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metodi e strumenti per l'insegnamento e l'apprendimento della matematica, Sintesi del corso di Matematica Generale

metodi e strumenti per la matematica

Tipologia: Sintesi del corso

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Scarica metodi e strumenti per l'insegnamento e l'apprendimento della matematica e più Sintesi del corso in PDF di Matematica Generale solo su Docsity! Metodi e strumenti per l’insegnamento e l’apprendimento della matematica Capitolo Primo Elementi di didattica della matematica 1. La didattica della matematica come arte La didattica della matematica come arte ha prodotto risultati interessanti. L’oggetto del lavoro di quel tipo di didattica era costituito essenzialmente dall’insegnamento della matematica; mentre l’obiettivo principale era creare situazioni (sotto forma di lezioni, attività, oggetti, ambienti, giochi, ...) per un insegnamento migliore della matematica. L’assunto più o meno esplicito sembrava essere il seguente: se migliora l’insegnamento, migliorerà anche l’apprendimento, e la validità di questo assunto era data per scontata. Il peso “artistico” dell’attività d’insegnamento, dunque, grava tutto sulle spalle dell’insegnante. Alcuni autori odierni,però, pensano che puntare tutto sull’insegnamento, per quanto inteso come risultato di una riflessione artistica, non dà affatto garanzie sul piano degli apprendimenti. Questa è l’opinione condivisa al giorno d’oggi da parte degli studiosi di didattica. Tuttavia, in passato più d’un Autore ha sostenuto che insegnare è un’arte, frutto di doti personali che non si possono né imparare né trasmettere, con la conclusione estrema che la ricerca didattica non serve. Si tratta di una concezione deleteria che certo non apre la strada a riflessioni interessanti e che piuttosto chiude ogni speranza di migliorare gli apprendimenti attraverso studi specifici, costituendo un’involuzione non aggirabile. Fortunatamente gli indubbi successi ottenuti dall’odierna ricerca hanno mostrato che si tratta di una posizione ampiamente superata sulla quale non vale la pena soffermarsi ulteriormente. 2. Due modi diversi di intendere la didattica della matematica Oggi circa la ricerca in didattica della matematica Si possono ipotizzare diversi modi di vedere la didattica della matematica, secondo Bruno D’Amore: ▲ tipo A, come divulgazione delle idee, fissando dunque l’attenzione sulla fase dell’insegnamento (A qui sta per Ars, riferendoci alla sua traduzione latina); ▲ tipo B, come ricerca empirica, fissando l’attenzione sulla fase dell’apprendimento (epistemologia dell’apprendimento della matematica); ▲ tipo C, come studio delle convinzioni personali degli insegnanti di matematica e della loro influenza nelle azioni d’aula e dell’apprendimento degli studenti. La didatta A è sensibile all’allievo, lo pone al centro della sua attenzione, ma la sua azione didattica non è sull’allievo bensì sull’argomento in gioco. La didattica A può servire a contribuire a risolvere problemi di grande importanza come: migliorare l’immagine della matematica, migliorare l’immagine di sé nel fare matematica, migliorare l’attenzione, attivare interesse e motivazione. Una cattiva immagine della matematica nuoce a tutta l’attività dell’insegnante stesso. Lezioni inconcludenti, ripetitive, noiose, finiscono con il contribuire a trasmettere una visione negativa della matematica allo stesso docente, che si estende al suo lavoro didattico. Limiti della didattica A La scommessa pedagogica di fondo della didattica A sembra essere la seguente: la motivazione e l’interesse che la nuova attività ha acceso nell’allievo sono tali che l’apprendimento del concetto “in gioco” sarà non superficiale ma profondo. In tal modo, quando l’allievo si troverà di fronte ad un problema dello stesso tipo, ma in ambiente diverso, trasferirà il sapere da una situazione all’altra, in modo naturale, implicito, spontaneo, senza richieste cognitive specifiche per la nuova situazione di apprendimento. Di fatto, però, le cose non vanno sempre così; anzi: le capacità cognitive e procedurali restano spesso ancorate all’ambito nel quale si sono raggiunte: non si sa trasferire la conoscenza, se non in casi particolari. Questo limite, tipico dell’essere umano, ha molto ridimensionato gli studi fatti in ambito A; questi, se pure proseguono, sono oggi usualmente accompagnati da una seria ricerca empirica, ben fondata, sempre più specialistica, ed allora fatalmente tendono a diventare ricerche in didattica B. Si può fare ricerca empirica in una didattica di tipo A? Va detto subito che se si assume così semplicemente la tipologia A come ambiente di ricerca, allora bisogna riconoscere che quegli studiosi non sono riusciti ad elaborare un loro proprio statuto epistemologico complessivo. A questa affermazione qualcuno ribatte chiamando in causa il bourbakismo; ma il riferimento allo strutturalismo bourbakista è scorretto, perché esso non è, né mai ha chiesto di essere, una epistemologia della ricerca in didattica, essendo ad essa totalmente estraneo. Il bourbakismo Si tratta di una corrente che oggi potremmo chiamare di epistemologia della matematica che ha spinto a riscrivere daccapo tutta la matematica, cercando di basarsi su pochissime strutture algebriche considerate fondamentali. Questa ricerca, iniziata negli anni ’40 ed ancora oggi in corso (anche se senza più il vigore e le forti motivazioni iniziali), ha profondamente influenzato non solo la matematica, ma molte altre discipline che l’hanno presa ad esempio. Il fenomeno strutturalista, che ha investito molteplici discipline, ha certo origine qui; ad esso si ispirano, per esempio, molti dei più celebri lavori di Jean Piaget. In realtà non è corretto riferirsi allo strutturalismo in senso piagetiano, che pure a quello bourbakista fa riferimenti continui: la teoria secondo la quale l’apprendimento avviene “a stadi” gerarchici lineari, in analogia con il modello dell’epistemologia genetica di Jean Piaget [1896-1980], è da qualche decennio al centro di discussioni: si tratta di una elegante ed affascinante costruzione teorica, ma sembra stentare a trovare serie e significative verifiche empiriche che la rendano accettabile; anzi, le verifiche empiriche fin qui compiute sembrano andare in direzioni molto diverse o opposte. Senza una vera e propria ricerca empirica, qual è la certezza che abbiamo sul fatto che l’uso di uno strumento qualsiasi tra quelli tipici della tipologia A renda davvero gli allievi più abili in qualche cosa che non sia meramente specifico? Per esempio, usare a lungo e con l’assistenza dell’insegnante l’abaco multibase rende ovviamente più abile l’allievo ad usare... l’abaco multibase; ma siamo sicuri che quello stesso allievo sarà diventato più abile anche in altro, per esempio nell’esecuzione di un’operazione, nella risoluzione di un problema, nella dimostrazione di un enunciato? O, almeno, abbia assunto una consapevolezza più profonda dei concetti aritmetici di base e sulla matematica in generale? L’abaco si utilizza soprattutto nella scuola primaria; che tipo di apprendimento specifico esso potrebbe convogliare al passaggio nella scuola secondaria? Non si riesce a trovare un filo logico. D’altra parte, però, se si effettuano prove empiriche, con opportuni e ben studiati dispositivi sperimentali, sui risultati cognitivi ottenuti con attività di tipo A, allora si passa alla ricerca considerata sperimentale, si entra nel campo della epistemologia dell’apprendimento, cioè si passa al punto che contraddistingue la tipologia B. Concetto e concettualizzazione in matematica Distinguere il “concetto” dalla sua costruzione non è facile e, forse, non è né possibile né auspicabile: un concetto è, per così dire, continuamente in fase di costruzione ed in questa stessa costruzione sta la parte più problematica e dunque ricca del suo significato: Vediamo di che si tratta. Ancora una volta, usiamo un grafico per illustrare tali caratteristiche della semiotica, perché sembra più incisivo ed efficace. oggetto A da rappresentare ➝ scelta dei tratti distintivi di A ➝ ➝ RAPPRESENTAZIONE Rm i (A) in un dato registro semiotico rm se si applica una trasformazione di rappresentazione TRATTAMENTO, si ottiene una nuova rappresentazione (i≠j) Rm j (A) nello stesso registro semiotico rm se si applica una trasformazione di registro CONVERSIONE, si ottiene una nuova rappresentazione Rn h(A) in un altro registro semiotico rn (n≠m) (m, n, i, j, h 1, 2, 3, ...) I tratti distintivi fissati dell’oggetto A dipendono dalle capacità semiotiche di rappresentazione del registro scelto. Adottando un registro diverso si fisserebbero altri tratti di A. Ciò dipende dal fatto che due rappresentazioni dello stesso oggetto, ma in registri diversi, hanno contenuti differenti. Quali sono le caratteristiche della noetica? L’acquisizione concettuale di un oggetto matematico si basa su due sue caratteristiche “forti” (Duval, 1993): ▲ l’uso di più registri di rappresentazione semiotica è tipica del pensiero umano; ▲ la creazione e lo sviluppo di sistemi semiotici nuovi è simbolo (storico) di progresso della conoscenza. Queste considerazioni mostrano l’interdipendenza stretta tra noetica e semiotica, come si passa dall’una all’altra: non solo dunque non c’è noetica senza semiotica, ma la semiotica viene assunta come caratteristica necessaria per garantire il primo passo verso la noetica. A questo punto è doverosa una precisazione sulla teoria che da anni sta sviluppando Raymond Duval. In essa, egli accorda alla conversione un posto centrale rispetto alle altre funzioni, ed in particolare rispetto a quella di trattamento, considerata invece dai più come decisiva dal punto di vista matematico. Perché? Per almeno tre ragioni distinte: ▲ la conversione cozza contro dei fenomeni di non congruenza che sono per nulla concettuali (in quanto legati al senso stesso della conversione). Questi fenomeni di non congruenza costituiscono l’ostacolo più stabile osservabile nell’apprendimento della matematica, a tutti i livelli ed in tutti i dominii; ▲ la conversione permette di definire delle variabili cognitive indipendenti, il che rende possibile costruire delle osservazioni e delle sperimentazioni relativamente precise e fini. ▲ la conversione, in casi di non congruenza, presuppone una coordinazione dei due registri di rappresentazione mobilizzati, coordinazione che non è mai data in partenza e che non si costruisce spontaneamente basandosi sul solo fatto che si facciano effettuare delle attività matematiche didatticamente interessanti. Ciò che si chiama la “concettualizzazione” comincia realmente solo quando si mette in moto, anche solo abbozzandola, la coordinazione di due distinti registri di rappresentazione. È ogni singolo allievo che apprende, e nessuno può apprendere (o comprendere) al posto di un altro! Inoltre, la riuscita di un’azione didattica non si giudica immediatamente, ma può essere valutata solo alcuni anni più tardi: ci sono molti casi di riuscita immediata che si rivelano poi essere degli insuccessi a distanza di tempo. Ecco, dunque, perché Duval insiste sul carattere centrale della conversione; è questo il punto decisivo, quel che veramente differenzia la sua teoria dei registri, rispetto a tutto quel che si può dire e si usa dire su segni e semiotica, o sul cognitivo. La costruzione dei concetti matematici è dunque strettamente dipendente dalla capacità di usare più registri di rappresentazioni semiotiche di quei concetti per: ▲ rappresentarli in un dato registro; ▲ trattare tali rappresentazioni all’interno di uno stesso registro; ▲ convertire tali rappresentazioni da un dato registro ad un altro. “costruzione della conoscenza in matematica” significa proprio l’unione di quelle tre “azioni” sui concetti, cioè l’espressione stessa della capacità di rappresentare i concetti, di trattare le rappresentazioni ottenute all’interno di un registro stabilito e di convertire le rappresentazioni da un registro ad un altro. La mancata costruzione concettuale, la non raggiunta noetica, è un fenomeno molto studiato in didattica della matematica. 