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momenti di storia dell'istruzione in italia Mario Gecchele, Appunti di Storia dell'Educazione

riassunto completo e dettagliato per storia dell'educazione

Tipologia: Appunti

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Scarica momenti di storia dell'istruzione in italia Mario Gecchele e più Appunti in PDF di Storia dell'Educazione solo su Docsity! CAPITOLO I L’AFFERMARSI DELLA SCUOLA STATALE 1. La scoperta dell’importanza dell’istruzione Nella seconda metà del '700 in Italia iniziò a fiorire una politica scolastica a favore del popolo (che si sviluppò lentamente e completamente solo dopo l'Unità d'Italia), che poneva l'attenzione all'organizzazione delle scuole pubbliche, sia a livello di studi e progetti, che di interventi e realizzazioni, facendo divenire l'istruzione pubblica una "funzione statale". Le ragioni di ciò sono da ricercare nel clima politico, culturale ed economico del tempo caratterizzato da: 1. Forte incremento demografico; 2. Intensa espansione economica; che implicavano una diversa redistribuzione del potere politico e un mutamento anche delle basi culturali della società, lasciando spazio all'affermarsi dell'Assolutismo illuminato. Con quest'ultimo, oltre ad accentrare il potere nelle mani del sovrano illuminato, per poter modernizzare la società, si riteneva necessaria una migliore istruzione che riuscisse a far coincidere la felicità del "principe illuminato" con quella dei sudditi creando un'opinione pubblica favorevole a gli indirizzi del governo e sviluppando l'acquisizione di abilità, saperi e competenze in modo da far rientrare tutti all'interno della propria classe sociale, rendendoli utili a sé stessi e alla società. In tal modo nessuno si sentiva isolato ma facente parte di un unico grande "corpo". Il principe illuminato entra in contrasto con il mondo ecclesiastico, fomentatore di superstizioni e ignoranza vengono soppresse in questo periodo congregazioni e ordini (es. Gesuiti). Per raggiungere gli scopi ed effettuare una riforma non si poteva non confrontarsi con la Chiesa. Divenne infatti necessario che il principe ridisegnasse la collocazione della Chiesa, delimitandone le sue funzioni, limitando il numero dei religiosi, le esenzioni e i privilegi. Lo Stato vuole solo disciplinare e controllare un settore sino ad allora lasciato alla buona volontà degli ecclesiastici e all’iniziativa dei privati. Ma per mancanza di fondi e mancanza di personale laico preparato, il clero rimane tuttavia a dirigere e a far scuola, ma alle dipendenze del governo e la religione continuo ad essere fondamento della morale e dell’ordine sociale. La finalità condivisa dell’istruzione scolastica e religiosa era dunque quella di formare “fedeli sudditi e buoni cristiani”. La riforma di fine Settecento può sintetizzarsi in questi punti: - massiccio intervento dello Stato in campo scolastico; - affermazione di scuole distinte de quella del latino (scuole normali, comuni o triviali, insegnate materie necessarie e indispensabili); - nascita di una classe insegnante, con preparazione certificata e corsi; - nascita di nuovi compiti (es. direttori, visitatore scolastico, compilatore libri, stampatore); - nuovi mezzi didattici (es. libri, lavagna, banchi, mobili, penne); - affermazione obbligo istruzione per tutti (maschi, femmine), diverso dall'obbligo scolastico. 1.2. Prima della riforma settecentesca (500) Nel Medioevo l’istruzione e la scolarizzazione in Italia era fornita dalla Chiesa e non è documentata l’esistenza di scuole laiche. Vi erano scuole parrocchiali (vescovili e cenobiali dell’ordine benedettino). Si preferiva far lavorare i figli piuttosto che farli studiare. Nel 1500 l’alfabetizzazione non va identificata con la scolarizzazione, in quanto le scuole non erano una tappa obbligatoria, ma solo una delle strade per la formazione: - le abilità e l’apprendimento di un mestiere si trasmettevano in altri modi; - il saper leggere, scrivere e fare conti non rappresentavano un valore assoluto. In questo periodo troviamo molti collegi (frequentati da maschi e aperti a chi aveva già i primi rudimenti del leggere e dello scrivere). C’è da dire, però, che tra il popolo vigeva la credenza che leggere, scrivere e far di conto non erano necessari, soprattutto in campagna; la scrittura per lungo tempo fu un elemento utile solo ai tecnici. Nel 1500 vi era una VARIEGATA RETE SCOLASTICA composta da: 1) Scuole di dottrina cristiana, fondate da Castellino da Castello, per la formazione cristiana della gioventù nelle quali insegnavano a leggere e a scrivere. Esse alfabetizzavano anche i bambini che non destinati al sacerdozio, creando così benefici morali e sociali sulla popolazione. Alla base vi era il catechismo in quanto vi era la convinzione che il popolo cristiano è obbediente, giusto, costante e fedele alla Patria. Oltre alle scuole di dottrina cristiana si diffusero in pochi anni nuovi ordini religiosi della Riforma cattolica che, sorti inizialmente con finalità pastorali ed assistenziali, modificarono poi profondamente il panorama dell’istruzione, facendo sentire il peso della Chiesa sull’educazione scolastica. Nascono quindi nuove scuole dei diversi ordini religiosi: - GESUITI: fondato da Ignazio di Loyola nel 1540, aprirono una scuola gratuita, la quale ebbe molto successo. Dapprima fondarono luoghi d’istruzione religiosa per giovani che intendevano seguire la vocazione, poi si organizzarono delle lezioni che potevano essere seguite anche da esterni, dando il via ad un’educazione collegiale.  1548: scuola gratuita a Messina, che attiro l’attenzione di molti principi.  1551: collegio a Roma, che divenne poi un modello per i successivi. Abolirono l’insegnamento elementare e quindi venivano accettati solo studenti che sapevano già leggere e scrivere. Divennero collegi riservati ai giovani di nobile condizione (trasmissione di valori aristocratici e di strumenti per la futura direzione della casa e per la partecipazione al governo). Offrivano una cultura liberale, elitaria (= luogo privilegiato per l’istruzione dei ceti medio-alti) e disinteressata (= formazione mediante la lettura degli autori classici e del latino, più che volta alla preparazione ad un preciso lavoro). Il programma (contenuto nella Ratio Studiorum = insieme di regole per la vita scolastica) era: una solida base di grammatica latina Cicerone e Virgilio, la ripetizione, il ripasso continuo, la memorizzazione, la disputa e la competizione. Vi erano: 5 classi (3 di grammatica, 1 di umanità e 1 di retorica) + altre 3 di filosofia e 4 di teologia nei collegi più importanti. I loro edifici erano di dimensioni notevoli, architettonicamente curati, presentavano grandi biblioteche, ambienti per le rappresentazioni teatrali e le arti cavalleresche per allietare le ore dedicate allo studio. - Giuseppe Calasanzio (maestro dei mascalzoni): prima scuola popolare europea. Dal 1597 scuola gratuita in volgare a Roma. che aiutavano nella preparazione professionale degli Capitolo II Una scuola "utile" alle diverse classi sociali 2.1. L'utilità della scuola L'impegno dei principi verso la formazione di cittadini attivi per il benessere dello Stato non aveva per fine diretto l'elevazione ad un'altra classe sociale, quanto ad aumentare e a migliorare la produzione; a questo scopo venivano sollecitate le accademie, soprattutto in campo agricolo. Come l'ignoranza rovina l'uomo, cosi lo studio, almeno di base, è sempre positivo e di vantaggio all'uomo. Non vi è studio che non abbia un qualche vantaggio. 2.2. Istruire il popolo? Si iniziò a capire che ogni sapere ha il suo vantaggio, ma era necessario calcolare esattamente il numero delle diverse professioni, in modo da evitare un numero eccessivo di figure nei vari ambiti. Istruzione limitata alle occupazioni (ciò rispecchiava la mentalità del tempo, illuminismo moderato, che considerava la società divisa in classi ben distinte). Diversi studiosi nel 1772 e 1774, durante dei concorsi, sostennero che l’educazione dei fanciulli del popolo fosse inutile, in quanto a loro erano sufficienti le nozioni basilari di lettura, scrittura e soprattutto di come esercitare il mestiere dell’agricoltore ( lezioni periodiche > parroco o da chi aveva conoscenze riguardanti l’agricoltura). Troviamo però opinioni contrastanti tra favorevoli e contrari all’educazione del popolo: Soresi aveva opinione più morbida, dal suo punto di vista i bambini del popolo sono al pari dei nobili, tuttavia e necessario distinguere tra le scuole per benestanti e quelle per poveri (i primi studiano il latino, i secondi no per non rendere loro la carriera scolastica più lunga e difficile ed evitare l’abbandono scolastico). I poveri istruzione di base in scuole pubbliche e gratuite. Queste posizioni non erano ben viste dai gruppi conservatori e dai Philosophes i quali avevano paura che il popolo, una volta istruito, si ribellasse e lasciasse i lavori umili ma necessari alla società. Bianchi e Carli però sottolineavano che l’istruzione del popolo non voleva togliere le mani dall’aratro, bensì rendere quelle mani più operose e capaci. Gaetano Filangeri elogiava l’istruzione come mezzo grazie al quale tutti troveranno il loro posto nella società nelle 3 fonti di ricchezza: agricoltura, arti e commercio. Per il popolo riteneva necessaria un’educazione pubblica (ma non comune), universale (ma non uniforme). Distinzione tra 2 classi: chi serve la società con le braccia e chi con l’intelletto/talento. Carli: compie un’analogia tra natura e società (concezione organicistica) = un corpo per essere tale deve avere le membra tra loro distinte, ognuna con il proprio compito, per questo e necessaria la disuguaglianza delle classi. La concezione organicistica della società accompagnò la storia della scuola almeno fino al XX secolo (momento in cui in Italia si avvio una democratizzazione della cultura con l’affermarsi della scuola media unica). Lo stesso Pestalozzi distingueva i vari livelli di istruzione necessari alle diverse classi ogni cittadino e felice se autonomo entro il proprio stato. Ciò era sostenuto anche dalla Chiesa, che riteneva l'ordine sociale direttamente istituito da Dio con i ricchi, che esercitassero la carità per salvarsi, e i poveri, che esercitassero la pazienza e la sottomissione per lo stesso fine. I nuovi ideali proposti ai poveri erano dunque: lavoro, risparmio e moderazione. Al contrario, Campanella sosteneva che l’istruzione al popolo avrebbe portato alla formazione di “cittadini migliori”, che avrebbe giovato alla società. 2.3. Un metodo adatto Nello stesso periodo (‘700), cambiarono anche i contenuti dell’insegnamento, soprattutto dopo gli anni ’30 con la diffusione della teoria scientifica newtoniana. Aspre critiche rivolte alle scuole esistenti: - Pilati sosteneva che è contro natura far rimanere i bambini seduti e fermi 5/6 ore di fila, riducendo in loro l’amore per le scienze e le arti - Gozzi dichiarava che troppo tempo speso per una sola materia porta i giovani a porre poco impegno nello studio - Genovesi criticava l’uso di una lingua poco comprensibile (latino) a favore dell’uso dell’italiano. Si ebbe cosi l’introduzione di nuovi contenuti, es. disegno, l’uso dell’italiano, + materie scientifiche, ridimensionamento del latino, apertura verso mondo economico e politico. 