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Massimo Recalcati - Il mistero delle cose - Giorgio Celiberti, Dispense di Storia dell'arte contemporanea

Riassunto del testo di Massimo Recalcati - Il mistero delle cose relativo all'artista Giorgio Celiberti. 2 documenti ordinati, parole del libro in uno schema leggibile e semplice da studiare.

Tipologia: Dispense

2021/2022

In vendita dal 20/12/2022

AuroraTuccio
AuroraTuccio 🇮🇹

29 documenti

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Scarica Massimo Recalcati - Il mistero delle cose - Giorgio Celiberti e più Dispense in PDF di Storia dell'arte contemporanea solo su Docsity! GIORGIO CELIBERTI Una pittura che viene dall’insonnia Io so da dove viene la pittura di Giorgio Celiberti. Io so da dove viene il suo gesto di dipingere. Viene da una lotta continua, senza tregua, estenuante, viene dalla lotta incessante tra la luce e le tenebre, tra il giorno e la notte, tra la tentazione del sonno e l’impossibilità di dormire. Questa pittura viene dall’insonnia. L’insonnia non è solo l’impossibilità di prendere sonno, non è il semplice rifiuto del sonno ma rifiuto di precipitare della vita nel fondo oscuro della morte, rifiuto del buio, di sprofondare, di essere risucchiati nel nero spesso e irreversibile del silenzio. Per l’insonne resistere al sonno è resistere alla tentazione dell’annullamento. Questo artista dai cuori e delle ultime farfalle, dei fiori che appaiono come miracoli di luce sporgenti dal muro, questo artista di scritture e tracce arcaiche, pre-alfabetiche, di stele e di animali-enigmi, vive giorno dopo giorno il tempo inquieto dell’insonnia. Respira da anni – potremmo chiederci: da quando? Dall'incontro divenuto così celebre con le prigioni inumane del campo nazista di Terezìn? O forse da ancora prima, da sempre? - l’acido irrespirabile del silenzio della notte. Una domanda si impone: prima o dopo l’incontro traumatico con il campo di Terezìn? Non so. Ma è certo che l’incontro con Terezìn non è stato solo l’incontro con il Male imperdonabile della Shoah, con l’orrore della morte distribuita come medicina, delle vite innocenti di bambini stroncate dal fanatismo orrendo dell’ideologia della svastica. Probabilmente Celiberti ha visto in quei muri riempiti di segni infantili e disperati qualcosa che lo riguardava ancora più da vicino. Non siamo stati noi tutti – anche per un solo istante – i bambini di Terezìn? Non siamo stati tutti noi, almeno per una volta, invasi dal buio della morte? Questa pittura viene dall’insonnia della vita, dalla sua impossibilità di riposo, dalla sua inquietudine. Non posso intendere nulla della pittura di Celiberti, se non parto da qui, dal peso specifico che in essa gioca l’esperienza umana dell’insonnia. Come egli dice c’è una claustrofobia che gli mozza il respiro. Sì, c’è una claustrofobia celibertiana che possiamo rintracciare come cifra sintomatica e dunque pienamente del suo lavoro. L’incontro con il buio, con il Terrificante. Dell’ustione che questo incontro provoca, la pittura di Celiberti parla in modo sublime e inimitabile: il pittore è obbligato alla veglia. L’opera come testimonianza L’insonnia non riguarda solo un’attitudine del pittore e dell’uomo Celiberti. Essa diviene degna di nota in quanto incrocia l’universale della condizione umana: la vita non viene alla vita se non nell’abbandono assoluto, se non nel grido, attraverso l’esperienza pura e drammatica dell’insonnia: occhi aperti nel buio, occhi di gatto, occhi di bambino, occhi spalancati al mistero dell’eclissi, dello svanire della luce. Bisogna che qualcuno salvi la vita della caduta nell’insensatezza, bisogna che qualcuno sappia associare la vita al senso. È questo il significato essenziale che Celiberti attribuisce alla pratica dell’arte. Per Giorgio Celiberti l’arte è un tentativo di riscatto, di redenzione, è ciò che salva la vita dal precipitare nel non-senso. Ma lo può essere solo se sa resistere all’impatto traumatico con il reale. L’opera è come un’alba: una conquista della luce alla fine della notte, una vittoria sul silenzio della morte. In questo senso l’opera assume in Celiberti il valore di una testimonianza: essa non evita lo scandalo del reale, lo scandalo della finitezza ma anche quello, ad esso corrispondente, dell’eccesso della vita, del suo disordine e del suo caos. L’opera d’arte è tale se sa testimoniare lo scandalo della notte. È una forma sublimata dell’insonnia. Ogni volta la pratica dell’arte deve confrontarsi con il reale senza però sprofondare nel suo abisso. Ma in quanto testimonianza l’opera conserva in sé stessa un “intestimoniabile”. Se Celiberti ha potuto farsi testimone a suo modo degli orrori del campo è solo perché non è stato vittima del campo. Come ricorda Agamben, i testimoni “integrali” sono quelli che non avrebbero potuto mai testimoniare perché sommersi in prima persona dall’esperienza atroce del campo. Di conseguenza, in ogni testimonianza è conservato un “intestimoniabile”. Questa impossibilità è al cuore della pratica dell’arte. Essa si genera come tentativo di accostare il reale muto della Cosa. La lingua dell’opera non può vincere quel silenzio, non può cancellare la sua radicale alterità, ma può costeggiarlo, può, cioè, testimoniare il reale come “lacuna” che abita il linguaggio. Celiberti può testimoniare fuori dall’orrore del campo l’orrore del campo. Non può dire tutto l’orrore, non può, mentre testimonia l’orrore, restituirlo integralmente. La testimonianza dell’opera è sempre testimonianza della lacuna della testimonianza. L'opera testimonia dell’impossibilità di testimoniare, elevando però questa stessa impossibilità al rango di un’immagine capace di evocare il reale impossibile di cui essa testimonia. In questo senso Agamben ricorda che il luogo più radicale della testimonianza è quello della poesia.