Scarica Metodologie Analitiche Avanzate prof. Buiarelli e più Sbobinature in PDF di Chimica analitica strumentale solo su Docsity! La Gas Cromatografia: La tecnica separativa con fase mobile rappresentata da un gas. Quando si ricorre alla gas cromatografia? La prima domanda da porre è gli analiti presenti nel campione evaporano rapidamente? Sono sostanze che possono andare ad alte temperature senza decomporsi? Se la risposta è sì, noi possiamo lavorare con la gas cromatografia. Se la risposta è no, ci sono diverse possibilità: 1. Se gli analiti in nessun modo passano allo stato di vapore, allora seguiamo HPLC. 2. Gli analiti possono formare un derivato stabile (li faccio reagire con qualcosa e ottengo composti stabili da composti instabili, abbasso il punto di ebollizione, sto eseguendo reazione di derivatizzazione) e a quel punto posso ancora andare in gas cromatografia. Se gli analiti non formano derivati stabili, allora ricorro alla HPLC. Esistono specie che sono sempre gassose, fumi di scarico, che possono essere utilizzate solo con GC. Altre sostanze analizzabili sono in LC e altre con entrambe. I composti volatili vengono analizzati con GC. Bisogna anche valutare l’idrofilicità e idrofibicità del composto, cioè ciò che è idrofilo sta bene in acqua e ha alti numeri di ebollizione e viene analizzato in LC. Sostanze idrofobe in GC, sempre che non si decomponga. Il gas della fase mobile viene detto carrier e non ha alcuna funzione di ripartizione. La FM ha solo una fase di trasporto, l’interazione è solo con la fase stazionaria. Vedrete che l’eluizione è funzione delle temperature di ebollizione: più è bassa e più esce facilmente dalla colonna perché passa più facilmente passa alla fase vapore. Inoltre, i composti non vengono trattenuti solo per i loro punti di ebollizione, ma anche per interazione con la fase stazionaria. Se la FF è un solido parliamo di GSC, se è un liquido GLC. Questo liquido può essere supportato su particelle o legato su pareti di capillari. È una tecnica molto robusta e sensibile, rivelare quantità 10-11 grammi. Tecnica con tanti piatti teorici, cioè molto efficiente, e di seguire analisi in tempi brevi. La modalità di lavoro che si può eseguire in colonna è un’isoterma: durante tutta l’analisi la T è fissa oppure una programmata, cioè la vario in funzione del tempo. Uso la seconda modalità quando i composti sono molto diversi tra di loro e per poterli fare uscire dalla colonna sono costretto a variare la T. L’iniettore, cioè dove vengono inserite le sostanze, viene riscaldato inizialmente per far si che tutte evaporino e poi le sostanze entrano in colonna per essere separate. Qui c’è uno schema a blocchi di un gas cromatografo. C’è il Gas di trasporto, il carrier. Non è il solo gas perché c’è un secondo blocco collegato al blocco 5 che è il rivelatore. Vedremo che ci sono alcuni rivelatori che necessitano di gas per poter funzionare. Il blocco 3 è l’iniettore dove vengono introdotte le sostanze. Il blocco 4 è la colonna dove avviene la separazione. 3-4-5 sono inseriti in un blocco più grande 6 che è una zona termostata: ho iniettore riscaldato (ricorda che devono vaporizzarli quindi riscaldo l’iniettore), la colonna è riscaldata tramite isoterma o programmata e all’uscita della colonna i composti devono rimanere alle temperature per farli restare gas. Le temperature cambieranno a seconda dei composti da separare. Nell’iniettore devo stare alla temperatura più alta del composto con la più alta temperatura di ebollizione. In colonna ovviamente non resto a queste temperature molto alte perché poi avrò tutto che mi esce subito, quindi, faccio isoterma o programmata. Nel rivelatore sto sempre ad alte temperature per evitare che i composti ricondensino. Primo blocco, il gas di trasporto: i gas vengono dispensati tramite delle bombole dove il gas risulta molto compresso. Le caratteristiche del gas devono essere: elevata purezza (il gas deve essere comprato appositamente per GC), inerte nei confronti dei composti che analizzo, poco viscoso. I carrier più usati sono: 1. Idrogeno: questa fascia colorata rossa è specifica per l’idrogeno. È un gas di trasporto molto usato con elevata mobilità ed è rosso perché pericoloso. Non si usano bombole d’idrogeno in laboratori perché è esplosivo in presenza di fiamma e comburente. Potrebbe reagire con composti con doppi legami, problema. 2. Elio: è marrone. Gas ottimo, più costoso perché gas nobile, molto usato quanto associamo GC a spettrometria di massa come rivelatore. 3. Azoto: è nero, non grigio. È più viscoso dei primi due, meno costoso. 4. Argon: è verde. È il più viscoso, puro e costoso di tutti gli altri. Cosa c’è in testa? Un lettore di pressione con un manometro di basse e alte pressione. Per ogni bombola, viene montato un lettore che prevede una camera d’espansione: apro il rubinetto, il gas arriva nella bombola e leggo la pressione che ha, poi ho la camera in cui perde la pressione e da lì faccio uscire il gas alla pressione di lavoro. Con il manometro di basse pressione leggo la pressione di lavoro. Avremo dei gas che serviranno anche per i rivelatori. Abbiamo detto che il gas deve essere estremamente puro e per questo all’uscita della bombola si usano spesso delle trappole a carbone che ci consente di catturare le impurezze prima che arrivino alla colonna. Qua sono riportate tutte le caratteristiche dette prima. Quali sono le velocità di flusso tipiche del GC? Quando si lavora con colonne piccole, si lavora a velocità di flusso di 0,5-1 mL/min. Con le colonne impaccate, invece, si va a 25-50 mL/minuto. Ogni colonna ha una velocità di flusso ottimale con quel gas che ci dà poi la massima efficienza, la massima capacità di separazione. Abbiamo detto che H è un gas pericoloso, allora si usano dei generatori di idrogeno in cui si produce H a piccole quantità in modo continuo che poi viene inviato al gas cromatografo. Come funziona questo generatore? L’idrogeno viene prodotto grazie alla presenza di una cella in cui avviene l’elettrolisi dell’acqua. La cella ha un Catodo: riduzione dell’acqua e un Anodo: ossidazione dell’acqua. Noi possiamo anche eliminare la bombola di azoto dal laboratorio. L’azoto, come H, viene usato come carrier ma anche per il rivelatore. Viene semplicemente ottenuto dall’aria tramite separazione nello strumento stesso. Si usano conduttori in acciaio per far passare i gas da uno strumento all’altro, niente plastica perché si disperderebbe al di fuori del condotto. Per ogni colonna, fase mobile ecc… abbiamo un grafico di Van diverso. A seconda delle situazioni, dobbiamo metterci nelle migliori condizioni affinché a una certa velocità lineare abbiamo la minor altezza del piatto teorico. Qui abbiamo tre grafici relativi a tre gas diversi. Se andate a guardare i grafici, il minimo più basso si ottiene con l’azoto. Potremmo pensare di scegliere subito l’azoto perché è il gas meno costoso e ci dà la massima efficienza della colonna. Il problema, però, è che la curva destra del grafico dell’azoto sale molto velocemente. Se io voglio fare delle analisi veloci, dovrei lavorare a velocità lineari elevate e le due curve dell’elio e H hanno la parte destra molto piatta, cioè il coefficiente angolare della retta (il Cxu) è diverso da quello dell’azoto. Pur avendo un minimo leggermente peggiore rispetto all’azoto, specialmente per Elio, ho la possibilità di muovermi verso velocità lineari maggiori, far uscire picchi prima e fare più analisi nel tempo, senza perdere in efficienza a causa della maggior altezza dei piatti teorici. L’idrogeno è stato molto rivalutato perché permette di fare la fast-GC. Il secondo blocco è l’iniettore dove viene introdotto il campione. Vi ho riportato la figurina del gas cromatografo nel suo insieme. Carrier e camera d’iniezione. Noi qui dentro dobbiamo inserire il nostro campione che va poi in colonna trasportato dal carrier. I primi iniettori di cui parla sono quelli riscaldati. È importante che il volume iniettato non sia esageratamente grande perché le colonne, specialmente quelle sottili, si saturano facilmente e dobbiamo iniettare piccoli volumi di caldo fa desorbire i composti d’interesse che poi passeranno in colonna. Così ho eliminato i composti che mi davano fastidio. Oppure posso inserire la fibra direttamente nel liquido. - Purge & Trap: valvola a sei vie tipo quelle delle colonne impaccate per gas. Cosa campiono? Composti volatili che posso avere allo stato gassoso o che passano facilmente in vapore da liquido. Mentre la fase mobile va in colonna, un altro gas inerte entra nel campione e mi porta nella parte sovrastante i composti più volatili che poi seguono quel percorso e arrivano in una trappola a carbone. I composti vengono bloccati in questa trappola. Per portarli in colonna, il gas carrier va nella trappola e poi torna in colonna. La colonna viene alloggiata in un forno, detto camera termostatata. Come vedete qui ci sono due forni: una con capillare e l’altra impaccata. Un’estremità della colonna va verso l’iniettore e l’altra verso il rivelatore. Le impaccate sono più spesse, ma più corte. Le capillari sono più lunghe. La camera è importante perché si può regolare la temperatura: isoterma o programmata di temperatura. Avete la possibilità di programmarvi la temperatura e di scegliere la temperatura da utilizzare. Questa slide non c’è tra le vostre perché è una fotografia di uno strumento con un tastierino in cui si impostano le condizioni dell’iniettore, colonna e rivelatore. Possiamo scegliere se lavorare in isoterma (temperatura costante per tutto il corso dell’analisi), in programmata (aumentare la temperatura con una certa pendenza), in programmata (fare delle corse cromatografiche con una parte in isoterma, temperatura costante, per poi aumentarla fino ad un valore finale che poi verrà lasciato costante). Qual è la temperatura massima raggiungibile dalla programmata? Dipende dalla temperatura massima di utilizzo della colonna. Se la superiamo roviniamo la FF. La cosa importante è che quando lavoriamo in programmata di tornare al punto di partenza iniziale una volta finita l’analisi: cioè, prima di iniettare il campione successivo, dobbiamo aspettare un certo tempo per tornare alle condizioni iniziali. Questo ci permette anche di avere riproducibilità. Qui avete scritto in cosa consiste la scelta della temperatura. Se i composti sono molto simili tra loro, si utilizza una temperatura media dei punti di ebollizione o leggermente inferiore. Se il range di composti è molto alto, ricorriamo ad un programma di temperatura. Qui abbiamo un insieme di composti separati con un’isoterma a 45 °C. Notiamo alcuni composti che escono molto presto e alti molto tardi, bassi e larghi. A 145 °C, abbiamo sempre composti che escono ancora più presto e altri che riusciamo a distinguerli meglio. Nessuna delle due condizioni è ottimale: noi vogliamo avere un K’ compreso tra 4 e 5. È necessario ricorrere ad una programmata di temperatura: partenza a 30 °C perché vogliamo allontanare i primi composti, poi via via aumentiamo la temperatura e questo ci permette una miglior distinzione. La mia programmata aumenta di 5 °C al minuto: 180/30. Solitamente, c’è una temperatura iniziale, uno step iniziale in isoterma, una rampa più o meno pendente (dipende dall’aumento di T al minuto), fino ad una temperatura finale. Arrivati alla fine, raffreddiamo per tornare all’inizio, aspettare un attimo ed iniettare. Esempio non iniziale: isoterma iniziale di 110 °C, abbiamo una serie di composti non ben separati, cioè non stiamo ad una temperatura adatta. Per separarli meglio potremmo abbassare la temperatura così da avere composti iniziale meglio separati, ma questo ci provoca un allargamento dei picchi di quei composti che escono tardi e che ora usciranno ancora più tardi. Quindi, ci conviene lavorare in programmata. Come regola, in genere, si usa questo: ci scegliamo una temperatura di partenza inferiore di 100 gradi rispetto al composto più alto bollente e come punto finale una temperatura finale pari alla temperatura del più alto bollente. Le variazioni di temperatura possono essere concave o convesse. Qui abbiamo tutta una serie omologa, cioè una serie in cui i composti differiscono per un’unità di carbonio. Alcani. Si parte da C6 e si arriva a C21. In questa situazione di isoterma a 150 °C vedo diversi picchi alti, fino ad arrivare all’ultimo picco basso e largo. Allora aumento la temperatura da 50 a 250 gradi, 8 gradi al minuto. Escono il C6 e il C7 che prima non riuscivo a distinguere, fino anche ad arrivare a visualizzare anche il C21. Necessariamente, devo ricorre ad una programmata quando sto analizzando tanti composti. Se ne devo analizzare 1-2, mi basta trovare un’isoterma ottimale. Il tempo di analisi non dipende solo dalla temperatura, ma anche dalla volatilità di composti (più sono volatili e prima escono), temperatura colonna (più sono alto bollenti e più non escono), quantità FS (più ce n’è e più permangono in colonna), tipologia FS e velocità lineare del gas (velocità di flusso che imposto per il carrier). Le colonne. Noi abbiamo accennato che in GC ci sono colonne impaccate e capillari (queste vengono anche chiamato open tubular a causa della deposizione della FS). Le impaccate possono essere vetro, acciaio e ramo L 1-5m e D 1-6mm. Le capillari sono molto più sottili e lunghe e c’è una sottodivisione dipendente dall’ampiezza. In questo caso, la FS è sottoforma di film stratificato lungo le pareti interne della colonna. Le impaccate hanno delle particelle nella colonna. Cosa si intende per mesh? Il mesh è il numero di maglie per pollice lineare. Questo è un setaccio caratterizzato da 60 mesh, cioè 60 maglie per pollice lineare. Il pollice è 2,54cm. Quando io parlo di particelle da 80 mesh, significa che partendo da un materiale impaccante più grossolano, lo faccio prima passare per un setaccio più grossolano da 60 mesh, poi utilizzo sotto un setaccio da 80 mesh che mi fa passare solo le particelle ancora più piccole. Più crescono le mesh, più diminuisce la dimensione delle particelle che passano. La lunghezza è molto importante perché proporzionale ai piatti teorici. Le capillari sono molto lunghe e per questo sono molto efficienti, anche se peggiora drasticamente il tempo d’analisi. Sia che si tratti di capillari che impaccate, possiamo parlare di GSC (FS supporto solido) e GLC (FS liquido legato alle pareti o supportato su un solido inerte). FM sempre gas. Cominciamo con le colonne impaccate, vedendo le varie FS disponibili. Ricorda che all’interno del forno le colonne sono sottoforma di spirale, questo ci permette di contenerle all’interno del primo. Le nostre molecole partono insieme, vanno incontro a quei fenomeni di diffusione. Qui vedete colonne d’acciaio in cui si vede il materiale impaccante all’interno. Tipologia di FS: GSC, all’interno cosa c’è? Particelle di silice, allumina, carbone e setacci molecolari. Fasi fortemente assorbenti. I setacci molecolari, a differenza di quelli prima, trattengono le molecole sulla base delle loro dimensioni, cioè hanno dei pori dovuti all’eliminazione dell’acqua di cristallizzazione. Silice, allumina ecc… trattengono grazie alle forze elettrostatiche che si generano. La GSC si usa per composti molto volatili e per gas permanenti. La GLC, invece, prevede l’uso di un materiale supporto inerte poroso (terre di diatomee, palline di vetro, ricoperte in maniera uniforme da liquidi che rappresentano la FS e che non devono essere basso bollenti). Qui c’è un cromatogramma di separazione di componenti dell’aria. Le capillari sono molto più lunghe e fortemente spiralizzate, sono anche chiamato open tubular perché questa è una piccola parte di una capillare con materiale esterno che è in genere silice ricoperta da poliammide che conferisce la colorazione mattone e serve per rendere resistente la silice. Considerate che sono sottilissime e molto flessibili. Open tubular perché la FS è stratificata sulle pareti ed al centro il tubo è vuoto. Il gas di trasporto scorre al centro del tubo ed incontra molto meno resistenza rispetto alle impaccate, caduta di pressione molto meno inferiore. È chiaro che non si parla di diametro di particelle impaccanti, ma di spessore del film della FS. Cioè, del film depositato sulle pareti della colonna. Più la colonna è stretta e più il film dovrà essere sottile. Cosa si nota? Diminuendo il diametro della colonna, aumenta il numero di piatti teorici. Più è sottile la colonna e minore è il film di FS e più aumenta il numero di piatti teorici. Le più efficienti in assoluto sono le più lunghe, sottili e minor film di FS. Allora io lavoro sempre con le narrow bore? Ovviamente ci sono vantaggi e svantaggi: film troppo sottile, poca capacità di campione. Perché migliora la risoluzione? Perché sono più rapidi gli scambi tra film di FS e FM. Oltre al diametro, possiamo anche suddividerle in base alla forma della FS. Si parla di PLOT (è una GSC perché abbiamo delle particelline di solido depositato come film lungo le pareti dei capillari, la natura del solido è la stessa delle colonne impaccate), SCOT (GLC, il nostro film di FS è supportato su delle particelle più inerti che non interagiscono nei confronti degli analiti ma servono solo per trattenere la FS, questi supporti sono di palline di vetro, terra di diatomee, il liquido dovrà essere stabile termicamente, un buon solvente nei confronti della miscela, cioè se ho composti apolari scelgo un liquido apolare e se polari liquido polari) e WCOT (le più usate, stratino azzurro fase stazionaria che è direttamente legata alle pareti della colonna, non c’è più il supporto, vengono anche chiamate FSOT). Per poter avere le WCOT, è necessario legare chimicamente la fase stazionaria alla parete del capillare. Le FS chimicamente legate vengono dette cross-linking. Devo preparare la parete del tubo in modo tale da legare chimicamente la FS. La mia parete è di silice che è caratterizzata dalla presenza di ponti silossanici con il Si legato ai silanodi, gruppi OH. Questi gruppi OH periferici sono estremamente assorbenti e vengono in qualche modo disattivati e vengono legati ai gruppi silossanoci che servono da ponte per la FS. La FS è quindi chimicamente legata alle pareti. Questo ha ridotto il fenomeno di perdita di FS. Come detto prima, le nostre FS devono essere stabili e nel tempo si assiste sempre una perdita di FS che è abbastanza marcato nelle SCOT. Dal momento che nelle WCOT lego chimicamente la FS alle pareti, rispetto alla SCOT, ho il fenomeno di perdita di FS drasticamente ridotto e riesco ad allungare la vita della colonna. Torniamo alla natura della FS. GSC, l’abbiamo già nominato il materiale impaccante che si può scegliere che riempie la colonna. Esiste un altro tipo di FS nella GSC, cioè i polimeri porosi che a basse temperature si comportano da solidi e ad alte da pseudo liquida e si usano da FS in GLC. L’adsorbimento ha il problema della forma del picco: noi vogliamo un picco a forma ideale, nel caso della GSC che sia con impaccate e capillari si assiste molto spesso al fronting e al tailing. Nella GLC i picchi sono un po’ più simmetrici e tendono a dare l’ideale. I siliconi sono dei polimeri in cui si ripete l’unità Si-O. Il legame Si-O-Si è detto silossano. Il Si ha anche altri due legami liberi ai gruppi R che sono proprio quelli che conferiscono la polarità alla FS. Se sono apolari, la fase FS è apolare. Perché sono fasi molto usate e versatili? Perché arrivano a temperature di 300 gradi. I gruppi R possono essere tutti metili, questi fasi sono dette metil siliconiche. Oppure possiamo aumentare la polarità mettendo gruppi fenilici, vilinici ecc… Oltre a queste, abbiamo anche fasi di natura diversa come idrocarburi a catena molta lunga lineari o ramificati. Queste sono le più apolari. Poi abbiamo FS a media polarità, in grado di trattenere composti un po’ più polari. In genere, sono esteri di alcoli a lunga catena o fasi siliconiche con dei sostituenti polari. La terza classe sono le FS più polari, cioè i polietilenglicol. Tornando alle nostre tipologie di colonne, qui c’è un confronto. Grafici di van Deemter. Il punto di minimo corrisponde ad una ben precisa velocità lineare del flusso ed a un H minimo. Qual è lo scopo? Avere un H minimo e N massimo. Questo andamento è dovuto ai tre contributi. A è i percorsi multipli e non è presente nelle capillari perché non c’è impaccamento e le molecole non risentono la diffusione vorticosa. Il corrispondente grafico è più basso, cioè il minimo è più basso. Poi abbiamo B/v che è dovuto all’effetto di diffusione longitudinale. Le