2.4. I regolamenti I primi regolamenti generali delle scuole Vi era uno stretto legame tra protestantesimo e scolarizzazione: con Lutero (protestante), ribadiva la necessità di elevare il livello spirituale del popolo tedesco tramite - l’istruzione (intesa comandamento di Dio), - eliminare l’ignoranza (intesa come opera del diavolo), - affermazione del diritto/dovere dello Stato ad istituire scuole (1530), - traduzione della Bibbia in tedesco per maggior comprensione del popolo. Il fronte cattolico non rimase lì a guardare ma si cimentò in una "restaurazione cattolica" volta a ripristinare i sistemi tradizionali dei valori religiosi, morali e sociali, attraverso modalità nuove e antiche, come l'istituzione di nuovi ordini religiosi dediti all'assistenza e all'istruzione. Ferdinando II contrastò le infiltrazioni protestanti e scrisse lo Schulordung nel 1586, il primo regolamento scolastico ufficiale per le scuole del Tirolo. Un regolamento caratterizzato da una serie di pratiche di pietà, punizioni assenti, uso del catechismo, obbligo scolastico per maschi e femmine, riconoscimento pubblico del maestro che doveva sostenere un esame e sviluppare nel miglior modo le qualità del bambino, vita virtuosa del maestro, uso lingua materna, dedicare a tutti nello stesso tempo. Non ebbe i successi sperati, ma viene lo stesso considerata una tappa significativa nell’affermazione di una scuola diversa dal latino e del ruolo dello Stato nel campo scolastico. Fu con la salita al trono nel 1740 di Maria Teresa che si ebbero nuove spinte verso la scolarizzazione. Quando sale al trono nel 1740, la situazione scolastica era molto trascurata. Vi era una ridotta frequenza scolastica, determinata da disagi causati dalla distanza, impraticabilità delle strade, povertà dei genitori, si pensava inoltre che l'istruzione togliesse i ragazzi dal lavoro di contadini. Maria Teresa dava importanza all'alfabetizzazione delle masse contadine, per una più razionale coltivazione dei campi e più efficiente sistema di commercializzazione. La scuola doveva produrre dei buoni cattolici e dei sudditi leali. Maria Teresa rinnovò il regolamento di Ferdinando II, inserendo delle novità: - migliore qualificazione del personale insegnante, - scuola divisa in 3 sezioni distinte (compitare, leggere e scrivere, conteggiare), - uso di registri, - latino con secondaria importanza. Nel 1774 fu pubblicato il primo regolamento scolastico generale per le scuole tedesche, ad opera di Giovanni Ignazio Felbiger (canonico agostiniano). Egli fu incaricato da Federico II di riformare le scuole della Slesia e della contea di Glatz, a tal proposito pubblicò nel 1765 il Regolamento per le scuole cattoliche del ducato di Slesia e della contea di Glatz, che affrontava gli aspetti necessari per l’istituzione delle scuole del popolo: - preparazione per fare scuola - maestri dovevano essere istruiti (svolgevano un tirocinio) - scuola utile (non + contenuti distaccati dalla realtà) - ambienti scolastici appositamente predisposti (+ i maestri avevano la loro stanza per insegnare) - frequenza scolastica resa obbligatoria da 6 a 13 anni (penalità per gli inadempienti, maestro tiene un registro con presenze ed e tenuto a mostrarlo al parroco e all'ispettore) - Scuola alla domenica (nell’800 in Italia sarebbe diventata la scuola per coloro che avevano meno di 20 anni ma non avevano + l’obbligo) Tale regolamento venne poi ripreso e rielaborato nel 1774, su richiesta della regina d’Austria Maria Teresa (riforma Teresio-Giuseppina) che rinnovò tutta l’istruzione pubblica e privata dell’Impero austriaco, del Tirolo, della Lombardia austriaca e di altre parti d’Italia la prima volta in assoluto che uno stato detta le regole per tutte le scuole di un regno. Intenzione del governo fitta rete di scuole di vari livelli + diffusione del metodo normale, per garantire uniformità didattica, efficacia ed efficienza. Francesco Soave ne fece una traduzione ed è per questo che può considerarsi una sorta di magna carta della scuola italiana, in quanto contiene caratteristiche che si presentarono nel lungo corso della storia della scuola italiana (es. istruz come funz dello stato, obbligo scolastico per entrambi i sessi…). L’organo principale di riferimento e la commissione scolastica, che aveva il compito di introdurre e sostenere tali scuole suddivise in 3 specie: - Scuole normali: una per provincia dove presiedeva la commissione, preparavano chi volesse dedicarsi all’agricoltura, allo stato militare e all’insegnamento. - Scuole principali: nelle città maggiori, programma simile a quello delle scuole normali, ma non preparavano i maestri. - Scuole comunali/triviali: nelle piccole città e nei borghi, programma più ristretto. Il regolamento prevedeva: Caratteristiche: - Approvazione del maestro che dovrà effettuare pratica e sarà interrogato dal direttore - Il clero insegna religione; - Presenza di Ispettori; - Metodo di insegnamento: lettura insieme con uso di tabelle e lettere. - Organizzazione scolastica che teneva conto delle differenze tra campagna (bisogno di impiegare i bambini nei lavori campestri) e città. 3. Lavoro simultaneo di tutte le classi (stesso luogo e stesso momento, es. dettato a mezza voce) In Italia: questo metodo venne iniziato da Federico Confalonieri (carbonaro), che ne venne a conoscenza nel 1814 (viaggio in Inghilterra). ma verso il 1820 vennero vietate dal governo, perché ritenute ostili, dove si esaltava l'indipendenza, il patriottismo, la fratellanza universale e vi era poco rispetto della religione cattolica. Il metodo normale Nella seconda metà del 700 si iniziò a diffondere, in tutta Europa, il metodo normale o simultaneo il quale consisteva nell’insegnare contemporaneamente a tutti gli scolari le medesime nozioni, evitando spreco di tempo, migliorando la partecipazione degli scolari e occupandoli nello stesso momento. Il termine normale indicava all’origine la scuola esistente nella capitale della provincia, ma un po’ alla volta con questo termine vennero chiamate le scuole basse di nuova istituzione. Il nuovo metodo disciplinava ogni grado dell’apprendimento, dettando ad ogni maestro ciò che doveva insegnare nella sua classe, precisandone i tempi, le modalità e l'ordine di sviluppo, lasciando quasi nulla alla libera organizzativa. Dal facile e semplice al difficile e complesso. Il metodo normale si diffonde lentamente a causa della poca regolarità nella frequenza scolastica, la disponibilità di libri uguali per tutti e la preparazione dei maestri. FELBIGER, nel 1777, scrive un testo (“Elementi fondamentali del libro di metodo…”) nel quale indica il metodo, o la maniera, con cui un maestro doveva insegnare ai suoi scolari, riassumendo brevemente nell’introduzione il regolamento emanato da Maria Teresa nel 1774. Nel primo capitolo riprende le parti principali della didattica seguita nelle scuole tedesche, ovvero: - Insegnamento in comune: alunni studiano insieme la stessa cosa e il maestro cercava di richiamare l'attenzione di tutti scrivendo alla lavagna o parlando; - Lettura in comune: bambini insieme leggono ad alta voce, o seguono in silenzio e ascoltano il compagno, imparano così in poco tempo e con poca fatica; - Metodo delle lettere: scrivere sulla lavagna l'iniziale di ogni parola o frase che si voglia far imparare ai bambini e poi cancellarle per vedere se hanno memorizzato; - Tavola: è un sommario, un piccolo riassunto, nel quale le varie parti sono presentate in modo da poterle osservare facilmente; - Metodo catechistico: porre domande pertinenti e ben strutturate, brevi, precise, complete, utilizzando parole conosciute e adoperando le particelle chi, cose, di chi, quando, perché. Il maestro può così accertare se i ragazzi abbiano non solo imparato a memoria, ma anche capito e assimilato la lezione. - Correzione dell’errore: si cerca inoltre di ottenere la risposta giusta mediante l'aiuto di altre domande, facendo arrivare lo scolaro da solo alla soluzione, senza fornire immediatamente la risposta esatta. Il secondo capitolo descrive i contenuti dell’insegnamento: - Per la scrittura sono molte e dettagliate le prescrizioni: per introdurre i ragazzi alla scrittura è necessario insegnare le varie regole della giusta posizione del corpo, delle mani e dell'impugnatura della penna, attraverso un graduale e continuo esercizio, seguendo la pagina dell’ABC. A coloro invece che già scrivono abbastanza bene e sanno leggere il maestro insegna l’ortografia, usando come tecnica quella di scrivere per esempio alla lavagna frasi con errori di ortografia, e l’aritmetica; - Vengono fornite conoscenze utili ai maestri su come comportarsi nelle classi di ragazzi più grandi quando essi non hanno libri necessari o ne hanno pochi. L’unione scuola e vita, l’utilità dell’insegnamento per la vita pratica emergono spesso nelle raccomandazioni ai maestri: - Il maestro per ogni cosa che insegna, deve anche insegnare come lo si mette in pratica nella vita comune; - Deve ottenere rispetto, ubbidienza e amore per gli scolari, usare lodi e ricompense, essere dinamico e attento; - Deve esigere molto di più da chi è dotato e deve anche tener conto dei diversi temperamenti; - Non deve accontentarsi solo dell'apprendimento mnemonico, ma accertarsi se lo scolaro capisce veramente ciò che impara; - Deve preparare la lezione e porre l’insegnamento in modo piacevole. L’ultima parte del terzo capitolo fornisce un sistema di punizioni per correggere le mancanze di osservazione dell’ordine scolastico, senza punire errori della mente o della memoria o imperfezioni e malattie del corpo. I laici avevano poco da sperare, poiché i posti da maestro venivano messi all’asta sulla base del salario più basso, appetibile solo da preti, che potevano arrotondare le proprie entrate. 3.2. Fra nomenclatura, lezione oggettiva e museo didattico A partire dalla seconda metà del 1800 in tutta Europa iniziarono a diffondersi i cosiddetti musei didattici, ossia luoghi in cui venivano raccolti oggetti e modelli delle scoperte fatte e dei metodi impiegati in educazione. I maestri erano invitati a mettere assieme un piccolo museo di classe, contenente gli oggetti di uso frequente. Museo di classe = raccolta di oggetti e materiali didattici, per la realizzazione dell'insegnamento sotto forma di nomenclatura (= esercizi pratici con lo scopo di acquisire i vocaboli, costrutti e maniere di dire comuni). In esso vi era tutto ciò che poteva rendere concrete le nozioni allo scolaro. Era considerato importante partire dai sensi per arrivare all'intelletto, stimolando la curiosità e lo spirito di osservazione degli alunni. In esso si raccoglieva tutto ciò che poteva rendere concreto allo scolaro le più diverse nozioni. In questo modo l’insegnamento portava a un aumento della capacità espositiva degli scolari, a sviluppare le idee e la riflessione, aiuta a pensare, aumentando il numero di oggetti pensati. Ha inoltre il vantaggio di insegnare a nominare tutti gli oggetti che ci compaiono dinanzi. È un cammino graduale che dischiude l’apprendimento della lingua. Secondo i programmi del positivismo del 1888, compilati da GABELLI, l'insegnamento proficuo è quello che deriva dall'esperienza, dall'esercizio di osservazione. Ogni uomo deve diventare uno scienziato. Il maestro viene sollecitato a non essere ripetitivo e a utilizzare di una eventuale collezione di oggetti presenti nella scuola. Con i programmi del 1905 di ORESTANO oltre al museo didattico, vengono raccomandate “le lezioni di cose”, fatte di osservazione diretta e descrizione di cose, fatti naturali, nozioni elementari del corpo umano. Sono il mezzo più efficace per bandire dalle scuole l’insegnamento astratto ed a propri, e quei noiosi esercizi che affaticano la mente senza educarla, rivolgendosi esclusivamente alla memoria. Il maestro è sollecitato a utilizzare in modo dinamico e vivo gli oggetti presenti nel museo e sono raccomandate le escursioni, durante le quali si raccoglierà il materiale per il museo. Con il positivismo l’osservazione non deve limitarsi alla semplice vista accompagnata dalla nomenclatura dove il fanciullo non osserva ma diventa un recipiente delle osservazioni altrui, ma si accentua la procedura osservativa-analitica. FALLIMENTO DELLA PEDAGOGIA E CORRENTE POSITIVISTICA: La tendenza del positivismo di spiegare tutto in termini rigorosamente scientifici aveva finito col soffocare le voci diverse o contrarie accusandole di essere antiscientifiche. Tale corrente veniva anche accusata di annullare la libertà dell’uomo. La didattica fu ridotta a un insieme di norme e raccomandazioni da applicare in forme standardizzate e quasi automatiche. Persino il fanciullo era visto come un intreccio di dati secondo una spiegazione meccanicistica e deterministica. La pretesa della lezione oggettiva non giovò a lungo alla scuola, diventando un’arida elencazione di oggetti, esercizi sterili di nomenclatura riproposti continuamente sulla base di guide didattiche e opuscoli. Le scuole erano inoltre sprovviste di collezioni di oggetti adatti alle lezioni sulle cose. Il fallimento della proposta pedagogica positivistica fu dovuto anche alla scarsa preparazione professionale dei maestri ed il museo didattico venne accusato di non offrire al bambino la realtà effettiva, ma veniva mostrata al bambino una realtà falsa senza alcun difetto. 