7. Componenti dell’apprendimento L’apprendimento della matematica non è solo fatto di costruzione di concetti, ma consta di varie tipologie di apprendimenti distinti ma non del tutto privi di sovrapposizioni: ▲ apprendimento concettuale; in matematica si costruiscono concetti che rappresentano le diverse componenti degli oggetti matematici che sono il tema dell’azione di insegnamento - apprendimento. Un concetto si considera costruito quando l’allievo è in grado di identificare proprietà di quel concetto, di rappresentarlo, di trasformare tale rappresentazione, di usarla in modo opportuno. Ecco quindi che risulta interessante, per la valutazione in senso costruttivo, creare occasioni nelle quali gli studenti abbiano la possibilità di mostrare di aver costruito concetti. Poiché nelle prove cui sono sottoposti gli allievi si usa molto la scrittura, anzi è essenziale, così come il ricorso al disegno e agli schemi, si capisce bene come la semiotica sia componente trasversale irrinunciabile dell’apprendimento concettuale. ▲ apprendimento algoritmico (calcolare, operare, …);Tale tipologia di apprendimento è in relazione con l’abilità di dare risposta alle operazioni, al calcolo, all’applicazione di formule o al disegno di figure usando strumenti opportuni. Valutare questo tipo di apprendimento non è banale. La gestione di algoritmi di qualsiasi tipo e la loro organizzazione in fatti logicamente connessi tra loro in una catena finita in modo meccanico da eseguire passo a passo, necessita evidentemente di una significativa gestione semiotica; tutto quel che è algoritmico è rappresentato e dunque la semiotica è un apprendimento fondamentale e trasversale. ▲ apprendimento strategico (risolvere, dimostrare,…); Bisogna arrivare a convincere tutti gli studenti che quel che conta sono i processi e non i prodotti. Si tratta di uno degli apprendimenti più complessi. Anche in questo caso, è ovvio che l’apprendimento semiotico è trasversale; quale che sia il problema in oggetto, quale che ne sia la natura, esso è necessariamente espresso in un registro semiotico; spesso la sua risoluzione è in grande misura un trattamento o una conversione da una rappresentazione a un’altra, che vanno interpretate. ▲ apprendimento comunicativo (troppo spesso non preso in esame); Questo aspetto dell’apprendimento matematico, troppo spesso dimenticato o sottaciuto, cerca di mettere in evidenza la capacità di esprimere idee matematiche, giustificando, argomentando, dimostrando (in forme adatte allo studente, sia orali che scritte) e rappresentando in modo visivo con figure, in modo efficace. Questa attività didattica costringe alla discussione, al dialogo, dunque alla comunicazione. Poiché la comunicazione degli oggetti matematici costruiti cognitivamente avviene per mezzo di registri semiotici, è evidente che, anche in questo caso, l’apprendimento semiotico è trasversale. ▲ apprendimento semiotico, specifico ma trasversale a tutti i precedenti. che ha un ruolo in sé ma anche ampia trasversalità. Come sappiamo, essa consiste in: 1. saper scegliere i tratti distintivi che di un tal oggetto matematico cognitivamente costruito o in via di costruzione si vogliono rappresentare; 2. scegliere il registro o i registri semiotici che si reputano adatti a tale rappresentazione; 3. una volta effettuata la rappresentazione semiotica, saperla trasformare in un’altra dello stesso registro (trattamento) o di un altro (conversione) in modo opportuno, senza perdere di vista il significato dell’oggetto di partenza. Questo elenco ha un senso in sé stesso, ma si potrebbe riutilizzare per esaminare tutte le precedenti quattro componenti, visto che nessuna di esse sfugge al destino di tutte le rappresentazioni degli oggetti matematici e delle attività matematiche, la rappresentazione semiotica. Dunque, questo particolare apprendimento deve essere diviso in due categorie: ▲ apprendimento semiotico in sé, specifico per ciascun esempio (si ricordi il caso delle relazioni binarie, o quello dell’uguaglianza); ▲ apprendimento semiotico di gestione delle rappresentazioni, ma all’interno delle quattro componenti precedenti. Ciò delinea ed evidenzia, a nostro avviso, l’assoluta necessità di prendersi cura di questo apprendimento, così centrale nella matematica. La ripartizione dell’apprendimento semiotico in due tipologie è, di fatto, più una comodità adulta, uno strumento professionale per l’insegnante, soprattutto con funzioni valutative, che non una vera e propria necessità culturale, didattica, epistemologica. 8. Introduzione agli strumenti teorici e concreti della didattica B La didattica della matematica e il buon senso dimostrano e mostrano che l’origine di quelle lacune non è cronologicamente attribuibile al giorno prima; si sono creati fraintendimenti, talvolta colossali, in anni precedenti, fin dalla scuola primaria. È per questo che il nostro gruppo di ricerca segue l’atteggiamento internazionale di accomunare, negli studi di didattica della matematica, i diversi livelli scolastici; per un docente di secondaria è fondamentale sapere quali sono i problemi di apprendimento nella scuola primaria, perché essi sono la base dei problemi che lo studente rivelerà di lì a qualche anno al docente di scuola secondaria. Sempre per questo motivo, noi preferiamo condurre gruppi di lavoro e vere e proprie ricerche “in verticale”, mettendo a lavorare fianco a fianco i docenti-ricercatori dei vari livelli scolastico, con grande giovamento per entrambi. 9. Il contratto didattico Dopo la metà degli anni ’70 fece l’ingresso nel mondo della ricerca in didattica della matematica l’idea di contratto didattico, lanciata da Guy Brousseau fin dal decennio precedente ma resa famosa grazie al celebre articolo del 1986. Anni ’80 piena teorizzazione. ad essi parteciparono vari studiosi di tutto il mondo: l’idea veniva riconosciuta ed entrava a far parte del linguaggio condiviso dall’intera comunità internazionale. In realtà questa idea non era del tutto nuova. Nel 1973, Jeanine Filloux introdusse il termine di contratto pedagogico per definire alcuni tipi di rapporto tra docente ed allievo. Quello della Filloux era un contratto generale, più sociale che cognitivo, mentre il contratto didattico di Brousseau tiene conto anche delle conoscenze in gioco. isolato; per esempio i suoi compagni non si meravigliano affatto di una proposta che lui non riesce, invece, ad accettare. Un esempio solo: un quadrato è sempre disegnato e proposto dai libri di testo con i lati orizzontali e verticali, il rombo spessissimo con le diagonali orizzontale e verticale. Lo studente Pierino si è fatto l’idea che i quadrati devono essere così ed i rombi invece così, ed è convinto che la sua concezione sia la stessa di tutti i compagni di classe; crede cioè, implicitamente, che si tratti di un'idea largamente, anzi totalmente condivisa. Un bel giorno l’insegnante disegna un quadrato con le diagonali orizzontale e verticale, ma non lo chiama “rombo”, come Pierino si aspetta, bensì “quadrato”. Pierino sussulta: “Il prof. si è sbagliato?”. Ma si accorge invece che il resto della classe accetta questa denominazione: si tratta sì di un conflitto cognitivo, ma non solo sul piano individuale “interno”, bensì pure sul piano sociale perché mette Pierino in conflitto con un concetto che riteneva condiviso. Alla base dei conflitti ci sono quindi le misconcezioni, cioè concezioni momentanee non corrette, in attesa di sistemazione cognitiva più elaborata e critica. Attenzione, però: lo studente non lo sa e dunque ritiene che le sue, quelle che per il ricercatore sono misconcezioni, siano invece concezioni vere e proprie. Dunque è l’adulto che sa essere quelle elaborate e fatte proprie dai ragazzi delle misconcezioni. Chiamarle errori è troppo semplicistico e banale: non si tratta di punire, di valutare negativamente; si tratta, invece, di dare gli strumenti per l’elaborazione critica. In un certo senso, si potrebbe addirittura pensare che tutta la carriera scolastica di un individuo, per quanto attiene la matematica, sia costituita dal passaggio da misconcezioni a concezioni corrette. Le misconcezioni, intese come detto (concezioni momentanee non corrette, in attesa di sistemazione cognitiva più elaborata e critica), non sono eliminabili, né costituiscono del tutto un danno. Costituiscono un momento delicato, necessario, di passaggio da una prima concezione elementare (ingenua, spontanea, primitiva) ad una più elaborata e corretta. 11. Immagini e modelli Innanzitutto è importante chiarire il significato dei seguenti termini: “immagine” e “modello”. “Immagine mentale” è il risultato figurale o proposizionale prodotto da una sollecitazione sensoriale esterna. Per esempio, durante una lezione in aula, si sente provenire dall’esterno un forte rumore (sollecitazione sensoriale esterna); la mente dell’essere umano è tale da creare immediatamente un’immagine al suo interno; ci si può immaginare, inconsciamente, la causa di tale rumore, per esempio. L’immagine mentale è condizionata da influenze culturali, stili personali, in poche parole è prodotto tipico dell’individuo, ma con costanti e connotazioni comuni tra individui diversi. Essa può più o meno essere elaborata coscientemente (anche questa capacità di elaborazione dipende però dall’individuo). Tuttavia l’immagine mentale è interna ed almeno in prima istanza involontaria. L’insieme delle immagini mentali elaborate (più o meno coscientemente) e tutte relative ad un certo concetto costituisce il modello mentale (interno) del concetto stesso. ESEMPIO, supponiamo che uno degli studenti guardi fuori dalla finestra (altro senso impegnato: la vista); riceve un’informazione, grazie alla quale è in grado di ritoccare l’immagine precedente (debole, cioè modificabile, malleabile, grazie a nuove informazioni) ed adattarla meglio alla situazione. Quel che accade in aula rientra in questo ambito assai generale nel quale lavora la mente umana. L’insegnante spiega (udito), disegna alla lavagna formule o figure (vista), produce cioè delle sollecitazioni sensoriali esterne allo studente; il quale reagisce facendosi proprie immagini che si modificano proprio grazie alle successive informazioni. Detto in altro modo, lo studente si costruisce un’immagine I1 di un concetto C; egli la crede stabile, definitiva. Ma ad un certo punto della sua storia cognitiva, anche immediatamente dopo, riceve informazioni su C che non sono contemplate dall’immagine I1 che aveva. Egli deve allora (e ciò può essere dovuto ad un conflitto cognitivo, voluto dall’insegnante) adeguare la “vecchia” immagine I1 ad una nuova, più ampia, che non solo conservi le precedenti informazioni, ma accolga coerentemente anche le nuove. Di fatto, egli si costruisce una nuova immagine I2 di C. Tale situazione può ripetersi più volte durante la storia scolastica di un allievo, costringendolo a passare da I2 a I3 etc. Molti dei concetti della matematica sono raggiunti grazie a passaggi, nei mesi o negli anni, da un’immagine ad un’altra più comprensiva e si può immaginare questa successione di costruzioni concettuali, cioè di successive immagini I1, I2,…, In, In1,… come una specie di scalata, di “avvicinamento” a C. Ad un certo punto di questa successione di immagini, c’è un momento in cui l’immagine cui si è pervenuti dopo vari passaggi “resiste” a sollecitazioni diverse, si dimostra abbastanza “forte” da includere tutte le argomentazioni e informazioni nuove che arrivano rispetto al concetto C che rappresenta. Un’immagine di questo tipo, dunque stabile e non più mutevole, si può chiamare “modello” M del concetto C. Farsi un modello di un concetto, dunque, significa rielaborare successivamente immagini (deboli, instabili) per giungere ad una di esse definitiva (forte, stabile). Ci sono due possibilità: ▲ M si forma al momento giusto nel senso che si tratta davvero del modello corretto, proprio quello che l’insegnante auspicava per C; l’azione didattica ha funzionato e lo studente si è costruito il modello M corretto (quello voluto dall’insegnante) del concetto C; ▲ M si forma troppo presto, quando ancora rappresenta solo un’immagine che avrebbe dovuto essere ulteriormente ampliata; a questo punto non è facile raggiungere C, perché la stabilità di questo parziale M è di per sé stessa un ostacolo ai futuri apprendimenti. Proseguiamo nell’analisi dei modelli e del loro ruolo nell’apprendimento. Quando un insegnante propone un’immagine forte e convincente, che diventa persistente, confermata da continui esempi ed esperienze, di un concetto C, l’immagine si trasforma in modello intuitivo. C’è insomma rispondenza diretta tra la situazione proposta ed il concetto matematico che si sta utilizzando; ma questo modello potrebbe non essere ancora quello del concetto C che ci si aspetta all’interno del sapere matematico. Dunque, tra i modelli, si riserva il nome di “modello intuitivo” a quei modelli che rispondono pienamente alle sollecitazioni intuitive e che hanno dunque un’accettazione immediata forte. Talvolta, infatti, si parla anche di modelli parassiti. Per esempio, avendo accettato fin dai primi anni di scuola primaria il modello intuitivo di moltiplicazione tra numeri naturali ed avendolo erroneamente esteso a tutte le moltiplicazioni (non importa in che sistema numerico), si forma un modello parassita che si può enunciare così: la moltiplicazione accresce sempre, deve accrescere sempre. ESEMPIO Ha maggior valore il prodotto 8 X 0,25 o il quoziente 8 : 0,25? ed è preponderante la scelta del prodotto Analogo è il modello parassita della divisione. Se l’insegnante di scuola primaria non conosce un po’ di didattica della matematica, si può correre il rischio di dare allo studente un modello intuitivo che finirà con il produrre un modello parassita: in una divisione A:B, il numero B deve essere minore del numero A. Didatticamente conviene sempre lasciare immagini ancora instabili, in attesa di poter creare modelli adatti e significativi, il più possibile vicini al sapere matematico che si vuole raggiungere. Più “forte” è il modello intuitivo, più difficile è infrangerlo