mie molecole camminano e si trovano a diffondere in zona di minima concentrazione e ciò provoca un allargamento della banda. Quest’effetto è rappresentato dal braccio sinistro della curva è inversamente proporzionale alla velocità di flusso perché più è alta e più le molecole viaggiano Rivelatore a fiamma: è il più usato, universale per le sostanze organiche. Vede tutto ciò che ha C O e H. Non è in grado di vedere gas permanenti (CO2, metano). È un rivelatore detto FID, flame ionization detector. Spesso anche chiamato rivelatore a fiamma d’idrogeno. Intanto da sotto avete il gas carrier che arriva con i nostri analiti, il rivelatore risente alle caratteristiche del soluto. Il tutto arriva alla fiamma e viene bruciato. La fiamma viene alimentata da un combustibile (idrogeno) e da un comburente (aria) in un rapporto 1:10. Ecco che questo rivelatore ha bisogno di altri gas. Se il nostro carrier è l’idrogeno, non basta quello come carrier. C’è bisogno di un’altra bombola, un altro canale. Lavorando con una capillare, la velocità del carrier è di circa 0,5-1 mill/min. L’H necessario per far accendere la fiamma deve essere dai 25-35 mill/min. Il rapporto con aria, eccesso di comburente. L’aria deve essere di dieci volte: l’aria deve stare a 250-350 mill/min. Questo idrogeno che può essere carrier o meno può essere prodotto da bombole o da generatori. L’aria viene da generatore di aria. Per far accendere la fiamma è necessaria una spiralina e una scossa d’aria. Il rivelatore deve essere scaldato, non è la fiamma che lo scalda. Poi c’è un altro gas che può essere necessario, cioè il gas di make-up che spesso è l’azoto. A cosa serve? Intanto arriva all’uscita di colonna e non ha funzione di carrier. Ha il compito di raccogliere gli analiti che escono dalla colonna e trasportarli rapidamente alla fiamma. Evitare percorsi troppo lunghi che allargherebbero la banda. Carrier raccoglie a 30 mill/min. Ha anche il compito di stabilizzare la temperatura. Cosa succede in fiamma agli analiti? Bruciano e formano dei radicali o delle specie cariche positivamente. Se vedete la base della fiamma qui applicata una differenza di potenziale. La fiamma ha una base positiva e un collettore sopra negativo. Ciò che è positiva prodotto in fiamma è attirato dal polo negativo. I prodotti positivi vanno a scaricarsi sul polo negativo e si registra una risposta che è proporzionale al numero di carboni. Cioè, se noi introduciamo in colonna idrocarburi che differiscono per una C, a parità di quantità introdotta aumenta il segnale. In assenza di analiti abbiamo una debole corrente di fondo, in presenza di analiti abbiamo una corrente più elevata. È un rivelatore distruttivo, sensibile con basso limite di rivelabilità (si può arrivare al nano grammo o anche pico grammo) ed elevato intervallo di linearità (non si satura facilmente, 6-7 ordini di grandezza). Insensibile a composti inorganici, gas permanenti o acqua. Non danno corrente elettrica rivelabile. NPD: rivelatore azoto fosforo o termoionico. È specifico e selettivo per composti con azoto o fosforo. È un rivelatore a fiamma, sempre gli stessi componenti in termini di gas. Gas di trasporto, idrogeno ed aria necessari per accendere la fiamma. La diversità rispetto a quello di sopra è data dalla presenza di una pallina di rubidio che ha il compito di riscaldarsi per effetto della fiamma e il rubidio si ionizza dando lo ione positivo e l’elettrone. I composti con azoto o fosforo che arrivano dalla colonna, generano in fiamma dei radicali e catturano l’elettrone e vanno a scaricarsi sull’anodo positivo e si genera una corrente proporzionale al numero di atomi di azoto o fosforo. Sistema distruttivo, molto specifico. Potremmo pensare di mettere FID come primo rivelatore e NPD come secondo. Questo è uno specchietto per farvi vedere che esistono altri rivelatori dedicati ad altro e selettivo per altri atomi, gruppi ecc… Esiste il cattura degli elettroni specifico per composti con atomi ad alta affinità elettronica (gli alogenati). Abbiamo detto che possiamo mettere due rivelatori in serie (prima quella non distruttivo) o avere due colonne una collegata a un rivelatore e l’altra un altro. Oppure la stessa colonna in cui noi splittiamo ciò che esce e la mandiamo a due rivelatori diversi. Quali sono i punti di forza della GC? Facilità di utilizzo Robustezza Molto riproducibile. A parità di condizioni sperimentali oggi o domani, non avremo grandi differenze nei tempi di ritenzioni o aree del picco. Molte tipologie di rivelatori Basso costo, ad eccezione se si collega allo spettrometro di bassa Quali sono i limiti? A parte il tempo di ritenzione, per l’analisi qualitativa non abbiamo altri modi a meno che non usiamo lo spettrometro di massa. Composti stabili termicamente, altrimenti possiamo ricorrere alla derivatizzazione.Avevamo detto che la GC si usa se i composti si evapora rapidamente. Se non è così e se si forma un derivato stabile, potremmo pensare di utilizzarla comunque. Cosa si intende per derivatizzazione? Significa trasformare il composto da scarsamente volatile a volatile, oppure termolabile a termostabile. Quali sono i gruppi che rendono difficile la volatizzazione del composto? OH, SH, COOH, NH, CONH2. Tutti gruppi polari perché in soluzione tendono a formare dei legami idrogeno. Lo scopo della derivatizzazione è quello di trasformare tali gruppi in altro per abbassare il punto di ebollizione del composto. Le reazioni più tipiche sono silanizzazione, acetilazione o alchilazione. Nello scegliere la reazione uno si deve orientare su un reattivo derivatizzante che mi dia una reazione riproducibile. La reazione deve essere semplice, veloce e riproducibile. Non devo avere un fondo altissimo o un picco indesiderato del reattivo derivatizzante. Se ho più gruppi che mi danno fastidio, il reattivo deve reagire con tutti (magari ho sia OH e SH e il reattivo non mi deve agire solo con l’OH). Il tempo di permanenza sarà diverso rispetto a quello dell’originale perché io l’ho trasformato in altro, ho abbassato la Temperatura di ebollizione. Gli ormoni tipo nandrolone evapora parzialmente nella GC e dà picchi storti perché presenta gruppi come OH. Si ricorre alla derivatizzazione attraverso l’utilizzo di SiCH3. Si forma un bis- derivato perché ci sono due gruppi che danno fastidio. Oppure l’analisi dei trigliceridi degli alimenti. Questo difficilmente può essere analizzato in GC, è necessario ricorrere a una derivatizzazione. Come si fa? Si mettono a contatto con un contatto con una miscela di idrossido di potassio che scinde il glicerolo dai tre acidi grassi i quali avendo il COOH in presenza di metanolo formano l’estere metilico che poi vengono analizzati in GC. La separazione viene fatta in isoterma. Cosa abbiamo dopo il rivelatore? Un sistema di elaborazione dei dati. Il più presente è una stazione computerizzata con un software che vi permette di vedere il cromatogramma, vedere il tempo di ritenzione, area dei picchi. La stazione può anche essere utilizzata per gestire il gas cromatogramma, variando le temperature dei vari componenti. Esistono dei gas cromatografi portatili. In certe situazione possono essere portati direttamente in campo. Sono dotati di una mini bomboletta di carrier anche di bombole relative all’alimentazione della fiamma. C’è un display per vedere i cromatogrammi. Si possono utilizzare per determinare i VOC o SVOC. Cosa sono gli oli essenziali? Sono del materiale proveniente dai vegetali (foglie, frutti, fiori, bucce, rami, corteccia). Perché è d’interesse? Una delle applicazioni è quella di prolungare la vita degli alimenti perché hanno un effetto anti fungino e anti batterico. Quindi, è un modo abbastanza naturale per trattare l’alimento. La manipolazione è molto semplice: se abbiamo l’olio essenziale puro e vogliamo analizzare la parte non volatile, mettiamo l’azoto ed eliminiamo la parte volatile. Per fare l’opposto li estraiamo. I profili degli oli essenziali sono ormai noti. Altra possibile analisi è la gas cromatografia con spazio di testa che si applica a solventi clorurati. La colonna viene alloggiata in un forno, detto camera termostatata. Come vedete qui ci sono due forni: una con capillare e l’altra impaccata. Un’estremità della colonna va verso l’iniettore e l’altra verso il rivelatore. Le impaccate sono più spesse, ma più corte. Le capillari sono più lunghe. La camera è importante perché si può regolare la temperatura: isoterma o programmata di temperatura. Avete la possibilità di programmarvi la temperatura e di scegliere la temperatura da utilizzare. Questa slide non c’è tra le vostre perché è una fotografia di uno strumento con un tastierino in cui si impostano le condizioni dell’iniettore, colonna e rivelatore. Possiamo scegliere se lavorare in isoterma (temperatura costante per tutto il corso dell’analisi), in programmata (aumentare la temperatura con una certa pendenza), in programmata (fare delle corse cromatografiche con una parte in isoterma, temperatura costante, per poi aumentarla fino ad un valore finale che poi verrà lasciato costante). Qual è la temperatura massima raggiungibile dalla programmata? Dipende dalla temperatura massima di utilizzo della colonna. Se la superiamo roviniamo la FF. La cosa importante è che quando lavoriamo in programmata di tornare al punto di partenza iniziale una volta finita l’analisi: cioè, prima di iniettare il campione successivo, dobbiamo aspettare un certo tempo per tornare alle condizioni iniziali. Questo ci permette anche di avere riproducibilità. Qui avete scritto in cosa consiste la scelta della temperatura. Se i composti sono molto simili tra loro, si utilizza una temperatura media dei punti di ebollizione o leggermente inferiore. Se il range di composti è molto alto, ricorriamo ad un programma di temperatura. Qui abbiamo un insieme di composti separati con un’isoterma a 45 °C. Notiamo alcuni composti che escono molto presto e alti molto tardi, bassi e larghi. A 145 °C, abbiamo sempre composti che escono ancora più presto e altri che riusciamo a distinguerli meglio. Nessuna delle due condizioni è ottimale: noi vogliamo avere un K’ compreso tra 4 e 5. È necessario ricorrere ad una programmata di temperatura: partenza a 30 °C perché vogliamo allontanare i primi composti, poi via via aumentiamo la temperatura e questo ci permette una miglior distinzione. La mia programmata aumenta di 5 °C al minuto: 180/30. Solitamente, c’è una temperatura iniziale, uno step iniziale in isoterma, una rampa più o meno pendente (dipende dall’aumento di T al minuto), fino ad una temperatura finale. Arrivati alla fine, raffreddiamo per tornare all’inizio, aspettare un attimo ed iniettare. Esempio non iniziale: isoterma iniziale di 110 °C, abbiamo una serie di composti non ben separati, cioè non stiamo ad una temperatura adatta. Per separarli meglio potremmo abbassare la temperatura così da avere composti iniziale meglio separati, ma questo ci provoca un allargamento dei picchi di quei composti che escono tardi e che ora usciranno ancora più tardi. Quindi, ci conviene lavorare in programmata. Come regola, in genere, si usa questo: ci scegliamo una temperatura di partenza inferiore di 100 gradi rispetto al composto più alto bollente e come punto finale una temperatura finale pari alla temperatura del più alto bollente. Le variazioni di temperatura possono essere concave o convesse. Qui abbiamo tutta una serie omologa, cioè una serie in cui i composti differiscono per un’unità di carbonio. Alcani. Si parte da C6 e si arriva a C21. In questa situazione di isoterma a 150 °C vedo diversi picchi alti, fino ad arrivare all’ultimo picco basso e largo. Allora aumento la temperatura da 50 a 250 gradi, 8 gradi al minuto. Escono il C6 e il C7 che prima non riuscivo a distinguere, fino anche ad arrivare a visualizzare anche il C21. Necessariamente, devo ricorre ad una programmata quando sto analizzando tanti composti. Se ne devo analizzare 1-2, mi basta trovare un’isoterma ottimale. Il tempo di analisi non dipende solo dalla temperatura, ma anche dalla volatilità di composti (più sono volatili e prima escono), temperatura colonna (più sono alto bollenti e più non escono), quantità FS (più ce n’è e più Le due forze guida che ci permettono di separare i composti in GC sono: temperatura di ebollizione dei composti ed interazione con FS. La Fast Gas Chromatography è una cromatografia veloce. Analisi più rapide. Perché l’H? Idrogeno dei tre gas ha un minimo marcato prossimo a quello dell’azoto che sembra il migliore dei tre e, soprattutto, braccio destro molto piatto. Posso aumentare la velocità lineare senza perdere in piatti teorici. Prima di passare ai rivelatori, volevo ricapitolarvi quanto abbiamo visto fino ad adesso. I gas di trasporto più usati in bombola o anche generatori per idrogeno e azoto, elio e l’argon devono sempre essere dispensati in bombole che si distinguono con le fasce. Qui vi ho riportato un grafico dell’equazione di Van con i diversi gas. Che la scelta ricada su uno dei tre gas, bisogna sempre andare sul punto di minimo. Discorso Idrogeno che si può spostare verso destra senza perdere in risoluzione, molto usato in GC. Poi c’è il blocco termostatato, poi l’iniettore dove viene inserito il campione e abbiamo visto il diretto o l’on column per le impaccate. È caldo, c’è una T indicata che sta per la vaporizzazione dei soluti prima di mandarli in colonna. Per le capillari abbiamo lo split splitless in cui possiamo decidere se mandare tutto o solo parte in colonna o on column che lavora a temperatura blanda, sta fuori il blocco. Poi abbiamo un forno in cui c’è la colonna in cui avviene la separazione degli analiti in base se lavoriamo in programmata o altro. Poi c’è il rivelatore sempre termostato perché deve stare in una temperatura almeno uguale a quella finale della colonna, perché i composti non devono ricondensare. La T di rivelatore potrebbe essere quella uguale al più alto bollente, la colonna può stare più bassa. Le colonne che abbiamo viste noi sono impaccate (più grandi, più corte) o capillari (più piccole e più lunghe). Abbiamo parlato del materiale esterno, della lunghezza e del diametro delle colonne. Abbiamo anche parlato della granulometria della fase impaccante espressa in meshes e spessore di film per le colonne capillari. Quest’ultime poi sono state suddivise in PLOT (uso di un solido, GSC) VCOT E SCOTT (fase stazionaria liquida supportata o no da un solido inerte). Sia che si tratti di GSC o GLC, abbiamo elencato la tipologia di FS che possiamo trovare. In alcuni casi possiamo avere altri gas necessari per far funzionare il rilevatore. Dipende dal tipo di rivelatore. Il rivelatore o detector è un dispositivo posto all’uscita della colonna in grado di mettere in evidenza le sostanze separate in colonna sulla base di alcune variazioni (elettrico, voltaggio). La nostra linea di base del cromatogramma è caratterizzata da un rumore e andando ad ingrandirla vedremmo un segnale più movimentato. Il rumore deve essere molto basso per non coprire i picchi delle nostre sostanze. Molto spesso c’è il fenomeno della deriva: la linea di fondo va verso in alto e basso e succede se il rivelatore è molto vecchio o se non si è ancora stabilizzato oppure quando si lavora in programmata di temperatura. A noi interessa avere un segnale che si distingue da quello del rumore. È quella quantità introdotta in colonna che mi dà un segnale tre volte il rumore di fondo, il limite di rivelabilità. Il segnale dipende o dall’analita stesso o dall’insieme dell’analita e gas carrier. Abbiamo due tipologie di rivelatori: bulk property, sensibili alla concentrazione dell’analita e che risentono della presenza del carrier. Solute property, in cui il rivelatore è in grado di percepire l’analita indipendentemente dalla presenza del carrier. Esistono tanti tipi di rivelatori, ma noi ne vediamo solo tre. A noi interessa che il rivelatore sia molto sensibile per mettere in evidenza anche piccole differenze di concentrazione, deve essere riproducibile, lo stesso picco. Dei picchi che escono noi misuriamo il tempo di ritenzione, qualitativo, e l’area del picco, quantitativo. Il rivelatore deve essere rapido, cioè veloce nella risposta per far in modo di non far sovrapporre gli analiti stessi. I rivelatori si distinguono in universali e selettivi, questi mettono in evidenza i composti in funzione di caratteristiche ben precise della molecola. Il mio rivelatore riceve i composti e se li lascia invariati è non distruttivo, ma se per mettere in evidenza queste sostanze accade qualcosa allora il mio composto di partenza non avrà più la stessa natura ed i rivelatori si dice distruttivo. Abbiamo detto che il rivelatore avrà la sua quantità minima rivelatore, quello che deve essere tre volte il segnale di rumore, ed è indicato come LOD o MDQ. Oltre al LOD esiste anche un LOC, cioè la minima quantità che sono in grado di quantizzare con affidabile accuratezza. Un metodo molto semplice per calcolare, vedi la slides per la formula. Il rapporto tra LOC e LOD è circa 3,3. La sensibilità è la minima variazione di concentrazione che riesco a percepire. L’intervallo di linearità è un parametro molto importante perché ogni rivelatore ha un suo campo di applicazione. Non potrete usare tutti i rivelatori per tutto. I rivelatori rispondono bene in certi intervalli di concentrazione e non in altri. Allora, sembra un po’ contorta questa slide. Il primo grafico: per ogni rivelatore esiste l’intervallo di risposta lineare o dinamico. Come si calcola? Qui vedete questo grafico in cui ho un segnale in funzione della concentrazione. Noi introduciamo una certa quantità di sostanza in colonna e avrete una certa risposta. Aumento la concentrazione, ho un altro segnale con un altro picco e aumento ancora e ho un altro segnale. Allineo i vari punti e ottengo questa curva: una parte rettilinea da x a x che qui il mio rivelatore risponde linearmente (aumento la concentrazione e aumentai l segnale). A un certo punto nella zona verde si appiattisce: inietto di più, sempre stessa risposta. Qui ho saturato il mio rivelatore. Ovviamente, ogni rivelatore ha la sua zona di saturazione (anche la colonna si satura). Se mi trovo nella zona di saturazione, dovrò diluire il mio campione e lo faccio ritornare nella mia zona lineare. Chiaramente, dovrò tenere conto del fattore di diluizione per avere la reale risposta se non si fosse saturato il rivelatore. L’altro grafico mi dà una zona curvilinea non piatta e netta perché comincia a non rispondere più in maniera curvilinea. C’è il range di risposta lineare e quello che include anche la parte verde è l’intervallo di risposta dinamico. Il mio rivelatore risponde dinamicamente e non più linearmente. Cosa c’è sotto alla X? In sostanza il mio rivelatore non vede più nulla, cioè è in condizioni di non poter dare una risposta affidabile. È la zona del LOD dove il mio rivelatore non dà più risposta. Nell’ultimo grafico abbiamo un’altra retta che ha una pendenza maggiore rispetto a quella sotto. In questo caso ho due rivelatori di cui il primo è più sensibile perché il coefficiente angolare è più grande. Se io introduco una certa concentrazione ho una certa risposta, se io introduco la stessa concentrazione nel primo ho più risposta e questo mi dice che è più sensibile. Per piccole variazione della concentrazione ho un maggiore delta s nel rivelatore più sensibile. Cominciamo col vedere qualche rivelatore: TCD: è universale, mette in evidenza tutti i composti. È caratterizzato da quattro resistenza. È stato suddiviso il percorso del gas carrier e del gas carrier più i soluti in due canale. Da una parte R2 e R4 passa solo il carrier, dall’altra attraverso R1 e R3 che sono in parallelo passa il gas carrier ed i soluti. Inizialmente si tiene in equilibrio il ponte facendo passare solo il carrier (passa sia attraverso R2 e R4). Si dice ponte in equilibrio perché non risente della composizione del gas carrier, segnale zero. Nel momento in cui si inizia l’analisi e si fa la separazione con il passaggio degli analiti, cambia la composizione del gas e la conducibilità termica. Si sbilancia il ponte di Whinston. È un rivelatore non distruttivo. È in grado di mettermi in evidenza sostanze organiche, piccoli gas permeanti. Rivelatore a fiamma: è il più usato, universale per le sostanze organiche. Vede tutto ciò che ha C O e H. Non è in grado di vedere gas permanenti (CO2, metano). È un rivelatore detto FID, flame ionization detector. Spesso anche chiamato rivelatore a fiamma d’idrogeno. Intanto da sotto avete il gas carrier che arriva