3.3 Verso il Novecento La tendenza positivista a spiegare tutto in termini rigorosamente scientifici aveva determinato una forma di predominio culturale in tutti gli ambiti, andando così ad ostacolare e/o sopprimere altre idee deputandole come antiscientifiche. Con l'affermarsi del '900, lo stesso positivismo andava ad essere surclassato da nuove filosofie come ad esempio: - lo spiritualismo individualistico che intendeva porre in primo piano il pensiero e l'azione dell'uomo. L'uomo riacquista tutta la sua libertà di azione e diventa creatore della scienza stessa. - l’attivismo pedagogico che ripudiava ogni forma di limitazione dello spirito creativo del soggetto. Rosa Agazzi: elencò i difetti dei musei didattici (in particolare il fatto di offrire ai bambini una anti-realtà, eccessiva perfezione). Con la sorella Carolina propone la sostituzione del museo didattico con il “muse non museo” = un museo di cianfrusaglie, vivo, attivo, caratterizzato da “cianfrusaglie senza brevetto”. Ritenevano infatti migliore rendere partecipi i bambini alla costruzione di tale museo, che non doveva essere custodito ma rotto, usato, consumato. Regolamento scolastico del 1908 in ogni scuola la presenza di un museo-non museo (ogni bambino portava un oggetto e a fine anno se richiesto gli veniva restituito). Lombardo Radice condivide l’opinione delle sorelle Agazzi riguardo la lezione oggettiva: riteneva che la lezione dovesse partire da un concetto riguardante l’oggetto (e non dall’oggetto stesso) e una scuola che incentivasse ad osservare, raccontare, ragionare e intervento condurrebbe all’anarchia. La libertà si deve conquistare gradualmente attraverso una indispensabile educazione formale o strumentale in cui il ruolo dell’insegnante è importante. La libertà degli alunni è un punto di arrivo di un lungo percorso, non di partenza. La libertà non va confusa però con lo spontaneismo, poiché un individuo lasciato libero e spontaneo in assoluto è alla mercé di tutti gli influssi ambientali. Fra confessionalismi e totalitarismi I regimi dittatoriali del Novecento si sono avvalsi di tecniche e didattiche “attive” e “nuove”, usate come “dolcificanti artificiali” per raggiungere finalità e valori non certo rispettosi della singolarità del ragazzo, ma volti ad una massificazione uniforme, ad una obbedienza cieca e ad un’“alienazione” di personalità. Anche in Italia nel periodo fascista sono circolati studi e ricerche che presentavano alcune realizzazioni del regime come scuole attive: la scuola doveva diventare una fucina di educazione, e il maestro doveva essere dotato di volontà attraverso la fede fascista. Intorno agli anni Trenta diventa più chiara la divergenza tra scuola attiva e fasciamo, quando il regime adotta il libro unico di Stato e controlla maggiormente gli insegnanti. La scuola attiva è rigettata per la sua mancanza di educazione religiosa nazionale e l’esaltazione dell’autonomia contro il concetto di obbedienza. L’uso spregiudicato e disinvolto fatto dai regimi totalitari, delle tecniche all’interno di valori non rispettosi della persona, hanno suscitato numerose riflessioni fra gli studiosi. Il vero attivismo, secondo le AGAZZI, è quello cristiano, fondato sulla spiritualità. L’attività autonoma dell’uomo non è la spontaneità, ma l’attività diretta ad un fine giustificato, cioè secondo i valori. Il valore dell'esperienza: fra tecniche, metodi e contenuti Un' altro dibattito su cui l'attivismo si è soffermato a lungo è il rapporto tra: - Metodo: l'insieme di principi, regole e procedure che dirigono le operazioni per raggiungere una ricerca, risolvere un problema, raggiungere uno scopo; - Tecnica: in campo educativo-istruttivo rappresentano i mezzi concreti con cui si realizzano le varie attività per raggiungere un fine. 3.5. Un bilancio sull'attivismo C’è chi riduce l’attivismo al metodo globale, a tecniche e metodi isolati dal complesso dell’attività educativa. In realtà è una nuova mentalità, un nuovo orientamento sociale, morale e pedagogico, un nuovo modo di vedere la cultura, l’educazione, la scuola. Il movimento dell’attivismo non è e non può essere un fenomeno neutro. Questo è un metodo destinato a fallire poiché i realizzatori (o i propugnatori) della scuola attiva finiscono con il pensare che la scuola sia il nucleo della dimensione politica, il mezzo per la vera trasformazione sociale. Diventa quindi serva nei confronti della politica. Capitolo IV La riforma scolastica dell'idealismo: Verso la dittatura Alla vigilia della riforma Gentile la scuola italiana attraversava una profonda crisi dato che: 1. L'insegnamento non era riuscito a debellare l'analfabetismo, pur facendolo regredire notevolmente; 2. Sia a livello primario che secondario vi era una notevole confusione riguardo il reclutamento dei maestri, l'anarchia organizzativa ecc. Tra i collaboratori di Gentile, ricordiamo Benedetto Croce, Lucio Lombardo Radice ed Ernesto Codignola. Fu grazie alla legge n. 1601 del 3 dicembre 1922, con la quale si sottolineava la necessità del risanamento del bilancio e la razionalizzazione dell'amministrazione dello Stato, che il governo Mussolini poté iniziare l'opera riformatrice della scuola attraverso vari decreti. L’opera riformatrice della scuola si concentro su: a. amministrazione scolastica; b. scuola media; c. università; d. scuola elementare; 4.1. Le premesse filosofico-pedagogiche L'unità dello spirito e del reale La filosofia di GENTILE è detta attualismo, poiché tutto viene ridotto a puro atto, cioè pensiero. Affermare che esiste una realtà che è data e si pone come oggetto di fronte al soggetto è un tipico “pregiudizio” del realismo. Secondo Gentile invece, tutto (anche la nostra esperienza) non è altro che la realtà stessa del pensiero, cioè la realtà che viene posta in atto o in essere dall’attività pensante. Solo quello che si realizza tramite il pensiero rappresenta la realtà in cui il filosofo si riconosce. Lo spirito è unità (non ammette molteplicità), la materia è molteplicità (è passività). L’uomo non è anima e corpo, ma è anima sola e il suo corpo non esiste. Per questo bisogna formare l'uomo in quanto spirito. Educazione come problema sempre nuovo Riguardo l’educazione Gentile riteneva che il rapporto tra educatore ed educando è fondamentale in tutta la storia dell'educazione, è una unione spirituale tra maestro e scolaro. Non esiste educatore senza educando e viceversa. Infatti, l’educatore per Gentile non è colui che si presuppone capace di educare, ma colui che educa ed è educatore quando educa e in quanto educa (poiché compie la realtà effettiva dell’educare, che in tal senso è azione spirituale che lega due spiriti). L’insegnamento è qualcosa di vivo, sempre nuovo, non è mai ripetizione meccanica. Al centro della concezione pedagogica gentiliana sta il maestro con la sua cultura, mentre la libertà degli alunni consiste solo nella possibilità di vivere nella vita dello spirito che il maestro è capace di ricreare. 4.2. La riforma scolastica Spirito e Stato Le implicazioni politiche della filosofia e della pedagogia di Gentile si manifestano in tutta la loro chiarezza per la prima volta in un saggio del 1902 su L’unità della scuola media e la libertà degli studi. Affrontando il tema in materia di decisioni da prendere tra mantenere la tradizionale divisione della scuola secondaria (istituti classici e tecnici) e moltiplicare gli indirizzi di insegnamento (tenendo conto delle diverse realtà professionali e della crescente domanda di istruzione). Secondo Gentile l’uniformità della scuola derivava dalla sua essenziale libertà, poiché sede della formazione dello spirito e poiché la libertà era intesa come essenza di quest'ultimo. Gli uomini sono liberi solo in quanto spirito e, se lo spirito crea la legge e la legge crea lo Stato, allora lo spirito è lo Stato. Lo Stato si occupa di ordinare il sistema scolastico. Punti chiave della visione educativa di Gentile: 1. Centralità dello spirito come motore dell'educazione e della filosofia come momento della consapevolezza di tale processo (continuo dinamismo tra tesi, antitesi, sintesi); 2. Arte e religione superate e sublimate nella filosofia: assumevano una funzione propedeutica, risultando entrambe uno stadio dello sviluppo dello spirito; 3. Sviluppo dello spirito mediante le comunità: familiare, cittadina, regionale e nazionale; 4. Nazione come volontà comune di un popolo che afferma sé stesso e si realizza (sacrificio dell'individuo per la collettività); 5. Coincidenza del volere individuale con il volere dello Stato (volere unico e non la soma delle volontà individuali). Con queste espressioni si nota l'ambivalenza di un sistema filosofico che permetteva, in nome della libertà, di giustificare l'oppressione dell'individuo e il predominio totale dell'apparato di potere dello Stato e di intendere la politica come imposizione autoritaria della volontà del singolo identificata con la volontà collettiva. In questo modo Gentile contribuì in maniera rilevante alla legittimazione filosofica e all'accettazione intellettuale del regime fascista. Per Gentile Solo i migliori hanno il diritto di proseguire gli studi e solo a loro lo Stato ha il dovere di offrire scuole modello (“scuole tempio”); gli altri potevano far parte di istituti tecnici professionalizzanti. Voleva anche incrementare le scuole private mediante un severo esame di Stato, miglioramento delle retribuzioni degli insegnanti, monopolio del liceo classico (il solo che permetteva l’accesso a tutte le facoltà universitarie). Quindi una scuola di stampo conservatore ed improntata sulla distinzione tra due culture: - liberale-umanistica (orientata all’esercizio delle professioni) - popolare (di orizzonti ben più ristretti, fatta su misura delle finalità economiche e lavorative di uno Stato che non intendeva incentivare la mobilita sociale). Restaurare la scuola L’obiettivo era quindi restaurare lo Stato attraverso la scuola, la famiglia e il singolo individuo. In particolare: - La scuola come ambito privilegiato per la formazione dell’uomo nuovo essenziale all’interno di una nuova concezione del rapporto con lo Stato e con l’autorità. - Insegnare diventava una missione per la trasmissione delle verità e del potere. Capitolo V La figura del maestro e la sua formazione In ogni periodo storico la preparazione dei maestri ha metodi e finalità consone alla cultura e politica del tempo, risente cioè degli indirizzi determinati dal potere politico-economico: - l’ILLUMINISMO protestava l’utilità dell’istruzione; - il POSITIVISMO reclamava praticità, realismo, osservazione; - l’IDEALISMO puntava a una cultura umanistica 5.1 Da missione a professione Il termine maestro deriva da "magister", in cui "magis" significa "il principale, che è professionalmente a capo di una scuola o bottega d'arte, di un'attività qualunque". Tale termine poneva distinzione tra il maestro di arti liberali (latino, filosofia) e quello delle arti meccaniche-manuali chiamato mastro. Un' altra distinzione vi era fra: educatore, maestro, precettore: - Educatore: termine più ampio che rimandava alla figura dell'antico pedagogo, poteva dunque esserlo