per accomodarlo ad una nuova immagine. Insomma, l’immagine - misconcezione non deve diventare modello visto che, per sua stessa natura, è in attesa di definitiva sistemazione. Si tratta allora di non dare informazioni distorte e sbagliate; non solo non darle in modo esplicito, ma addirittura evitare che si formino autonomamente per non favorire l’insorgere di modelli parassiti. Una solida competenza dell’insegnante in didattica della matematica è, in questo, un forte aiuto. Nell’esempio di 8 x 0,25 e 8 : 0,25Si crea la necessità didattica di non rendere stabile quell’immagine troppo presto, allo scopo di poterla poi modificare successivamente, nel tentativo di costruire un modello del concetto di moltiplicazione in modo ottimale, che tenga conto dei successivi ampliamenti ai numeri non naturali. Non è un caso che molti studenti evoluti (anche universitari) si dichiarino meravigliati di fronte al fatto che tra le due operazioni 18 x 0.25 e 18 : 0.25 la prima sia quella che dà un risultato minore. Essi conservano il modello errato creatosi nella scuola primaria in base al quale “la moltiplicazione aumenta i valori” 12. Il triangolo insegnante, allievo, Sapere Tutta la Scuola francese (e, più in particolare, Brousseau) considerano il fenomeno insegnamento- apprendimento da un punto di vista sistemico e non come lo studio separato di ciascuno dei suoi componenti. In Brousseau sono fondamentali insegnante ed allievo, con la relazione “sapere” che li lega, all’interno di un mezzo / ambiente, nel quale essi si trovano ad operare. Per quel che vogliamo evidenziare in questo capitolo, però, ci serviremo di una semplificazione che appare in lavori di Yves Chevallard a partire dal 1982; in essi viene proposto allo studio un modello del sistema didattico, formato da tre sole componenti: insegnante, allievo e Sapere (accademico, ufficiale, universitario), che si usa chiamare: triangolo della didattica. insegnante allievo Sapere È chiaro che l’insegnante si trova implicato in una serie di rapporti di estrema delicatezza. Da un lato deve operare una trasposizione didattica dal sapere (che sorge dalla ricerca, dalla storia, dalla istituzione) al sapere insegnato (quello della pratica in aula, dal punto di vista dell’insegnante). In realtà, il passaggio è molto più complesso perché va dal sapere matematico al sapere da insegnare al sapere insegnato. La trasposizione didattica consiste quindi nell’estrarre un elemento di sapere dal suo contesto (universitario, sociale etc.) per riambientarlo nel contesto sempre singolare, sempre unico, della propria aula. In questo lavoro, l’insegnante non è mai un individuo isolato. È di fatto il collettivo, l’istituzione che oggettivizza e definisce nella sua specificità il sapere scolare, i suoi metodi, la sua razionalità. La trasposizione didattica produce allora un certo numero di effetti: semplificazione e dedogmatizzazione, creazione di artefatti o produzione di oggetti totalmente nuovi. In effetti, la scuola non ha mai insegnato dei saperi puri ma dei contenuti d’insegnamento, qualche cosa che ha esistenza solo all’interno della scuola e che non ha solitamente un’immediata corrispondenza né con la sfera della produzione né con quella della cultura. Dal momento in cui entrano in un programma scolastico, un dominio del sapere, un concetto, subiscono una trasformazione massiccia, sono snaturati per trovare un altro statuto, entrano in un’altra logica, in un’altra razionalità. Il concetto di trasposizione didattica sembra essere anche per il futuro di notevole importanza intesa come il lavoro di adattamento, di trasformazione del sapere in oggetto di insegnamento, in funzione, come detto, del luogo, del pubblico e delle finalità didattiche che ci si pone. Dall’altro lato però, l’insegnante deve tener conto del sistema didattico e dell’ambiente sociale e culturale, cioè della noosfera in cui si trova ad agire. Per noosfera si può intendere il luogo dei dibattiti, di idee significative sull’insegnamento, le finalità della scuola, gli scopi della formazione, le attese della società per quanto attiene scuola e cultura (per esempio i programmi ministeriali); la noosfera è l’intermediario tra il sistema scolastico (e le scelte dell’insegnante) e l’ambiente sociale più esteso (esterno alla scuola); si potrebbe pensare come «la cappa esterna che contiene tutte le persone che nella società pensano ai contenuti ed ai metodi di insegnamento». C’è anche un legame tra noosfera e contratto didattico, in quanto su alcune clausole di quest’ultimo ha certo influenza diretta l’ambiente nel quale ci si trova ad operare. 13. Ostacoli Non è facile formarsi concetti; ciò perché ogni concetto, anche semplice in apparenza, è circondato da un insieme fluttuante e complesso di rappresentazioni associate che comportano molteplici livelli di formulazione e livelli di integrazione del concetto. Dunque il primo problema è quello di “ripulire” il concetto da questo alone che sembra nasconderne il significato intimo. E poi c’è da tener presente gli ostacoli che si frappongono all’apprendimento, proposti una prima volta da G. Brousseau fin da suoi lavori del 1968, altri del 1972 e 1976. Vediamo di che si tratta. Per ostacolo si intende qualsiasi cosa che si frapponga alla costruzione cognitiva di un concetto. Non sempre è sinonimo di mancata conoscenza; per esempio un ostacolo può essere un’idea che, al momento della formazione di un concetto, è stata efficace per affrontare dei problemi (anche solo cognitivi) precedenti, ma che si rivela fallimentare quando si tenta di applicarla ad un problema nuovo. Visto il successo ottenuto (anzi: a maggior ragione a causa di questo), si tende a conservare l’idea già acquisita e comprovata e, nonostante il fallimento, si cerca di salvarla; ma questo fatto finisce con l’essere una barriera verso successivi apprendimenti. Esempio. Nella scuola primaria si insiste molto sul fatto che ogni numero ha un successivo; la cosa è corretta se questo “numero” è in N o in Z, ma non certo se è un numero razionale. L’idea di successivo, in Q, non esiste. Eppure, ci si provi a chiedere d’improvviso a studenti liceali quale sia il successivo di 2,35 e ci si ▲ mancanza di stabilità delle conoscenze previe, sia per quanto concerne la loro utilizzazione sia per la capacità di una eventuale loro messa in discussione; ▲ mancanza di affidabilità delle tecniche operatorie, il che comporta un distoglimento dell’attenzione dall’obiettivo principale ed un alto costo per le procedure complesse; ▲ mancanza della capacità della lettura globale della richiesta del problema che spesso è sostituito con una lettura selettiva, locale, allo scopo di dare risposte pronte. Anche D’Amore ha dato delle spiegazioni (diverse) al fallimento della devoluzione, sulla base delle sue esperienze di ricerca. 2. Implicazione: è la fase nella quale lo studente accetta l’“offerta” dell’insegnante e si implica nell’attività proposta, cioè accetta la responsabilità di occuparsi personalmente del problema/dell’attività proposto/a, senza la guida continua e ossessiva dell’insegnante. 3. Costruzione di conoscenza privata: fase in cui ciascuno studente crea una propria conoscenza interna singolare, la quale dovrà poi essere tradotta e riorganizzata nel momento in cui diventa modello esterno, cioè comunicata ad altri. 4. Validazione: processo di grande rilevanza che si adotta e si segue per raggiungere la convinzione che un certo risultato ottenuto (o un’idea costruita da singoli allievi) risponda davvero ai requisiti esplicitamente messi in campo. La validazione si ha quando un allievo, dopo aver proposto una propria costruzione concettuale agli altri, o una propria risposta al problema che si sta risolvendo, accetta l’invito dell’insegnante-regista a difendere la propria costruzione privata di conoscenza, mettendosi in situazione esplicitamente comunicativa allo scopo di spiegare ai compagni la propria idea; più o meno consapevolmente, egli rivolge così la sua attenzione alla trasformazione di un sapere personale privato in un prodotto di comunicazione, validando appunto la propria costruzione. In didattica della matematica questa fase è di straordinaria importanza: senza di essa l’apprendimento matematico non funziona. 5. Socializzazione: il sapere personale costruito e validato da un singolo studente viene presentato, discusso, “patteggiato” con gli altri, entra cioè a far parte del patrimonio comune, acquisito e condiviso dall’intera classe. Avviene dunque uno scambio sociale tra gli allievi, cosicché singole conoscenze private diventano conoscenza sociale condivisa dalla classe. Quando si è raggiunta la consapevolezza che la classe ha risolto il problema iniziale, o effettuato l’attività, o costruito nuova conoscenza, manca ancora un momento fondamentale: tutti gli allievi volgono l’attenzione all’insegnante che, fino a quel momento, a mo’ di regista, ha diretto la scena, ma che deve riprendere il suo ruolo per accettare o smentire il traguardo raggiunto. Si passa così alla fase successiva. 6. Istituzionalizzazione delle conoscenze: atto esplicito che compie l’insegnante al fine di permettere ad una conoscenza costruita dagli allievi, e socialmente condivisa, di essere ufficialmente riconosciuta. Rappresenta quindi quel processo attraverso il quale gli studenti devono cambiare statuto alle loro conoscenze non ancora ufficiali, non ancora patrimonio definitivo, quello utilizzabile ufficialmente per esempio per la risoluzione di problemi o preteso dall’insegnante come sapere posseduto in modo ufficiale. È un momento importante nell’apprendimento e quindi deve essere un atto forte. Lo studente tende a non accettare le costruzioni cognitive proprie o della classe, mentre tende ad accettare quelle dell’insegnante. L’insegnante cessa di essere regista e torna ad assumere il ruolo istituzionale che lo studente gli riconosce; questo processo risulta essere quindi complementare alla devoluzione. SITUAZIONE NON DIDATTICA Una situazione non-didattica è una situazione pedagogica non specifica di un sapere: insegnante ed allievo non hanno un rapporto specifico e tipico con il sapere in gioco, manca cioè la volontà esplicita didattica di insegnare. Per esempio, gli studenti in aula, alla presenza dell’insegnante o meno, analizzano tra loro dei grafi ci. Le strategie realizzate, pur se con strumenti “matematici”, non sono specifiche per obiettivi cognitivi scolastici. Non è detto che lo studente non impari: è solo che l’insegnante non ha costruito un “ambiente didattico” finalizzato all’apprendimento di qualche nozione specifica del sapere da insegnare. Dunque, non è previsto un apprendimento come scopo, come traguardo di quella attività. Se un apprendimento avviene ugualmente, è casuale. SITUAZIONE DIDATTICA: L’insegnante struttura l’ambiente in modo opportuno, con strumenti adeguati, allo scopo di giungere alla fine dell’attività ad una conoscenza specifica. Tutto avviene, per così dire, alla luce del sole, in un ambiente dichiarato: l’allievo sa che sta imparando, che l’insegnante sta insegnando e a sua volta l’insegnante è consapevole del proprio ruolo e di come la situazione si sta sviluppando. Nell’ambito dunque della situazione didattica vi è l’intenzione esplicita di insegnare. Si tratta di situazioni di stimolo concreto a fare attività, a risolvere problemi, ad eseguire consegne. La situazione è tutta esplicita: l’allievo sa che in quel momento si stanno delineando ed evolvendo nozioni che fanno parte del sapere della scuola. L’insegnante dichiara fin da subito il traguardo cognitivo che si vuole raggiungere, spesso dichiara anche quali sono le sue proprie attese, che cosa egli si aspetta che gli studenti facciano, costruiscano, che risposte devono dare alle sue domande. Lo studente viene impegnato non tanto ad apprendere la matematica che costituisce l’oggetto dell’attività, ma ad apprendere che cosa fare o dire per assecondare le attese dell’insegnante su quel determinato argomento. Siamo, ovviamente, in pieno contratto didattico: è tutto così esplicito che l’allievo, giunto al momento di dover dare risposte, non si pone domande sul contenuto, ma su che cosa l’insegnante si aspetta che egli faccia o risponda. E poi, soprattutto ai bassi livelli di scolarità, ogni frazione di gesto, ogni minimo passo è accompagnato dalla ricerca del consenso. Nella situazione didattica ha un ruolo definitivo e trionfante il contratto didattico che a volte è regola, a volte è strategia. Confrontando le situazioni a-didattiche con quelle didattiche si deduce che l’atteggiamento d’aula e l’impegno richiesti allo studente sono ben diversi: nella situazione a-didattica si chiede all’allievo di attivarsi, mentre nella situazione didattica si chiede all’allievo di riprodurre ciò che ha detto l’insegnante. Quello che si riesce a mettere sotto forma di situazione a-didattica risulta vincente nell’apprendimento. In effetti, pur essendo una situazione di apprendimento più lenta, permette un apprendimento consapevole e profondo; è attraverso una costruzione di situazioni a-didattiche in aula che si arriva ad una vera e