Scarica Marino e l'Adone: riassunto dal Ferroni e più Appunti in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! MARINO Giovan Battista Marino nasce a Napoli nel 1569 da un’agiata famiglia borghese. Sin da giovane si inserisce negli ambienti dei nobili letterati che avevano Tasso come massimo modello. È un personaggio particolare: se da una parte vuole affermarsi nel contesto della società cortigiana contemporanea, dall’altra è insofferente all’ambiente tanto da essere protagonista di episodi violenti di vario tipo. Finì due volte in carcere, ma ne uscì grazie alla protezione di potenti signori. Dopo essere passato di servizio in servizio, di corte in corte, esaltando sfacciatamente i signori e i personaggi che nella cultura del tempo contavano, servendosi di sotterfugi, intrighi e piccole prepotenze, raggiunge fama, ricchezze e prestigio. Si fa notare subito per la vivacità dell’ingegno poetico, la curiosità per le arti figurative e il gusto per l’eleganza. Nel 1600 scappa a Roma dove entra al servizio di monsignor Melchiorre Crescenzi prima e del cardinale Pietro Aldobrandini (nipote di papa Clemente VIII) poi. Nel 1602 pubblica a Venezia le Rime, in due parti: è la prima opera che dà alle stampe, sebbene negli anni precedenti già avesse scritto molto. Insieme al cardinale Aldobrandini va a Torino e qui nel 1608, grazie alla sua arte poetica, diviene “cavaliere”: il titolo gli viene dato per aver composto Il ritratto del serenissimo don Carlo Emanuele duca di Savioia, un poemetto in sestine per il duca di Torino. Questo titolo, però, scatena la rivalità col poeta di corte Gaspare Murtola che tenta di ucciderlo. Marino si vendica con la poesia, scagliando contro l’avversario i sonetti della Murtoleide. Anche se risiede a Torino fino al 1615, i suoi rapporti con la corte non sono sempre eccellenti ed è anche mandato in carcere per ordine dello stesso duca, che non tollerava alcuni aspetti irriverenti delle sue poesie. Nel 1615, così, Marino passa alla corte di Francia e grazie a questo stipendio vive una vita ricca e sfarzosa, potendo stampare altre sue opere, dopo le Dicerie sacre, tre orazioni religiose stampate nel 1614 del genere dell’oratoria sacra: ogni testo era costruito sul prolungamento all’infinito della metafora indicata dal titolo (nel clima della Controriforma e dopo la diffusione del barocco, la predicazione utilizzò spesso un linguaggio colorito e sovraccarico; molti predicatori raccolsero e curarono i testi dei propri sermoni, accentuandone il carattere letterario. Di contro, alcuni laici – Marino su tutti – si dedicarono a orazioni sacre con puro intento letterario). A Parigi Marino stampa anche l’Adone nel 1623, dedicandolo al re di Francia Luigi XIII. Dopodiché, torna a Napoli, forse preoccupato per i conflitti interni che minacciavano la corte francese e per la propria salute. Muore nella sua terra natia il 25 marzo 1625. Postumi apparvero La strage degli innocenti, poema sacro in ottave1, e la raccolta delle Lettere che dovevano promuovere l’immagine del nobile e degno poeta di successo, ma lasciano anche trasparire la bravura di Marino nel saper trarre vivaci scene di colore – come un pittore di costume – da semplici episodi di vita quotidiana. Proprio la quotidianità è per Marino un terreno immenso sul quale esercitare la sua abilità poetica e sul quale espandere il proprio ingegno. Ciò si realizza attraverso una grande sapienza retorica, che stravolge le forme di quella tradizionale in un prestigioso gioco di concetti e fa emergere continuamente complesse e 1 Ottava: strofa di otto endecasillabi a rima alternata e baciata secondo lo schema ABABABCC sorprendenti composizioni di figure: sempre più stretto è il rapporto tra il linguaggio poetico e l’uso sociale delle figure. Attraverso tutte le immagini possibili, Marino esprime