chiunque a patto che non lo facesse di professione; - Maestro: colui che si occupava dell'insegnamento, affermatasi soprattutto a partire dalla fine del Settecento; - Precettore: educatore-maestro presso le case nobili e borghesi di un tempo. La figura del maestro non ha avuto sempre un valore sociale positivo. In passato, infatti, il suo era l'ultimo dei mestieri, faticoso, penoso e molto mal pagato. Fu con la Riforma di Lutero che la domanda di scolarizzazione si diffuse notevolmente, soprattutto grazie al libro esame dei testi sacri, con il quale si imponeva la necessità di aprire le scuole di base per permettere al popolo di poter leggere, moltiplicando cosi la domanda di nuovi maestri. Sul versante cattolico un notevole contributo fu fornito dal Concilio di Trento che promosse una forte catechizzazione dell'infanzia, attraverso le scuole di Dottrina Cristiana il ruolo dì maestro viene visto come una missione dedita alla formazione degli uomini e dei cristiani, salvando loro le anime. Esempio di ciò fu fornito dai Fratelli delle Scuole Cristiane di De La Salle, che esprimevano una fra le prime indicazioni del profilo del maestro con l'apertura dei primi seminari per la sua formazione. Per quest'ultima era necessario eliminare gli eccessi e privilegiati invece: naturalezza, consapevolezza, autocontrollo, dedizione, persuasività, ordine e chiarezza. Allo stesso modo Herman Francke, nel 1695, istituì il Paedagogium, un sistema scolastico che partiva dalla scuola elementare alla superiore, dove i ragazzi erano preparati per l'università, la carriera militare o quella statale e per l'insegnamento. Scarso prestigio, paga bassa erano le caratteristiche del maestro del '700, anche se a parole se ne elogiava l'atto pratico. Fino alla rivoluzione industriale l'attività magistrale era accettata più che altro come pratica caritativa verso il popolo. Con le riforme di fine '700 il maestro frequentava un corso di preparazione con una patente finale che accertava le sue abilità nel proporre il metodo normale e un certificato sulle qualità morali. È il maestro tradizionale che si continuava a proporre, ma con la differenza che vi era un severo controllo sulla sua preparazione morale, culturale e didattica da parte delle autorità, per la considerazione ormai diffusa che la scuola fosse uno strumento in mano allo Stato per formare l’opinione pubblica. Per la maggior parte i maestri erano religiosi o ex-religiosi che non percepivano salario; affiancati da laici retribuiti e istruiti al pari dei religiosi. Dopo l’unita d’Italia, quando la guerra contro l’ignoranza si faceva sentire come una “guerra santa” vi era un gran bisogno di maestri ed il governo li reclutava anche tra persone senza titoli sufficienti (es. ex ufficiali dell’esercito). Continuava quindi il concetto di “missione” e il maestro era concepito come un sacerdote-laico. Anche secondo i programmi (positivistici) di GABELLI del 1888, il maestro “scienziato” doveva essere caratterizzato da onestà, esemplarità e il suo compito era quello di formare “buone teste”. La preparazione culturale, didattica e l’esemplarità appaiono come le doti fondamentali del maestro. La categoria dei maestri si presentava disomogenea fino alla fine del XIX secolo, facendo persistere inoltre le differenze con le maestre, fra maestri rurali e di città, fra quelli delle elementari minori e maggiori ecc. Solo alla fine dell’800 la figura del maestro divenne una professione a tutti gli effetti con un preciso corso di formazione, alcune tutele e provvidenze, un certo prestigio sociale, nascita di associazioni magistrali. Venne piano piano affiancato ad una lenta professionalizzazione del corpo docente indirizzata verso la femminilizzazione e laicizzazione. Ricordiamo come con i programmi idealistici gentiliani del 1923, il maestro era visto come "missionario dello spirito" e il rapporto educativo come "il risultato di un contatto di anime". Un'influenza notevole la rivestì anche il maestro rurale, data la situazione di un'Italia in maggior parte contadina. Egli doveva porsi come educatore a tutto campo e guida del territorio, e avere come fine ultimo "redimere i rozzi e ignoranti paesani". Con il neoidealismo la migliore preparazione professionale del maestro divenne una cultura non professionale, senza bisogno di corsi di tirocinio e programmazione. La dittatura fascista rese il maestro quasi un soldato educatore alle idealità del fascismo, indicate in più occasioni da Mussolini. I programmi del 1934 per la scuola elementare, ribadirono le finalità fasciste. Egli doveva sentirsi educatore in qualsiasi momento e istante della giornata, doveva essere dunque sempre a contatto con la vita delle istituzioni del Partito, del Regime, divenendo testimone del nuovo credo fascista e creatore di cittadini- soldato pronti a morire per la grandezza della patria. Anche i programmi del 1945 delineavano la funzione del maestro come importante per la sua responsabilità sociale (maestro di vita), il cui fine è una missione di civiltà: combattere l’analfabetismo “materiale” e spirituale. La scuola collabora con la famiglia a formare la base del carattere. La scuola inoltre deve risvegliare nei ragazzi le virtù civili, sociali e morali (senso dell'ordine, del rispetto e dell'aiuto reciproco). Nei programmi del 1955 per la scuola elementare come fine essenziale si poneva quello di "comunicare al fanciullo la gioia e il gusto di imparare e fare da sé", in modo tale che conservassero il tutto per tutta la vita. Quindi si iniziava a tenere in considerazione la struttura psicologica del bambino. Possiamo infatti dividere i programmi in due orientamenti: 1. Istruttivo = (1860,1888,1905 e 1945) incentrato sulla presentazione della strategia didattica, definendo i contenuti e si occupava di fornire una serie di raccomandazioni per delineare l'identità del maestro nella direzione dell'uomo retto e onesto; facevano della scuola un luogo tendenzialmente artificiale, una sorta di laboratorio in cui si provvedesse alla costruzione di un preciso patrimonio culturale; la scuola era intesa come elementare in quanto forniva gli elementi della cultura di base per tutti. 2. Educativo = (1867, 1894, 1923, 1955) ci si occupava dell’attività didattica accompagnata da sollecitazioni dell'inventività e creatività; il lavoro didattico era inteso in senso psicologico e nel rispetto della logica del soggetto d'apprendimento. Tali programmi intendevano dunque fornire al maestro una serie di linea guida convincimenti ideologici in modo che la maturazione del bambino avvenisse in un clima di serenità; cercavano di mettere la scuola in diretto rapporto con l'esterno. La scuola era intesa come elementare non solo in quanto forniva gli elementi della cultura, ma soprattutto in quanto educava le capacità fondamentali dell'uomo, ossia dignità, spiritualità, libertà. Fino al 1962 la scuola elementare era l'unica scuola per tutti, quindi forniva solo un surrogato di cultura. Solo i movimenti degli anni '60 e '70 diedero una spinta nella direzione della scolarità di massa, dopo l'istituzione della scuola media unica del 1962 e di quella materna statale del 1968. Gli anni '80 del XX secolo furono caratterizzati da numerosi interventi legislativi con i quali si affermavano nuovi cambiamenti in ambito scolastico: 1. La partecipazione e gestione sociale della scuola; 2. L'integrazione degli alunni disabili; 3. Il rinnovo dei programmi e di alcuni aspetti ordinamentali della scuola media; ma soprattutto si affermavano i concetti di: 1. Qualità dell'istruzione, efficacia ed efficienza dell'insegnamento; 2. Autonomia della scuola; 3. Programmazione e sperimentazione; Fino a giungere ai programmi del 1985 (legge 104): - fine della scuola = formazione dell'uomo e del cittadino, nel rispetto della diversità e delle dichiarazioni internazionali sui diritti dell'uomo e del fanciullo - introduzione di moduli organizzativi = superamento del maestro unico, docenti che lavorano in team, condivisione della programmazione e della valutazione, maggiore scientificità. - migliore preparazione dei maestri con la legge 477/1973 che prevedeva una formazione universitaria completa per i maestri 5.2 Il cammino della formazione dei maestri L’interesse per la formazione dei maestri è direttamente proporzionale alla sua importanza e alla sua funzione nella società e rimanda al modo di intendere la scuola e di definirne i compiti nei diversi contesti storici. Antecedentemente alla seconda metà del 700, ovvero dai tempi della Riforma cattolica del 1500, si poteva insegnare solo con la licenza del vescovo, i maestri erano obbligati ad insegnare religione, oltre a leggere, scrivere e far di conto. Ogni maestro utilizzava un metodo “individuale”, ovvero quello che voleva. Per aprire una scuola si richiedevano due cose: la dottrina (conoscenza generica della disciplina) e costumi o moralità. Nel 1765, FEDERICO II di Prussia, promulgò un regolamento con il quale delineava l'intervento dello Stato nell'istruzione e obbligava il maestro a seguire un corso di preparazione per essere approvato. In queste scuole per speciali maestri si sviluppava la capacità pratica. Il corso era obbligatorio anche per coloro che aspiravano ad essere preti, per potere insegnare in caso di mancanza di maestri. Radice il “metodo e il maestro” e la sua preparazione deve consistere in un integrale sviluppo spirituale. Con la CARTA DELLA SCUOLA di BOTTA del 1939 si hanno le prime modifiche dell'istituto magistrale. Doveva essere una scuola che fornisse al maestro la consapevolezza della sua viva sostanza spirituale che lo ispirasse e lo guidasse nelle iniziative didattiche. Unico sbocco superiore per l’istituto magistrale era l'Istituto Superiore di Magistero, che era aperto a maestri e maestre e rilasciava tre diplomi universitari: insegnante di lettere, di filosofia o di Pedagogia o l’abilitazione all’ispettorato scolastico. La formazione universitaria Già dal 1974 si era prevista la preparazione degli insegnanti di scuola elementare attraverso l'università e così si iniziarono le sperimentazioni che portarono, nel 1988, il nuovo liceo delle scienze sociali con 3 indirizzi: scienze umane, scienze pedagogiche, scienze sociali. L'esigenza era quella di un'insegnante con maggior specializzazione culturale, in seguito all'importanza data dai programmi del 1985 per la scuola elementare, agli aspetti cognitivi del fanciullo. La specificità del nuovo insegnante si esprimeva nel predisporre un'ambiente educativo di apprendimento in cui il bambino potesse trovare, in un progetto coerente e flessibile, quanto gli era necessario per costruire il proprio apprendimento e imparare ad imparare. La legge 19 novembre 1990 n.341, sulla Riforma degli ordinamenti didattici universitari, prevedeva uno specifico corso di laurea per la formazione culturale e professionale per maestri di scuola materna ed elementare. Dal '98 si organizzarono dunque corsi universitari i ben 25 atenei italiani, basati su un curriculum formativo dove teoria e prassi cercavano di integrarsi. Il corso di laurea doveva essere quinquennale comprensivo di tirocinio da avviare a partire dal secondo anno di corso. Parte integrante furono anche: 1. l'acquisizione del livello B2 di lingua inglese; 2. Acquisizione delle competenze digitali per l'utilizzo di linguaggi multimediali; 3. Acquisizione di competenze didattiche atte a favorire l'integrazione scolastica degli alunni con disabilità. Con tale riforma si riconobbe, finalmente, l'importanza di avere maestri competenti professionalmente anche nei primi livelli di scolarizzazione, fondamentali per la crescita del bambino, cosa che prima né la legge Casati, né la riforma di Gentile avevano osservato. 