propria conoscenza, capace anche di transfer cognitivi. Si parla invece di mezzo o ambiente (in francese: milieu) come di quel sottosistema con il quale ha a che fare direttamente l’allievo (materiali, strumenti, etc.). Questo milieu è all’inizio definito come l’insieme di tutto quel che sull’allievo agisce o su cui l’allievo agisce. Si può pensare all’interazione tra allievo e milieu, in assenza di un concreto coinvolgimento dell’insegnante, come a ciò che definisce una situazione a-didattica; mentre se si prende in esame anche un sistema educativo esplicito (per esempio la figura dell’insegnante) allora si parla di situazione didattica. Torniamo a Brousseau: si può dire che l’allievo costruisce la conoscenza solo se si interessa personalmente del problema della risoluzione di quanto gli è stato proposto attraverso la situazione didattica; in tal caso si usa dire che è avvenuta la devoluzione e ciò si verifica nelle situazioni a-didattiche. Questo tipo di teoria, non dimentichiamolo, ha la matematica come riferimento e dunque, quando si parla di conoscenza, è sempre sottinteso che si sta parlando di conoscenza matematica; ora, come sua caratteristica, la conoscenza matematica include sì concetti ma anche sistemi di rappresentazione simbolica, processi di sviluppo e validazione di nuove idee. Poiché la conoscenza matematica, nella sua peculiarità, include non solo concetti ma anche sistemi di rappresentazione simbolica, non solo processi di sviluppo ma anche validazioni di nuove idee matematiche, dobbiamo contemplare vari tipi di situazioni: ▲ situazioni di azione: agiscono sull’ambiente e favoriscono il sorgere di teorie implicite che funzioneranno nella classe come modelli protomatematici; ▲ situazioni di formulazione: favoriscono l’acquisizione di modelli e linguaggi espliciti; se esse hanno dimensione sociale esplicita, si parla allora di situazioni di comunicazione; ▲ situazioni di validazione: agli allievi sono richieste prove e dunque spiegazioni sulle teorie utilizzate ed anche esplicitazione dei mezzi che soggiacciono nei processi dimostrativi; ▲ situazioni di istituzionalizzazione: hanno lo scopo di stabilire e dare uno status ufficiale a conoscenze apparse durante l’attività in aula. Normalmente hanno relazione con conoscenze, simboli, etc. che si devono ritenere in vista della loro utilizzazione in un lavoro successivo. Apprendere, però, per adattamento all’ambiente comporta rotture cognitive, accomodamento, modifica di modelli impliciti, di linguaggi e sistemi cognitivi. È anche per questo che si è rivelato controproducente obbligare l’allievo ad una progressione cognitiva passo dopo passo; il principio di adattamento può contrastare il processo di rifiuto di una conoscenza inadeguata che è invece necessario all’apprendimento. Nella fase di devoluzione, però, si viene a creare un paradosso che rientra tra gli aspetti relativi al contratto didattico: «Se l’insegnante dice ciò che vuole, non può ottenerlo; (...) se [l’allievo] accetta che, secondo il contratto, l’insegnante gli insegni i risultati, non li stabilisce lui stesso e dunque non apprende la matematica, non se ne appropria. Se, al contrario, rifiuta ogni informazione da parte dell’insegnante, allora la relazione didattica è rotta. Oppure: «Più il professore (…) svela ciò che desidera, più dice all’allievo precisamente ciò che deve fare e più rischia di perdere le possibilità di ottenere e di constatare oggettivamente l’apprendimento al quale, in realtà, deve mirare» . Questo “paradosso” della devoluzione fa il paio con il “paradosso” della credenza: «Credetemi, ma non credete, imparate a sapere che cos’è sapere (…). Così pure, per imparare, l’allievo deve sublimare il disagio delle incertezze legate all’incompletezza del suo sapere, accettando di rischiare nella ricerca dei mezzi utili per questa padronanza. Questo rischio è al tempo stesso il fondamento e la condizione del funzionamento del processo di insegnamento-apprendimento». Questa idea dell’apprendimento come rischio personale, come impegno, come implicazione diretta dell’allievo è un po’ il cardine attorno al quale ruota tutta l’impostazione che stiamo cercando di descrivere e che si manifesta con la rottura (voluta) del contratto. «La necessità di questa rottura potrebbe essere riassunta dal seguente aforisma: Credimi, dice il maestro all’allievo, osa utilizzare il tuo proprio sapere e imparerai». 15. Uso della storia nella didattica della matematica «La filosofi a senza la storia è vuota, la storia senza la filosofia è cieca», asseriva a ragione Kant. Così, appare ovvio pensare alla storia come al riferimento paradigmatico per eccellenza per capire l’evoluzione delle idee e le necessità di adeguamento del pensiero. Per esempio, se nulla si sapesse delle origini aristoteliche della geometria euclidea, né delle geometrie non euclidee con la loro portata rivoluzionaria sul concetto di verità matematica, né della necessità di un nuovo rigore che desse ai termini primitivi e agli assiomi un senso moderno, non si potrebbe capire perché David Hilbert abbia dovuto scrivere dei nuovi elementi di geometria ventidue secoli dopo quelli di Euclide. La storia della matematica costituisce dunque il riscontro oggettivo per capire l’epistemologia. La considerazione di un concetto matematico attraverso la sua evoluzione storica richiede però l’assunzione di posizioni epistemologiche impegnative: la stessa selezione dei dati storici non è neutra. Abbiamo già insistito molto sul fatto che l’insegnamento sia influenzato dalle concezioni dei docenti a proposito della natura della conoscenza scientifica e della sua evoluzione. Appare dunque fondamentale che un insegnante si confronti direttamente con la storia della disciplina e che giunga a saper impiegare i riferimenti storici consapevolmente e coerentemente con le proprie concezioni epistemologiche. A nostro avviso, ogni esposizione tematica in didattica della matematica ed ogni ricerca devono iniziare con un quadro storico ed epistemologico, il che non (sempre) è affatto necessario in matematica. 1.17 La didattica della matematica C, come epistemologia dell’insegnante Quando D’Amore (1999a) coniò il termine didattica B per l’epistemologia dell’apprendimento, fu quasi per scherzo, solo per sottolineare che questa visione della didattica della matematica seguiva la A, la cui denominazione ha un senso dato che, come abbiamo già detto, deriva dal termine Ars. Riassumiamo ciò che distingue queste due didattiche: la didattica A enfatizza l’insegnamento, dunque le scelte relative al Sapere e ogni suo interesse è incentrato sui contenuti e su una loro divulgazione; la didattica B enfatizza l’apprendimento, dunque i modi di costruzione di conoscenza dell’allievo e ogni suo interesse è focalizzato sui motivi dei successi e degli insuccessi dell’apprendimento. Come abbiamo già rilevato, le analisi critiche degli studi di didattica A hanno rivelato l’inutilità di puntare tutto sul Sapere; ma già l’insieme di A e B mostra che molto si può fare per tradurre uno sforzo di insegnamento in un apprendimento avvenuto e consapevole. Oggi invece balza agli occhi che siamo già passati ad una fase di ricerca in didattica della matematica che D’Amore ha chiamato didattica C, proseguendo nello scherzo terminologico: DIDATTICA A 1960 - 1980 DIDATTICA B 1980 - 2000 DIDATTICA C 2000 - … Quali sono i riferimenti teorici ai quali ci ancoriamo? Tutti facciamo sempre riferimento a quel sistema complesso e problematico che chiamiamo triangolo della didattica (allievo, insegnante, Sapere). Esso è uno schema sistemico che vari autori hanno studiato e che ora riprenderemo per analizzare i diversi tipi di didattica: ▲ la didattica A studia criticamente il Sapere e le sue forme di diffusione; ▲ la didattica B studia criticamente le forme di apprendimento dell’allievo, subordinato a questioni d’aula affrontate in questo testo (contratto didattico, ostacoli, situazioni didattiche, etc.); Resta il problema della decisiva influenza che ha l’insegnante in tutto ciò, problema eccessivamente sottovalutato fino a pochissimi anni fa. Oggi sappiamo, per esempio, che le convinzioni dell’insegnante (la cui evidenziazione ed analisi critica non rientrano né nella didattica A né nella B) determinano e condizionano l’insegnamento (A) e l’apprendimento (B), gli ostacoli (specie quelli didattici), la scelta delle situazioni, le misconcezioni, il passaggio da immagini a modelli, le clausole del contratto didattico; dunque: • la didattica C si occupa dell’epistemologia dell’insegnante, la sua formazione, le sue convinzioni, il suo ruolo. Riportiamo la giustificazione fornita da un ragazzo di 15 anni che inizialmente aveva segnato tutte le moltiplicazione e poi ha corretto: «Perché con le moltiplicazioni sembra di ottenere sempre di più di quando si divide». Altro esempi, quando confrontiamo due numeri naturali mediante la linea dei numeri, si potrebbe affermare che il numero più lontano dallo zero sia il numero più grande. Quando viene applicata ai numeri relativi, tuttavia, questa regola può spingerci, non correttamente, a stabilire, ad esempio, che -5 è più grande di -2 perché “esso è più lontano dallo zero”. La regola “il più lontano / il più grande” è valida per tutti i numeri naturali, ma non per quelli relativi. Tale misconcezione può essere interpretata come inevitabile a meno che l’insegnante, invece di cercare di superarla e di non radicarla nella mente dello studente, la espliciti e confermi nel momento in cui tratta i numeri interi. 2.3.2 Esempi di misconcezioni evitabili Misconcezioni evitabili dipendenti da rappresentazioni semiotiche univoche e vincolanti. Tra le misconcezioni evitabili vi sono quelle che dipendono dalla scelta univoca delle rappresentazioni semiotiche fornite dagli insegnanti, a volte in contrasto con la definizione scelta. Emblematico da questo punto di vista risulta l’esempio dell’angolo. Come riferiscono Tirosh e Stavy (2000), sono diverse le ricerche che si sono occupate delle misconcezioni relative agli angoli. Ad esempio, se si mostra il seguente disegno ad allievi dalla scuola dell’infanzia alla scuola superiore e si chiede di stabilire se i due angoli sono uguali o ce n’è uno più “grande” dell’altro, molti allievi rispondono: «L’angolo b è più grande dell’angolo a perché il suo arco è più lungo». a b Più recentemente, i risultati di ricerca ottenuti da Sbaragli e Santi (2011) mostrano come le decisioni prese dall’insegnante per presentare l’argomento angolo, si basano su proposte univoche e vincolanti derivanti dalla noosfera, più che da scelte personali consapevoli, e vertono sul fornire all’allievo sempre e solo univoche rappresentazioni convenzionali, senza analizzarne i tratti distintivi con gli allievi. Altra importante causa di difficoltà sulla quale si è concentrata in modo specifico la ricerca di questi due Autori sono le incoerenze nell’intenzionalità degli insegnanti derivanti da un uso limitato e inconsapevole dei mezzi semiotici di oggettivazione rispetto all’aspetto concettuale e culturale del sapere al quale si vuole solitamente far giungere i propri allievi. La complessità dell’apprendimento del concetto di angolo da parte degli allievi, messa in evidenza dalla numerosa letteratura di ricerca, è quindi amplificata dalle scelte dell’insegnante riguardanti la trasposizione didattica del sapere e l’ingegneria didattica adottata. L’intenzionalità attribuisce all’individuo, in questo caso all’insegnante, un ruolo fondamentale nella possibilità di assegnare senso agli oggetti matematici, ma tale intenzionalità deve essere gestita con consapevolezza per poter essere efficace didatticamente. L’incoerenza tra l’intenzionalità esplicitata dall’insegnante tramite il mezzo di oggettivazione verbale e il mezzo di oggettivazione grafico, scelti per esprimere tale concetto, può essere la fonte di misconcezioni evitabili nella mente dell’allievo. Risulta quindi indispensabile per il superamento di misconcezioni inevitabili e l’assenza di misconcezioni evitabili, fornire una grande varietà di mezzi semiotici di oggettivazione opportunamente organizzati e integrati in un sistema sociale di significazioni rappresentato dalle pratiche matematiche condivise dagli allievi gestite con consapevolezza e coerenza da parte dell’insegnante. Misconcezioni dipendenti da termini linguistici che vincolano le posizioni delle figure Sembra ormai una prassi scolastica legare l’apprendimento geometrico a termini spaziali che derivano dalla posizione dalla quale si osserva un oggetto matematico. Termini come: orizzontale, verticale, obliquo, laterale, sono presenti in tutti i libri scolastici di qualsiasi livello e appaiono come parole specifiche dell’ambito matematico, pur rientrando in realtà in altri contesti. Eppure tali termini che generano posizioni spaziali vincolanti delle figure sono la fonte di misconcezioni evitabili. L’uso di questi termini in campo geometrico mette in evidenza la scelta della noosfera di dare più peso alla posizione dell’oggetto del quale si sta parlando, piuttosto che all’essenza dell’oggetto stesso. Invece di