con i nostri analiti, il rivelatore risente alle caratteristiche del soluto. Il tutto arriva alla fiamma e viene bruciato. La fiamma viene alimentata da un combustibile (idrogeno) e da un comburente (aria) in un rapporto 1:10. Ecco che questo rivelatore ha bisogno di altri gas. Se il nostro carrier è l’idrogeno, non basta quello come carrier. C’è bisogno di un’altra bombola, un altro canale. Lavorando con una capillare, la velocità del carrier è di circa 0,5-1 mill/min. L’H necessario per far accendere la fiamma deve essere dai 25-35 mill/min. Il rapporto con aria, eccesso di comburente. L’aria deve essere di dieci volte: l’aria deve stare a 250-350 mill/min. Questo idrogeno che può essere carrier o meno può essere prodotto da bombole o da generatori. L’aria viene da generatore di aria. Per far accendere la fiamma è necessaria una spiralina e una scossa d’aria. Il rivelatore deve essere scaldato, non è la fiamma che lo scalda. Poi c’è un altro gas che può essere necessario, cioè il gas di make-up che spesso è l’azoto. A cosa serve? Intanto arriva all’uscita di colonna e non ha funzione di carrier. Ha il compito di raccogliere gli analiti che escono dalla colonna e trasportarli rapidamente alla fiamma. Evitare percorsi troppo lunghi che allargherebbero la banda. Carrier raccoglie a 30 mill/min. Ha anche il compito di stabilizzare la temperatura. Cosa succede in fiamma agli analiti? Bruciano e formano dei radicali o delle specie cariche positivamente. Se vedete la base della fiamma qui applicata una differenza di potenziale. La fiamma ha una base positiva e un collettore sopra negativo. Ciò che è positiva prodotto in fiamma è attirato dal polo negativo. I prodotti positivi vanno a scaricarsi sul polo negativo e si registra una risposta che è proporzionale al numero di carboni. Cioè, se noi introduciamo in colonna idrocarburi che differiscono per una C, a parità di quantità introdotta aumenta il segnale. In assenza di analiti abbiamo una debole corrente di fondo, in presenza di analiti abbiamo una corrente più elevata. È un rivelatore distruttivo, sensibile con basso limite di rivelabilità (si può arrivare al nano grammo o anche pico grammo) ed elevato intervallo di linearità (non si satura facilmente, 6-7 ordini di grandezza). Insensibile a composti inorganici, gas permanenti o acqua. Non danno corrente elettrica rivelabile. NPD: rivelatore azoto fosforo o termoionico. È specifico e selettivo per composti con azoto o fosforo. È un rivelatore a fiamma, sempre gli stessi componenti in termini di gas. Gas di trasporto, idrogeno ed aria necessari per accendere la fiamma. La diversità rispetto a quello di sopra è data dalla presenza di una pallina di rubidio che ha il compito di riscaldarsi per effetto della fiamma e il rubidio si ionizza dando lo ione positivo e l’elettrone. I composti con azoto o fosforo che arrivano dalla colonna, generano in fiamma dei radicali e catturano l’elettrone e vanno a scaricarsi sull’anodo positivo e si genera una corrente proporzionale al numero di atomi di azoto o fosforo. Sistema distruttivo, molto specifico. Potremmo pensare di mettere FID come primo rivelatore e NPD come secondo. Questo è uno specchietto per farvi vedere che esistono altri rivelatori dedicati ad altro e selettivo per altri atomi, gruppi ecc… Esiste il cattura degli elettroni specifico per composti con atomi ad alta affinità elettronica (gli alogenati). Abbiamo detto che possiamo mettere due rivelatori in serie (prima quella non distruttivo) o avere due colonne una collegata a un rivelatore e l’altra un altro. Oppure la stessa colonna in cui noi splittiamo ciò che esce e la mandiamo a due rivelatori diversi. Quali sono i punti di forza della GC? Facilità di utilizzo Robustezza Molto riproducibile. A parità di condizioni sperimentali oggi o domani, non avremo grandi differenze nei tempi di ritenzioni o aree del picco. Molte tipologie di rivelatori Basso costo, ad eccezione se si collega allo spettrometro di bassa Quali sono i limiti? A parte il tempo di ritenzione, per l’analisi qualitativa non abbiamo altri modi a meno che non usiamo lo spettrometro di massa. Questo è un po’ per ricordarvi. È nata prima con colonne classiche, poi è diventata ad alte prestazione e per questo serve un’alta pressione. LC è diventata HPLC e noi possiamo avere in colonna o su supporto piano (appena vista). Scarsa risoluzione. Esiste una versione avanzata, HPTLC. Esiste anche una cromatografia su carta in cui la fase stazionaria è la cellulosa, il foglio di carta. Per la cromatografia in colonna facciamo la distinzione in base a FF o FM. Ora legge tutti i nomi delle colonne. La SEC è caratterizzata da tante particelle grandi e separa i soluti in base alla loro dimensione. La classica era appunto l’esperimento di schwerch con questo colonnone in vetro con fase stazionaria carbonato di sodio. FM che scendeva per gravità. La moderna LC prevede le colonne con materiale molto piccolo e di conseguenza difficoltà della FM a passare per gravità e necessità di una pompa per spingere la FM stessa. Quindi la LC ad alte pressioni o prestazioni. Questo è uno schema di un HPLC molto semplificato: abbiamo un contenitore di una fase mobile, una pompa che aspira, un filtro per purificare il materiale in sospensione, l’iniettore in cui viene inserito il campione con i componenti da separare, la colonna dove c’è la FF, il rivelatore e un sistema di elaborazione dati. Questa roba animata ci fa vedere che la FM non è trattenuta dalla fase stazionaria ed è la prima ad uscire. Poi i vari composti che fuoriescono in base al loro Kd. Kd più elevato sono quelli che escono prima perché più affinità per la FM. Le colonne sotto pressione con FM spinta con la pompa fa si che si usino colonne di acciaio e non più in vetro. Cos’è cambiato? La - La granulometria: prima era anche 60 micron, ora è dagli 1,8 ai 10 micron. Micron rispetto al millimetro è 10-3. - Diametro: classiche analitiche a 4,7 mm fino a 1 mm ma anche meno. - Elevate pressioni di lavoro perché la FM incontra grande resistenza. - Sistemi inserzione del campione. - Diversi rivelatori che sono in grado di mettere in evidenza i composti separati sulla base delle loro caratteristiche. Esistono anche colonne che esternamente sono di materiale polimerico. Sono delle resine. Questo vale soprattutto per le colonne di diametro sotto 1 mm. Per la lunghezza delle colonne non si può fare colonne lunghe per la retropressione, si arriva massimo a 250mm di lunghezza. Cosa succede per colonne lunghe? Pressione di lavoro e alti tempi d’analisi. Qui c’è una tabella con le geometrie classiche. Le Narrow bore GC in capillare hanno tutt’altro diametro (0,25 millimetri) qua siamo a 2,1 millimetri. Esistono poi colonne di materiale polimetrico che non vi ho riportato che scendono a diametri comparabili a quelle della GC. Le colonne sopra l’analitica vengono usate per scopi preparativi in cui noi non abbiamo intenzione di separare tutti i componenti in miscela, ma vogliamo separarli in frazioni più grossolane per raccogliere queste frazioni all’uscita per poi analizzarle con un’altra tecnica più separativa. L’efficienza della HPLC è molto legato al diametro delle particelle: più è piccolo e più l’altezza del piatto teorico è piccolo, N è elevato e l’efficienza è maggiore. Qui giusto per farvi vedere l’evoluzione delle colonne. Migliora la forma del picco, il picco si stringe ed i picchi sono più separati. Migliore efficienza. Una granulometria più grossolana dà picchi più allargati. Qui entrano tutti i parametri dell’equazione di vandimer e con le particelle più piccolo si riduce tutto (percorsi multipli, resistenza a trasferimenti di massa ecc…). Il tempo di ritenzione può anche rimanere uguale. Cos’è molto importanza per la HPLC? La pressione di lavoro. Perché la fase mobile aspirata va in colonna. L pressione di lavoro è proporzionale all’inverso del diametro al quadrato delle particelle. Quindi più piccole sono le particelle e più aumenta la pressione da applicare. Questo spiega perché al denominatore. Dipende anche da altre caratteristiche come la lunghezza della colonna (più è lunga e più la pressione aumenta). Cosa c’è al numeratore? La viscosità perché se la fase mobile è molto viscosa e noi lavoriamo di solito con una miscela di solventi la pressione aumenta perché c’è una maggior difficoltà a far scorrere una FM viscosa. La pressione che si applica è proporzionale alla velocità con cui scorre la FM. Le migliori pompe arrivano tipo a 600-1000 atmosfere. Dovete avere uno strumento performante, ma anche colonne con sopportino tale pressioni. Qui è solo per vedere cosa succede nella colonna. Particelle, molecole dello stesso soluto che partono tutti assieme. Alcune arrivano prima e altre più tarde per percorsi multipli diversi questo comporta allargamento banda cromatografica. Altro fenomeno è la diffusione molecolare longitudinale: le molecole partono tutte assieme, viaggiano sempre con i percorsi multipli, ma tendono a diffondere da zone a massima concentrazione a zone circostanti di minima concentrazione. Questo è l’effetto in colonna ed è più marcato in GC perché il gas che spinge le molecole è meno denso e viscoso di una fase liquida. Le molecole si mantengono più compatte se la mia FM scorre velocemente, perché le spinge più unite in avanti. L’altro termine è l’effetto di resistenza al trasferimento di massa e cosa altro comporta l’allargamento della banda e la forma gaussiana? Se il sistema fosse statico avremmo questo in equilibrio con FM e FF. In realtà la FM scorre e mi porta più lontano le molecole in FM e restano indietro quelle che in quel momento interagiscono con la FF. Al contrario, basse velocità di fusso limitano il problema perché c’è più possibile che ci sia un equilibrio di primo tipo nella colonna. Le colonne in LC riescono a raggiungere anche 80k piatti teorici per metro. Questo è un esempio di cromatogramma di tre soluti con due colonne accoppiate da 0,5m l’uno. Per ogni colonna si costruisce il grafico dell’equazione di Van Deemer che trovare il valore della velocità di flusso ottimale, cioè quella a corrisponde al minimo dell’altezza del piatto teorico. H in funzione della velocità lineare. Noi dobbiamo essere prossimi al punto di minimo cosicché l’altezza del piatto teorico sia ridotta ed efficienza massima. Qui abbiamo tre curve che derivano dall’utilizzo di fase stazionarie a diametro diverso. La curva è shiftata verso il basso. Verso destra non c’è un andamento ripido, cioè possiamo lavorare a questa velocità lineare senza perdere in altezza di piatto teorico. Impaccamenti più piccoli: minima altezza, massima efficienza e si può lavorare a velocità più elevate (cioè analisi più rapide senza perdere in efficienza). Ricordatevi che l’allargamento della banda è anche dovuto ad altri contributi: nel sistema cromatografico ci sono anche una serie di connessioni che devono essere ottimizzate per evitare perdite. Magari abbiamo una colonna super efficiente, ma poi i composti si rimescolano dopo. Oltre alla colonna, dobbiamo considerare l’allargamento dovuto al rivelatore: se questo ha una cella troppo grande per quel flusso, succede che il mio picco è ben separato in colonna, il composto arriva in cella in un volume troppo grande. Poi arriva un altro composto che per riempire tutta la cella si mescola con il primo composto. A monte del rivelatore abbiamo la connessione colonna-rivelatore. Questi tubicini devono essere corti e stretti per evitare allargamenti extra colonna. I volumi dell’iniettore dovranno essere perfettamente studiati: non possiamo iniettare tanto volume se la velocità non è altrettanto elevata. Cromatografia di adsorbimento: La fase stazionaria è solida e si parla di cromatografia di adsorbimento. L’abbiamo vista in GC e TLC. Il mio analita interagisce con questo solido adsorbente, la mia fase mobile trasporta i componenti e fa si che ci sia una ripartizione dei miei soluti tra FF e FM. I legami che esistono sono tra soluto e FF deboli che sono riportati qui sotto. Non c’è reazione tra soluto e le due fasi. La FM non deve interagire con la FF. L’interazione tra soluto e FF sono molto forti al punto tale da avere distorsioni del picco. Per la FF adsorbente solido. Quando si parla di LSC abbiamo o TLC o HPLC. Le fasi che si usano sono allumina, gel di silice, carbone attivo (forte adsorbente) o graficato (meno forte). Poi metalli alcalino-terrosi. Amido, cellulosa sono i meno assorbenti. Possono trovarsi in cartucce che servono per purificare i campioni prima dell’analisi. Questa una visione del gel di silice: si presenta come tante sferette. La struttura è costituita da pori più grandi, la porosità deve essere tenuta sotto controllo perché i pori devono essere molto omogenei. Guardando meglio si vedono micropori. Il nostro analita può permeare all’interno dei pori (FM stagnante) e interagisce pure con i micropori della silice. La silice è composta da una struttura di fondo del ripetersi di legame Si-O, ponti silossanici. In superficie, cioè verso la parte esterna, ci sono gruppi –OH responsabili dell’adsorbimento. Sono i gruppi silanolici. La nostra molecola entra in contatto ed interagisce con la FF. Se ho una miscela di tre componenti (polare, apolare e mediamente polare), chi aspettate che esca per primo dalla colonna con questo tipo di colonna? Quello apolare. OH esposti all’esterno, ponti silossanici all’interno. Qual è il problema degli –OH? Possono essere formare legami H sia fra di loro, che anche con l’acqua. Bisogna tenere queste fasi disidratate e questo si fa riscaldando. Due gruppi silanolici legato allo stesso silicio (tetravalente, quattro legame) sono detti silanoi genimali. Poi interazioni –OH. La parte caratterizzata dai punti silossanici è detta parte silossanica fusa. La silice può essere troppo poco attiva (probabilmente ha i gruppi –OH impegnati in legami H, io la riscaldo) o troppo attiva (la idrato). Se io voglio attivarla, la riscaldo: posso arrivare a 150 °C, ma se supero i 200 °C la disidrato troppo, elimino anche l’acqua interna, cioè creo un altro ponte silossanico. Questa situazione è sempre reversibile perché posso ripristinare i gruppi OH iniziale con un’idrolisi acida. Se esagero arrivando a 300 °C, fondo proprio la silice e non si reidrata più. Quali sono le proprietà degli adsorbenti? Questo valgono anche in GSC. - Diametro particelle: deve essere omogeneo. Queste in basso a destra sono particelle di silice di vari tagli e granulometrie. Si fa passare la silice prima in un setaccio caratterizzato, e il mesh è il numero di maglie per pollice (2,5 cm). Per setacciare si fa passare questo adsorbente su un primo setaccio a meshaggio più basse, poi ho un altro setaccio a maggior setaccio che fa passare una granulometria più basse. L’ultima parte fa passare solo 80 mesh. Più piccolo è il meshaggio e più grande è il diametro. In GC si usa proprio il mesh, il LC si usa il micron. C’è una relazione sta il meshaggio, diametro e micron. In LC parliamo di 7, 8 e 3 micron, abbiamo migliaia di mesh per maglie molto fitte. In GC molto più grossolane. - Estesa area superficiale. - Diametro dei pori uniforme: tra questi due tipi di adsorbenti si preferisce il secondo perché ha una distribuzione di pori più limitata che si aggira ad un massimo di 35 ang. Attività dell’adsorbente: tutte le interazioni che riesce a stabilire con le molecole da separare. La capacità di trattenere i soluti. Se parliamo di componenti polari, tipo la silice, ovviamente trattiene più composti polari. Qui sono messi in ordine di attrazione crescente alcuni gruppi funzionali. Qui sono organizzate in ordine di attrazione crescente dall’alto verso il basso e il corrispondente gruppo funzionale. Da notare che gli isomeri come questo composto che presenta due gruppi –OH in para rispetto al secondo gruppo OH in otto si possono separare proprio per questa differenza (il para sarà più trattenuto). alla silice di partenza. A pH>8 i gruppi OH residui si deprotonano: la silice si scioglie e la presenza di gruppi OH- deprotonati crea interazione secondarie di tipo colombiano. Molto usata è la C18, R di 18 atomi di carbonio. Silicio, due metili e CH2 ripetuto 18 volte. Questa fase è molto apolare, una delle più apolari, e di conseguenza la FM dovrà essere polare (reversed phase). I gruppi OH residui vengono bloccati con l’end capping attraverso un trimetilclorosilano che ha un ingombro sterico minore. In alcuni casi avete due clori in partenza, cioè un cloro a sinistra e uno al posto di uno dei metili che è R+ (guarda clorosilano), allora quando viene legata la FF il silicio ha due punti su cui si può attaccare. Diciamo che ogni ditta si è orientata su un tipo di FF diversa: un punto di attacco, monomeriche, quello in cui il silicio presenta due clori ci danno FF polimeriche. Questa è la partenza del nostro silice, abbiamo un solo punto di attacco, ogni OH si lega, si libera Cloro e abbiamo le nostre fasi legate. È anche possibile partire con un alchiltriclorosilano in cui il terzo cloro si idrolizza, viene trasformato in un ulteriore gruppo silanolico che può continuare a legare FF. Qui vedete nuovamente l’end capping con una fase monomerica. Ricordatevi che non si riesce mai con tutti i gruppi OH. A me interessa di come scegliere FF e relativa FM. Quali fasi legate possiamo ottenere? Abbiamo detto la C18 con catene lunghe 18 atomi di carbonio. Copre molte applicazioni nonostante sia molto apolare. Accorciando questa catena e passando a C8 rendiamo la FF meno apolare. Esiste anche una C4 e una C2. La consistenza rimane sempre pseudo liquida. È possibile anche avere legati gruppi propil fenilici, questa fase è più polare per via del composto aromatico. Il gruppo ciano è più polare della fenilica. Il gruppo diolico è una fase discretamente polare per i due gruppi OH. Andando dall’alto verso il basso scorrendo le pagine noi aumentiamo la polarità della FF. Questi gruppi di fasi vengono usati nella fase inversa. Fino alla diolica fino alla normale, ma ci sono alcune come la fenilica, ciano e amminica che si possono usare nelle due fasi e dipenderà dalla FM: se uso una fase mobile più polare sto in fase inversa se è più apolare nella normale. La diolica si usa solo nella normale. Qui non vi dimenticate la silice pura perché lavora in modalità NP. Abbiamo aggiunto anche altre fasi, come la solfonica, che ha un gruppo carico (SO3-) e potrà trattenere cationi. È una cromatografia a scambio ionico con fase polare. Inoltre possiamo avere legate catene propiliche con gruppi carichi positivamente che trattengono gli anioni. L’amminica che può lavorare in entrambe le fasi lavora anche a scambio ionico perché il gruppo amminico se abbassiamo il pH può protonarsi come NH3+. Scambio anionico. Se poco prima ho lavorato con acqua e metanolo in fase inversa, non posso poi passare ad esano ed acetano metile perché l’acqua residua è immiscibile con l’esano. Quando si passa da una modalità di lavoro a fase normale con una certa colonna è necessario lavare a fondo prima di cambiare la FM. Si usa l’isopropanolo perché è solubile sia in acqua che in acetato di etile. Adesso iniziamo a vedere la selettività della FF. Qui sotto ritrovate diversi solventi che possiamo utilizzare in reversed e normal phase. Intanto se io in laboratorio ho C1, C4, C18 ecc… ho la possibilità di separare i miei composti in maniera diversa. Immaginate di avere una serie omologa, cioè composti che differiscono per unità di atomi di carbonio. All’aumentare della lunghezza della catena del soluto aumenta l’apolarità. Riportando il logaritmo di K (che è il rapporto di capacità) in funzione del numero di atomi di carbonio spostandoci verso destra aumenta la ritenzione perché le mie fasi sono apolari. Una C18 è più apolare e viene trattenuta di più da una FF C18 rispetto a C10. Guardando i singoli andamenti delle rette, è chiaro che una C1 ha una minor potere ritentivo rispetto alla C18. Quindi, voi avete la possibilità di analizzare i composti con diverse FF. I fattori che intervengono sono intanto: - Tipologie di legame: legami deboli, van der valls e forze di london. - Dimensioni molecolari - Tipo di FF: totalmente disattivata, parzialmente - Il tipo di gruppi legati alla FF. - I gruppi silanolici residui - Capping off o meno ecc… - Kd che ci indica quanto un soluto è solubile nella FF rispetto a FM. Le ditte producono tante diverse FF. La FM deve avere le stesse caratteristiche viste nell’adsorbimento: - Deve solubilizzare i nostri analiti - Eluiti a K1 accettabili: non troppo lunghi né troppo corti (esce presto). - Eluire