5.3 Un difficoltoso cammino verso la professionalizzazione Con il passare del tempo si nota un aumento di tempo dedicato alla preparazione dei maestri ed il superamento dell’idea che per insegnare ai bambini piccoli non fosse necessaria una preparazione apposita e approfondita. L'idea che il bambino non potesse ragionare per i primi 7 anni aveva condizionato l'approccio educativo per secoli. Dopo la scoperta dell'infanzia subentro il secolo del bambino e quindi l'importanza di una rispettosa crescita annessa ai primi anni del bambino. Il lavoro del maestro comincio ad essere chiaramente normato e meglio organizzato agli inizi del sec. XIX. Con la legge del 1903 si stabiliva che tutte le nomine dei maestri dovessero avvenire mediante concorsi pubblici e che si conseguisse, dopo un triennio di prova, il diritto di stabilita. Capitolo VI Insegnamento della religione e laicità dello Stato 6.1 In nome della laicità La storia della scuola in Italia, dall’unità in poi, è in gran parte storia dei rapporti tra Stato e Chiesa, caratterizzati da contrasti, da compromessi e, talvolta, da convergenze. Il confronto tra Stato e Chiesa si svolgeva sui rispettivi diritti in campo educativo: - La Chiesa voleva continuare l'insegnamento della religione a scuola, poter aprire e gestire scuole private ed avere libertà di insegnamento; - lo Stato sosteneva la separazione fra i due poteri e la laicità delle scuole per una maggior libertà di coscienza in fatto morale e religioso. In molti comuni il governo municipale aveva abolito l'insegnamento della religione cattolica nelle scuole comunali (1907) e soppresso la partecipazione/rappresentanza dell’autorità comunale nelle cerimonie e festività puramente ecclesiastiche di qualsiasi culto e religione (1868), in nome della laicità e della separazione tra Stato e Chiesa e della libertà di coscienza in fatto di morale e religione. La separazione dei due poteri comportava per lo Stato una decisa laicità e un rispetto della libertà di coscienza. Il 3 ottobre 1907 venne abolito l'insegnamento religioso nelle scuole comunali. In una scuola laica la religione non poteva essere una delle materie d'insegnamento, essa doveva essere assente. La separazione fra le funzioni dello Stato e della Chiesa sembra un fatto acquisito, almeno da un punto di vista teorico. - Da parte laica si affermava la neutralità del comune e dello Stato sui valori morali e religiosi. - Da parte della minoranza in consiglio si sottolineavano le molte richieste dai padri di famiglia che chiedevano l'insegnamento della religione e la considerazione che la scuola primaria era come un completamento della famiglia. Ai primi del Novecento era ormai superato un certo modo di intendere il significato di laicità. Se il termine laico, indicava semplicemente quanti non erano presbiteri (non-chierici = non appartenevano al clero), nel XIX secolo assunse una valenza politica, estendendosi anche a chi si opponeva ad essi. La secolarizzazione, ossia l'insieme di processi storici moderni che hanno tentato di superare- inverare la religione non era ben voluta da tutti e c'era chi, tra i consiglieri, suggeriva di non considerare un'ingiustizia il seguire una tradizione culturale. Giovanni Quintarelli riteneva necessario stabilire la condotta del comune nel doppio dovere di conciliare il rispetto delle credenze con la necessità di contenere la Chiesa nel suo ministero spirituale. Ciò era sorretto dal ragionamento secondo il quale, al comune spettavano le cognizioni umane fornite dalle scienze sperimentali, e solo alla Chiesa il campo del trascendentale, della conoscenza delle origini poiché oggetti di fede. Compiva così la distinzione tra scuola laica e scuola confessionale: - Scuola laica esercitava la sua azione nelle verità sperimentali e razionali, dunque non assumeva alcuna religione o affermazione dogmatica-filosofica; si fondava sul concetto della relatività della conoscenza, escludendo l'insegnamento dei problemi fondamentali e tendendo ad educare lo spirito a sviluppare da sé la capacità critica; determinava il desiderio e la pratica della tolleranza civile e della libertà lasciando spontanea l'iniziativa individuale di sintesi degli elementi assimilati della conoscenza; era quindi intesa non come credo ma come metodo. Ugo Guarenti propose di votare affinchè l’istruzione religiosa (chiesta dai genitori) venisse impartita dai ministri dei rispettivi culti nella scuola elementare di grado superiore. Massimo Besozzi, consigliere di minoranza importante che l’istruzione religiosa venga impartita soprattutto nella scuola primaria, in quanto essa assieme alla famiglia doveva educare ad un sentimento morale stabile. - Scuola confessionale si fondava sulla rivelazione divina e sui dogmi subordinandovi la sua azione, coordinandovi le indagini della ragione e collegandovi tutto il sapere a tutta la morale. In questa non poteva essere insegnata la religione, si proponeva una scuola aconfessionale dove l’insegnamento religioso non fosse obbligatorio ma facoltativo). Gaetano Salvemini a favore di una scuola laica e non neutrale: “in educazione non si può essere neutrali” (non avere idee, personalità, non avere odi o amori), tuttavia la scuola deve rimanere laica, cioè un luogo in cui nulla s’insegna che non sia frutto di ricerca critica e razionale. Contrario all’esclusione degli ecclesiastici dall’insegnamento, in quanto così facendo la scuola non poteva dirsi laica ma confessionale acattolica. 6.2 In nome della tradizione Fino all’unità d’Italia, per molti secoli, la Chiesa aveva detenuto un controllo quasi totale sulla scuola e sulla religione. Con la riforma cattolica del XVI secolo si moltiplicarono le iniziative culturali e assistenziali, sorrette da una finalità religiosa, ad opera soprattutto dei nuovi ordini religiosi, sia maschili che femminili. All'idea, propria dell’Umanesimo, dell'educazione come libero e integrale sviluppo delle potenzialità umane, si venne sostituendo quella per cui l'educazione era innanzitutto disciplina del corpo e dello spirito in vista della formazione del “perfetto cristiano”. Si andò affermando una visione pessimistica della natura umana, salvabile con un continuo sforzo di dominio delle passioni e sugli istinti, mediante una fede incrollabile. La religione continuava a essere il fondamento della morale. La Rivoluzione Francese decretando la distinzione fra Stato e Chiesa proponeva una scuola gratuita, per tutti e laica, cioè non diretta dal clero, che basasse la sua morale sul rispetto delle leggi delle istituzioni civili e sugli ideali di libertà, uguaglianza e fraternità. In Italia un primo tentativo di affermazione della laicità dello Stato in campo scolastico, fu effettuato dalla legge BONCOMPAGNI, in cui si affermava che l'istruzione e la direzione delle scuole doveva essere nelle mani dei civili e non degli ecclesiastici. Ciò andava pero in contrasto con lo Statuto albertino, secondo cui la religione cattolica era al fondamento dell’educazione nazionale. Per quasi tutto l’800 la Chiesa si sente in trincea, in contrasto con il mondo, inteso come un insieme di mentalità, che si sta allontanando dalla sua tradizionale dottrina. Il diritto dell'educazione, secondo il magistero della Chiesa, spettava ai padri di famiglia; l'istruzione era fondamento e condizione di tranquillità per uno Stato, il quale aveva in questo campo una funzione di sostegno. La chiesa non s‘identifica con le sue istituzioni ma con l'insieme del popolo di Dio. Nel 1908 si andava a superare la proposta del Congresso del 1907 (aveva stabilito la soppressione dell'insegnamento religioso e la laicizzazione degli Insegnanti), stabilendo con decreto regio (del ministro Luigi Rava) la facoltatività dell'insegnamento religioso sia per i Comuni che per gli studenti, creando un sistema in cui: - i padri di famiglia potevano chiedere la disciplina; - Il Consiglio provinciale sceglieva l'insegnante, il luogo, l'orario; - qual ora il Consiglio comunale fosse stato contrario, i genitori si dovevano assumere le spese del servizio. Secondo Giolitti, in questo modo si garantirono le 3 liberta: dei comuni, dei maestri e dei padri. Nello stesso anno vi fu la proposta di Bissolati di mantenere la laicità nelle scuole ma di rimuovere l’insegnamento religioso. Discussa in parlamento, tuttavia la mozione venne respinta. L'argomento della libertà d'insegnamento, dopo l'approvazione in parlamento, continuava ad essere oggetto di discussione e di trattative in vista delle nuove alleanze politiche per l'ingresso dei cattolici in politica. Il patto GENTILONI del 1912, che dava garanzia di tutela delle scuole cattoliche e della libertà d’insegnamento in cambio dell’appoggio dei cattolici nelle elezioni, segnò il superamento definitivo e vide i cattolici da quel momento parte importante del parlamento nazionale. Ormai l'insegnamento della religione entrava come disciplina scolastica con l'avvallo dello Stato e vi sarebbe rimasta, tranne per coloro che non la chiedevano, come riferimento fondamentale. Tutto ciò veniva posto alla base della fondazione del partito popolare italiano di don Luigi Sturzo, il quale chiedeva libertà religiosa non solo agli individui ma anche alla Chiesa, in modo tale che quest'ultima potesse esplicare la sua missione spirituale nel mondo La riforma Gentile del '23 fu quasi una conclusione inevitabile dei dibattiti culturali e politici del primo Novecento e pose la religione a fondamento e coronamento dell'istruzione elementare di ogni ordine e grado. Ciò rappresentò una vittoria per la Chiesa, la quale però era comunque cosciente che l'anticlericalismo non fosse morto. 6.5 Verso il concordato I rapporti con il governo Mussolini culminarono con il CONCORDATO dell'11 Febbraio 1929 (Patti Lateranensi). Il Concordato consentiva che l'insegnamento religioso, impartito nelle scuole elementari, avesse un’ulteriore sviluppo nelle scuole medie e doveva essere impartito sia dalla Chiesa (insegnanti sacerdoti) sia dallo Stato (insegnanti laici con certificato di idoneità dato dall’Ordine Diocesano). Con un’enciclica del 1929 (dicembre) la Chiesa ribadiva che: in campo educativo la priorità naturale era della famiglia, la Chiesa ha comunque priorità sullo Stato, scuole neutre/laiche erano condannate (come la scuola mista) per l’esclusione dell’insegnamento religioso. Due anni più tardi, papa Pio XI dovette fare i conti con la monopolizzazione della gioventù da parte del regime fascista, il quale fin da subito aveva rivendicato lo Stato etico (bisognava essere religiosi ma soprattutto fascista e il cattolicesimo ad integrare il fascismo, non viceversa) devozione pagana esclusivamente rivolta allo Stato. Nel 1948 con la Costituzione della Repubblica italiana ci si pronunciava sul principio di libertà nella scelta educativa, ribadendo l’indipendenza di Stato e Chiesa. 