rilevare le caratteristiche “assolute” dell’oggetto matematico, come il parallelismo, la perpendicolarità, la congruenza dei lati o degli angoli, si mettono in evidenza le proprietà “relative” dell’oggetto, che dipendono dal punto di vista, facendo così puntare l’attenzione degli studenti su caratteristiche concrete, dirette e percepibili, importanti in un contesto di vita reale, ma di ostacolo in un mondo geometrico dove non esistono “direzioni privilegiate”. I lati obliqui. Una convenzione accettata da anni da quasi tutto il mondo della scuola italiana, è quella di chiamare il lato del trapezio, indicato nel disegno di seguito con il nome di “lato obliquo”. Questa scelta risulta costruttiva per l’apprendimento degli allievi o fonte di misconcezioni? A nostro parere tale scelta crea nella mente degli allievi misconcezioni evitabili, dato che essa vincola la posizione da far assumere all’oggetto. Nella seguente figura, che rappresenta un trapezio congruente a quello della figura precedente ma disposto in modo diverso rispetto ai margini del foglio, tutti i lati risultano obliqui rispetto al lettore, proprio tranne quello che per convenzione è chiamato obliquo. A questo punto lo studente potrebbe non riconoscere più il trapezio o per farlo potrebbe doverlo riportare nella posizione da lui considerata standard. Tali misconcezioni sono evitabili in quanto dipendono dalla scelta linguistica dei termini che danno maggiore risalto alla posizione assunta dall’oggetto del quale si sta parlando, piuttosto che all’essenza dell’oggetto stesso, valorizzando così saperi esterni al contesto della matematica che bloccano l’apprendimento concettuale corretto. Esempi così vincolanti dal punto di vista percettivo, sono presenti nei libri di ogni livello scolastico. In un famoso testo delle superiori del 2002 edito da una nota casa editrice di Bologna, vi è scritto: «Il trapezio isoscele è un trapezio che ha i lati obliqui congruenti». Escludendo così la seguente immagine dai trapezi isosceli. La parola base nello spazio. Molti insegnanti introducono la parola “base” nello spazio, affermando che è la faccia sulla quale “appoggia” il solido. Allo stesso tempo, ai solidi vengono dati particolari nomi, del tipo: “piramide a base quadrata”, “prismi a basi triangolari”, etc. Queste scelte didattiche congiunte possono provocare misconcezioni evitabili, dato che vincolano la posizione che deve assumere il solido nello spazio. Eppure, ciò che si dovrebbe auspicare in ambito geometrico è che lo studente riesca ad osservare le proprietà matematiche dell’oggetto, invarianti rispetto alla posizione assunta. DISEGNO PAG 130 Una studentessa ha risposto immediatamente: «Non so che cosa sia, ma se lo rigiri diventa una piramide a base quadrata» (intendendo: con la faccia quadrata appoggiata sulla cattedra). In questo caso la proposta della studentessa risulta coerente con ciò che le è stato insegnato: la base è la faccia sulla quale “appoggia” il poliedro, quel solido si chiama “piramide a base quadrata” solo se “appoggia” sulla faccia quadrata. Eppure in matematica non vi sono piani di “appoggio”, ogni faccia può essere considerata come “base”, indipendentemente da come è disposta nello spazio. La “base” può essere una qualsiasi faccia sulla quale si presta l’attenzione, così come, nel piano, la “base” di un poligono può essere un qualsiasi lato, comunque disposto rispetto ai margini del foglio o al punto di vista del lettore. E così, come conseguenza dell’aver richiesto che la base di una figura geometrica sia disposta orizzontalmente rispetto al lettore, l’altezza diventa esclusivamente posizionata in modo verticale, creando così anche una misconcezione relativa all’altezza. Quest’ultima misconcezione, specifica del contesto matematico, deriva dal mondo reale, dato che in questo ambito si parla di solito di altezza come quella distanza che verticale dal punto di vista dal quale tradizionalmente si osserva il mondo. Sembra di poter affermare che termini “relativi” legati alla posizione assunta dall’oggetto rispetto all’osservatore, costituiscono la fonte di misconcezioni evitabili che vincolano l’apprendimento geometrico. I risultati delle prove Invalsi proposte nella scuola media evidenziano le difficoltà che derivano dall’uso vincolante dei termini e dal rappresentare le figure sempre in posizione standard. Alla seguente domanda somministrata nel 2010 risponde correttamente solo il 68% degli allievi di prima media, nonostante il triangolo corretto fosse quello in posizione canonica. D.16 Indica quale dei seguenti triangoli corrisponde a questa descrizione ABC è un triangolo rettangolo con l'angolo retto in A. Il cateto AB è minore del cateto AC M è il punto medio dell'ipotenusa disegni a pag 132 pdf Ovviamente, riteniamo che la geometria debba essere considerata come uno strumento utile per la lettura del mondo che ci circonda, una modellizzazione dello spazio materiale nel quale siamo immersi, ma sosteniamo che un obiettivo che si deve raggiungere in ambito geometrico è che lo studente riesca ad osservare un oggetto matematico nella sua “essenza”, analizzando con elasticità le sue peculiari caratteristiche. Questo è possibile solo se non si assoggetta l’apprendimento a rigidi vincoli spaziali; in effetti, se ci si abitua ad osservare ed analizzare gli oggetti, indipendentemente dalla posizione che essi assumono, si è poi più abili a riconoscere e analizzare la situazione anche al cambiare della proposta. In definitiva, si diventa più capaci di modellizzare la realtà e di dominare le situazioni spaziali in tutta la loro complessità. Le misconcezioni che spesso manifestano gli allievi possono quindi derivare dalle scelte didattiche effettuate dall’insegnante che a volte risultano incoerenti o improprie; per questa ragione è importante che ogni insegnante ripensi criticamente alla trasposizione didattica da effettuare e all’ingegneria didattica che intende proporre in classe. 2.4 L’“errore”: un termine da reinterpretare L’esplicitazione da parte dell’allievo di una misconcezione avviene con quella segnalazione di un malessere cognitivo che si chiama usualmente e banalmente “errore”: lo studente sbaglia, cioè non dà la risposta attesa dall’insegnante. Dare agli errori solo connotazioni negative e non interpretarli come segnali di malessere possono condividere, dove l’insegnante svolge la funzione di testimone capace di stare in ascolto attivo permettendo ai singoli e al gruppo di ri-vedersi e di ri-ascoltarsi» (Dozza, 2010, p. 37). La comunicazione – nelle sue estensioni descritte – sostiene alcuni valori chiave della democrazia – come per esempio la cooperazione, il mutuo rispetto, l’interdipendenza e l’autonomia – che divengono reali e carichi di significato sia per gli studenti che per gli insegnanti. Sviluppare una Didattica capace di riconoscere e organizzare una buona comunicazione coinvolge alcuni fattori come: a) il clima e la cultura della scuola; b) i modi con i quali l’apprendimento e l’insegnamento sono organizzati; c) la natura delle interazioni, attraverso e tra tutti i membri della comunità scolastica. La scuola, infatti, come comunità ha bisogno di sviluppare un clima e una cultura democratica consistente, con ideali di cooperazione e comprensione, basati sul valore della parola e degli scambi democratici. 3.1.La Didattica si esprime al meglio nel contesto classe come laboratorio Nel contesto e attraverso la comunicazione la Didattica esprime quindi l’idea di dirigere l’organizzazione di una classe e di una scuola come laboratorio, il quale è “luogo” determinato dallo spazio fisico e ambientale, dagli strumenti in esso contenuti, ed è quindi anche contesto, inteso come spazio cognitivo ed emotivo, dove le interazioni con gli altri e con le strumentalità determinano la qualità delle relazioni e le prospettive di crescita intellettiva. Il laboratorio riflette molteplici facce: è naturalmente orientato alla ricerca operando sintesi continue tra aspetti pratici e teorici avviando quelle circolarità che sviluppano riflessione e apprendimento. È riflessivo sulle esperienze – cognitive, emotive, di apprendimento – che danno forma e connotano il “luogo” che porta all’elaborazione di modelli per l’apprendimento (metodi di studio e di relazione) che si caratterizzano per l’interdisciplinarietà amplificando e aumentando la conoscenza delle “formae mentis” culturalmente educate. Il laboratorio è lo spazio della memoria, che si evolve continuamente, attraverso le esperienze, costruendo nel tempo la propria identità, recuperando, rinnovando e inventando nuovi saperi e nuovi modi di applicare le conoscenze. Diviene luogo di progettualità e di creatività, poichè la ricerca stessa modifica i saperi e le prassi. Potremmo affermare che il laboratorio diviene il luogo “del cambiamento”, poichè attivamente lo produce attraverso le interazioni continue e intersoggettive, i problemi da risolvere, le pratiche riflessive. Progettare non solo contenuti, quindi, ma processi di apprendimento, compiti, prodotti che costituiscono le pratiche con le quali misurarsi e misurare padronanze e sviluppi di atteggiamenti intelligenti. Un laboratorio, luogo della sperimentalità, dunque, anche di un “fare scuola” accompagnato da un “essere” in apprendimento, in continua ricerca e confronto. In esso è possibile sperimentare anche modi di essere, di condurre, di relazionarsi che divengono motore di successive applicazioni in ambienti differenti. In questo modo il laboratorio si configura come “palestra” tra pari che sostengono, aiutano, suggeriscono, per realizzare apprendimento. Il laboratorio come “luogo” è quindi anche “spazio” che interpreta un’idea di scuola, divenendone metafora: un essere in ricerca, elevando la cultura della scuola, armonicamente intrecciata con i tratti delle conoscenze e delle pratiche. È nella natura del laboratorio generare richieste di approfondimento e di formazione, in quanto i problemi posti in essere richiedono quote conoscitive, esperienziali, progettuali che non sono già compiute. Nel laboratorio si generano istanze alle quali occorre rispondere in modo specifico costruendo una comunità che riflette, che si forma in modo continuo intorno alle soluzioni di problemi. Dopo la tridimensionalità espressa dal contesto-comunicazione-laboratorio che forma la struttura della bussola Didattica, possiamo affrontare i punti cardinali verso i quali guidare i percorsi di insegnanti e studenti. 3.2.La Didattica e le competenze: punto cardinale Nord Il primo punto cardinale per orientarsi con la bussola Didattica è il tema delle competenze. Oggi è un punto di riferimento proprio come il Nord nella bussola. Gli studenti possono quindi contare su esperienze di apprendimento in classe che sviluppano un insieme di competenze – come per esempio la creatività e l’innovazione, il problem solving e l’apprendere ad apprendere – attraverso le quali sviluppare contenuti disciplinari fondamentali. Questo tema è un ulteriore aspetto che conferma la necessità di uno spostamento del paradigma dalla trasmissione alla co-costruzione delle conoscenze. Questo cambiamento nella domanda di competenze ha una conseguente implicazione nelle stesse competenze degli insegnanti che dovrebbero quindi utilizzare modalità di insegnamento coerenti e innovative. In tal senso definire dei saperi di qualità e la qualità dei saperi è fondamentale. Lo sviluppo delle competenze per il XXI secolo dovrebbe essere quindi interpretato come un’opportunità per tutti di affrontare il cambiamento e acquisire potere di trasformare le situazioni di vita. Se consideriamo infatti le azioni di “operare per”, di “poter fare”, di “essere in grado di”, il tema delle competenze assume un ulteriore interesse poiché correlato alla definizione degli strumenti cognitivi e culturali che gli studenti costruiscono e possiedono. Attraverso questi strumenti gli studenti possono operare per apprendere continuamente nel corso della vita (lifelong learning) e direzionare la propria esperienza (self-direction). Questo significa che attraverso la trasposizione didattica e le situazioni di apprendimento, a tutti gli studenti è permesso di apprendere per generare, processare e gestire informazioni complesse, pensare sistematicamente e criticamente, prendere decisioni ponderando diverse forme di risultati, rispondere a domande significative poste su differenti aspetti, essere adattabili e flessibili all’integrazione di nuove informazioni, essere creativi e capaci di identificare e risolvere problemi di vita reale. Si rende indispensabile favorire la capacità naturale della mente di porre e risolvere problemi essenziali ed altresì necessario operare per stimolare il pieno uso delle intelligenze (Morin, 2001) 3.3.La Didattica e le intelligenze: punto cardinale Est Il secondo punto cardinale riguarda il tema dell’intelligenza e del possibile significato da attribuire all’intelligenza come competenza. Il sole sorge a Est e le intelligenze non aspettano tempo per svilupparsi. Così esteso, il principio di intelligenze multiple – le nove intelligenze per Gardner – permette di