una incontenibile sensualità e un ossessivo amore per il lusso, per l’ostentazione del superfluo: la sua passione per la letteratura è strettamente legata al gusto per lo sfarzo e l’ostentazione. Si serve dei più vari testi latini e volgari per attingere a piene mani immagini, temi, forme, interi versi, da inserire nei suoi scritti. Questo metodo – che gli procurò l’accusa di essere un “ladro” – stravolge del tutto l’uso umanistico dell’imitazione: imitare i classici per lui significa non riprodurne valori e modelli, ma trarre da essi imprevedibili e svariate situazioni e figure, e orientarle in modi del tutto nuovi e sorprendenti. Insomma, Marino non ignora i precetti classici, ma ne fa quello che vuole, creando così qualcosa di nuovo e mai visto prima. Ad esempio, negli idilli della Sapogna sviluppa un canto libero e avvolgente, di varia forma metrica, che si immerge in paesaggi naturali in continua trasformazione, partendo dai modelli della poesia mitologica di Ovidio e della tradizione pastorale. E nelle rime della Lira egli porta la lirica amorosa sempre più lontano dagli schemi petrarcheschi, verso una sensuale e artificiosa mondanità Proprio nella Lira si vede l’utilizzo di Marino della metafora barocca, in particolare in “Seno”. In “Seno” notiamo la doppia ripetizione di alcuni termini: pratica comune dei poeti barocchi. Il termine “sen” in origine non indicava quello che intendiamo noi oggi, ma lo spazio tra le mammelle; in questa poesia è utilizzato un po’ in entrambi i sensi. Dopo che il poeta ha rivolto il suo cuore quasi esplicitamente alla donna, essa sparisce, sostituita dalla descrizione di un paesaggio, che è metafora del corpo della donna stessa. Anche il cuore sparisce: diventa un coltivatore. Ne “La bionda scapigliata” di Claudio Achillini troviamo un qualcosa di simile. La donna ci viene presentata subito con la metafora del paesaggio: le mammelle sono gli scogli, le tempeste rappresentano il farsi desiderare delle donne, i rubini sono capezzoli, le stelle gli occhi, il cielo i capelli… E il cuore del poeta si trasforma in una barchetta. Particolare è l’uso in questo caso di “seno”, che indica sia la parte del corpo che l’insenatura nella costa dove cerca riparo il navigatore in difficoltà, che sogna di arrivare in quegli scogli che altro non sono che le mammelle della donna. ----- L’ADONE L’Adone è un poema in venti canti in ottave (verso tipico della tradizione epica cinquecentesca e dei cantari trecenteschi), una delle opere più ampie e più faticose da leggere della nostra letteratura. È in essa che il Marino cercò di concentrare tutto il suo impegno e il suo tempo. Il poema ha come tema l’amore di Venere per il giovane Adone, che suscita gelosie e ostacoli di vario tipo fino alla morte del giovane, ferito da un cinghiale. La storia è tratta da un mito, del quale esistono diverse versioni. Venere, che vive a Cipro, si innamora di un mortale che un giorno sbarca lì: è il giovanissimo Adone. La dea si invaghisce perché viene colpita da una freccia di Amore e l’innamoramento è ricambiato. Venere realizza sull’isola l’amore fisico come stato di abbandono, una sorta di Eden. I due vengono uniti in matrimonio da Mercurio, precettore di Adone (l’elemento del matrimonio è da ricondurre al clima della Controriforma); ma la bella ha già un marito e anche un amante, Marte, il quale, saputa la notizia, corre a Cipro. Allora, Adone viene fatto nascondere dalla moglie nella foresta: qui iniziano una serie di vicende avventurose, dall’intreccio complicatissimo. Alla fine, Adone torna da Venere e mostra tutto il suo carattere, tanto da arrivare a disobbedire alla donna e recarsi a caccia contro la sua indicazione. Durante la caccia, un cinghiale viene colpito dalla freccia di Amore e inizia a correre impazzito verso Adone, finendo per ucciderlo.