6.6 In un mondo pluralista Una chiara apertura verso il mondo, e quindi il superamento del contrasto anticlericale venne realizzandosi con i pontificati di papa GIOVANNI XXIII e PAOLO VI con il CONCILIO VATICANO II. Il Concilio Vaticano II proponeva un atteggiamento generale non di condanna, ma di apertura rispetto alla modernità e di confronto con l’umanesimo laico, con l’affermazione del dialogo e con uno slancio ecumenico (mondiale). Presa d’atto del passaggio da una società culturalmente omogenea, ad una società pluralistica e complessa, caratterizzata da molteplicità e diversità di mondi culturali. Anche il rapporto Stato-Chiesa, sulla base dei cambiamenti epocali che stavano avvenendo in ogni campo, andava aggiornato e nel 1984 si giunse alla Revisione del Concordato. La Repubblica italiana, riconoscendo il valore della cultura religiosa e tenendo conto che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico italiano, continua ad assicurare l'insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche non universitarie di ogni ordine e grado. Nel rispetto della libertà di coscienza e della responsabilità educativa dei genitori, viene garantito a ciascuno il diritto di scegliere se avvalersi o non avvalersi di detto insegnamento, che è impartito in conformità alla dottrina della Chiesa e nel rispetto della libertà di coscienza. Altre soluzioni ipotizzate: - offrire a tutte le religioni uno spazio scolastico per presentare il proprio credo risultato difficile da ottenere, sia per la difficoltà di mettere in atto le intese necessarie con le confessioni religiose, sia per le problematiche connesse all'organizzazione didattica, ma soprattutto per la possibilità che invece di creare conoscenze reciproche e comprensioni, si alimentassero tensioni e divisioni; - insegnamento di cultura religiosa aperto a tutti ma comunque sia rimaneva il dubbio di quale fosse la preparazione adatta per assicurare un insegnante adatto a tale fine. 6.7 Educazione alla laicità come educazione religiosa? Il concetto di laicità ha subito negli ultimi due secoli un profondo cambiamento. La laicità e lo spirito laico sono la condizione per la convivenza di tutte le culture. La laicità esprime un metodo piuttosto che un contenuto. Quando un intellettuale è laico, significa che il suo sistema d’idee non pretende che gli altri la pensino come lui. La laicità non è un contenuto filosofico, bensì una forma mentis; è essenzialmente la capacità di distinguere ciò che è dimostrabile razionalmente da ciò che oggetto di fede, a prescindere dall’adesione o meno tale fede. La laicità non s’identifica con alcun credo, con alcune filosofia o ideologia, ma è l’attitudine ad articolare il proprio pensiero. La laicità oggi può essere vissuta come compatibile con la religiosità. Stato laico non vuol dire Stato irreligioso e tantomeno ateo. La laicità non è una dottrina ma è principalmente un atteggiamento etico che si risolve praticamente in un metodo, il metodo della controversia, dell'argomentazione pro e contro, in un esercizio della ragione consapevole nello stesso tempo dei limiti della ragione stessa. Quindi, anche un cattolico può essere laico e la scuola laica sarà quella scuola che garantisce il pluralismo, non quella che nega l’insegnamento della religione. Capitolo VII Sul libro di testo: un utile mezzo didattico. A chi? Per lungo tempo l’istruzione scolastica fu principalmente impartita da congregazioni e ordini religiosi. Essi utilizzarono testi scolastici religiosi o di autori classici non scritti per rivolgersi ai fanciulli ma in latino e quindi necessitavano della mediazione degli adulti. Solo dalla seconda metà del '700 la letteratura educativa fu divisibile in vari settori: letteratura popolare, scolastica e per l'infanzia. Grazie all'uscita di Pinocchio e Cuore, si iniziò quindi ad "adattare il libro al fanciullo" e non viceversa. 7.1 I primi autori di testi classici Fatti che contribuirono alla nascita di produzione letteraria rivolta ai fanciulli: - Interesse illuminista verso il problema dell’educazione (indagine su sviluppo dell’intelligenza e della socialità); - Istituzione delle prime scuole pubbliche con la necessità di nuovi strumenti didattici; - Infanzia come periodo fondamentale nella vita dell’uomo e con caratteristiche proprie. Entrarono a scuola le raccolte di novelle, favole, racconti, operette, racconti realistici, nei quali gli insegnamenti scaturivano dagli esempi della vita quotidiana. Le prime furono le raccolte di novelle e le favole, grazie all’estensione dei regolamenti del 1774 di Maria Teresa alla Lombardia austriaca, per mano di padre Francesco Soave). Intorno agli anni 30 dell’Ottocento il principale centro di elaborazione dei modelli educativi popolari fu la Toscana, nella quale un certo numero di intellettuali si occupò di letteratura scolastica per il popolo e per i fanciulli. Un Esempio fu Raffaello Lambruschini, professore di pedagogia, il quale suggeriva la formula del racconto realistico ossia degli insegnamenti tratti da fatti di vita quotidiana. Si tenne anche un concorso a Firenze nel 1835: stesure di opere d'istruzione e di educazione rivolte ai fanciulli del popolo tra i 6 e 12 anni. Il vincitore fu PARRAVICINI con il Giannetto, libro ad uso nelle scuole elementari, con concetti di sana morale. L'esempio del protagonista intendeva indurre comportamenti ed atteggiamenti ritenuti corretti dalla società di quel periodo. L'esempio doveva essere proprio Giannetto, un giovane diventato ricco per aver sposato la figlia di un industriale, che dopo aver fatto visita al suo vecchio maestro, ripescò i comportamenti virtuosi che aveva acquisito a scuola e, per ricambiare il maestro di ciò, decise di prendere a carico i suoi figli. Decise inoltre, di aprire una scuola di agricoltura, arti e mestieri per i trovatelli, facendone investimento economico e morale, contribuendo a trasformare un comune villaggio in un centro di grande operosità. Un ulteriore esempio che rafforzava il messaggio profondo di tale opera erano i premi che lo stesso Giannetto aveva predisposto per tutti coloro che avessero aiutato la società e l'istruzione, partendo dal buon uso della loro istruzione ricevuta. È in Pestalozzi che va sicuramente ricercato il modello proposto dall'autore con il protagonista Giannetto e ciò è visibile in Leonardo e Gertrude, dove quest'ultima, con la collaborazione di alcune persone, trasformava il paese, fornendolo di una scuola e di un buon maestro e facendo rifiorire, insieme alla morale, anche l'economia. Tuttavia la presenza di insegnanti poco preparati non avrebbe portato ad un sistema educativo omogeneo ed il libro di testo per molto tempo rimase il solo nutrimento intellettuale. Con l'unità d'Italia, il fine enunciato anche nei programmi scolastici era quello patriottismo, figure simboliche del re e della patria, catechesi religiosa, dopo la guerra anche la figura del soldato acquisisce importanza. Nel 1926, dopo aver ottenuto il monopolio del potere politico, il fascismo mirava al “dominio dell’universo simbolico dello Stato” con la sua nuova religione, con la sua liturgia e i suoi riti e feste (capodanno fascista in ottobre e il natale di Roma in aprile). Il fascismo prendeva il sopravvento: - 1926 divenne obbligatoria l'adozione del calendario fascista e il saluto romano al duce, e venne fondata l'Opera Nazionale Barilla per inquadrare i giovani al fascismo; - 1928 obbligo di giuramento di fedeltà al partito, a cui si doveva essere anche iscritti, da parte degli insegnanti; - 1929 firmava i Patti Lateranensi con la Chiesa e intendeva attribuirsi l'educazione fascista della gioventù e si impose il testo unico. Con la relazione della quarta commissione l’ideologia fascista diventa criterio principale della scelta di un libro. Tutto sembra condurre verso l’adozione di un libro unico: dall’interesse esagerato sul tema della patria, del soldato, della guerra fino al “nuovo” italiano creato dalla marcia su Roma. In un’Italia, ormai retta da un unico partito, in cui le voci della dissidenza erano state fatte tacere, in cui viveva la censura sui mezzi di comunicazione, non poteva durare quella piccola nicchia di libertà, che si riscontrava nei libri di testo dei primi anni ’20. Una legge emanata nel 1929 mise fine al problema dell’approvazione dei libri di testo, prevedendo l’introduzione del TESTO UNICO per la prima e la seconda classe a partire dall’anno scolastico 1930-31. Per le altre classi testi differenziati che ogni 3 anni dovevano essere sottoposti ad una revisione. Con il testo unico, esito di un cammino che mette al centro la patria, il risorgimento e la guerra, il regime riuscì a impadronirsi della letteratura scolastica per utilizzarla come strumento di proselitismo politico a livello infantile e i racconti e le illustrazioni perseguirono lo scopo di svolgere le direttive della propaganda fascista. Il culto del Duce (“il Duce trasformò il fascismo in una religione, e se stesso in un Dio”) entra anche nei libri di testo unici. L’obiettivo primario della scuola elementare era quello di costruire futuri soldati, uomini ciecamente pronti a credere, obbedire e combattere. I testi inneggiavano alle tematiche tipiche del fascismo qual è lo splendore dell’impero italiano, porta la famiglia della patria, la patria, il lavoro, la guerra ed il nazionalismo. Nei testi si esalta la figura del Duce con modalità apprezzate dai ragazzi, attraverso canti, racconti o narrazioni fantastiche. Mussolini è il modello a cui i ragazzi devono ispirarsi. Il contenuto doveva educare gli adolescenti nella nuova atmosfera creata dal fascismo e plasmare loro una coscienza consapevole di doveri del cittadino fascista e di quello che l'Italia è stata nella storia. Si tentava di formare lo spirito religioso, dare uno stimolo a realizzare la parte eroica dei fanciulli. Il fine era l’indottrinamento, ovvero inculcare gli ideali del fascismo, lo spirito virile, l’obbedienza e il coraggio. Si chiude così il periodo del primo decennio del Novecento in cui la letteratura scolastica delle elementari aveva goduto di un relativo spirito d’indipendenza. Gli anni ’30, attraverso il graduale controllo dei maestri e professori, degli apparati extrascolastici e lavorativi, videro la fascistizzazione del mondo giovanile e l’instaurazione di un conformismo culturale e scolastico di regime, di programmi e di parole d’ordine. MUSSOLINI elaborò una serie di temi nazionali, come il culto del duce, della bandiera, dell'italianità, creò una sezione dedicata alla produzione figurativa (francobolli, immagini pubblicitarie, cartoline, illustrazioni). Viene esaltata la figura di Mussolini nei testi proposti nei vari gradi di scuola. CAPITOLO VIII La scuola dell’infanzia 8.1 Dall’importanza del periodo infantile ai primi istituti L'interesse per un ambiente apposito destinato all'educazione infantile si sviluppa nella seconda metà del 700. È questa una novità di rilievo. Gli asili non nacquero per la consapevolezza della necessità di provvedere all'educazione delle nuove generazioni, ma sorsero piuttosto come istituzioni di custodia e assistenza. È solo in età moderna e in modo graduale che tali attività assunsero funzioni sia assistenziali che educative sorrette da un progetto. Sull'importanza del periodo infantile si possono trovare tracce fin dall'antichità. Questo però accanto a pratiche e affermazioni contrarie. Permanevano infatti nelle società antiche problemi legati all’esposizione, all'abbandono, all'infanticidio. Per molti secoli l'infanzia non appare importane di per sé, ma come parte di un processo di preparazione di un uomo adulto, tanto più in presenza di portatori di disabilità. Secondo alcuni studi nel Medioevo non esisteva il sentimento dell'infanzia, mancava nell'adulto del tempo la maturità emozionale necessaria per vedere il figlio come una persona a sé. Col cristianesimo venne proibito l'infanticidio, considerato un crimine ed un peccato, si diffusero i brefotrofi per soccorrere i bambini esposti ed abbandonati, normalmente per miseria. L'infanzia lentamente iniziava a essere considerata un periodo importante su cui investire, soprattutto dopo la pubblicazione dell'Emilio di Rousseau nel 1762. Ma a tali affermazioni non corrispondeva nella realtà il diritto ad un maggior rispetto. Le iniziative che sorsero a favore dei bambini (sale di custodia) erano prive di evidenti intenti educativi e di finalità pedagogiche chiaramente espresse (venivano utilizzate metodologie di intervento educativo direttivo e punitivo). Si mirava a formare il soggetto a valori etici e culturali determinati dalle classi al potere e pronti, dunque, all'obbedienza e rispetto delle gerarchie. 