considerare che esse possono formarsi attraverso un insieme di esperienze di apprendimento, all’interno di un dato contesto culturale. La classe, la scuola, i laboratori sono contesti culturali che esprimono, attraverso le discipline, le forme di educazione delle intelligenze. Per Gardner in ogni soggetto vi è potenzialmente un’orchestrazione di differenti intelligenze, se esse vengono opportunamente sollecitate e formate, attraverso esperienze pratiche, riflessive e interiorizzanti dei processi di apprendimento. In tal modo, possiamo altresì considerare le competenze come comportamenti intelligenti, agiti nelle situazioni che ne richiedono una loro mobilitazione pertinente. Il profilo dello studente del XXI secolo dovrebbe quindi costruirsi considerando la necessità di sviluppare le competenze, sia come comportamenti intelligenti in contesti differenti, sia come espressione e sostegno dei talenti. La formazione del talento e delle intelligenze ha infatti bisogno di tempo – anche non immediatamente produttivo – e di esperienza che deriva dall’affrontare direttamente la soluzione di problemi. In modo particolare fornendo tutte le potenzialità di cui i soggetti hanno bisogno per apprendere ad organizzare la conoscenza e formarsi quindi una matrice intellettuale, in grado di codificare le informazioni efficacemente. Un secondo aspetto permette di sostenere che l’educazione non può che essere delle intelligenze e alle intelligenze, in una prospettiva plurale e integrata, sostenendo il principio che esse non sono innate e determinate ma progressive e incrementali. La Didattica aiuta gli studenti a sviluppare strumenti intellettuali e strategie di apprendimento, necessari per acquisire la conoscenza che permetta loro di pensare produttivamente, nelle specifiche aree disciplinari. Questo significa che la conoscenza include anche la capacità di formulare e investigare, con domande appropriate, differenti aree di argomenti. Attraverso questi apprendimenti, che possiamo definire strategici, gli studenti divengono capaci di auto-sostenersi e di apprendere lungo l’arco della vita. È quindi a partire dalla necessità di aggiornare il profilo di allievi e studenti, per renderlo in grado di rispondere alle mutate condizioni di contesto già presentate, che si sono delineati curricoli come insieme di competenze per il XXI secolo ai quali le scuole possono fare riferimento per direzionare le proprie scelte. Una Didattica basata sulle competenze permette agli studenti, attraverso il confronto con prodotti complessi in un contesto autentico, da una parte di renderli motivati allo studio, dall’altra di acquisire quelle formae mentis – analisi, sintesi, problem solving, presa di decisone, applicazione di conoscenze – che contraddistinguono il pensare degli esperti. 3.8 La didattica cooperativa per lo sviluppo delle competenze: punto cardinale Sud Un terzo punto cardinale conduce alla Didattica cooperativa. Un punto a sud, verso il “caldo” delle relazioni, della conoscenza co-costruita, del lavoro insieme. Come abbiamo già sostenuto, è necessario che i contesti di apprendimento permettano agli studenti di essere attivamente coinvolti in compiti di apprendimento, insieme agli altri e in costante interazione, per esercitare e formare, nel contesto, le loro competenze. I risultati positivi dell’apprendimento avvengono inoltre quando gli studenti, durante le attività in classe, partecipano a lezioni che richiedono di costruire e organizzare la conoscenza considerando continuamente delle alternative. L’apprendimento cooperativo – o cooperative learning – potrebbe essere una tra le più significative metodologie da utilizzare in tal senso: essa offre infatti architetture per attivare classi socialmente coese e stimolanti o contesti coinvolgenti, aiutando gli studenti a padroneggiare le competenze necessarie. Attraverso l’apprendimento cooperativo gli insegnanti possono progettare contesti per l’apprendimento che stimolano il raggiungimento della conoscenza profonda, così come una maggiore creatività e interattività mediante il lavoro con gli altri, nella risoluzione di problemi e nella realizzazione di applicazioni innovative delle conoscenze. Il cooperative learning rappresenta un metodo che, da una parte, è tra i più indagati per gli effetti prodotti sull’apprendimento, dall’altra – vantando oramai parecchi anni di riflessione, modellizzazione e innovazione – è fondato sull’intenzionalità pedagogica di formazione e sviluppo delle competenze chiave e di capacità personali, in una prospettiva di pluralità delle intelligenze e nell’ottica della classe – e della scuola – come comunità di ricerca e di apprendimento. Il lavoro in gruppo del cooperative learning consiste nel lavorare insieme per realizzare obiettivi condivisi, all’interno di situazioni cooperative, dove ogni membro del gruppo cerca di ottenere risultati per se stesso e per gli altri. Nell’apprendimento cooperativo, quindi, si attribuisce una funzione educativa ed intenzionale ai piccoli gruppi, attraverso i quali gli studenti lavorano insieme e apprendono come portare al massimo livello il proprio apprendimento e quello degli altri. Le modalità attraverso le quali il contesto di piccolo gruppo e di classe viene organizzato, permettono di impiegare le risorse del gruppo stesso per rafforzare atteggiamenti di cooperazione, di interazione e di equità di status tra gli studenti nelle classi multi culturali (differenze di genere, di provenienza geografica, di culture, di competenze). Considerato secondo tale ottica, il cooperative learning si offre come un approccio duttile, ricco di risorse e potenzialità, in grado di fornire risposte originali, efficaci e attuali alle problematiche complesse che investono il mondo della scuola. Non solo, ma assume anche la prospettiva – tutta pedagogica – di direzionare la formazione del profilo attraverso l’immersione continua nelle esperienze di apprendimento sociale. Esperienze di apprendimento che imitano o simulano quanto accade nella vita reale, che prevedano problemi da risolvere attraverso i gruppi di lavoro, che contemplino sia attività individuali che responsabilità di gruppo. Il cooperative learning, permette agli studenti di acquisire sia le conoscenze indispensabili delle discipline sia le competenze sociali derivanti dal lavoro continuo con gli altri. Gli studenti apprendono perché esercitano la propria responsabilità personale ma anche perché imitano gli altri e apprendono dai pari. La classe cooperativa va considerata e organizzata come un insieme di piccoli gruppi di alunni, relativamente permanenti e la cui composizione è di tipo eterogeneo. I gruppi sono formati per portare a termine un’attività e produrre una serie di progetti o prodotti. All’interno del piccolo gruppo ai membri viene richiesta una responsabilità individuale nell’acquisizione delle competenze utili al raggiungimento degli scopi individuali e di gruppo. Questo “nuovo paradigma dell’insegnamento” si fonda su alcuni principi: > la conoscenza è costruita, scoperta, trasformata ed estesa dagli studenti; > gli studenti costruiscono attivamente la loro conoscenza; > l’apprendimento è un’impresa sociale, nella quale gli studenti hanno bisogno di interagire con l’insegnante e con i compagni di classe; > gli sforzi della scuola vanno indirizzati allo sviluppo delle competenze e dei talenti degli studenti; > è necessario che l’apprendimento avvenga all’interno di un contesto cooperativo; > l’insegnamento è assunto come una complessa azione di connessione tra teoria e ricerca, che richiede continui affinamenti e innovazioni. Alcuni effetti e prospettive pedagogiche connesse alla didattica cooperativa riguardano: > la costruzione di un contesto classe accogliente per tutti dove ognuno trova il suo posto per un adeguato apprendimento e sviluppo di competenze riconoscendo le differenze individuali; > il riconoscimento di ogni differenza individuale, che permette di considerare ognuno come parte della classe; > la costituzione di un sistema di tutoraggio tra pari dove i compagni di classe sono la principale risorsa su cui contare per apprendere, in modo particolare per le diverse abilità; > lo sviluppo di un sistema solidale, nel quale si inizia a praticare il rispetto di ogni altro e di ogni idea, in un prospettiva democratica; > la possibilità di operare come cittadini attivi nella classe – contesto sociale. 3.9 La didattica basata sui problemi (Problem Based Learning): punto cardinale Ovest L’apprendimento basato sui problemi rappresenta il nostro ovest della bussola Didattica moderna. Il punto che solitamente rappresenta la metafora verso cui andare, l’innovazione. Il Problem Based Learning costituisce, infatti, una modalità attraverso la quale tutti gli studenti assumono un ruolo attivo e responsabile nella costruzione della loro conoscenza, sviluppando competenze e processi di pensiero più raffi - nati. Il lavoro di gruppo rappresenta la modalità attraverso la quale viene proposto agli studenti di affrontare una situazione molto vicina alla realtà, sollecitandoli a sviluppare un insieme di competenze utili per la vita e per l’apprendimento continuo. In particolare affrontare lo studio tramite la soluzione di problemi presenta alcune evidenze molto interessanti circa la formazione del profilo delle 3.11 La Didattica metacognitiva e l’apprendere ad apprendere per lo sviluppo del pensare: punto cardinale Sud-Est Organizzare contesti attivi, realizzando prodotti di comprensione sostenuti da una Didattica laboratoriale, significa contemporaneamente il pensare all’azione e attraverso l’azione. Il luogo caldo delle relazioni cooperative si innesta nello sviluppo dell’apprendere continuamente, attraverso percorsi di revisione dei processi di lavoro e di pensiero, individuali e di gruppo. Apriamo la prospettiva del punto cardinale della Didattica metacognitiva. La metacognizione è tradizionalmente definita come l’esperienza e la conoscenza che abbiamo dei nostri processi cognitivi. Essa è una forma di cognizione, un secondo o più alto ordine di processi di pensiero, che coinvolge un controllo attivo sui processi cognitivi. Nella forma più semplice «può essere definita come il “pensare sopra al pensare”, oppure come una “cognizione della persona sulla propria cognizione”». Boscolo (1997) afferma che il termine “metacognizione” «viene utilizzato per designare la consapevolezza e il controllo che l’individuo ha dei propri processi cognitivi. Il fatto che la metacognizione sia qualche cosa di complesso e spesso accentuato su alcune variabili piuttosto che altre, è affermato da Cornoldi (1995), il quale divide schematicamente l’ambito metacognitivo in due ampi settori, rappresentati dalla conoscenza metacognitiva e dai processi di controllo. La metacognizione non attiene però solo al campo della psicologia. La dimensione pedagogica della metacognizione è rintracciabile nel pensiero di Dewey al quale, spesso ci si riferisce per il suo “pensare riflessivo” come ad un precursore dello sviluppo degli strumenti per la realizzazione di un pensare critico negli allievi. Attraverso il “metodo sperimentale” e l’attribuzione di valore all’“esperienza”, Dewey presenta risvolti interessanti per una didattica metacognitiva. Infatti quando sostiene che «scopo dell’educazione è di permettere agli individui di continuare la loro educazione, ossia che l’obiettivo e la ricompensa dello studio è una continuata capacità di sviluppo», Dewey anticipa la competenza di apprendere ad apprendere particolarmente nota oggi. Più specificamente, Dewey (1916) sostiene che “imparare” presupponga quindi l’attivazione di un processo cognitivo che, in questo caso, ci fa guardare a quello che si fa durante lo svolgimento del compito, ricordando come si è fatto prima, per farlo meglio poi. Ancor più significativo, in tal senso, la specificazione circa la riflessione nell’esperienza: «il pensiero, o la riflessione, è il discernimento della relazione fra quel che cerchiamo di fare e quel che succede in conseguenza. Nessuna esperienza che abbia un significato è possibile senza qualche elemento di pensiero. E vi è differenza nell’esperienza, secondo la proporzione di riflessione che vi troviamo. Ben altro valore ha, in contenuto di pensiero, analizzare per vedere cos’è che fa da intermediario in modo da collegare causa ed effetto, attività e conseguenza: ovvero, l’attività che ci permette di prevedere con maggiore accuratezza. Se sappiamo in dettaglio da che cosa dipende il risultato, possiamo controllare se esistono le condizioni richieste. Pensare equivale pertanto ad un cosciente astrarre l’elemento intelligente della nostra esperienza» (p. 196). L’attività di “prevedere” e di “controllare” esplicitata da Dewey, come pensare cosciente sull’esperienza, richiama la riflessione circa l’oggetto della metacognizione che, per Cornoldi (1995) diviene la conoscenza sulla nostra attività mentale. Inoltre, diverso è svolgere un compito per prove ed errori, oppure utilizzare un’immagine mentale di un comportamento di altri, dal riflettere su quanto sta per accadere in noi, prima di agire sul compito. Più esplicitamente, l’oggetto della conoscenza metacognitiva è il funzionamento mentale. E ancora, Cornoldi afferma che la conoscenza metacognitiva si acquisisce, si sviluppa e si esplicita in interrelazione con il comportamento cognitivo. Strategie di regolazione metacognitiva: a) prevedere il livello di prestazione in un compito e/o stimare il suo grado di difficoltà; b) essere consapevole del proprio repertorio di strategie e del loro campo di applicazione; c) identificare e definire il problema o compito da affrontare; d) pianificare e programmare appropriate strategie risolutive, ovvero organizzare le azioni che portano al perseguimento di un obiettivo; e) monitorare, ovvero controllare “progressivamente” in ogni sua singola fase, un’attività cognitiva intrapresa; f) valutare in modo “dinamico” i risultati che si vanno complessivamente ottenendo attraverso l’applicazione di una strategia ed eventualmente modificare quest’ultima. 