sottoforma di bande strette - Non deve reagire con l’analita o FF. - No interferenze, deve essere puro. - Poco tossico (abbiamo detto che solo l’acqua non è tossica). - Non deve interferire con la rilevabilità degli analiti. Qui vi ho rifatto una tabella per aiutarvi a vedere le FM usate in funzione della FF. C18 e C8 sono fasi inverse con FM polari. Si usa acqua per HPLC, tenendosi a pH 2-9 per silice. L’acqua si può unire a modificatori organici che devono essere miscibili con l’acqua. Non potrete modificare la polarità dell’acqua con l’esano perché sono immiscibili. Dobbiamo usare tipo alcol come etanolo, metanolo o acetonitrile. L’acqua è considerata un solvente debole (basso potere eluente) perché la mia FF è apolare. L’aggiunta di questi modificatori modifica la polarità del solvente. La fenilica, ciano e aminica possono lavorare nelle due modalità (amminica anche scambio ionico). A seconda che voglio usare fase inversa o normale userò solventi diversi. Il gruppo B è un esano, solvente debole, con modificatori miscibili all’esano che lo rendono più polare. Per passare da una modalità all’altra devo lavare a fondo la colonna con isopropanolo. Gli ultimi della lista sono resine scambiatrici di anioni (sale di ammonio quaternario) o cationi (solfonico). In generale, per la FM valgono le stesse caratteristiche della LSC, la ripartizione rispetto all’assorbimento dà picchi più simmetrici. La NP e RP a confronto. Avete una miscela di soluti molto polari, poco polari e mediamente polari. La fase stazionaria è una silice pura. I primi ad essere eluita sono quelli apolari perché meno affini alla FF. In fase inversa in generale l’andamento è invertito: prima i polari e quelli eluiti molto dopo sono quelli apolari perché più affini alla FF. Per assegnare l’identità al composto possiamo montare due colonne, cambiare la FF e capire di che composti parliamo guardando i tempi di ritenzione. C’è una teoria detta solvofobica per quanto riguarda le interazioni nella RP: il mio soluto è poco polare e tende ad essere attratto da una FF poco polare. Si creano delle repulsioni con la FM polari che portano a un raggomitolamento del soluto e ad un riavvicinamento verso la FF. Una delle possibili teorie è che si instaurano dei (non si capisce). Tornando alle nostre fase mobili, se abbiamo la fase diretta (FF polare) abbiamo i solventi da utilizzare: esano eptano o iso-ottano. Più si allunga la catena e più è apolare il solvente. Spesso questo non è capace di eluire niente perché il soluto è attaccato alla FF. Allora si modificai l solvente con un solvente forte, più polare, e ci si orienta con isopropanolo, tetraidrofurano e cloruro di metilene. La mia condizione è che questi debbano essere miscibili con il solvente apolare usato precedentemente. Se i miei soluti non vengono eluiti al 100% di esano, aggiungo queste fasi forti a determinate %. Più è forte il solvente e minore sarà la % da aggiungere per avere un tempo di ritenzione accettabile. In fase inversa la FF è apolare (il solvente è acqua modificata con solventi organici più forti). La forza dei solventi aumenta dal basso verso l’alto. Avrò bisogno di meno acetonitrile rispetto a quelli sotto per avere lo stesso potere eluente. Specie in fase inversa, la più usata, la FM non deve dare interferenza con i rivelatori. Nella HPLC si usano molto i rivelatori spettrofotometrici che sfruttano la presenza di gruppi cromofori (assorbono radiazione). La FM non deve assorbire UV perché poi ci copre il segnale del soluto. Quando si usano questi rivelatori dovrò scegliere FM che non assorbono alla stessa lunghezza d’onda con cui irradio. Sulla carta potrò scegliere tante fase mobili: guardate questa lista che ne contiene molti. L’acetone è solubile con acqua e con solventi meno polari, non è possibile usarlo con HPLC con un certo rivelatore spettrofotometrico. La lunghezza d’onda di taglio all’UV ci dà quel valore al quale al di sopra il mio composto assorbe il 90% della radiazione. Quindi io potrò usare il benzene (ottimo potere eluente) mi coprirebbe l’assorbimento dei composti organici che assorbono al di sotto (non dovrebbe essere al di sopra?). Nel momento in cui misceliamo due solventi spesso cambiano le proprietà di questi. Nella FM di acqua e metanolo: il metanolo è il solvente forte per modificare il potere dell’acqua. Se guardiamo il grafico della viscosità vediamo un andamento particolare (prima aumenta e poi diminuisce) riportando sull’asse delle X la percentuale di metanolo. Inizialmente abbiamo la viscosità dell’acqua pura e alla fine quella del metanolo puro. La viscosità compare nell’espressione della pressione di lavoro. L’andamento è particolare perché intorno al 40% di metanolo abbiamo il massimo di viscosità. Ci sono alcuni andamenti particolari che possono influenzare la separazione. La viscosità rende più difficoltoso il trasferimento di massa, l’acetonitrile lo favorisce. In genere, si fanno dei tentativi in fase inversa: si parte da acqua e si modifica con percentuali fisse. Acetonitrile maggiore potere eluente. Come si eseguono le eluizioni? Tenendo costante la fase mobile nel corso di tutta l’analisi, questa è detta isocratica e ricorda l’isoterma della GC. Oppure in GC potevamo variare la temperatura lavorando in programmata. Qui, invece, lavoro in gradiente di fase mobile: aumento il solvente forte rispetto a quello debole. Poco usata è l’eluizione a gradini: partono da una percentuale tipo 50-50% e lo porto di botto a 20-80%. Faccio un gradino netto, non una variazione lenta. Guardate questa separazione in isocratica. Tengo fissa la fase mobile per tutta la fase. 24% metanolo-76% acqua. Notiamo 5 fissi, con ultimo picco che esce dopo 90 minuti. Cambio la composizione ed i soluti si avvicinano ancora di più. Andando a 82% di metanolo questi si avvicinano così tanti che i picchi si sovrappongono. Qual è la situazione migliore? Il 43% perché sono ben risolti e con dei tempi corti. Se c’è un qualcosa che eluisce molto tardi e che noi non riusciamo manco quasi a vedere, partiamo con più acqua e aumentiamo progressivamente la % di metanolo nel corso dell’analisi. Spesso la FF si lavora al 100% del solvente più forte (come si teneva la GC in alta temperatura) per ripulire il tutto. La cosa da tener presente è che mentre facciamo questa variazione nel tempo, non posso riniettare direttamente il soluto perché la pressione varierà e noi lo vedremo nel display. Dobbiamo aspettare un tempo, riportare tutto nei valori iniziali, aspettare che la pressione diminuisce e poi passare all’analisi successiva. Se iniettiamo prima che il sistema raggiunge i valori iniziali, i tempi di ritenzione non vi torneranno. Ci sono tante possibilità con gradiente convesso (sale più bruscamente all’inizio) e concavo (la % varia più lentamente all’inizio rispetto alla fine). Spezzati (aumento la % più lentamente in determinati intervalli di tempo). Poi c’è uno scalino continuo. La cosa da tener conto è che se abbiamo impostato una variazione nel tempo del solvente organico, poi in colonna arriverà un po’ più tardi perché ci sono i tubi connessioni che potrebbero essere lunghi e larghi. trattenere quelli di carica opposta. A scambio cationico se l’analita ha carica positiva, a scambio anionico se l’analita ha carica negativa. La separazione si basa sulle interazioni e sulla competizione degli analiti tra analita e analita (quelli più carichi saranno più trattenuti, quelli più grandi più trattenuti rispetto a quelli più piccoli). La resina è a base di stirene e di vinilbenzene dove è presente in posizione para questa piccola catena. Il polimero che si forma è il polistirene dove il doppio legame si apre e si lega un’altra molecola. Il di vinilbenzene serve per reticolare, fare delle maglie. La % è del 10-15%, ma serve proprio a fare questa rete. Un polimero del genere in acqua tende un po’ a rigonfiarsi. Oltre ai polimeri, si usa anche la solita silice: ora leghiamo un gruppo che ha presente queste cariche. Anche per la resina possiamo introdurre gruppi carichi. Alla resina possiamo legare anche gruppi carichi positivamente. Gli analiti si fermano solo se hanno una carica maggiore rispetto al controione di partenza (nella slide il controione è il sodio). Ecco che di solito le resine hanno un controione che è l’H+. Le resine possono distinguersi in forti e deboli: forti non risentono del pH, cioè che per qualsiasi valore di pH della FM acquosa la mia resina è carica. Le deboli in un certo intervallo possono non essere cariche. Resine a scambio cationico: un gruppo molto tipico è SO3- che è forte perché anche se bilanciato da un H+ non è mai neutro perché è sempre carico a ogni pH. Se ho un gruppo carbossilico posso avere un equilibrio e affinché la resina lavori deve essere presente la forma COO-. Questa resina è debole perché risente del pH: se sto a un pH inferiore al pK sto nella forma neutra e la resina non legherà nulla. Devo avere il COO- dissociato e questo lo ho se sto a pH>pK. Il pH è molto debole perché può essere una strategia di eluizione: variando il pH faccio rilasciare gli ioni. Oppure possono legare un gruppo fenolico e affinché trattenga gli ioni deve essere O-. Per rilasciare gli ioni abbasso il pH, si rilega H+ e gli ioni e via gli ioni. Resine a scambio anionico: sale d’ammonio quaternario dà una resina forte perché è sempre carico positivamente, trattiene sia in campo acido che basico. Un’ammina primaria, NH2, per poter lavorare come resina deve essere carico e il gruppo deve essere sottoforma NH3+. Dovrò abbassare il pH in modo tale da essere NH3. Per rilasciare gli anioni poi dovrò solo che innalzare il pH e riportare il gruppo in forma NH2. Cosa succede in questa colonna? La resina ha un gruppo carico, cationico forte. Il mio controione iniziale è H+. Il sodio si lega al posto di H+ e rimane bloccato in colonna. Ora, però, devo eluirli. La soluzione che esce è acida perché H+ viene rilasciato. Intanto, se ho un gruppo di ioni chi è trattenuto di più? Qui parliamo di cariche e dimensioni degli ioni. Una resina carica positivamente mi potrà trattenere gli anioni. Intanto diciamo che le specie vengono trattenute in funzione della loro carica: gli ioni monocarica vengono trattenute di meno rispetto a quelli con due o tre cariche. L’alluminio 3+ sarà più trattenuto di Mg2+. A parità di carica, devo guardare la grandezza: andando dall’alto verso il basso aumenta la grandezza degli ioni. Ci sono questi diversi fattori da tenere conto. Esistono scale di affinità per alcune specie. Questo è un tracciato di un campione di vodka. Una resina a base di metacrilato. Più le maglie sono strette e più le resine sono selettive trattenendo di più. Trattiene di più rispetto a quelle di benzene e di vinilbenzene. Possiamo usare questa tecnica anche per composti organici che hanno gruppi carichi ionizzabili. Qui abbiamo tredici composto separati da una colonna a scambio cationico. Primi abbiamo eluiti gli ioni metallici (Litio, potassio, magnesio), poi dal 7 in poi ci sono composti organici come le ammine caratterizzate dal gruppo NH2 protonabile. L’ordine delle ammine segue le dimensioni degli ioni. Abbiamo fase stazionaria, controione iniziale negativo. Iniettiamo il campione trasportato da una FM. Il campione deve contenere anioni che sostituirà il controione solo se avrà maggiore affinità per il catione. FM dovrà scalzare nuovamente questi ioni legati e vedremo come. L’eluizione si può fare attraverso tre metodi e tutto ciò vi fa capire che la FM deve essere acquosa: - pH: può influenzare la carica della resina. Se ho un COO- responsabile dello scambio, allora vado a giocare sul pH di eluizione. Abbasso il pH per rendere la resina non carica. Se ho una resina forte e ho l’analita che mi si comporta da acido, tipo è un R-COH. Per fermarsi deve essere sottoforma R-CO-. Cosa faccio? Aumento il pH per avere il mio acido debole completamente dissociato in R-CO-. La resina è a scambio forte e per farlo eluire dovrò abbassare il pH, aumenterà H+ (non influenza la resina perché è forte) e avrò R-COH che mi darà l’eluizione. Sullo strumento ho delle bottiglie di acqua con diversi acidi e farò dei gradienti di pH. - Forza ionica: significa avere degli elettroliti forti sciolti in acqua. Faccio delle soluzioni abbastanza concentrate di NaCl che per azione di massa riescono ad eluire il catione che si era legato. Quale sale scelgo? Se voglio eluire i cationi, allora dovrò usare un sale che avrò i cationi a carica più alta. Tra cloruro di sodio, magnesio e potassio andrò a scegliere il secondo per la doppia carica e potrò usarne di meno. - Solvente organico: deve essere solubile con acqua. Chi mettereste? Gli stessi che abbiamo visto per la fase inversa. Il solvente organico indebolisce le interazioni tra l’analita e la FF. L’acqua ha un’elevata costante dielettrica e aggiungendo il solvente la abbasso. Gli aminoacidi possono essere separati in tanti modi. Possono essere carichi negativamente (pH>punto isolettrico), neutri (pH=pI) o positivamente (pH≤pI). Se devo eluire un aminoacido carico positivamente, non abbasserò il pH fino al pI, ma andrò oltre in modo tale da farlo diventare negativo e avere repulsione con la carica della resina. Resina a scambio cationico su base silice ed è forte. Per eluisco mi spingo ad un pH che mi porta ad avere NH2 e COO-. Scambio anionico con propile e sale d’ammonio quaternario. Il fenolo è la molecola da separare che è un acido debolissimo che a un pH superare 9 si deprotona. Come lo eluisco? Ce l’ho OH- abbasso il pH e lo riporto come OH. Qui abbiamo una miscela di proteine cariche sia positivamente che negativamente. La nostra resina è carica positivamente, quindi, ha dei gruppi di sale d’ammonio quaternario. Si legano solo proteine con cariche negative. L’eluizione viene fatta sulla base della forza ionica per cui aggiungo un sale, come NaCl, che per azione di massa di lega ai siti attivi della resina. Oppure abbasso il pH. Esercizio: ho una resina a base di carbossimetil cellulosa. È una resina anionica o cationica? Cationica perché lega gli analiti come COO-. Forte o debole? Debole. A quale valore di pH dobbiamo equilibrare la FF? Prima di iniziare monto la colonna, passa la fase mobile ed equilibrio la fase stazionaria, cioè la metto in condizioni da lavorare. Devo portarla in forma COO- e questo lo faccio andando a un valore di pH superiore rispetto al pK dell’acido. Per far rilasciare gli analiti, abbasso il pH della FM. Abbiamo scelto questo pH di lavoro, avete poi queste proteine con questo punto isolettrico. Secondo voi, essendo a pH=6, qual è la forma che prevale? Sono tutte cariche positivamente, tranne il fibrinogeno che non è analizzabile perché stiamo al pI. Abbiamo legato le proteine perché cariche positivamente, sono ferme sulla resina. Cosa fareste per eluire queste proteine? Abbasso il pH, vado sotto 4 per avere una resina che non trattiene. Oppure possiamo continuare ad agire sul pH superando il pI. Facciamo il gradiente per farle uscire una alla volta, non posso mettermi subito a 13 perché poi eluiscono tutte assieme. Il solvente organico non conviene mai perché le proteine potrebbe denaturarsi o precipitare in colonna. Lavoriamo con la forza ionica. In quali condizioni sperimentali si deve lavorare? Che FF scegliete? Possiamo fare quello che ci pare. Usiamo uno scambiatore anionico: sale d’ammonio quaternario, resina forte. Le condizioni iniziali sono mettersi in una condizione di pH>pI. Per tirarle giù dovrò scendere di pH. Prima esce quella con pI maggiore. Oppure uso dei sali come NaCl, nitrato di sodio o solfato di sodio. È meglio l’ultimo perché è più ingombrante e ha doppia carica. La lezione inizia dalla slides numero due, credo che la registrazione sia stata fatta partire un po’ dopo. Un diametro tale che per un certo poro sono estremamente piccole e rimangono molto tempo nella FF. Non è una sola molecola, ma un intervallo di pesi molecolari. Da un certo peso molecolare in giù c’è questo ritardo. Le molecole blu che sono quelle che ci interessano sono quelle che hanno dimensione tale da entrare, trasportate dalla FM, ed uscire. Troppe piccole escono tardi (per ultime), troppo grandi escono per prime e l’intervallo di utilizzo di questa FF con una certa porosità da va dal peso molecolare del verde fino alla rossa. Tre tipologie di molecole: applicate tutte insieme, verde per prima, fucsia seconda e arancione per terza. Qui vedete i tempi di ritenzione. Per quali tipi di molecole si adatta bene questa separazione? Non va tanto bene per le molecole a basso pm, non tanto per la dimensione del poro perché noi potremmo scegliere un poro molto piccolo, ma ci sono altre modalità per queste molecole. È molto adatta per macromolecole (biopolimeri, polimeri inorganici e proteine). I cromatogrammi non sono ad alte risoluzioni e le separazioni sono abbastanza grossolane. Vedrete grandi picchi e bande allargate (basso numero di piatti teorici). Viene anche usata a scopi preparativi: prima si fa una SEC per separare grossolanamente delle frazioni e poi si analizzano con altre tecniche. Come si scelgono le FF? Qui avete dimensioni delle FF. Vi ricordo che le particelle impaccanti hanno un diametro dell’ordine di micron, in esclusione dimensionale si parla di 5-10 micron. I pori della fase in angstrom che è la frazione del nanometro. Qui vedete dei pori che vanno da 100 a 2000 Ag. Chiaramente le particelle con pori da 100 Ag trattengono molecole più piccole. L’intervallo di utilizzo è in termine di pesi molecolare: le 100 ang sono le classiche porosità delle particelle impaccanti utilizzate anche in reversed e normal phase, infatti, l’intervallo di separazione va da 0,1-100, abbastanza basso. Più aumenta la porosità e più separate pm sempre più alti. Ogni FF è caratterizzata da un grafico: ogni fase ha una zona di esclusione totale, permeazione selettiva e permeazione totale. Vale a dire che ci sono molecole eluite immediatamente, quelle grandi che non penetrano nel poro, quelle eluite per ultime che sono le più piccole e poi quelle separabili. Se voi traslate il tempo di ritenzione (espresso come V di ritenzione) e il log pm noterete che c’è una parte relativa alle molecole troppe grandi (esclusione totale, cioè che da questo peso molecolare in su le molecole vengono tutte escluse, non entrano nel poro), le molecole più piccole si trovano nella parte discendente (zona di permeazione totale, da questo peso molecolare in più tutte quelle molecole per quella FF sono troppo trattenute e non vengono separate), la zona intermedia relativa a quei due picchi è la zona di permeazione selettiva dove al variare del peso molecolare tra un minimo e un massimo riusciamo a separare quelle molecole con quella FF. Sono importanti i due estremi per separare quale FF usare per separare molecole con un certo PM. Quali sono le FF? Vengono divise in tre tipologie: soft, semi soft e rigide. La FF non interviene con legami veri e proprio, ma solo trattenendo e in questo tipo di cromatografia il Kd è uguale a 1. Perché? La mia FF ha il suo poro, dentro a questo c’è la FM. La mia molecola entra ed esce dal poro trasportata dalla FM. Dentro e fuori io ho sempre FM, non c’è ripartizione tra FF e FM. Le fasi stazionarie soft sono a base di polisaccaridi, caratterizzate da un monomero che si ripete. Un esempio è l’agarosio e molto noto è la sephadex. Gl zuccheri hanno molto gruppi OH che formano legami idrogeno con acqua e queste resine si rigonfiano con l’acqua e sono morbide (per questo si pulire tutte le linee. Aspiro velocemente tutta la fase mobile che ho degassato e lavo tutto il sistema fino a prima dell’iniettore, questo elimina l’aria e abbinare il sistema. L’operazione del purge viene fatta la mattina prima dello strumento, sera perché non lascia mai l’acqua nelle linee, quando vogliamo cambiare fase mobile o quando noto fluttuazioni delle pressioni. I solventi vengono messi in bottiglie di vetro perché è puro e rilascia poco. I miei solventi devono essere puri, possibilmente non tossici o infiammabili. Se userò un rivelatore UV, non dovranno assorbire nell’UV. I solventi andranno scelti in base alla forza che è determinata dalla fase stazionaria. Inoltre è importante valutare la viscosità dei solventi perché la pressione in HPLC di lavoro è dovuta alla lunghezza della colonna, viscosità del solvente e velocità di flusso della FM. Più la colonna è lunga e maggiore sarà la velocità di lavoro. Più è viscosa e più sarà maggiore la pressione. La temperatura di ebollizione è importante perché i solventi molto basso bollenti non possono