8.2 I primi protagonisti Una fra le prime realizzazioni a favore dell'infanzia fu, nel 1770, quella del pastore protestante Federico Oberlin a Ban de la Roche (Francia), dove raccoglieva in sale dette asiles, i bimbi e li metteva a contatto con la natura nella coltivazione di aiuole e di giardini. Le conduttrici, donne non appositamente preparate ma dotate di buona volontà e buon senso, insegnavano ai bambini alcune regole di pulizia, l'orrore per la menzogna e il rispetto verso i poveri. Gran Bretagna: New Lanarck, l'"Infant school" Nel 1816 a New Lanarck, in Scozia, Robert Owen si fece protagonista della "utopia socialista", volta ad una elevazione della classe povera e ad una uguaglianza sociale, istituendo l'Istituto per la formazione del carattere giovanile", che prevedeva una classe infantile definita come la prima Infant Schoo. Si trattava di un’iniziativa che voleva da un lato contribuire a risolvere il problema dell'abbandono dei minori, dall'altro consentire ai bambini provenienti dalle fasce sociali più deboli di poter godere di un'educazione base. Era convinto dell’importanza di promuovere precocemente la formazione dei bambini, che dovevano essere in gruppo per permettere loro di liberare cosi la creatività, no pratiche costrittive (premi/punizioni), ma amore e comprensione. Era contrario all'impegno precoce dei bambini in attività lavorative e per questo si batteva anche a livello culturale e politico. Egli aveva superato la tradizionale funzione custodialistica e assistenzialistica, ed intendeva scoraggiare e frenare il diffuso sfruttamento della manodopera femminile e dare una prima formazione etica e civile ai bambini. Cremona: l’asilo infantile Nel lombardo FERRANTE APORTI (importanza di pervenire con l’educazione alla salvezza del popolo): pone al centro dei suoi interessi la cura per l'infanzia. Aprì il primo asilo infantile, privato e a pagamento, a Cremona nel 1828. Successivamente uno gratuito. Le sue intenzioni erano finalizzate innanzitutto a permettere ai bambini dei ceti più deboli della società di godere di un ricovero adeguato e di avvicinarsi in qualche maniera al mondo della cultura. Aporti basava la sua proposta pedagogica sulla concezione che l'uomo fosse il prodotto della sintesi tra anima e corpo, che trovavano il loro punto di equilibrio nella realizzazione dell'affettività. Egli era convinto che le facoltà dell'uomo sono riconducibili a 3 grandi aspetti: - quelli fisici, il corpo; - quelli intellettuali, la mente - quelli morali, l’affettività. Aporti proponeva un progetto educativo teso a favorire una formazione armonica attraverso l'educazione e l'istruzione intellettuale, fisica e morale. Le maestre si preparavano con i libri scritti da lui stesso. Per quanto riguardava la modalità dei premi e dei castighi, non riteneva opportuno utilizzare questa strategia. Un manifesto a stampa diffuso il 29 Marzo del 1837 ne pubblicizzava il Regolamento. La denominazione era SCUOLE DI CARITÀ PER L'INFANZIA. Mentre la diffusione degli asili procedeva, da più parti si sollevavano voci discordi e posizioni critiche rispetto al riconoscimento delle funzioni educative svolte dalle istituzioni infantili. Negli Stati Pontifici una circolare ne vietava la diffusione, in quanto considerati mezzi per la diffusione del socialismo (sovvertendo l’ordine politico voluto da Dio). Se dal punto di vista teorico il contributo di Aporti è generalmente valutato come modesto (scarsa preparazione delle maestre, dover seguire alla lettera il Manuale di Aporti, insegnamento ripetitivo e mnemonico) allo stesso tempo non si possono e non si debbono disconoscere i grandi meriti sociali dei primi asili infantili, che per la prima volta si ponevano obbiettivi di natura educativa, riconoscendo l'importanza ai primi anni di vita. Si può affermare quindi che la diffusione massiccia degli asili sia stata sollecitata da una concezione più rispettosa verso forzato della personalità infantile; si proponevano esperienze declinate sulla vita di tutti i giorni in un clima familiare e naturale. - Corretto collegamento con la famiglia, la preoccupazione maggiore era quella di offrire assistenza alle madri che, per loro ignoranza, avrebbero potuto influire negativamente sullo sviluppo dei propri figli - Museo delle cianfrusaglie, umili cose (bottoni, scatolette ecc) raccolte con i bambini e rispondenti ai loro interessi - La lingua parlata - Educazione all’ordine e uso dei contrassegni (immagini di simboli o cose note ai bambini, proposti in maniera graduale prima oggetti vari bisillabi, poi quotidiani trisillabi e infine oggetti geometrici plurisillabi) - Esercizio fisico associato a quello della vita pratica - Igiene personale e generale - Canto - Gradualità e concretezza nell’educazione. Si tratta di un metodo molto intuitivo e poco sistematico, che non aveva completamente rotto con il passato. Maria Montessori e la casa dei bambini MARIA MONTESSORI (una delle prime laureate in medicina, indirizza i suoi studi verso l’analisi dei problemi di nevrosi e mentali dell’uomo) maturò il proprio pensiero pedagogico sulla base delle prime esperienze che essa aveva realizzato nell'ambito dell'educazione dei disabili. Nel 1907 apre la prima Casa del Bambino a Roma (San Lorenzo) ed è da considerare tra i fondatori della pedagogia contemporanea. La sua proposta educativa era basata su alcuni fondamentali elementi: la cura dell'ambiente, l'utilizzazione di materiale scientifico, la ridefinizione della figura dell'insegnante. Ella partiva dalla considerazione che il posto centrale spetta al fanciullo. La pedagogista collocava il fondamento del suo progetto educativo nella convinzione che i bambini dovessero essere posti nelle migliori condizioni di poter vivere completamente il proprio ambiente; propose infatti che tutti gli elementi che costituivano l'arredo scolastico fossero a misura di bambino; il materiale di sviluppo era legato all'ambiente. Un elemento di fondo della sua proposta era sia la figura dell'educatrice che doveva dirigere ed educare lo sviluppo del bambino (requisiti di pazienza e umiltà, preparazione professionale e pratica per il materiale didattico) sia il superamento dei pregiudizi sull’infanzia. 8.4 Lo sviluppo della scuola dell’infanzia nel xx secolo e la delega al privato Ai primi del novecento ELLEN KEY, con il libro II Secolo dei Fanciulli, apriva una stagione nuova nei confronti del riconoscimento dei diritti dell'infanzia. È un volume diventato l'emblema dell'attenzione posta in vari campi verso il bambino e un invito a combattere contro la situazione sociale ed economica che conviveva con lo sfruttamento di molta popolazione, anche infantile. Una situazione, quella dello sfruttamento infantile, che riprese il magistrato italiano FERRIANI, che affrontava in quel periodo il “dramma” dei fanciulli, sfociante qualche volta nel suicidio di bambini e nell’infanticidio da parte delle madri. La nascita del fanciullo prendeva diverse interpretazioni a seconda delle condizioni familiari ma soprattutto educative. Dove vi era una certa educazione familiare i fanciulli potevano dirsi felici e fortunati, ma nelle famiglie dove difettavano assolutamente le forze educative, la nascita del bambino era spesso paragonata alla nascita di un infelice. Egli era convinto che contro il mercato dei piccoli schiavi fossero necessari un equo sviluppo del fattore economico, una diffusa educazione ed istruzione, l’intervento dello Stato e l’iniziativa dei privati “nel togliere la patria potestà a colore che se ne mostrano indegni”. La situazione infantile di sfruttamento è ben descritta anche da Dina Bertoni Jovine che sottolinea lo sfruttamento dei fanciulli nelle fabbriche e nell’agricoltura. In questa precaria situazione, a partire dalla seconda metà dell’800, vi furono trasformazioni politiche e sociale (estensione del diritto di voto, prime forme di produzione tecnologica). L'interesse dell'infanzia può essere colto anche con l'attivazione delle prime cattedre di pediatria a Parigi e Berlino, dalla nascita e dallo sviluppo della psicanalisi (Freud) e dagli studi sulla mente e sulla misurazione dell’intelligenza e sullo sviluppo fisico, dall’edilizia scolastica, presenza di medici nella scuola, attenzione per l’igiene. L'alfabetizzazione diventava quindi un elemento determinante anche per il progresso sociale e personale. Nel 1910 l’onorevole Credaro nominò una commissione composta da alcuni dei maggiori esperti in problemi dei bambini e affida loro il compito di elaborare una serie di norme generali per la gestione e l’organizzazione degli istituti educativi infantili. Nel 1914 furono pubblicate le conclusioni sul decreto dal titolo Istruzioni, programmi, orari per gli asili infantili e i giardini d’infanzia. Esse erano una vera opera di mediazione tra le varie posizioni individuabili nella cultura pedagogica dell’inizio del secolo. I metodi delle signorine Agazzi erano quelli ritenuti di maggiore adattabilità, quelli che più di altri si prestavano ai bisogni e alla realtà dell'infanzia italiana. Le proposte didattiche erano ricondotte su tre filoni essenziali: educazione fisica, morale ed intellettuale. Le proposte dei programmi erano innovative: a. Istituto di educazione (asilo) ispirato dallo spirito materno e illuminato dai principi froebeliani: (compito di formare il bambino sano, lieto, buono e lietamente associato ad altri bambini come lui); b. Al centro l'operosità del fanciullo e il suo rapporto con il mondo; c. Non considerare tale periodo come scuola, i bambini di 3-4 anni non erano considerati come fanciulli quindi l'asilo non era una scuola; erano quindi proibiti in essi gli insegnamenti di scrittura, lettura e di carattere strumentale, ma solo educazione fisica, morale e sociale, estetica e intellettuale; d. Educazione religiosa non prevista in maniera esplicita; e. Cura delle condizioni igieniche dei locali scolastici; f. Importante la figura dell'educatrice (attenta ma mai ingombrante ne invadente; educare senza mai sopraffare l'animo infantile con inutili comandi o richieste di spiegazioni; doveva assecondare e non forzare i bambini e sfruttare soprattutto la vita all'aperto, facendo riferimento all'educazione materna; doveva educare i bambini rispettandoli). Le proposte dei programmi erano innovative; importanti risultavano la scoperta e la valorizzazione educativa dei rapporti tra bambini e l'attenzione al collegamento tra genitori e scuola. I Programmi del 1914 costituiscono una tappa importante nella storia dell’educazione: sono il coronamento di una politica volta a statalizzare la scuola elementare ed espressione di una chiara coscienza pedagogica. Tuttavia, nel 1° dopoguerra persisteva ancora un insufficiente livello di preparazione professionale delle maestre. Nel 1923 vennero istituite le scuole di metodo, chiamate nel ’33 scuole magistrali (3 anni + tirocinio). La Riforma Gentile divideva l’istruzione elementare in 3 gradi: 1. Grado preparatorio: di durata triennale, aveva carattere ricreativo e disciplinava le prime manifestazioni dell'intelligenza e del carattere del bambino; tuttavia, nonostante il carattere ricreativo doveva articolarsi in: rudimenti delle nozioni generali possedute; correzione dei pregiudizi e superstizioni; semplici preghiere, canto e ascolto di musiche; disegno spontaneo, giochi ginnastici, lavori manuali, giardinaggio e allevamento di piccoli animali; 2. Grado inferiore: sempre con durata triennale; 3. Grado superiore: durata biennale. L’educazione infantile diveniva istruzione preparatoria, ma ancora la scuola materna rimaneva formalmente alle dipendenze del Ministero dell’Interno (non alla P.I.). I programmi rimasero invariati con l’introduzione dell’insegnamento religioso, prospettiva accentuata con il Concordato del ’29 che dimostrò il poco interesse del regime fascista per l’educazione prescolastica. Nel 1940 fu la volta dei Programmi Bottai che prevedevano una scuola d'infanzia di due anni (dai 4 ai 6 anni) con caratteristiche preelementari e lo studio obbligatorio dell'educazione politica. Essa veniva considerata come inizio del servizio scolastico, obbligatorio e gratuito ed essenzialmente italiano, fascista nei metodi, negli ordinamenti e nel funzionamento. Si prevedeva inoltre: 1. premi, castighi e piccole distinzioni gerarchiche; 2. Insistente senso dell'ordine ed emulazione per promuovere il carattere; 3. giochi liberi e ordinati per favorire lo sviluppo armonico a livello fisico e preparare alla vita d'obbedienza e della GIL (Gioventù italiana del littorio, organizzazione giovanile fascista); 4. Esortazione delle insegnanti a promuovere la venerazione del bambino per i simboli del fascismo. 