3.12 Didattica e valutazione autentica. La prospettiva per la valutazione delle competenze: punto cardinale Nord-Ovest Lo spostamento dei paradigmi verso l’apprendimento e le competenze introduce alcune questioni chiave per il tema della valutazione. Una varietà di dati di valutazione per rendere il quadro personale dello studente più vivo e attendibile, ben oltre la fissità del semplice punteggio di un test standardizzato. Lo scopo è riconoscere “l’autentica” crescita dell’alunno durante il corso di studi, in contrapposizione alla pratica dei test, ritenuta al contrario, poco o nulla “autentica”. Wiggins (1989) propone di operare il passaggio dalla dimensione di valutazione della conoscenza alla valutazione della comprensione. Il suo ragionamento è semplice e accattivante. Se le prove regolano cosa l’insegnante insegna e cosa gli studenti studiano per comprendere, la strada per ripensare la valutazione è ben tracciata: basta verificare quelle capacità e abitudini che si reputano essenziali, collocandole in un preciso contesto e rendere replicabili le sfide che sono al cuore di ogni disciplina. In ciascuna di esse dobbiamo saper fare con quello che sappiamo. Questa è l’essenza delle prove autentiche. L’alternativa (rispetto alle prove standardizzate) viene mantenuta e rafforzata, affiancata dalla prospettiva dell’“autenticità” intesa come padronanza reale, non effimera e duratura di ciò che è stato appreso. In altre parole Wiggins sposta il focus sulla prova complessa come il momento centrale di un processo volto a chiarificare e definire livelli di padronanza nei quali le conoscenze sono incontrate ad un certo livello di qualità. Attraverso una situazione complessa viene chiesto allo studente di “mostrare” il livello di padronanza raggiunto in un dato dominio e operare delle giustificazioni rispetto alle scelte operate. Padroneggiare un sapere significa molto più che fare un buon test. Per questo c’è bisogno di progettare prove “autentiche” (cfr. par. 3.7) e cioè in grado di mettere lo studente in condizione di dimostrare quello che sa e sa fare con quanto conosce (e per come lo ha appreso e interiorizzato). L’autenticità della valutazione è ulteriormente definita da Wiggins e Mc Tighe (1999) come una prassi che deve provare quello per cui è stata progettata. Perciò è ipotizzabile che si possano avere più forme di test o di prove, tutte con eguale valore. Wiggins ha inoltre modificato ulteriormente il significato di “autentico”, non solo rafforzando l’importanza del cosiddetto “principio di comprensione”, ma anche estendendo il termine “autentico” nel senso di “educativo”. Due sono le caratteristiche principali che la renderebbero tale: 1) la valutazione dovrebbe essere intenzionalmente progettata per promuovere e sostenere (non solo misurare) ciò che è ritenuto significativo nella vita, prospettando a tal fi ne agli allievi compiti autentici; 2) la valutazione dovrebbe fornire a tutti gli studenti e ai loro insegnanti sia un ricco e utile feedback che essere predisposta per valutare l’uso del feedback da entrambe le parti, studenti e insegnanti, per una iniziale autovalutazione. Altri elementi di questa prassi di valutazione, incentrata sull’apprendimento, che noi diremmo “personalizzato”, sono i seguenti: • un sistema di valutazione è educativo quando è progettato per migliorare le prestazioni (degli studenti e dell’insegnante) e si affida a “pedagogie esemplari”. • È costruito incentrandosi su compiti significativi, credibili e realistici e in quanto tali “autentici”. Il sistema è inoltre tenuto a: > essere aperto e cioè basato su compiti, criteri e standards, conosciuti dagli studenti e dagli insegnanti. La valutazione educativa è quindi molto rilevante rispetto ai semplici test esterni, i quali richiedono che le domande del test siano mantenute segrete; > modellare istruzioni esemplari, incoraggiando piuttosto che limitando, desiderabili pratiche di insegnamento; > usare forme di comunicazione e criteri di valutazione che significano ed indicano qualcosa di chiaro, stabile e valido. Questi ultimi naturalmente sono tenuti a essere collegati ai traguardi indicati dal sistema nazionale; > impiegare le prassi sommative (che non vanno escluse, ma ordinate all’interno di un contesto) nel senso di costituire un set di ragionevoli aspettative per gli studenti. Per quanto riguarda i feedback che il sistema invia a studenti, insegnanti, dirigenti e decisori politici occorre: > fornire dati e commenti esaustivi e chiari per rendere capaci gli studenti e gli insegnanti di auto-valutarsi e autocorreggere, al tempo stesso, le proprie prestazioni; > assicurare ampie opportunità di ottenere e usare una valutazione immediata e continua. L’introduzione della valutazione autentica/formativa è per Wiggins un punto fondamentale non soltanto in funzione della maggiore efficacia delle prassi valutative, ma in rap porto alla stessa riforma scolastica. Infatti è dalla finalità che si attribuisce alla valutazione che dipende il volto della scuola. 3.13 La Didattica per capacitare e costruire capitale sociale. Un nuovo orizzonte formativo: punto cardinale Sud-Ovest L’orizzonte è quindi di una Didattica innovativa, dai tratti caldi, generativa di nuove prospettive pedagogiche e sociali. Una Didattica pur basata sulle competenze, ma che permetta di considerare un differente percorso e significato. La prospettiva a cui ci riferiamo è quella di Amartya Sen (1992) e Martha Nussbaum (2010) che hanno introdotto il principio delle capacitazioni. Abbiamo appreso molto riguardo al capitale umano. Centro di questa prospettiva è la formazione di una persona competente che possa trovare soddisfazione e sia in grado di permanere nel mondo del lavoro. Il fulcro è il ruolo attivo degli individui nell’espansione delle possibilità produttive. Potremmo dire che al mutare del sistema produttivo o economico – e delle sue esigenze – mutano le competenze che formano il capitale umano. La capacitazione di una persona è l’insieme delle combinazioni alternative di funzionamento che essa è in grado di realizzare. È quindi una opzione di libertà, di possibile scelta tra più opportunità. Le scelte si fondano su prospettive di valore o di soddisfazione di bisogni, ma sono opzioni personali verso la realizzazione di un progetto di vita, il quale non necessariamente si fonda sul raggiungimento dei livelli di benessere e di status symbol prodotti da un sistema culturale o economico. Questa differenza diviene sostanziale nelle prospettive formative: formare a sistemi di possibilità significa ancora una volta porre al centro lo sviluppo umano, poiché sviluppare capacitazioni offre alla persona una prospettiva di intervento autonomo, piuttosto che una formazione per adeguarsi alla prospettiva. Contemporaneamente questo aspetto sottolinea la possibilità di aderire a sistemi di sviluppo differenti, ma che crescono con il crescere delle opportunità e dell’umanità. Una prospettiva quindi di sviluppo sostenibile guidato da valori e ideali fondati sul vivere bene. Capacitare non è solo riferito all’individuo ma anche alla necessità di permettere lo sviluppo del contesto affinché gli individui siano in grado di formarsi capacità. Si affaccia, in questa prospettiva, il capitale sociale. In classe è la qualità delle relazioni che sostiene l’apprendimento e la costituzione di un contesto nel quale permettere agli studenti e agli insegnanti di formare capacitazioni. È questa del capitale sociale così inteso una tematica interessante per la classe come contesto sociale e di cittadinanza attiva. Da un parte, assumendo la prospettiva di Putnam (2000), il capitale sociale è importante per alcuni motivi: 1) permette ai cittadini di risolvere più facilmente i problemi collettivi. Le persone spesso potrebbero essere più ricche se cooperassero, condividendo ogni loro fare. Le norme sociali e le reti permettono di rendere più efficaci le regole che vengono definite a livello istituzionale; 2) rende più fluido e scorrevole l’ingranaggio sociale che permette alla comunità di progredire in modo agevole. Quando le persone si fidano e si rendono affidabili e ripetono le interazioni con altri cittadini, ogni giorno le transazioni sociali “costano” meno e sono più efficaci; 3) migliora la vita attraverso l’allargamento delle nostre consapevolezze circa i molteplici modi nei quali il nostro destino è collegato. Le persone che hanno connessioni attive e di fi ducia con altri – membri della famiglia, amici o compagni del tempo libero – sviluppano o mantengono tratti caratteristici che sono utili anche per il resto della società; 4) le reti che costituiscono il capitale sociale servono anche come conduttori per il flusso delle informazioni di aiuto che facilitano il raggiungimento dei nostri obiettivi. Il capitale sociale è sostenuto da una didattica che nelle rappresentazioni sin qui evidenziate è comunicazione, riflessione, costruzione ed azione. La classe costruisce il proprio capitale sociale all’interno delle pratiche didattiche solidali e cooperative, di aiuto e inclusive. Nell’analisi di Donati (2003) assume significato il valore di capitale sociale basato sulla dimensione relazionale. «Il capitale sociale, pertanto, è la relazione sociale stessa, se e in quanto è vista e agita come risorsa per l’individuo e/o per la società». Capacitare significa costruire contemporaneamente un sistema di possibilità per ognuno e per il contesto che si arricchisce continuamente – grazie alla qualità delle relazioni – di capitale sociale. Il quale è rilevante per l’apprendimento. Capitolo Quarto Le valutazioni nazionali e internazionali 4.1 Introduzione L’introduzione delle prove Invalsi, a partire dalla prova Nazionale inserita nell’esame conclusivo del primo ciclo di istruzione nell’a.s. 2007/08, è stato l’inizio di un piccolo terremoto nella scuola italiana. In altre parole, la nostra scuola raggiunge risultati discreti (nella media) quando si tratta di fare matematica in contesto matematico, ma non riesce a mettere in grado i ragazzi di utilizzare la matematica come strumento per comprendere il mondo, descriverlo, operare su di esso. Eppure, questi obiettivi sono presenti nei programmi e nelle indicazioni almeno da 25 anni. Un’altra criticità messa in luce da OCSE-PISA è la debolezza dei nostri ragazzi per quanto riguarda la capacità di argomentare e giustificare le proprie affermazioni. Per certi versi, questo è un paradosso. I nostri studenti sono più deboli, su questi aspetti, di ragazzi che hanno studiato in paesi in cui la valutazione, molto di più che da noi, avviene attraverso prove standardizzate (o addirittura “test a crocette”). Come mai gli studenti della scuola italiana, che più di qualunque altra utilizza lo strumento dell’interrogazione orale, acquisiscono meno dei loro coetanei questa capacità? La discussione orale dovrebbe favorire la crescita e lo sviluppo della capacità di argomentazione. n realtà, la pratica sul campo delle interrogazioni orali spesso si riduce a una riproposizione alla lavagna di esercizi scritti. Anche quando vengono fatte argomentazioni o “dimostrazioni”, quello che viene richiesto allo studente è di restituire l’argomentazione dell’insegnante, o del libro di testo, o di Euclide. Molto raramente nelle nostre classi si realizza quella discussione in classe che già veniva raccomandata nei documenti di Matematica 2001 (si veda a questo proposito l’Appendice conclusiva sui materiali di documentazione per gli insegnanti). L’indagine OCSE-Pisa ha avuto indiscutibilmente il merito di mettere davanti agli occhi di tutti cosa riesce a fare la nostra scuola, per la matematica, e quali sono i limiti della sua impostazione. Ci aiuta a comprendere meglio, al di là degli slogan, gli obiettivi delle Indicazioni di legge, ci dà strumenti concreti per realizzare effettivamente percorsi di insegnamento/apprendimento attraverso i quali i ragazzi costruiscano vere competenze matematiche. 