essere usati. I vostri solventi non devono essere aggressivi nei confronti del materiale delle pompe e colonna e non devono reagire con i nostri soluti e FF. Compatibili con il rivelatore che usiamo. Per l’acqua si possono usare dei tamponi e ciò viene valutato in base alla cromatografia. In fase inversa si aggiunge un modificatore per sopprimere la dissociazione di un analita. Esiste anche la cromatografia di coppia ionica in cui c’è un accoppiatore che neutralizza la carica dell’analita da analizzare. Oppure un modificatore basico che aumenta il pH. Nel momento in cui aggiungo uno di questi, non ho più un’acqua pura e allora dovrò ricorrere a un sistema di purificazione, cioè l’acqua modificata dovrà essere filtrata. L’acqua, dopo essere stata purificata con il sistema MilliQ, per sapere che è appunto pronta c’è un 18,2 che il valore di resistenza che ci dice che l’acqua è pronta. Dobbiamo anche valutare i pittogrammi: su ogni solvente o materiale ha un’etichetta con dei simboli che ci dicono i pericoli. I solventi più vecchi si presentavano in questo modo. Adesso ci sono questi pittogrammi che richiamano quelli precedenti e cambia solo lo sfondo. Sicuramente questo con uomo con questo sole è uno dei più brutti perché sta ad indicare che la sostanza può essere cancerogena. Oltre ai pittogrammi, si devono essere anche le Frasi R (di rischio) e Frasi S (di sicurezza). Oggi si parla anche di Frasi H. L’altra cosa che dovete sicuramente controllare quando arriva o manipolate un prodotto è la scheda di sicurezza perché per ogni prodotto ci sono 16 voci che vi danno tante informazioni. Dicevamo che l’acqua deve essere filtrata e qui abbiamo un sistema banale di filtraggio costituito da una beuta nella quale viene fatto un vuoto mediante il rubinetto, poi viene versata dell’acqua che passa attraverso un filtro. I filtri devono essere studiati in funzione di ciò che vogliamo filtrare: usiamo filtri di cellulosa per acqua, usiamo filtri compatibili per solventi organici. Devono avere una giusta porosità (tipo 0,5 micron). L’acqua può andare incontro alla formazione di muffe e va cambiata spesso. Nel momento in cui si apre la bottiglia con l’acqua milli Q (se non abbiamo il sistema milli Q per purificarla possiamo anche pensare di comprarla), si possono formare delle muffe e si aggiunge un millilitro di aceto nitrile per tenerla più protetta. Sopra l’acqua di HPLC si può mettere una bottiglia ombrata per proteggerla dalla formazione di muffe che si possono vedere perché in controluce si vede del materiale in sospensione e una patina. Se le muffe vanno in giro si possono addirittura depositare e creare problemi alla pressione e al cromatogramma. Il solvente va degassato: si può usare l’elio che, essendo molto leggero, entra nell’acqua e porta fuori le bolle d’aria. Oppure si usa un evaporatore rotante. Tutti i tubi che vanno dall’acqua fino alla pompa sono in materiale polimerico (teflon) perché siamo in una zona di bassa pressione. Ci possono anche essere sonde di acciaio a porosità molto piccola che consentono se c’è del materiale in sospensione di non mandarlo nella colonna. L’aria crea dei picchi fantasma: oltre a fluttuazioni della pressione, potreste avere dei picchi molto ritmici dovuti alla presenza di aria nel rivelatore. La pressione dipende da questi termini. Perché applichiamo la pressione? Le colonne sono impaccate con un materiale molto piccolo e questo materiale crea una retropressione. La FM non può scorrere per gravità e serve la pressione proprio per spingerla nella colonna. Come sono fatte le pompe per HPLC? Le pressioni che si raggiungono possono essere anche molto elevate, il flusso che si ottiene deve essere costante e riproducibile. Si lavorerà a velocità di flusso diverse a seconda del diametro delle colonne. Qui avete uno specchietto delle pressioni tipiche che si raggiungono in HPLC. La pressione dipende anche dalla viscosità e da cosa misceliamo insieme. Esistono quattro tipi di pompe, ma ne esaminiamo due. Qua viene riassunto il motivo dell’uso della pompa con i flussi tipici che si usano a seconda del diametro delle colonne e la formuletta. Vediamo le pompe reciprocanti: prevedono una parte che aspira il solvente, cioè una camera. Da sotto arriva il solvente e da sopra viene spinto verso l’iniettore. La pompa è costituita da una camera, da un pistone che si muove in questa camera, da un ingranaggio o camma rotante collegata a un motore. Questo ingranaggio ruota e avanza e indietreggia nella camera. La prima fase, quella di riempimento, prevede che il pistone vada indietro, da sotto o sopra arriva la fase mobile. C’è una piccola valvola, detta check valve, di materiale molto resistente (rubino). Il pistone è di zafiro. Il pistone indietreggia, si apre la valvolina, entra in solvente dalla bottiglia, viene aspirato da quei tubi di teflon, entra qui un solvente e in questo istante di aspirazione quest’altra valvolina si chiude e qui non esce nulla. Queste valvole sono unidirezionali: se una si apre l’altra si chiude e viceversa. Dopodiché la camma rotante ruota dalla parte opposta e il pistone avanza. Avanzando si chiude questa valvolina e non entra più solvente, ma quello che era entrato viene spinto verso l’altro, si apre l’altra valvola e la FM va nella colonna. Il flusso è un po’ pulsato: aspirazione pompaggio. Allora le case hanno fatto una pompa a doppia testata, per cui per ciascun solvente avete fase mobile, la camma rotante collegata al motore ed a due pistoni che lavorano in maniera opposta: mentre uno aspira e indietreggia per permettere l’ingresso della fase mobile, l’altro pistone avanza e avanzando la fase mobile passa nella colonna, si chiude la valvola al di sotto garantendo un flusso continuo e non pulsato. (manca il funzionamento della pompa a siringa, ma è molto semplice) Parte dalla slide della miscelazione Riprendiamo lo schema a blocchi. Abbiamo visto solventi e pompe, poi abbiamo detto che possiamo avere diverse fasi di miscelazione della fase mobile. Intanto vi ricordo che il fatto di avere più pompe o solventi vi consente di lavorare anche in gradiente e qui vedete la % di A rispetto a B come varia. 1 ha un gradiente lineare perché la % di A aumenta linearmente nel tempo. Poi ci sono gradienti convessi e concavi. Il due ha un aumento più ripido di A all’inizio e più lento alla fine, il B il contrario. Quando vi ponete davanti ad un HPLC, dovete sapere la quantità minima che la pompa può erogare. Cioè, ho una pompa reciprocante che è in grado di erogare 100 micro litri. Immaginando di fare un gradiente con due pompe e dobbiamo fare una programmata di una variazione della % di solvente A e B. Qui vedete c’è un gradiente proposto dal 10% di B al 100% di B c’è un sì, mentre un gradiente che va da 1% di B al 100% di B NO, perché c’è il no? Abbiamo un flusso totale di 1 ml e una quantità minima erogabile di 100 micro litri. Perché non si può fare un gradiente che parte da 1% e va a 100%? Perché la pompa non è in grado di erogare 10 micro litri al minuto, quindi, questo tipo di pompa può fare solo dei gradienti partendo dal 10% di un solvente fino al 100%. Voi dovete impostare un gradiente se quella pompa può farla. Con una quantità minima erogabile di 100 microlitri il 2 non si può fare. In realtà le pompe di adesso erogano anche 1 microlitro. Possiamo avere la miscelazione a bassa o alta pressione. L’alta pressione ha il miscelatore a valle della pompa e abbiamo bisogno di una pompa per solvente. Contenitore fase A, contenitore fase B, le due pompe, l’aspirazione del solvente da parte della pompa. Questi tubi sono in teflon. La pompa manda in camera di miscelazione seconda un rapporto stabilito. Ogni solvente ha la sua linea e a monte della pompa c’è una volva dosatrice che ha quattro entrate una per ogni solvente che si apre in base al tempo. Dopodiché la miscelazione avviene sotto e la miscela viene aspirata da una sola pompa e poi tutto viene mandato in colonna. Come sono i miscelatori? Nel caso della miscelazione ad alta pressione si può avere un miscelatore statico o dinamico. Lo statico ha un canale della pompa A, canale pompa B e il miscelatore tra quei due viene definito a T perché ha una forma di T rovesciata. All’interno abbiamo una camera di mescolamento in cui entrano i solventi in due direzioni opposte e si mescolano, per poi uscire nell’iniettore. Oppure abbiamo un miscelatore dinamico che è una sorta di micro becker in acciaio che contiene una foretta magnetica che è un agitatore. I miscelatori hanno dimensioni in funzione del flusso di lavoro: se lavoro con flusso di 1 microlitro al minuto avrò miscelatori di una certa dimensioni, se lavoro con colonne con diametro più piccole che richiedono un flusso più basso, allora avrò miscelatori più piccoli. I miscelatori a bassa pressione hanno una zona caratterizzate da valvole a solenoide dosatrici che si apre in base tempo e in base alla % impostate. Ritornando allo schema (slide nera): solvente A e solvente B, miscelazione ad alta pressione, tubi in teflon, possibilità di avere un filtro per bloccare il particolato in sospensione, pompa A e pompa B reciprocanti, camera di miscelazione e da qui in poi i tubi sono in acciaio. Iniettore con possibilità di essere refrigerato, precolonna e colonna con possibilità di essere riscaldate (40-60 °C massimo) per tenere uniforme la viscosità del solvente e non avere escursioni termiche in estate e rivelatore. L’altro caso è: solvente A, B, filtro, camera di miscelazione, singola pompa e l’ultima parte uguale Una differenza che si può notare è che nel caso dell’alta pressione si mescolano i solventi con un tubo molto corto e si arriva subito all’iniettore, c’è un ritardo del gradiente minimo nel senso che mescolo e arriva subito. Con il miscelatore a bassa pressione, c’è un po’ di ritardo e ciò che leggete nel display non è effettivamente ciò che succede in colonna, ma c’è un ritardo. Questo tempo viene definito duel time. Dopo la miscelazione c’è l’iniettore: automatico o manuale. L’iniettore più usato in HPLC è la valvola a sei vie dove voi avete una valvola con 6 diverse posizioni. Intanto l’iniettore viene fatto con una siringa graduata in microlitri, si prelevano microlitri (in GC ci fermavamo ad 1 microlitro), la cosa importante è non usare siringhe a punta spinata (nel GC dovevamo bucare un setto) perché potreste rovinare l’iniettore rovinando il rotore. L’altra differenza è non prelevare aria perché il sistema LC non vuole aria (no fluttuazioni pressioni, picchi fantasma o prelevando aria si può avere un picco sdoppiato perché il liquido entra in due istanti successivi). L’iniettore presenta un loop che è un capillare che determina ciò che va in colonna: ho un loop di un microlitro, allora entra solo un microlitro. Come scelgo il loop? Mi regolo in base al tipo di colonna e flusso totale: se lavoriamo a flussi ad 1 millilitro al minuto, possiamo anche pensare di usare loop da 1 microlitro. Se sto lavorando a un flusso della FM di 50 microlitri, non potrò iniettare 100 microlitri. Posso iniettare a loop pieno o parziale: prelevo con la siringa, inserisco la siringa nel foro e va fino ad una battuta (non va più avanti) e premete il accadere che questo passaggio formi delle bolle d’aria nel rivelatore che sono deleterie perché danno picchi fantasma. Con i rivelatori in uscita si mette un dispositivo per la pressione che mi lascia il rivelatore stesso un po’ pressurizzato per evitare la formazione di bolle. Rivelatore ad Indice di Rifrazione: è universale perché mette in evidenza tutti i composti che hanno un indice di rifrazione diverso da quello della fase mobile. È molto usato ad esempio per composti come zuccheri, trigliceridi, che non hanno nella loro struttura gruppi funzionali che consentono di essere rivelabili in altro modo. Non distruttivo. Due grandi limiti: sensibile alla temperatura (cambia la risposta con sbalzi di temperatura) e non consente di lavorare in gradiente. È un bulk property, quindi, è uno di quei rivelatori che risente della variazione della composizione della FM in relazione al soluto. Prima di iniettare, ciò che passa in colonna è solo la fase mobile e inizialmente la cella è riempita solo di FM. Vedete che la cella è divisa in due comparti e in entrambi entra fase mobile. Dobbiamo stare in isocratica. A monte della cella c’è una lampada che emette una radiazione e qui avete delle lenti e fenditure che focalizzano il raggio di luce. Arriva in raggio di luce e io devo avere due mezzi diversi, tipo aria e fase mobile. Il raggio entra con un certo angolo rispetto ad un perpendicolare, se la superficie fosse di vetro questa verrebbe riflesso e l’angolo sarebbe uguale, nel caso del passaggio in un mezzo con densità diverso il raggio viene rifratto e l’angolo blu sarà più piccolo del rosso. L’indice di rifrazione N è il seno dell’angolo incidente diviso il seno dell’angolo rifratto. Allora arriva questo raggio di luce, incontra un mezzo e quando all’inizio c’è lo stesso mezzo senza il soluto questo non subisce rifrazione perché passa sempre attraverso la stessa fase mobile. Questo serve per azzerare lo strumento. Dopodiché iniettate, la colonna separa, l’analita esce e va nella cella. Un comparto viene sempre riempito di fase mobile, l’altro è riempito di fase mobile e soluto. Quindi varia la densità del mezzo e il raggio subisce una rifrazione. L’analita deve avere un indice diverso della fase mobile perché poi non vi accorgete di nulla. Quindi viene registrato il segnale a seconda della composizione del soluto + fase mobile. Per questo è un rivelatore bulk. La temperatura influenza l’indice di rifrazione e per questo devo averlo termostatato. Quando mescoliamo le miscele può aumentare o diminuire per via delle reazioni eso o endotermiche. Non può lavorare in gradiente, solo in isocratica. Uno dei rivelatori più usati è il rivelatore spettrofotometrico che prevede uno spettrofotometro all’uscita della colonna. Al di la dello spettro delle radiazioni, a noi interessa l’intervallo di lunghezza d’onda che copre UV e visibile. Lavoriamo in spettrofotometria d’assorbimento UV visibile. Di questo tipo di rivelatore possiamo avere una forma basic (lunghezza d’onda fissa) o gli altri due. Il principio è la legge di Lambert e Beer. Considerate uno spettrofotometro composto da una cuvetta in cui c’è il campione che presenta l’analita da determinare. Cosa succede? Irradiamo con una lunghezza d’onda e questo sarà il mio raggio di luce incidente. Questa radiazione che passa tra le pareti che devono essere trasparenti per la radiazione: se stiamo nell’UV, il materiale è quarzo; se siamo nel visibile, è vetro che non fa passare l’UV. I0 è la radiazione incidente che viene assorbita dall’analita dentro e ciò che non viene assorbito viene trasmesso con un’intensità I più basso. La trasmittanza è il rapporto tra I0 e I. L’assorbanza, si parla sempre di questo qui, è meno il logaritmo della trasmittanza. È anche espressa come prodotto tra abc, dove b è il cammino ottico (quant’è spessa la cuvetta), c è la concentrazione dell’analita ed a è l’epsilon cioè il coefficiente d’estinzione molare diverso (analiti con tanti gruppi cromofori hanno questo parametro alto. La trasmittanza va 1 a 0. Se sono interessato a una lunghezza d’onda specifica, uso un monocromatore dopo la sorgente che mi scompone la radiazione. Il raggio emesso dalla cuvetta viene rivelato da un monorivelatore Questa cuvetta poi viene inserita in un HPLC. Le celle sono dette a flusso e non statiche. Ho messo dentro la cuvetta, ha assorbito la radiazione e ho ottenuto uno spettro di assorbimento con riportato l’assorbanza in funzione delle diverse lunghezze d’onda. La radiazione è emessa in tutte le lunghezze d’onda e il rivelatore ne fa passare una alla volta. Il campione assorbe, costruisco lo spettro d’assorbanza che è specifico della sostanza. Dipende dai gruppi cromofori e dai legami che ci sono (tipo doppi legami, legami coniugati e altro). Questo è lo spettro UV visibile di una proteina in cui devono essere presenti aminoacidi che possono assorbire la radiazione. Ci sono due picchi a 280 nm e 220. Perché è cerchiato quello a 280? Perché siamo più selettivi con le lunghezze d’onda alte perché mentre a 200-200nm assorbe un po’ tutto, meno sostanze assorbono a lunghezze d’onda maggiori. Il primo rivelatore è quello a lunghezza d’onda fissa che ha una lampada a monte con una lunghezza d’onda. Esistono lampade dedicate che emettono solo una lunghezza. Lampada, specchio, fenditure e cella a Z. Prima la cuvetta era a parallelepipedo, mentre ora è fatta a tre capillari. Il cammino ottico è il tratto verde acceso. C’è sempre un confronto con un fotodiodo di riferimento in modo tale che io possa azzerare il contributo dall’extra soluto, mettendo in evidenza solo il segnale del soluto. Il rivelatore spettrofotometrico a lunghezza variabile: lampada a dueterio (UV, tutto il range) o tungsteno (visibile). Passa attraverso una fenditura e colpisce un monocromatore che seleziona una lunghezza d’onda di lavoro. Se io voglio mettere in evidenza quei composto che assorbono a 280 nm, farò in modo che questo mi faccia passare la radiazione 280nm. Poi la radiazione colpisce il mio campione presente nella cella a flusso a Z. Alla fine c’è il fotodiodo di rilevazione. Qui ci sono due cromatogrammi, uno a 280 e uno a 220. Vedete che ci sono 5 picchi, cioè 5 sostanze che assorbono a questa lunghezza d’onda. Poi imposto a 220nm e vedo che sono meno selettivo perché c’è molta più roba. La scelta si può fare in funzione di quello che uno deve andare a vedere. Il rivelatore è sia selettivo che non. Può lavorare a gradiente di lunghezza d’onda: non è detto che io debba lavorare per tutto il tempo di analisi ad una lunghezza d’onda: posso dire che i primi cinque minuti lavorano a 280, dopo 284nm per tre minuti. Posso fare il cosiddetto gradiente di lambda. Il rivelatore di riferimento serve per eliminare ciò che è extra soluto. Questo rivelatore consente di lavorare a temperature diverse ed a gradiente Poi c’è il rivelatore photo diode array. Non c’è il monocromatore: c’è sempre la cella a Z, ma tutte le radiazioni mi investono il campione. In uscita ho una fenditura e un monocromatore che mi scompone tutto ciò che è stato trasmesso dal campione per darmi lo spettro d’assorbanza. Mentre il rivelatore a lunghezza d’onda fissa ci dà un cromatogramma in funzione delle lunghezze d’onda, nel photo diode array ho lo spettro d’assorbimento associato a ogni picco proprio perché l’analita viene investito da tutte le radiazioni. Non ho solo un tempo di ritenzione, ma ho anche lo spettro d’assorbimento a UV e questo a fini qualitativi è molto importante. Nel DAD le varie lunghezze d’onde vengono raccolte da una serie di diodi, ciascun dedicato alla registrazione di una lunghezza d’onda. Mi interessa un picco con un tempo d’uscita di 3,5 minuti (non considerate i secondi) e ho associato al picco il suo corrispondente spettro d’assorbimento, cioè quello ottenuto dallo statico. La registrazione è stata fatta partire dopo. Prima slide è quella con luce bianca e sistema tradizionale. Entrambi lavorano nel range di UV e visibile a seconda delle caratteristiche dell’analita da analizzare: se assorbe nell’UV, scelgo una lampada per il visibile. Nel classico noi avevamo un monocromatore prima del campione che consentiva di selezionare la lunghezza d’onda di lavoro corrispondente al massimo assorbimento dell’analita nel campione. Nella serie a diodi il monocromatore è dopo il campione. Tutta la UV o visibile investe al campione, gli analiti assorbono e in parte trasmettono. Ciò che viene trasmesso viene poi scomposto dal monocromatore in uscita e le lunghezze d’onda vengono poi raccolte da una serie di diodi che consentono a ottenere, oltre al picco di assorbimento, anche uno spretto UV. Poi consente anche di fare l’analisi di purezza di picco: immaginate di avere una sostanza che viene eluita ad un certo tempo di ritenzione, ma sotto ad essa anche altri composti. Il picco più importante è A e sotto c’è B e C che sono parzialmente coeluiti. Il nostro picco è abbastanza simmetrico perché non ha spalle o codature. Questo rivelatore spettrofotometrico consente di analizzare la purezza del picco: idealmente è come se il picco fosse suddiviso in tante piccole porzioni e per ogni piccola porzione si confronta lo spettro d’assorbimento UV con lo spettro precedente e successivo. Se questi spettri sono perfettamente coincidenti, allora il picco è pulito. Se sono presente delle sostanze coeluite, nel momento in cui si analizza