostenendo una dicotomia ormai consolidata nell’immaginario comune dell’epoca tra uomo bianco, civilizzatore e schiavo, sinonimo di inciviltà e di barbarie. I temi centrali della letteratura coloniale del 1800 sono dunque quelli dell’uomo conquistatore, insieme alla rappresentazione dell’altro: entità intesa come sconosciuta e riferita in senso complessivo. L’affermazione di autorità viene utilizzata per descrivere i rapporti con le popolazioni dei paesi dominanti. Al centro della narrazione non è posto il nativo, sebbene l’ambientazione sia coloniale, ma il bianco colonizzatore, il quale ha bisogno di una controparte su cui riflettersi per affermare la propria superiorità e centralità. La sessualità e il rapporto fra sessi, in prima istanza, vengono rappresentati in modo ambiguo e contraddittorio nei romanzi vittoriani, nei quali emerge apertamente il timore e l’insicurezza dell’uomo conquistatore una volta che sperimenta in prima persona l’incontro coloniale.