4.3 L’indagine IEA-TIMSS L’indagine TIMSS (Trends in International Mathematics and Science Studies) è una ricerca promossa dall’IEA (International Association for the Evaluation of Educational Achievement) della quale nel 2011 si è svolto il quinto ciclo. A differenza di OCSE-PISA, che studia i ragazzi di una coorte d’età indipendentemente dalla classe frequentata, IEA-TIMSS è collegata ai percorsi scolastici, e valuta ogni quattro anni gli apprendimenti dei ragazzi del quarto e dell’ottavo anno di scolarità (in Italia, quindi, gli studenti della quarta primaria e della terza classe della secondaria di primo grado). Si trovano così a essere valutati comparativamente ragazzi che hanno lo stesso numero di anni di scolarità, ma età differenti: l’inizio della scolarizzazione non è lo stesso in tutti i Paesi, e ci sono tra i ragazzi valutati ripetenti o anticipatari. Inoltre, è notevole il fatto che sono gli stessi ragazzi che vengono valutati a distanza di quattro anni in due livelli scolari differenti. Un’altra differenza con OCSE-PISA è nel fatto che TIMSS è una valutazione collegata ai curricoli scolastici. TIMSS ha una appendice nella valutazione TIMSS Advanced, che confronta gli studenti del dodicesimo (in Italia del tredicesimo) anno di scolarizzazione, dei percorsi nei quali la matematica ha un peso importante. Gli obiettivi della ricerca sono: > comparare gli apprendimenti degli studenti in funzione dei differenti sistemi scolastici dei diversi Paesi; > individuare, a livello comparativo, punti di forza e di debolezza dei rispettivi sistemi educativi e migliorare, così, l’insegnamento e l’apprendimento della matematica e delle scienze; > misurare i cambiamenti nel tempo (analisi di trend) degli apprendimenti in matematica e scienze degli studenti dei singoli Paesi; > identificare i fattori che influenzano le performance in matematica e scienze con particolare attenzione alle variabili di sfondo di tipo socio-economico e culturale, ai curricoli e alle strategie didattiche; > individuare a spiegare le differenze nei sistemi di istruzione tra Paesi al fi ne di contribuire a migliorare l’insegnamento e l’apprendimento della matematica e delle scienze. Con l’affermarsi del “modello PISA” l’indagine TIMSS ha perso in parte la propria risonanza, ma continua a fornire importanti elementi di riflessione sul sistema e ai singoli insegnanti. Innanzitutto, anche TIMSS “fotografa” risultati di apprendimento della matematica molto diseguali tra il Nord e il Sud. È significativo però che il distacco tra i ragazzi italiani e i loro coetanei cresca con l’avanzare della scolarizzazione: se in quarta primaria i risultati sono nella media e senza eccessive differenze regionali, alla fine del primo ciclo si è già scavato il distacco con gli altri Paesi e tra Nord e Sud. La nostra scuola accentua le differenze, anziché colmarle. 4.4 Il Servizio di Valutazione Nazionale dell’Invalsi In questo quadro di esperienze internazionali, anche l’Italia ha iniziato a realizzare un Servizio Nazionale di Valutazione, affidato all’Invalsi. Quasi tutti i Paesi del mondo hanno un organismo deputato a valutare i risultati del sistema di istruzione, e quasi sempre questo organismo ha come compito primario quello di monitorare i risultati di apprendimento degli studenti. Ogni sistema complesso ha bisogno di monitorare continuamente i propri processi e i propri risultati, per individuare i punti di forza e i punti di debolezza. Un ovvio principio di buona gestione è che la valutazione deve essere compiuta da un agente esterno, che fornisce gli elementi per l’autovalutazione. L’Invalsi agisce in base a precise indicazioni di legge (ad esempio, non è l’Invalsi che decide se la prova deve essere censuaria o campionaria, o il peso che la Prova Nazionale deve avere nella valutazione degli studenti). Lo scopo principale delle prove Invalsi è fornire strumenti e dati per la valutazione. Va subito detto che questa parola, valutazione, comprende significati molto diversi: è importante avere una valutazione del funzionamento del sistema scolastico, ed è importante avere una valutazione degli apprendimenti degli studenti. In base alle attuali disposizioni di legge, l’Invalsi deve fare entrambe le cose. L’Invalsi rileva quindi dati per valutare il sistema scolastico nel suo complesso, e tra questi, dati sugli apprendimenti in matematica degli studenti. Queste informazioni sono a disposizione dei cittadini e dei decisori politici e amministrativi per stabilire, sulla base di dati per quanto possibile affidabili e oggettivi, se la scuola italiana sta raggiungendo gli obiettivi prefissati. I dati Invalsi contribuiscono quindi a delineare una fotografi a del sistema. Per realizzarla, il Servizio Nazionale individua un campione molto ampio di studenti, stratificato tra l’altro per genere e regione, ai quali la prova viene somministrata in maniera controllata. L’obiettivo finale però è fornire strumenti per il miglioramento della scuola, e questo si può realizzare solo attraverso l’azione e l’impegno di ogni singolo insegnante, che quotidianamente deve sottoporre ad autovalutazione la propria azione didattica. La valutazione Invalsi è quindi censuaria, viene cioè effettuata su tutti gli studenti. In questo modo, ogni insegnante ha a disposizione i dati dei propri allievi, e può metterli a confronto con quelli di popolazioni di riferimento, confrontabili ad esempio come area geografica. Ogni insegnante somministra ai propri studenti la prova Invalsi e la corregge: in questo modo lui, e solo lui, ha un dato confrontabile col campione su cui riflettere da utilizzare per migliorare. Attualmente, il Servizio di Valutazione Nazionale valuta annualmente gli studenti delle classi seconda e quinta primaria, prima e terza secondaria di primo grado, seconda secondaria di secondo grado. La legge prevede che in futuro verranno valutati anche gli studenti della classe quinta della secondaria di secondo grado. Il disegno della rilevazione è evidente: in ogni segmento scolastico gli studenti vengono valutati in entrata e in uscita. Quello che conta sapere, infatti, è il valore aggiunto, quanto la scuola riesce a far crescere i ragazzi. Le domande sono proposte da autori, insegnanti in servizio che seguono percorsi di formazione specifici. Le domande di ogni livello di valutazione vengono esaminate ed eventualmente modificate nella forma o nella presentazione da un gruppo che segue la preparazione della prova per quel livello fi no al pretest. Con le domande, il gruppo assembla due o più prove che vengono pretestate su un ampio campione di classi, l’anno precedente la valutazione cui sono destinate. I risultati del pretest sono analizzati dal punto di vista didattico e da quello statistico. Alcune domande vengono modificate ulteriormente e, se necessario, ritestate. Alla fine di questo processo, che dura quasi due anni, vengono preparati i fascicoli definitivi. 4.4.1 La Prova Nazionale Le prove Invalsi sono uno strumento di rilevazione di informazioni, e quindi non sono costruite per “dare un voto” agli studenti. Alcuni insegnanti decidono di utilizzarle per la propria valutazione, ma questa è una loro scelta. L’unica eccezione è costituita dalla Prova Nazionale, che è inserita nell’esame conclusivo del primo ciclo di istruzione e il cui risultato entra nel voto del singolo studente. Questo pone un problema generale, che in realtà è presente in ogni valutazione sommativa, anche quella che compie l’insegnante quando assegna una verifica in classe. Come si fa a tradurre il risultato di una “fotografi a” (tale vuole essere il ritratto degli apprendimenti) su una scala unidimensionale (un voto da 1 a 10)? È ovvio che non ci si può limitare a considerare la percentuale di risposte corrette: ogni domanda, infatti, fornisce una informazione qualitativamente differente sugli apprendimenti del singolo ragazzo. Tecnicamente, quello che fa l’Invalsi (ma anche l’OCSE-PISA) sui dati del campione è realizzare una analisi statistica detta analisi di Rasch basata su un modello di tipo logistico grazie alla quale è possibile individuare, per ogni domanda di una prova, il livello di competenza rispetto al quale quella domanda è significativa, e parallelamente individuare su quale livello di competenza (sulla stessa scala) si colloca ogni ragazzo. L’analisi di Rasch, che è disponibile nei rapporti Invalsi, permette di capire meglio che cosa ci dice, rispetto alla competenza valutata complessivamente dalla prova, ogni singola domanda. Questo processo viene fatto una prima volta sulle prove che vengono pretestate; sulla popolazione può essere fatto solo a posteriori e di norma è contenuto nel rapporto che ogni anno segue la somministrazione delle prove. Per la Prova Nazionale occorre invece avere subito uno strumento per tradurre i risultati in un voto. L’Invalsi fornisce allora una griglia di valutazione nella quale, sostanzialmente, le domande sono suddivise in blocchi: un primo blocco individua item che sono indicativi di competenze di base; un secondo comprende item con competenze più elevate e un terzo blocco comprende domande in cui è richiesta esplicitamente una argomentazione. Il risultato di questo processo, compiuto sulla prova di Italiano e quella di Matematica, è un voto che “fa media” e quindi entra nella certificazione finale dello studente al termine del primo ciclo. Questa, lo ripetiamo, è stata una scelta del legislatore, che d’altra parte corrisponde a una esigenza generale. La valutazione che gli insegnanti fanno del singolo studente, lungo tutto il suo percorso scolastico, evolve progressivamente da soggettiva a oggettiva. All’inizio della scuola primaria è completamente soggettiva, cioè dipende dai soggetti in gioco (l’insegnante e l’allievo, la sua provenienza, la sua storia personale, le sue condizioni di studio, le sue vicende familiari, le sue malattie, etc.). Al termine del percorso, ad esempio al momento della laurea, la valutazione si pretende oggettiva: il diploma di laurea del medico che ci cura o dell’ingegnere che ci costruisce la diga sopra casa non dovrebbe essere stato rilasciato in base a considerazioni sulle vicende personali dello studente, ma oggettivamente certificare la competenza acquisita. L’esame di stato al termine del primo ciclo è uno snodo importante, anche perché il suo risultato viene spesso utilizzato per orientare le scelte successive degli studi. È quindi ragionevole che in tale sede inizi a entrare una valutazione oggettiva degli apprendimenti dello studente. 4.4.2 Come “utilizzare” le prove Invalsi I materiali e i risultati delle prove Invalsi, come quelli delle valutazioni internazionali, possono essere utilizzati dagli insegnanti a diversi livelli: per acquisire consapevolezza delle caratteristiche del proprio insegnamento, per intervenire sui processi di apprendimento dei propri allievi, per monitorare il raggiungimento dei propri obiettivi formativi. Gli strumenti per queste azioni sono fondamentalmente il Quadro di Riferimento, le prove rilasciate e i rapporti e i risultati. Il Quadro di Riferimento del Servizio Nazionale di Valutazione dell’Invalsi è lo strumento che definisce quale matematica viene valutata e come viene valutata. È un documento in progressiva evoluzione, di cui attualmente sono disponibili una versione per il primo ciclo e una per il secondo ciclo di istruzione. Il Quadro di Riferimento individua due direzioni lungo le quali sono costruiti i quesiti: la direzione dei contenuti e la direzione dei processi, coerentemente con quanto fatto anche nelle valutazioni internazionali. I contenuti matematici sono organizzati nelle quattro grandi aree di Numeri, Spazio e figure, Dati e previsioni, Relazioni e funzioni. Ogni quesito viene classificato in base all’oggetto di valutazione, che è un contenuto compreso in una di queste aree. Ogni domanda viene poi classificata secondo il processo prevalente coinvolto e attivato quando lo studente cerca di costruire la propria risposta. Questa classificazione serve anche a rendere più esplicite le competenze valutate. I processi attualmente classificati nel quadro di riferimento sono i seguenti: 1) conoscere e padroneggiare i contenuti specifi ci della matematica (oggetti matematici, proprietà, strutture...); 2) conoscere e utilizzare algoritmi e procedure (in ambito aritmetico, geometrico, algebrico,...); 3) conoscere diverse forme di rappresentazione e sapere passare da una all’altra (verbale, numerica, simbolica, grafi ca, ...); 4) risolvere problemi utilizzando gli strumenti della matematica (individuare e collegare le informazioni utili, individuare schemi risolutivi di problemi, confrontare strategie di soluzione, descrivere o rappresentare il procedimento risolutivo,…); 5) riconoscere in contesti diversi il carattere misurabile di oggetti e fenomeni e saper utilizzare strumenti di misura (individuare l’unità o lo strumento di misura più adatto in un dato contesto, stimare una misura,...); 6) acquisire progressivamente forme tipiche del pensiero matematico (congetturare, verifi care, giustifi care, defi nire, generalizzare, dimostrare...); 7) utilizzare la matematica appresa per il trattamento quantitativo dell’informazione in ambito scientifi co, tecnologico, economico e sociale (descrivere un fenomeno in termini quantitativi, utilizzare modelli