lo spettro d’assorbimento tra l’apice e la porzione successiva si iniziano a vedere differenze nei massimi d’assorbimento e questo ci mette in evidenza eventuali sostanze coeluite. Questa impurezza deve superare il rumore di fondo, ci deve essere una discreta concentrazione dei picchi spettrali. Se uno poi volesse avere certezze maggiore dovrebbe raccogliere il picco e analizzarlo con massa, NMR o spettri IR. Questa è una slide riassuntiva che dice io ho tre possibilità: - Spettrofotometrico a lunghezza fissa: la lampada emette a solo una lunghezza d’onda. - Spettrofotometro a lunghezza d’onda variabile: emette tutto nell’UV o visibile e il monocromatore seleziona quella al massimo e nella cella al flusso arriva l’analita che assorba e viene rivelato come picco cromatografico. - A serie di diodi: lampada, cella a flusso prima e monocromatore così che tutto investe, l’analita investe e trasmetterà in funzione delle caratteristiche. Tutto ciò che viene trasmesso viene raccolto da una serie di diodi e noi come informazione abbiamo un cromatogramma e uno spettro d’assorbimento per ogni picco. Non è distruttivo perché noi raccogliamo i nostri picchi all’uscita. Selettivo a seconda della lunghezza d’onda. Lavora in gradiente. Non risente di variazione di temperatura. Solute property perché dipende solo dalle caratteristiche del soluto. La risposta è ovviamente sarà tanto più alta quanto più il mio composto avrà un coefficiente di estinzione molare elevato. Qui vi riporto alcune caratteristiche dei solventi. Siamo in HPLC ed i nostri solventi non devono assorbire alla lunghezza d’onda di lavoro. Per questo ogni solvente ha una lambda di cut-off che è quella lunghezza d’onda alla quale assorbono il 90% della luce incidente. Deve essere bassa. L’acetonitrile si usa in inversa e viene usato perché è poco sotto UV. L’acetone assorbe a 330nm e non va bene in HPLC con UV. Propanolo viene molto usato per lavare. Il tetraidrofurano viene molto usato in fase inversa, ma ha dei limiti. Il metanolo viene molto usato in fase inversa e siamo circa a 205nm. La fase normale ha solventi normali modificati da polari, quindi, si usa una serie di idrocarburi modificati da solventi polari come etero dietilico o solventi clorurati. L’acetato dietile ha una lambda elevata. Il propanolo ha 210nm ed è un po’ un jolly. Qui ci sono caratteristiche di alcuni gruppi cromofori presenti nell’analita. Le aldeidi –CHO sono di 210 nm ed epsilon di 1500. Poi a seguire gruppi aminici con lambda 195nm che non va bene perché a questa lunghezza d’onda assorbono molte fasi mobili e non si può usare questo rivelatore per analizzarli. Cosa faccio se il mio composto non è rilevabile in HPLC? Introduco io gruppi chimicamente attivi, come un cromoforo (lavoro con UV visibile), fluoroforo (a fluorescenza) o gruppi elettrochimicamente attivi (elettrochimico). In GC avevamo affrontato l’argomento quando avevamo detto che il composto non evapora o si decompone nell’iniettore. Avevamo visto le possibilità per renderli più volatili. Dobbiamo trasformare un composto per renderlo rivelabile: si parla di reazione di derivatizzazione pre o post colonna. Nel pre colonna noi mettiamo il nostro campione a contatto con un reattivo derivatizzante, lo facciamo in una provetta per un certo tempo e temperatura. Va tutto standardizzato, cioè scegliere tempo e temperature corrette. Tutto questo si fa prima di iniettare. Qual è il problema? Reazioni troppo lente e molto spesso ci portiamo dietro il derivatizzante e molte volte ci tocca purificare per eliminarlo e non avere problemi nel cromatogramma. Il post colonna introduce i reagenti nel post colonna. Ho il classico schema HPLC dove in uscita dalla colonna faccio uscire un reattivo che incontra i miei composti eluiti, avviene la reazione istantanea, arriva al rivelatore e io lo vedo. Questo solo se c’è il mio reagente istantaneo perché così non devo aspettare nulla. Quando io derivatizzo pre colonna io inietto già il mio composto derivatizzato e in colonna avrò dei composti diversi dai nativi e avrò tempo di ritenzione diversi. Questo è un esempio post-column. Gli acidi carbossilici non hanno un grosso assorbimento in UV, è molto basso e io li devo rendere rilevabili. Viene aggiunto il bromuro di fenacile che ha molti legami coniugati e nel momento in cui si lega si libera HBr e il mio composto diventa quello con quella formula. Io rivelerò questo e non l’acido carbossilico di partenza. Il post column non altera la separazione cromatografica ed i miei tempi di retenzioni sono uguali a quelli nativi. C’è anche una situazione intermedia detta pre colonna online. Questo è un sistema a bassa pressione, poi iniettore a 6 vie ed tra colonna e pre colonna c’è un’altra valvola a 6 vie che è la zona deputata alla derivatizzazione prima della colonna stessa. Come funziona? Ci sono diverse vie diverse (devi seguire le linee e vedi che per una i miei composti non passano nella colonna e per quella sotto vengono introdotti i reattivi derivatizzanti). Io introduco i miei reattivi derivatizzanti che vanno nella cartuccia, poi dall’iniettore ho introdotto i miei soluti che vanno nella colonna e la FM che va diretta nella pre colonna. Dopo che c’è stato il contatto, cambio la valvola e faccio in modo che la pompa mandi i solventi nella colonna, poi pre colonna e colonna analitica. Diciamo che con questo sistema faccio avvenire online ciò che normalmente faccio avvenire fuori (è un po’ strano, vedi in caso su internet). Questo è un esempio di derivatizzazione necessaria a mettere in evidenza gli alcol nei vini. Questi sono acidi organici che non assorbono e di conseguenza nel momento in cui metto il gruppo cromoforo posso visualizzarli con un rivelatore. Qui ci sono altri esempi, non ci dobbiamo ricordare le reazioni. Poi c’è una serie di applicazioni a titolo di esempio. Analisi proteine in HPLC Le proteine non si possono analizzare in GC perché non sono volatili. In questa prima slide ci sono un po’ di tecniche utili. Scambio ionico perché le proteine hanno gruppi carichi. HIC che ricorda molto la fase inversa. Cromatografia di affinità. Saltate tutte queste. La SEC che le divide in base alle loro dimensioni. L’elettroforesi consente di separare molecole cariche. RP che è quella in cui abbiamo più insistito perché copre il 90% delle applicazioni in LC. FFF. Cominciamo con il vedere come si fa la cromatografia di proteine in fase inversa perché dovete aggiungere degli additivi in fase mobile. Allora vi ho tirato fuori slides già viste per ricordarvi alcuni concetti. Abbiamo detto che con la cromatografia a coppia ionica qualora la mia molecola sia carica negativamente posso trovare un accoppiatore, far tornare la molecola neutra e farla interagire con una FF, tipo C18, apolare. Come si sfrutta la cromatografia? La fase inversa ci permette di analizzare molecole apolari e mediamente polari. Le proteine non si analizzano in C18 perché la loro porzione idrofobica è molto grande e si creano interazioni troppo forti. Si ricorre a una C4, C2. I peptidi possono essere analizzati agevolmente in C18 e C8. FF da 5-10 micron. Le FF in RF richiedono fase mobile polare e la porosità delle nostre FF sarà intorno ai 300 Ag. Cosa succede? La mia proteina può avere una carica netta perché se sto tipo in ambiente acido avrò i miei gruppi amminici carichi. Allora è necessario aggiungere un contrione alla FM per formare la coppia neutra che poi interagisce alla fase mobile. Allora si lavora in RP-IPC. Per le proteine ci si orienta molto spesso verso l’acido trifluoroacetico (CF3COOH) che è più forte dell’acetico normale. Abbassa il pH fino ad arrivare a 2 e lo aggiungete circa dell’1%. Se fate colonne in silice non potete scendere sotto al 2. Se uso questo acido in FM, ho la proteina con gruppi amminici protonati e il controione sarà il triofluoroacetato (CF3COO-) che forma la coppia con la proteina. La coppia interagisce con la C4 o C2. La coppia dovrà poi essere eluita e questo lo si fa tramite i classici schemi della fase inversa: acqua-metanolo, acqua acetonitrile. Aumento la % del solvente forte per eluire. Si è visto che il meccanismo più efficace è quello di lavorare in gradiente appunto. Il metanolo rispetto ad acetonitrile o etanolo è meno forte. Se vogliamo avere un’eluizione più efficace useremo acetonitrile e aumenteremo la sua % nella miscela. Oltre al trifluoroacetato possiamo usare altri controioni come HFBA. Il principio dell’analisi di proteine in RP è quello di creare la coppia ionica con queste proteine, lavorando a pH acidi con controioni che conferiscono un pH acido. È il controione dell’acido che crea una coppia neutra con la proteina che poi interagirà con la FF. Nell’esclusione dimensionale la differenza sta nelle diverse conformazioni delle molecole (raggomitolate o distese). È proprio la conformazione che le fa trattenere diversamente su FF con diverse porosità. Questa è una tipica separazione a molecole più grandi fino a più piccole. La HIC è molto simile alla RP. Avete una matrice, magari di tipo polisaccaridico, con attaccati delle porzioni un po’ polari. La RP ha proprio un’interazione apolare, mentre questa ha una porzione meno idrofobica. La proteina interagirà sempre con la porzione idrofobica e verrà quindi trattenuta. Mentre la RP richiede un solvente magari organico, nella HIC si usa una FM acquosa e l’eluizione si fa con sali o variando pH o temperatura. È una tecnica più soft. La RP è più adatta a proteine di piccole taglie, la HIC a proteine ad alto pm o polipeptidi. La cromatografia di affinità sfrutta legami specifici e avremo sempre su una matrice (silice, polistirene, polisaccaridica ecc…) degli spaziatori e un sito responsabile al legame ad un particolare proteina. È una tecnica estremamente selettiva perché solo alcune proteine saranno capaci di legarsi alla FF. Prima si lega, poi si indebolisce tale legame (vario pH o concentrazione sale) ed eluisco le proteine. Questa tecnica viene usata in colonne per purificazione. Tecnica estremamente selettiva. La slalom cromatography viene usata per separare pezzi di DNA e in questo caso l’eluizione le più grandi sono le ultime ad uscire. La nuova tendenza è quella di fare analisi in minor tempo perché faccio più campioni e guadagno (meno solventi e meno usura degli strumenti). Come si fa ad essere veloci senza perdere in risoluzione? Mediamente il diametro delle particelle impaccanti è di 5 micron, adesso si tende a costruire colonne con particelle da 3 o 1,8 micron. Impaccamento più compatto e riduzione percorsi multipli. Avevamo già detto che H è proporzionale al diametro delle particelle: se io lo riduco, diminuisce H e N aumenta. Questo è l’andamento di H in base alla grandezza delle particelle. Noi ci vogliamo mettere al minimo di altezza per avere la massima efficienza e scegliamo quel flusso di lavoro. Con 1,8 abbiamo una drastica diminuzione di H e il ramo a destra parallelo a X che mi permette di scegliere velocità di flusso più elevate (analisi elevate) senza perdere in efficienza. Adesso si parla proprio di Fast LC. Ci sono pro e contro nel diminuire la dimensione delle particelle: ricordatevi che la pressione di lavoro è proporzionale alla velocità di flusso ed aumenta anche al diminuire della dimensione delle particelle. Ecco che nel dire di lavorare a colonne più piccole, dipende che strumento ho. Cosa si fa? Si corrono colonne con particelle impaccanti più piccole, ma si riduce la lunghezza delle colonne per compensare proprio il diametro più piccolo. Cosa succede se accorcio le colonne? N è uguale a L/H, H è proporzionale a dp. Se accorcio diminuisco N che entra nell’equazione della risoluzione. È vero che miglioro la mia analisi quando diminuisco il diametro delle particelle, ma sono costretto ad accorciare la mia colonna e questo vantaggio molte volte non è così vantaggiosa. Senz’altro con colonne più corte ho analisi più brevi. Bisogna vedere se vale la pena comprare queste colonne che costano anche un po’ di più. Ecco che le nostre separazioni possono svolgersi in pochi minuti grazie al fatto di avere particelle più piccole. Questa è una colonna C18, fase inversa, con diametro di pochi micron. Anche a sinistra avete la separazione in manco un minuto con 50mm di lunghezza e 1,8micron di diametro. Colonne corte e tempi d’uscita brevi. Sempre nell’ambito d’innovazione della FF, ecco che cosa si sono inventate le ditte. I gruppi ossidrilici esterni, i silanolici, vengono funzionalizzati con catene più lunghe responsabili dell’interazioni in fase inversa perché molto polare. Non tutti gli OH si funzionalizzano e per ridurre il numero di gruppi silanolici residui senza fare l’end capping usano direttamente dei gruppi a monte più ingombranti. Questo CH3 viene sostituito con gruppo più ingombrante. Esistono particelle ibride che, oltre alla classica C18, hanno gruppi residui OH alternati a degli atomi di silicio legati a OH al posto del metile. A monte si preparano delle FF su basi silice che oltre alla presenza di gruppi silanolici superficiali ci sono in sostituzione dei gruppi metilici che disattivano ancora di più le fasi. Al posto di avere la silice con diverse catene, si può usare un polimero che resiste a un pH più estremo ma è più morbido e una minor rigidità meccanica. Esistono le particelle ibride che alternano strati di silice e strati di polimeri entrambi funzionalizzati con catene C18. Queste particelle ibride, dette twin, hanno dei vantaggi e svantaggi. Una colonna molto usata è la Gemini che è su base silice ma resiste a un pH estremo. Al posto di avere i ponti silossanici (Si-O-Si), abbiamo dei ponti etilenici (Si-CH2CH2-Si) che resiste in ambienti basici. Considerate che esistono tante C18 diverse e dovete stare attenti alle varie variazioni del tema. Fino ad adesso abbiamo parlato di molecole singole e discrete impaccanti che creano la loro resistenza allo scorrimento della FM. Le colonne monolitiche sono tipo delle bacchette continue di silice, non c’è più la singola particella di silice. È tutto fuso in un’unica bacchetta dove questa bacchetta ha sempre una struttura a pori, detta macroporosa. La struttura continua di silice è caratterizzata da mesopori, pori più piccoli. Il mio analita che scorre entra in entrambi i pori. Questi monoliti possono anche essere a base di polimeri (polistirene-di vinilbenzene). essere analizzati nello stesso modo, conservati adeguatamente e in provette scure. Di questo standard dovete preparare soluzioni a concentrazioni crescenti. Intanto si misura l’area del picco e lo si fa direttamente con il software. Tenete conto che spesso intervenite nell’integrazione: se il picco si presenta poco separato da un altro, come intervenite? Potete tracciare la verticale della valle calcolando l’area del picco da una base all’altra. Noi possiamo imporre la base del picco disegnandola al software. Vedremo che per fare la quantitativa si possono usare quattro metodi diversi. In alcuni casi la via è obbligata a seconda della strumentazione messa a disposizione. Allora, intanto che cosa farete? Costruiremo delle rette di calibrazione e riporteremo in grafico all’aumentare della concentrazione standard l’area del picco. Quale di queste due sostanze risponde di più? Quale dà un segnale più alto? A parità di quantità iniettata, B risponde meglio. Ogni sostanza ha un suo fattore di risposta che è calcolato come area diviso quantità iniettata. Quando uno non sa nulla sulla concentrazione si può fare una stima prima di costruire la retta di calibrazione. Io ho un campione reale con una serie di picchi: uno molto presto, tempo morto, poi ho picco A, B e C. Siamo interessati a conoscere la concentrazione di A e B che so chi sono. Mi preparo una soluzione standard per entrambi e la inietto. Il cromatogramma si presenterà allo stesso modo, tranne per gli altri composti che non ho più. Vado a misurare l’area di A e B. Faccio una proporzione delle aree, cioè l’area di A nel campione sta all’area di A nello standard come la quantità di A nel campione A sta alla quantità nello standard. Già ad occhio si vede che la A sarà più piccolo, infatti, ottengo 10,5 microgrammi. Questa è una stima e mi dà una mano a scegliere le concentrazioni degli standard per fare la retta. Metodo standard esterno: io preparo una soluzione di standard a concentrazioni crescenti note, le inietto una alla volta e avrò concentrazioni abbinate a delle aree di picco. Costruisco un grafico area in funzione della concentrazione. Fatto questo, applico una regressione lineare e avrò la retta. Ora inietto il mio campione reale che avrà un picco allo stesso tempo ritenzione. Prendo l’area del picco, la metto in retta e ottengo la concentrazione di quel analita nel campione reale. La retta si ottiene con il metodo dei minimi quadrati, se abbiamo fatto male queste misure le aree non vengono allineate. Poi abbiamo un parametro r^2 che è il coefficiente di determinazione: più è prossimo all’unità e più avete ottenuto i punti allineati. Quando abbiamo parlato del GC uno degli iniettori più usati è lo split-splitless. Allora è sconsigliato usare un metodo dello standard esterno perché qui dovete essere molto bravi ad iniettare. In GC, oltre alla riproducibilità, accade che lo splittaggio non è proprio riproducibile e tra un’iniezione e l’altra un po’ va in colonna poi una la volta dopo un altro po’ di più e questo ci dà delle aree corrispondenti a concentrazioni non corrette (magari diciamo che abbiamo iniettato 1 microlitro, ma in realtà ne abbiamo iniettati 0,9). Io vi ho fatto il caso più semplice, in realtà, sareste più accurati nel fare una retta in una matrice: se volete determinare la caffeina in un’urina, sarebbe meglio preparare gli standard con caffeina in urina e non in acqua perché nel primo caso ho delle interazioni che potrebbero andare a sommarsi nel mio picco. Creo la stessa situazione del mio campione reale: uso una matrice bianca, cioè senza l’analita che devo analizzare perché devo mettere io lo standard. Metodo della normalizzazione: questo è più semplice, anche se non determiniamo una vera e propria concentrazione, ma una percentuale. Perché? Voi ottenete un cromatogramma del campione reale che sarà ricco di picchi e voi calcolate le aree di tutti i picchi. Dopodiché cominciate dal primo picco, ci calcoliamo l’area e la dividiamo per la somma di tutte le aree di tutti i picchi e la moltiplico per 100%. Quindi, so la percentuale di quel componente nel campione reale. Qui il volume reale non è così critico perché il rapporto delle aree si mantiene costante perché avrò errore su tutte le misure. Il limite del metodo è rappresentato dalla risposta che un componente dà in un certo sistema cromatografico. A cosa serve il fattore di risposta? Per ogni componente la concentrazione dipende dall’area misurata per il fattore di risposta; allora, preparo delle soluzioni a concentrazioni nota ed uguale. ABC sono i componenti che devo dosare, preparo tre soluzioni tali per cui CA=CB=CC. Mi misuro i fattori di risposta per tutti i componenti e per essere più rigorosi moltiplico la percentuale moltiplicata per il fattore di risposta. Metodo dello standard interno: è simile allo standard esterno, noi conosciamo sempre il componente di cui vogliamo sapere la concentrazione e preparate soluzione a concentrazioni crescente del componente. In più, però, vi andate a individuare un composto con comportamento simile al composto da determinare, ma che non sia presente nel campione reale, con tempo di ritenzione simile ma non uguale. Inizialmente questo IS non presente, lo individuate sapendo che deve avere comportamento simile ad X ed eluito in una zona libera da picchi e lo analizzate nelle stesse condizioni. Preparate cinque soluzioni a concentrazioni crescenti, aggiungete uno standard interno che non è inizialmente presente perché è estraneo, lo aggiungente a tutte le soluzioni standard e questo dovrà essere alla stessa concentrazione in tutte. Mentre C1 cresce, IS rimane costante. Poi aggiungete IS anche al campione reale in cui è presente X da determinare ed eventualmente anche al bianco (tutto ciò che è matrice senza il campione da determinare). Vedete che l’area delle C1, C2 e C3 aumenta, mentre IS rimane sempre costante. Cosa mi valuta questa volta? Mi grafico il rapporto tra l’area di 1, 2 e 3 e l’area di IS in funzione della concentrazione del composto. Per valutare poi la concentrazione nel campione reale, mi calcolo l’area del picco nel cromatogramma del campione, divido l’area per l’area di IS e calcolo x nella formula y= mx + q. Dove y è il rapporto tra le aree e x la mia incognita da calcolare. Qui il mio volume non è critico perché avrò errori sia in IS che negli standard interni. Questo metodo viene usato in GC. In LC si inietta con loop pieno e parziale: nel primo caso non ho problemi perché mi va tutto in colonna, nel secondo, invece, dobbiamo essere noi molto bravi in iniettare. Se notate che la concentrazione sta fuori dalla retta possiamo o estendere la retta preparando altri standard, oppure diluite il nostro campione in modo tale da farlo rientrare nella retta (in questo poi dovremmo moltiplicare la concentrazione per quanto abbiamo diluito). Metodo delle aggiunte standard: è utile quando si vuole misurare tutte le interferenze presenti in matrice. In questo caso avete il vostro campione reale, non preparate soluzioni standard ma dividete il campione in più aliquote. Una la lasciate così com’è, nelle altre, invece, fate aggiunte standard o multiple: aggiungiamo volumi crescenti di una soluzione standard, cioè una soluzione contenente l’analita di cui vogliamo determinare la concentrazione. Nel primo pallone ho solo la caffeina naturale presente, negli altri ho aggiunto 1, 2, 3 e 4 microgrammi di caffeina. Cosa grafico? Comincio a iniettare le varie aliquote che mi daranno picchi con aree maggiore. Mi grafico l’area del primo pallone, l’area della seconda aliquota e così via in funzione delle concentrazioni aggiunte. Perché questo metodo può essere risolutivo? Quando non riesco a ricreare una matrice bianca e facendo le aggiunte ho le interferenze in tutte i palloncini e questa sarà una vera retta in matrice fatta sul campione d’interesse. Qual è il limite? Dovrò fare una retta per ogni campione. Grande lavoro. Nel metodo precedente noi interpoliamo l’area della retta, qui la estrapoliamo a 0 e ciò è più affetto da errore. Elettroforesi capillare: Le tecniche elettroforetiche sono tecniche separative con principi diversi. Qui migrano soluti carichi, non carichi o che possono essere resi carichi. Migrano in funzione della loro dimensione e della loro carica. La separazione non avviene nella lastra, ma dentro un sottile capillare. Non si ha una ripartizione di analiti, ma una migrazione. Nell’ibrida ci sono entrambi. La classica è fatta su lastra 5x20 fatte da poliacrillamide o agarosio. Il limite maggiore è lo sviluppo di calore che può portare ad un allargamento delle bande e una difficoltà di valutazione. Questo limite si è superato con la capillare che presenta diverse varianti. GCE (abbiamo il gel nel capillare), la più usata è la CZE, CIEF (migrano anche in funzione del pH), CITP, ECC (l’ibrido) e MECC (elettroforesi capillare condotta con tensioattivi ad una concentrazione micellare critica. Iniziamo con la CZE che è un po’ quella di base. Abbiamo bisogno di una riserva di tampone, un capillare che deve pescare alle due estremità dei due tamponi. Alle estremità applichiamo una differenza di potenziale. Il capillare ha un diametro dell’ordine di micron 25-100 micron, con lunghezze di 30-100 cm. La differenza di potenziale arriva fino a 30 kV. Le estremità avranno quindi carica negativa. Lungo il capillare si generano delle finestre di rivelazione, il rivelatore non è all’uscita del capillare, ma si fa in modo che lungo il capillare ci sia la possibilità online di avere un rivelatore creano queste finestre. Gli analiti devono essere introdotti nella parte opposta: se il rivelatore sta al catodo, noi dobbiamo farli partire dall’anodo. Le concentrazioni introdotte sono da 1-30nanolitri. Le specie a carica positiva vanno verso il catodo, le negative rimangono lì e le neutre non dovrebbero proprio viaggiare. Rispetto alla classica sul gel, questa è più rapida e con picchi molto alti e stretti. Discretamente sensibile. Qui si vede il discorso di mettere il rivelatore all’anodo se i campioni entrano dal catodo. Questi sono i nostri capillari con sezione fortemente ingrandita. Il diametro interno è tra i 25-75 micron. Il capillare è di silice ricoperto di poliammide, stesso materiale della GC. È molto sensibile, ma non trasparente all’UV. È necessario eliminare una sezione esterna di capillare per renderlo trasparente e rivelare i composti. Il fatto di lavorare con i capillari ha anche un altro vantaggio. Con lastra si scalda molto l’ambiente con la differenza di potenziale. Il capillare è sottile, se anche si scalda, il fatto che le pareti siano sottili fa sì che il calore venga dissipato molto velocemente verso l’esterno. Quali sono i principi fondamentali? I nostri soluti sono carichi e caratterizzati da un loro raggio. Si muovono con una velocità data dal campo elettrico applicato per la mobilità elettroforetica. Mentre migrano gli ioni incontrano una resistenza dovuta alla presenza di tanti altri ioni ed elettroliti che creano resistenza. Esiste una forza di attrito frizionale che si oppone al movimento. Quando si raggiunge lo stato stazionario tra forza frizionale (proporzionale al raggio, velocità e viscosità) ed elettrica, succede che le due forze saranno uguali e riesco a ricavare la velocità dello ione. La sostituisco nell’equazione 1) e mi ricavo la mobilità elettroforetica che dipenderà dalla carica dello ione ed è inversamente proporzionale alla viscosità. Questo finché le cariche sono di segno opposto. Si può sovrapporre alla mobilità elettroforetica il flusso elettrosmotico che può aiutare gli ioni a muoversi o rallentarli. Considerate che la parete del tubo è silice con sempre i gruppi OH rivolti verso l’interno del capillare che a pH elevato possono essere presenti da Si O-. Tutte cariche negative rivolte verso l’interno. Qui dentro al capillare c’è un tampone caratterizzato da anioni e cationi e proprio per le cariche negative dei silanoi le positive andranno a bilanciare la carica negativa del capillare, creano un doppio strato elettrico caratterizzato da un potenziale Z. Tutti questi + del campione migreranno verso il catodo e tenderanno a trasportare anche gli anioni (che generalmente andrebbero verso il anodo) e le molecole neutre. Quindi, in presenza di flusso Il nostro tampone si trova alla fine e inizio del capillare, ma nel tempo riempie il capillare e si esaurisce. È importante che il livello sia uguale perché poi si ha un effetto di dislivello. Anche per questa tecnica si parla di risoluzione. Quanto un picco è separato da un altro in cromatografia? La risoluzione è buona quando la differenza tra i tempi di ritenzione, il delta t, diviso la media delle basi è uguale circa a 1,5. Abbiamo fatto i tre casi: r<1, risoluzione scarsa per delta t vicini o basi larghe, r=1, i due picchi sono quasi separati ma c’è una minima sovrapposizione alla base, r=1,5, ottima separazione. Qua ci calcoliamo i tempi di migrazione. Poi si può anche esprimere con una formula che tiene conto dei piatti teorici e mobilità media. Cosa si fa in una separazione cromatografica? Una volta trovato il tempone ideale, si applica una differenza di potenziale. Generalmente si fanno più prove con il potenziale (pure per il tampone eh) per vedere come migrano i soluti. Ottenuto un elettroferogramma ideale, noi lo ripetiamo più volte. Questa è la riproducibilità della mobilità run to run: in una prima corsa in certe condizione ottengo un tempo di migrazione, la ripeto un po’ più volte perché il capillare non sempre riesce a mettersi subito nelle giuste condizioni perché si osserva quella che è la isteresi, cioè la difficoltà del sistema di reagire a variazioni imposte. Il sistema impiega un po’ a stabilizzarsi alle nuove condizioni, cioè al passaggio tra le varie prove di potenziale. Al massimo si accetta un 0,5% di deviazione standard percentuale. Ci sono altri fenomeni che possono portare ad una scarsa riproducibilità: cambiamento di temperatura (i capillari devono stare a una temperatura costante sennò cambia la viscosità), l’adsorbimento dell’analita sulle pareti del capillare non ben disattivato (ritardo della corsa dell’analita), cambiamento del tampone e variazione del voltaggio. Strumentazione HPLC: Come si realizzano questa separazioni? Allora, è necessario scegliere il capillare (silice nuda, disattivata) si tratta quasi sempre di silice ricoperta in cui viene creata una finestra se vogliamo lavorare con un rivelatore UV online. Questo capillare viene posizionato nella cassetta del capillare presente in una parte termostata. Le due estremità vengono a posizionarsi in due fialette in cui c’è il buffer, il BGE. Alle estremità viene applicare la differenza di potenziale. Per iniettare il campione, quello che si fa è spostare un’estremità in una fialetta in cui è presente il campione, prelievo e da lì inizia la migrazione. C’è una fase iniziale in cui si deve lavare il capillare con soluzioni acide o basiche (HCl o NaOH) e poi si fa passare più volte il buffer di separazione. Un modo per far passare il campione è per pressione idrodinamica, cioè si applica una pressione esterna che farà risalire il liquido del campione nel capillare. È complicato dire quanto si sta iniettando, per questo si va con le pressioni. Un altro modo per far entrare il campione è applicare il vuoto nell’altra estremità, vuol dire fare un risucchio di campione che poi passerà nel capillare. Oppure terza possibilità è usare l’effetto sifone, cioè pongo in dislivello la provettina del campione, cioè più in alto rispetto all’estremità del tampone e per effetto sifone il campione entrerà nel capillare. Tamponi usati: - Tampone borato - Tampone fosfato - EDTA All’estremità opposta ci sono i rivelatori e molto usati sono gli UV. Ci deve essere un pezzettino di capillare che non ha la poliammide (ciò che ricopre la silice). Come si fanno? Con un accendino bruciate la poliammide e così create una parte trasparente. Immaginate di avere il capillare con i due poli carichi. Siamo interessati alla rivelazione dei cationi, quindi, dobbiamo mettere il rivelatore verso il polo negativo. Inietto il campione, applico il potenziale e vedo che le specie migrano e se c’è il FEO arrivano tutte le molecole cariche e neutre. È necessario che ci sia la sorgente che emette la radiazione. Questo è sempre come se fosse una cella a flusso: scorre tutto, se gli analiti sono in grado di assorbire UV io potrò poi rivelarle, oppure ci sono escamotage. Il mio spettrofotometro potrà essere a lunghezza variabile o a serie di diodi. Stiamo usando un UV e la sostanza deve assorbire. Si può avere un tampone di supporto che assorbe molto in partenza e così copre in partenza. Avete un grande segnale del BGE e l’analita quando arriva in cella farà decrescere l’assorbanza del BGE e vedete gli analiti come picchi negativi. Così si possono visualizzare analiti che assorbono poco ma che migrano. Oppure si usa un legante da addizionare al tampone che si complessa con gli analiti, crea un nuovo composto che potrà essere rivelato all’UV. Esistono anche dei rivelatori fluorescenti che sono anche loro online, come lo spettrofotometrico. Si deve sempre creare la finestra perché la fluorescenza prevede una sorgente che emette e un analita che viene eccitato e riemettere a una lunghezza d’onda superiore. L’emissione viene vista a 90° come nel HPLC e questo rivelatore è estremamente selettivo perché i composti fluorescenti sono di meno. Come in HPLC possiamo ricorrere alle derivatizzazioni, cioè trasformare i composti a monte dell’analisi. Nulla vieta che se sono più ricco posso accoppiare la spettrometria di massa. Qui ci sono un po’ di rivelatori usati. Il conducibilità sta fuori dalla colonna come lo spettrometria di massa. Abbiamo vari moduli: in alto c’è il capillare con quella sorta di cassetta porta capillare e il rivelatore. Poi c’è un carosello che ruota e che porta i campioni. Qui non c’è l’iniettore manuale, ovviamente. Poi c’è il sistema di rifornimento dei tamponi con le bottiglie dei tamponi. C’è la possibilità di applicare pressioni per spingere il campione quando vogliamo iniettare. Qua dentro c’è la cassetta del capillare le cui le estremità finiscono nel tampone. Questa è la zona di porta campioni, il carosello, dove viene portato in posizioni di iniezione. Non fate la rotazione manuale, tutto via software. Questo è il vostro capillare sottile. C’è sempre la legge di Lambert Beer con l’assorbanza che dipende dal coefficiente di estinzione molare, cammino ottico e concentrazione analita. Il cammino ottico è davvero trascurabile perché sarebbe di 0,25 millimetri e per aumentarlo e avere più assorbanza si crea una cella tipo una bolla per aumentare proprio il cammino ottico. Questo tipo di cella è detto bubble cell. C’è anche la possibilità di fare una cella a Z (stessa in HPLC in cui la parte orizzontale è il cammino ottico). Ci sono tante applicazioni della CZE. - Analisi di proteine, peptidi e aminoacidi - Analisi DNA e frammenti di restrizione - Analisi di acidi organici in liquidi biologici - Ecc… Voi sapete che le proteine possono essere separate in base agli aminoacidi. Io dovrò avere la proteina non al punto isoelettrico, sennò non migra. Ci consente di avere l’impronta nucleica. Guardate questa situazione a sinistra con tre elettroferogrammi. Qui lo scopo è vedere cosa succede nella migrazione dell’eritropoietina. Primo tampone usate è l’acido acetico acetato di sodio, ottengo un picco, secondo tampone e ottengo un’altra situazione con dei picchi non ben risolti e un altro tampone con un profilo. La situazione due è la migliore perché riesco a vedere quattro glicoforme. L’elettroforesi può anche essere uno step finale di un esperimento: rianalizzo una frazione particolare separata in HPLC. Separazione di anfetamina con picchi molto stretti rispetto a HPLC. Questo sempre per il discorso del profilo EO molto più piatto. La zonale sfrutta le diverse mobilità in soluzione di elettroliti. La MEC sfrutta micelle che creano una fase pseudostazionaria in cui gli analiti si ripartiscono. La gel elettroforesi capillare si comporta come quella sulla lastra e sfrutta carica e dimensione. L’isoelettrofocalizzazione sfrutta i diversi punti isoelettrici ed è dedicata specialmente alle proteine. L’isotacoforesi prevede di avere due elettroliti in BGE con mobilità diversa e gli analiti si muoveranno tra questi. L’elettrocromatografia è un misto. Passiamo all’isoelettrofocalizzazione che è una modalità operativa della CZE. Ripartendo da quest’ultima, abbiamo detto che abbiamo il tampone, applichiamo il potenziale e le specie migrano o per mobilità elettroforetica o per FEO. Nella IEF noi avremo due tamponi diversi alle due estremità (uno basico e uno acido) che riempiono il capillare e creeranno un gradiente di pH. Intanto ci dobbiamo mettere in condizioni di eliminare il flusso elettrosmotico. Come si elimina? Usiamo capillari già rivestiti, ricopertura dinamica o pH. Conviene usare le prime due possibilità. Il FEO crea problemi alla focalizzazione. È specifico ad analisi di proteine: esempio, pH basso all’anodo e al catodo tampone basico per avere pH basico. Il capillare si riempie e all’interno avremo una variazione di pH da basso ad alto. La proteina introdotta comincerà a muoversi sotto l’influenza del campo elettrico fino ad arrivare in un punto in cui il pH=pI. Qui la proteina si ferma e io la sto focalizzando. Da questo deriva il nome della tecnica. A questo punto ho fermato le mie proteine e dovrò mobilizzarle per rivelarle. Le due componenti sono il potenziale applicate e il pH. Un modo per mobilizzarle è detto idraulico: applico una pressione a un’estremità del capillare, in particolare dovrò spingerle verso il rivelatore. Oppure vario la composizione del tampone: metto base-base o acido-acido, così da cambiare il pH e riavere la proteina carica. Il rivelatore deve stare nella stessa posizione in cui le proteine migreranno: la proteina va verso l’anodo, allora mette il rivelatore nell’anodo. La matrice di partenza può essere un tessuto di diversa natura. Estraggo le proteine e poi le vedo ad analizzare in elettroforesi. Si usano molto degli inibitori di proteasi necessari ad evitare la degradazione delle proteine d’interesse. Poi sarà necessario eliminare dal campione tutto ciò che carico e che crea interferenza (tipo i sali). L’isotacoforesi è sempre una modalità della CZE. Anche qui niente FEO. È un’analisi dedicata a solo cationi o anioni, si decide a monte cosa determinare. È necessario avere alle estremità due tamponi con mobilità diversa: uno che tende a viaggiare rapidamente e uno più lentamente. Viene introdotto il campione e il tampone a più alta mobilità tende a portarsi verso un polo, quello più lento si dispone in coda e tende a spingere gli analiti. L’elettroferogramma viene evidenziato a scalini perché arrivano a gruppetti. CEC è un ibrido tra cromatografia ed elettroforesi capillare. È una tecnica ibrida perché sfrutta tanti principi cromatografici ed elettroforetici. Lavora in presenza di flusso elettrosmotico. L’isoelettrofocalizzazione non lo vuole, mentre qui ci serve. Dobbiamo fare in modo che ci sia. Quello che regola la separazione è il Kd e la mobilità elettroforetica. I nostri capillari sono sempre i solti: sottili quanto quelli della GC (100 micron) in silice fusa nuda, all’estremità del capillare viene applicata una ddp. Dentro il capillare c’è del materiale impaccante tipico dell’HPLC (C18, C8, C4). Si è orientati verso capillari stratificati sulla parete (tipo GC) o prima si preparavano i capillari in modo tale da prepararli al legame con la FF senza avere il problema della fuoriuscita. Oppure si usano le colonne monolitiche. La FM è come se fosse il nostro tampone che grazie all’EOF scorre nel capillare e fa si che i nostri analiti vengano trasportati e interagiscono con la FF secondo i loro Kd, ma al tempo stesso, camminano nel capillare e migrano con la loro mobilità elettroforetica. Non c’è la pompa, il flusso EOF funge da pompa. Oltre ad acqua e tampone, può essere presente Qui avete un grafico che riporta come varia la densità in funzione di temperatura e pressione. Si fanno dei gradienti di densità per far uscire. Si possono usare colonne per LC (useremo gli iniettori della LC) e GC (split splitless o retention gap che è un pezzo di colonna non ricoperto aggiunto in testa alla colonna che ha lo scopo di funzionare da pre colonna e rifocalizzazione degli analiti). Come si manda la CO2 nel sistema? Usiamo pompe che raggiungono pressione inferiori rispetto a quelle HPLC. Oltre alla bombola, deve essere presente un tubo che mi porta la CO2 in una zona fredda, si imposta la velocità di flusso e pressione di lavoro e poi il fluido andando avanti viene nuovamente riscaldato. Quando si vuole mescolare la CO2 con un altro solvente, si possono fare delle pre-miscele (si mescola prima CO2 e si mette del liquido, succede poi che il liquido supercritico sta nella parte superiore e il MetOH in quella inferiore e molto spesso il prelievo non è omogeneo) oppure si possono usare due linee separate, i due vengono miscelati nel miscelatore e la miscela viene inviata nella colonna. Le colonne possono essere quelle impaccate della LC o capillari delle GC. All’interno delle LC ci sono sempre C18, C8, C4, ciano, propiliche ecc…, se stiamo usando LC abbiamo uno dei rivelatori tipici. Se stiamo usando GC, avremo un rivelatore GC. C’è poi la possibilità di abbinare più colonne lavorando in modalità multidimensionale: posso mandare tutto in una prima colonna separativa e poi un rivelatore, oppure posso fare abbinare più colonne e questo mi dà più informazione. Un po’ in tutte le tecniche si può lavorare in modalità multidimensionale, si abbinano più colonne e rivelatori. Avete una marea di informazioni in più. Stessa cosa si fa in SFC. I rivelatori sono UV, diode array, fluorescenza, (colonne HPLC). Siamo in colonna GC, usiamo il FID o spettrometro di massa. Qui c’è un confronto fatta in classica GC di tipici composti aromatici con una programmata di temperatura. Qui in SFC con una programmata di densità di fluido. FFF: Frazionamento in campo-flusso. È una tecnica separativa molto utile per molecole che hanno elevati pesi molecolari (polimeri o macromolecole) che arrivano al nanometro o micron di dimensioni. È completare alla LC perché non si vede ciò che è volatile. Il colloide è un sistema eterogeneo dove sono presenti particelle solide o liquide disperse in un fluido con dimensioni di 5-200 nm. È una tecnica separativa a singola fase: noi siamo abituate a FF e FM. Qui avete un canale che è una fibra di vetro o metallo vuota alla estremità del quale viene inserito il campione che verrà spinto dalla FM liquida ed i componenti si separeranno perché ortogonalmente al movimento della fase mobile si applicherà una forza. Il rivelatore all’uscita è sempre un HPLC. A seconda delle forze applicate, questa tecnica richiama anche la sedimentazione e centrifugazione. Quando si mette in centrifuga una soluzione c’è la separazione di un surnatante e di un precitato, i diversi analiti sedimentano in funzione del suo coefficiente di sedimentazione. Si parte da un tessuto, si sospende in un liquido, si comincia a centrifugare questa sospensione ad una velocità contenuta, quelli di d maggiori o che si aggregano tendono a precipitare di già verso il basso, nella parte superiore c’è tutto il resto. Lo travasate in provetta e già avete eliminato qualcosa. Ricentrifugate il surnatante a una velocità maggiore e avremo pellet con altre molecole. Praticamente fraziono i componenti del tessuto iniziale. La forza centrifuga è una delle forze che si applica al tubo. Abbiamo qui il canale. Il flusso di fase mobile che viaggia in maniera parabolica dove al centro del tubo viaggia più rapidamente, ai lati viaggia più lentamente. Gli analiti vengono messi in alto e si applica questo campo di varia natura e applicare questo campo comporta la separazione lungo il tempo e gli analiti arriveranno a tempi diversi. Si separano un po’ in funzione della loro dimensione e del loro peso molecolare. Le più piccole viaggiano più rapidamente dei più grandi e qui si parla anche di aggregati o macromolecole perché il campo che si applica tende a spingere tutte le molecole verso la parete opposta, poi, però, loro ridiffondono verso il centro in base al loro coefficiente di diffusione. Le più piccole ridiffondono più velocemente. Se si trovano al centro del tubo viaggiano ancora più velocemente. La strumentazione è fatta da una FM (spesso acqua, meno tossica, no gradienti), camera d’iniezione tipo la valvola a 6 vie, canali dove avviene l’introduzione del campione e all’uscita il detector con una raccolta di frazioni. Al di sopra di 1 micron, gli aggregati di maggior dimensioni risentono di meno del campo e vengono spinte di meno. A questo punto ci può essere un’inversione. La quantità di campione è dell’ordine di microlitri e la fase mobile scorre sempre con la velocità della FM (1ml(min). Il grafico si chiama FRATTOGRAMMA. Campo che si applicano: sedimentazione, termico, idraulico ed elettrico. Con la sedimentazione si sfruttano le proprietà dell’ultracentrifugazione, io applico una forza centrifuga ortogonale al mio canale e all’interno gli analiti si separano in base alla dimensione e densità. Campo gravitazionale con molecole che si separano con la forza di gravità. Campo termico, un gradiente di temperatura con la parete opposta che è fredda. SPETTROMETRIA DI MASSA: È una tecnica distruttiva che ci permette di arrivare alla struttura. I frammenti che si formano vengono separati in base al rapporto massa carica. Ci sono tanti sistemi per ionizzare e può arrivare ad analizzare analiti dell’ordine di pico grammo. Queste sono alcune delle applicazioni. Ha scopo qualitativo e quantitativo. Tutti gli spettrometri di massa hanno un sistema di introduzione del nostro campione, una sorgente di ionizzazione (hard, avverrà un’estesa ionizzazione, soft più blanda), analizzatore di massa (separa gli ioni in base al rapporto massa carica) e un rivelatore. Possiamo mettere più analizzatore di massa in serie. Analizzatore e rivelatore stanno sempre sottovuoto, la sorgente di ioni potrebbe non esserlo. Sull’asse delle x c’è il rapporto massa carica e y intensità segnale. Ci sono parecchi picchi che indicano un’alta frammentazione delle molecole. Lo ione più alto è detto picco base dello spettro e può accadere che coincida con il peso molecolare della molecola e viene detto ione molecolare. Ci sono diversi meccanismi di ionizzazione. All’interno della sorgente ci sarà un’espulsione di un elettrone e la formazione del radical catione. In altri ci può essere l’acquisto di un H+ con la formazione di MH+. Oppure la molecola può formare degli addotti con la formazione di MCat+, oppure la molecola può deprotonarsi. La ionizzazione può avvenire in fase gassosa e qui parleremo di ionizzazione elettronica e chimica che è compatibile con la GC. Oppure con una sorgente non sottovuoto che dà una ionizzazione chimica a pressione atmosferica e l’elettrospray (APPI) che interfacciano con HPLC. Oppure c’è un’altra tecnica la MALDI che non è compatibile con nessuna tecnica separativa. Gli analizzatori più usati sono il settore magnetico, B, l’analizzatore magnetico elettrostatico (EB se l’elettrostatico precede il magnetico, BE l’inverso ed EBE). Il quadrupolo che è il più usato. La trappola ionica e il tempo di volo. Le sorgenti cono l’impatto elettronico, ionizzazione chimica (abbinabili con GC), ESI e APCI con LC e MALDI. All’uscita dell’analizzatore c’è un rivelatore che mette in evidenza gli ioni formati indipendentemente dalla natura di ciò che lo precede. Per tutti è un moltiplicatore elettronico: dall’analizzatore arrivano gli ioni separati, vanno ad impattare su un primo elettrodo negativo che emette degli elettroni che verranno attirati grazie alla ddp su un altro elettrodo producendo altri elettroni che verranno attirati su un altro elettrodo e così via. Per questo viene detto moltiplicatore elettronico Il risultato finale è un’amplificazione del segnale. Gli isotopi hanno un numero di massa diverso perché il numero di neutroni supera quello dei protoni. La massa esatta tiene conto della molecola con i suoi atomi e della massa esatta di tutte le specie che compaiono calcolata in basa alla massa dell’isotopo carbonio 12 e si considera la massa monoisopica. La massa nominale si ricava dal peso atomico dell’isotopo del più abbandonate in natura. Il peso atomico tiene conto di tutti gli isotopi. Alcuni spettromeri saranno capaci di darci la massa monoisotopica esatta, cioè lo ione accompagnato da quattro cinque cifre decimali che ci fanno identificare una molecola (alta risoluzione). Altri spettromeri ci daranno la nominale che discrimina senza darci le cifre decimali (bassa risoluzione). Bromo & Cloro ci danno due picchi perché gli isotopi hanno un peso molto diverso e importante. Più si aumenta il numero di Cloro e più aumentano i segnali e il rapporto può essere calcolato tramite il binomio di Newton. L’abbondanza si distribuisce sempre come (a+b)^numero di atomi di cloro presenti. La risoluzione ci permette di avere più cifre dopo la virgola. Non è la risoluzione della cromatografia, ma risoluzione tra due masse. Questa può essere calcolata tramite due metodi. Viene misurata anche come errore sulla massa vera. Ionizzazione per interazione elettronica, EI: A monte c’è il gas cromatografo che separa le sostanze e arrivano alla sorgente. Dentro alla sorgente c’è un filamento riscaldato che produce degli elettroni che vengono accelerati verso un polo positivo che è il nostro anodo e nel loro percorso incontrano le molecole trasportate dal gas carrier. Le nostre molecole sono in stato vapore. La sorgente è sottovuoto perché i nostri elettroni devono incontrare e solo impattare con i nostri analiti eluiti dalla colonna. Questa sorgente può anche essere usata da sola senza GC. Una volta che gli elettroni incontrano i nostri analiti, la molecola ionizza: viene strappato un elettrone e si forma il radical catione e due elettroni. La condizione fondamentale è campione stato vapore e sottovuoto. Applicabilità solo a composti < 800 Da, piccolini. Siccome questa ionizzazione è forte non è detto che tutti si fermi alla formazione dello ione molecolare, ma può continuare a frammentarsi. Il primo step è sempre la formazione di quello ione molecolare, ma dato che ha acquistato molta energia continua a frammentarsi. Gli ioni positivi che si formano non vanno verso il basso perché gli ioni formati vengono accelerati verso una serie di fenditure e lenti che li spingono verso l’analizzatore. Alle piastre vengono applicate ddp sempre più decrescenti. Le scissioni primarie avvengono sullo ione molecolare. Le scissioni secondarie avvengono sui frammenti. Le scissioni semplici quando si rompono legami semplici tra due atomi Le molecole con doppi legami coniugati come gli aromatici danno un picco molecolare molto intenso perché riescono a stabilizzare la carica. Il picco poco intenso si ha con chetoni, alcoli ecc… Tutto è riferito al picco molecolare. Rottura omolitica se i due elettroni di legami si separano. Eterolitiche se gli elettroni vanno da entrambe le parti. Gli arrangiamenti sono un po’ complicati da individuare: ne esistono una 20ina e il più famoso è quello di Mc Lafferty. Tutto entra in un capillare. Le molecole devono essere abbastanza polari o si aggiungono additivi che le rendono più facilmente ionizzabili. Il capillare è la connessione all’uscita della colonna o una pompetta d’infusione. In azzurro c’è la FM o solvente in cui viene sciolto l’analita e quelle sono le molecole che sono ionizzate. Coassialmente al capillare scorre il gas di nebulizzazione che serve per rendere spray tutto ciò che esce dal capillare, sennò il tutto sgocciolerebbe verso il basso. La camera di ionizzazione è a pressione atmosferica. Applichiamo una ddp tra la punta del capillare e il piatto di campionamento che mi manda gli ioni verso l’analizzatore. Succede che la mia camera è come se si comportasse da cella elettrolitica. Con la ddp carico negativamente la piastra che è davanti all’analizzatore ed i miei analiti con gas di nebulizzazione, campo elettrico e additivi fa sì che i miei analiti siano parzialmente ionizzati. Con la ddp ciò che è carico positivamente è attirato verso l’altro lato e il resto rimane lì. L’azione di queste tre forze fa sì che il liquido assuma una forma conica, detto coro di Taylor, che sulla punta comincia ad allungarsi e formare delle gocce che via via si staccano nel capillare. Poi c’è anche il drying gas che serve per scaldare ulteriormente le gocce e far evaporare il solvente e avere gli ioni singoli. Mi ritrovo tante cariche positive vicine perché evapora il solvente e le gocce esplodono cosicché che gli ioni vadano a convogliarsi vicino alla zona dell’analizzatore e vengono attirate sempre con la ddp decrescente, senza scaricarsi sulle piastre. Prima dell’analizzatore c’è anche un altro gas, azoto, il gas di cortina che rimuove ulteriormente il solvente. Con l’elettrospray si abbinano le narrowbore. Cosa si forma in ESI? Lo ione protonato, gli addotti, alcune volte anche lo ione protonato in presenza di molecole di solvente. Si può lavorare in modalità negativa. In sorgente siamo a pressione atmosferica, poi passano in una zona di prevuoto (1 Torr) ottenuto tramite pompe rotative. Poi la zona di focalizzazione. Poi si passa nella zona dell’analizzatore secondario o direttamente analizzatore in cui stiamo in vuoto spinto. Deve lavorare in fase mobile polare, cioè lavora in fase inversa o in HILIC. Arriva a determinare quantità del nanogrammo. Come si presenta uno spettro? Qua si vede un unico ione e per questo inserisco un altro analizzatore. L’elettrospray è molto utile quando si lavora alle proteine e viene usata molto nella proteomica perché la proteina è data da una sequenza aminoacidi caratterizzati dai siti NH2 protonabili. Proprio grazie alla presenza delle cariche sulle proteine, ho la proteina molto carica che mi permette di analizzarla perché l’analizzatore mi vede il rapporto massa/carica e non solo quella della massa (se guardassi solo questa non riuscirei ad analizzare le proteine grandi). La prima formula ci dice che il numero di cariche presenti sullo ione dipende dalla massa che stiamo considerando di quello ione meno H diviso due masse adiacenti. Risaliti a n2, possiamo risalire alla M. Coassialmente a questo capillare avete il GS1, il primo gas di nebulizzazione. Io posso ottimizzarlo per migliorare il segnale. Ortogonalmente abbiamo il secondo gas, il turbo ion spray, che aiuta a desolvatare meglio. Applicate una differenza di potenziale tra punta di capillare e piattino di campionamento. Modifichiamo il voltaggio per migliorare il segnale. Poi possiamo anche modificare il potenziale di orifizio, dove passano gli ioni della sorgente. Prima di arrivare all’analizzatore abbiamo il Q0. Rispetto a una GC-massa dove prendiamo e iniettiamo, qui c’è tutta una roba da fare. Ci sono altre sorgenti dette NanoSpray (ESI) che si usano per colonne HPLC o elettroforesi capillare. Viene miniaturizzata la sorgente, tutto più piccolo. Ricapitolando: ESI va bene per molecolare polari. È una tecnica di ionizzazione a pressione atmosferica ed è soft. Va bene da bassi ad alti pm grazie ad ioni multicarica. Altra sorgente alla ionizzazione chimica è quella che viene chiamata APCI. Intanto possiamo dire che può essere complementare e parzialmente sovrapponibile, ma non forma ioni multicarica. Abbiamo sempre il capillare nel quale arrivano gli eluati della LC. Coassialmente viene mandato questo gas di nebulizzazione per formare uno spray in uscita. A differenza della ESI che lavora solo con solventi polari, possiamo usare solventi apolari e organici. C’è un ago a cui viene applicata una scarica: prima di ionizzare l’analita, si ionizza ciò che è presente nella sorgente, cioè un gas di makeup e la FM/analiti. La scarica ionizza prima il gas che poi ionizza il solvente che per trasferimento di carica ionizza l’analita. Gli ioni formati vengono accelerati verso l’analizzatore. È importante avere il solvente perché è il tramite. In ESI l’ottimale è 200 microlitri al minuto con colonne di 2,1 mm, qui si arriva a 1 millilitro al minuto. Qui si ottimizza la scarica dell’ago generata dalla corrente impressa all’ago. L’APPI è meno famosa e usata. Il 70% lo troviamo in ESI. Qui ionizza una lampada di cripton al gas, poi dal gas al solvente. C’è sempre una mediazione e per questo è soft. Per la GC, ionizzazione chimica ed elettronica. Per LC, ESI- APPI e APCI. La GC-massa è più adatta a composti basso bollenti, la LC massa per i composti non volatili. L’ESI si spinge molto verso composti ad alto pm. Oggi vediamo la MALDI che avviene a pressione atmosferica, ionizzazione per desorbimento ad opera di un laser assistita da una matrice. È una tecnica un po’ più recente, anni 90’, ed è adatta a molecole ad alto pm di natura biologica e molecole organiche non volatili e polari e anche per polimeri inorganici. Richiama un po’ la FAB vista la volta scorsa. Mescoliamo il campione con una matrice in forte eccesso senza nessuna separazione a monte del campione. Aspettiamo che evapori il solvente per formare una soluzione solida che è una miscela uniforme di due solidi cristallini che condividono un reticolo cristallino comune. Un componente è in forte eccesso (il solvente) e l’altro è il soluto che è presente in basse concentrazioni. La nostra matrice è il solvente, il campione è il soluto che si posiziona in maniera ordinata nel reticolo della matrice. Viene fatto partire il raggio laser a quella lunghezza d’onda capace di eccitare la matrice, avviene il desorbimento di matrice e campione e poiché la matrice è eccitata e ionizzata, per trasferimento di carica trasferisce la sua carica all’analita che in fase vapore ionizzerà. L’analita poi verrà campionato dall’analizzatore insieme alla matrice ionizzata. Il laser irradiata questo insieme e vedete che matrice più analita desorbono, la matrice si ionizza per prima, trasferirà la carica all’analita e poi quest’ultimo verrà campionato dall’analizzatore. Si formano gli ioni MH+ o gli ioni addotti. La matrice si trova a 5000x rispetto al campione. Non c’è una tecnica separativa e ci possono essere più componenti nella matrice. Gli ioni vengono accelerati verso un analizzatore. Le matrici da usare contengono molti doppi legami e legami coniugati. La matrice deve essere solubile nella matrice del mio campione: io prima li mescolo entrambi in un solvente, poi grazie al fatto che i solventi sono basso bollenti questi vengono eliminati. Molto volatile, rapidamente deve trasferire la carica. Si mescola la matrice con il mio composto o campione, si fa asciugare la miscela così da rimuovere il solvente, poi si applica la luce laser pulsata che riscalda il campione, desorbe, vaporizza, ionizza e trasferimento all’analizzatore. Il rivelatore è sempre l’elettromoltiplicatore. Lo svantaggio è che non è accoppiabile alla LC, non ci sono librerie, le matrici cambiano la ionizzazione. Le matrici danno sempre un segnale nello spettro di massa, quindi, negli spettri di MALDI non si guarda nulla fino a massa 600. Tanto sono composti a grandi pm. Qui si ricapitola quanto visto. Abbiamo visto tecniche hard di frammentazione e questo è il caso di ionizzazione elettronica abbinabile a GC che avviene la ionizzazione per vaporizzazione ed è adatta a molecole piccole e volatili. La ionizzazione chimica è abbinabile alla GC. Le tecniche soft sono tutte abbinabili alla LC: dato che le ionizzazioni soft frammentano poco abbiamo idee sul peso molecolare. La ionizzazione avviene o per vaporizzazione (CI abbinata alla GC) o per desorbimento (MALDI, ma non abbinata alla LC) o per nebulizzazione (elettrospray abbinabile al HPLC dove i miei composti vengono nebulizzati grazie a un gas). Le soft vanno bene per molecole grandi, termicamente poco stabili. Dopo la sorgente ionica, abbiamo un analizzatore che è un sistema che separa gli ioni su un rapporto massa carica. Gli ioni vengono accelerati verso l’analizzatore che li separa e poi il rivelatore li rivela. Esistono tanti tipi di analizzatori. Bassa o alta risoluzione (massa con bassa o alta accuratezza, numero di cifre dopo la virgola). Posso analizzare tutti i composti? Il range di massa. Sono rapidi? Vengono trasmessi tutti gli ioni al rivelatore o parzialmente? L’accuratezza ci dice quanto la massa che leggo si avvicina al valor vero e si esprime con la massa teorica – la massa vera/massa teorica per un milione. La risoluzione (NON QUELLA CROMATOGRAFICA) ci dice quanto discrimino tra una massa a un’altra. Dati due picchi, massa più alta/delta m. Oppure m/ampiezza del segnale a metà altezza. Ogni rivelatore ha un suo range di massa e il rapporto degli ioni che raggiungono il rivelatore rispetto a quelli generati in sorgente è la trasmissione. Se sto lavorando in SIM, è chiaro che vengono trasmessi pochi ioni. L’analisi massa-massa prevede più analizzatori per avere più informazioni di struttura. Il primo analizzatore è il settore magnetico dove i miei ioni vengono accelerati e convogliati in un tubo con un raggio di curvatura, r, che si trova in un campo magnetico. Variando quest’ultimo posso far passare i miei ioni e farli arrivare al rivelatore. I vari rapporti massa carica saranno proporzionali al campo magnetico e raggio e inversamente proporzionali al potenziale di accelerazione. Il raggio di curvatura è proporzionale alla quantità di moto e inversamente proporzionale al campo magnetico. Variando il campo magnetico facciamo arrivare gli ioni al mio collettore o rivelatore di ioni. Il campo magnetico è abbinato a un campo elettrostatico. Variando B facciamo arrivare gli ioni, i campi elettrostatici applicati a monte o a valle o entrambi consentono di focalizzare meglio gli ioni nel magnete. Abbiamo E-B-E. Questi strumenti si sono rivelati complessi e costosi: essendo strumenti ad alta risoluzione, è necessario calibrarli continuamente con composti a massa nota. Il quadrupolo è un analizzatore a bassa risoluzione, non ci darà mai la massa esatta. Sempre massa nominale. È costituito da quattro barre, due negative e due positive, le opposte sono frontali tra di loro. A monte abbiamo la zona di ionizzazione (sia LC che GC), queste barre sono collegate elettricamente tra di loro. Le barre diametralmente opposte sono in contatto elettrico tra di loro, mentre tra quelle adiacenti è applicato un voltaggio formato da due componenti: una ddp continua e una oscillante che imprime agli ioni un movimento di tipo ondulatorio. Variando questi potenziali noi riusciamo a fare la scansione completa. Alcuni ioni tendono a scaricarsi sulle barre (traiettoria instabile), altri riescono ad uscire dall’analizzatore. Se noi lavoriamo in scan vediamo un certo range di masse e via via tutti gli ioni vengono fatti passare e gli altri vengono fatti scaricare, se siamo in SIM facciamo passare solo gli
Scanned with CamScanner
Scanned with CamScanner
Scanned with CamScanner
f
UL
DI Lui
" hrc Vo
Ì
JI
|
pis rima
. .
|
spl
6 al
Ì |
LI > LIS Î
LAT
ITS ERO] af
go =
> i profil
o DLL
3 | ef
ile
I
hi
II
I
N
fb
R
È
7
E
‘Vaso,
NS
Scanned with CamScanner
Scanned with CamScanner
Scanned with CamScanner