8.5 Nasce la scuola materna statale La fine della dittatura non diede inizio ad un rinnovamento della scuola ma, con i Programmi, Istruzione e Modelli per scuole elementari e materne del 9 febbraio 1945 del ministro Vincenzo Arangio-Ruiz, si ebbe il tentativo di far rivivere i caratteri della scuola del bambino e di recuperare alcuni caratteri del programma del '14. La nuova proposta era diretta a: 1. Recupero della spontaneità infantile con la valorizzazione dell'autonomia, della libera iniziativa del bambino e di attività didattiche sperimentali; 2. Affidamento alla scuola elementare dell'integrazione dell'opera educativa della famiglia, a cui spettava il rimato educativo: ordinamento interno non rigido ma conservatore del calore dell'ambiente familiare, affinché il bambino non si sentisse estraneo e perso; 3. Ampia libertà alle maestre: i programmi erano molto orientativi e le maestre dovevano avvicinarsi all'anima dei bambini con amore e materna comprensione; 4. Bambino come totalità indistinta (senso, intelletto e volontà) da rispettare nella sua spontaneità. CAPITOLO IX DISABILITA’ E SCUOLA 9.1 Nel mondo della diversità Una tematica, quella della diversità, che solo negli ultimi decenni è stata oggetto di studi, volti a ricostruirne l'evoluzione storica e, nello stesso tempo, a valorizzarne la presenza nella società. Una riflessione storico-evolutiva sui differenti modi e tecniche di affrontare i problemi degli individui colpiti da handicap è utile per contribuire a migliorare gli interventi educativi in tale campo e ad approfondire la conoscenza delle origini della mentalità che percepisce i diversi come emarginati. Tale questione ha interpellato l'idea che l'uomo si fa della sua natura soprattutto in riferimento al significato dato, nel corso dei secoli, alla parola Handicap. Etimologicamente essa deriva dall'inglese hand-in-cap, che significa mano nel berretto, e veniva utilizzata nelle corse dei cavalli quando veniva estratto l'ordine di partenza. Il termine richiama inoltre, l'antico nome con cui era denominata la pedagogia speciale, Pedagogia emendatrice, che si poneva come obiettivo quello di emendare (correggere, liberare) una situazione negativa, inserendo i portatori di handicap nella categoria dei diversi, cioè fra coloro considerati differenti. A livello scientifico e nell'immaginario collettivo, la persona con handicap è stata per molto tempo associata ad un difetto che, proprio perché ingigantito e generalizzato, finiva per essere interiorizzato come una colpa da chi era impossibilitato a vivere come normale. Almeno in questo campo oggi si sono visti cambiamenti nell'interpretazione di tale termine, non confuso più con quello di deficit oggettivo e irreversibile, ma dipendente prevalentemente da una serie di barriere di carattere architettonico, sociale, psicologico ed educativo che possono ostacolare in forma transitoria o permanente chiunque. Le persone con disabilità nel corso della storia sono state trattate in diversi modi, a seconda delle epoche. Nella Grecia classica, ad Atene, alcuni di essi erano oggetto di cure e trattamenti sanitari e anche di forme di assistenza pubblica. Erving Goffman ha illustrato i meccanismi con cui la mente umana è portata ad affrontare la realtà e ad attribuire significato, seguendo il processo di stigmatizzazione, costituita da 4 fasi: 1. individuazione di differenze adottate per accumulare individui che ne sono portatori e costruire categorie artificiali di persone da discriminare; 2. attribuzione di alcuni stereotipi negativi al gruppo; 3. Distinzione tra soggetti stigmatizzati e non; 4. produzione effettiva del declassamento dell'individuo stigmatizzato. Tale processo avviene, ed è avvenuto, nei confronti di tutti i diversi e che porta questi a comportarsi per come li si stigmatizza. Di conseguenza si ha una doppia emarginazione: 1. Difficoltà esteriore per mancata o difficile accettazione sociale; 2. Difficoltà interna allo sviluppo del sé e alla formazione dell'identità personale; sensi di colpa della persona con handicap e dei familiari che se ne prendono cura. 9.2. Nella storia Come già affermato la disabilità non è stata considerata allo stesso modo in tutte le epoche storiche, e non sempre portava alla marginalità. Alcuni disabili hanno assunto anche ruoli di un certo rilievo come in Egitto, dove vi erano gruppi di suonatori d'arpa ciechi; il re Batto, figlio di Argesilao, era zoppo; Tersite, personaggio dell'Iliade, brutto, zoppo e con le spalle torve e curve. Nell’Antico Testamento la disabilità fisica e intellettiva appare come una delle componenti della vita, frutto di accidentalità, di cattiveria o della nascita (metafora esistenziale dell’essere umano). Nel Nuovo Testamento Cristo predica accoglienza e carità e guarisce gli ammalati e promette loro di essere i primi nel Regno dei Cieli. Il cristianesimo sanzionò l’infanticidio e disciplinò l’abbandono con l’istituzione dei brefotrofi (istituto che accoglieva e allevava neonati illegittimi, abbandonati o in pericolo di abbandono). Nel Tardo medioevo partendo dalla considerazione che l’opera del Creatore è perfetta, i deformi e gli storpi erano considerati inaccettabili eccezioni da escludere alla vista (portatori di mala sorte, concepiti con animali o con il diavolo stesso). Nel Seicento-Settecento si assistette ad una sorta di furia classificatrice, attribuendo etichette e definizioni. Il cruccio erano le eccezioni, ovvero quegli individui e eventi difficili da classificare. Ci si chiedeva quali fossero le cause di simili sbagli. Le scienze mediche erano ancora agli esordi, dunque concezioni legate a riferimenti metafisici-teologici e filosofici. Si sviluppò un grande interesse per la teratologia (=scienza delle anomalie, dal greco theras=mostro). La donna era considerata la sola responsabile di tali anomalie, che avevano origine in circostanze particolari del concepimento (es. effetto delle costellazioni, maree, insufficienza di semenza generativa…). Nell’ Età moderna (tra i XVII e il XVIII secolo) la disabilità ritenuta più inquietante era la follia, non ancora codificata e spesso confusa con malattie intellettive, spaventava per la mancata capacità dell’uso della ragione ed il diverso andava escluso. Era il periodo del Grande Internamento (Parigi, 1656) di persone socialmente pericolose o potenzialmente tali. 9.3. Verso una nuova mentalità Nel suo noto Elogio della follia del 1540, Erasmo da Rotterdam ironizzava su quanto accettiamo comunemente come realtà normale e che, sottoposto ad una disamina critica, risulta essere irrazionale e generatore di comportamenti folli. Avvertiva quindi di come spesso ciò che viene sentito e disprezzato come follia poteva essere una forma di non accettazione di condizionamenti esterni. Anche Cartesio esprimeva le sue idee su ciò ritenendo che fosse utile un ritorno alla natura per liberarsi dai falsi condizionamenti che portavano a rapporti e comportamenti falsi. Jean Jacques Rousseau riabilitando l'educazione del cuore, l'innocenza, l'ignoranza e la spontaneità mirava a ricostituire nell'ideale di vita semplice l'uomo naturale, che riflette su se stesso, avendo la consapevolezza delle costrizioni sociali, ma anche delle proprie responsabilità. Affermava dunque il diritto delle persone disabili ad una pari attenzione ed educazione. Per certe menomazioni si erano già sviluppate iniziative specifiche, sostenute da interventi educativi. È il caso dei non vedenti, già dal 1265 a Parigi, nell'Hospice des Quinze-Vingts di Luigi IX, si raccoglievano i ciechi per cause di guerra o d'infortunio, offrendogli le prime possibilità di lettura mediante testi scritti con le lettere di Didymus, cioè lettere romane in leggero rilievo la cui forma potesse essere avvertita al tatto. A metà del 1600, il tedesco George Philipp Harsdorffer, aveva fabbricato particolari tavolette incerate su cui i cechi potevano imparare a scrivere, mentre lo svizzero Johann Bernouilli aveva inventato un particolare riquadro che guidava il percorso di una penna sulla carta. Ciò era il risultato di una mentalità colta e modificata in modo tale da rendere oramai inaccettabili le condizioni in cui erano i reclusori, tanto da portare Nicolas Baudeau, nel 1765, a proporre l'abolizione dell'internamento e una radicale riforma del sistema degli ospizi, sostituendo il concetto di castigo e reclusione con quello di soccorso pubblico. La situazione era quindi cambiata e i medici degli edifici di internamento chiedevano di riordinare le istituzioni che venivano considerate come un carcere, a luoghi di cura. Tra questi Phillippe Pinel, considerato un innovatore in psichiatria per la nuova concezione nei riguardi del malato di mente, che separò da altre figure di ammalati con i quali veniva comunemente associato. Nel suo Traité sur la manie (1800- 1809), attribuiva la genesi dei disordini mentali a vari fattori concorrenti come, ereditarietà, passioni, fattori fisici, genere di vita ed educazione ricevuta. Nel 1790 ricevette piena responsabilità di decisione e riuscì nell'intento di far uscire dalle prigioni dei malati mentali, e nel 1793 venne nominato direttore dell'ospizio di Bicêtre, dove famoso fu il suo intervento per togliere le catene ai malati. 9.4. La nascita delle pedagogie speciali Già Comenio aveva sostenuto l'educabilità di quasi tutti coloro che presentavano disabilità, e maggiormente coloro che le avevano psichiche. La malattia mentale Nel 1800, in Francia, il dipartimento dell'Aveyron catturò un bambino di circa 12 anni, apparentemente muto. Jean Itard, che lo prese con se, giudicava invece il ragazzo educabile e aprì le porte all’approccio pedagogico per i disabili intellettivi. Il suo lavoro influenzo Eduard Séguin nel 1846 pubblicò “Trattato sulla cura morale, l’igiene e l’educazione” il primo testo sistematico dedicato ai bisogni speciali dei bambini con disabilita mentale. Il quale smentì l’idea che non fosse possibile la loro educazione e propose una cura morale (igiene di vita e alimentare + ginnastica dei sensi). In Italia nel 1898 la Lega nazionale per la protezione dei fanciulli deficienti favorì la propaganda e la sensibilizzazione del problema e riconobbe la necessità di istituire delle scuole per la preparazione professionale del personale assistente e insegnante ai bambini anormali. Ferruccio Montesano nel 1900 attivò la Scuola magistrale Ortofrenica di Roma, mentre nel 1909 prima scuola differenziale italiana. Il sodalizio tra Montesano e la Montessori portò nascita di numerose istituzioni per l’assistenza dei minorati psichici. Nel mondo dei sordi Fino al ‘500 nessuno scritto era dedicato ai sordomuti, considerati inferiori e ineducabili. Le rappresentazioni da parte di studiosi dello stato del sordomuto, quasi sempre incentrate sulla sua infelicità e stupidità, hanno influito molto sugli atteggiamenti e comportamenti sociali nei loro confronti. Il primo studio autorevole sulla sordità fu del medico italiano Gerolamo Cardano, il quale affermava che i sordomuti potessero imparare a leggere e scrivere, decreto venne predisposta anche la formazione di personale adeguatamente specializzato, accanto ad altre importanti acquisizioni giuridiche nel settore del diritto allo studio, con apposite classi differenziali per i sordomuti/appositi Istituti per i ciechi. Nel 1928 il Regolamento generale sui servizi dell'istruzione elementare, emanava disposizioni relative agli istituti per fanciulli ciechi e sordomuti e dovevano avere al loro interno anche giardini d'infanzia per bambini ciechi e sordomuti. Nel 1932 a Padova, venne fondato l'Ente Nazionale Sordomuti, riconosciuto come ente morale, mentre nel 1934 sorgeva l'Ente Nazionale Lavoro Ciechi. Nel 1948 la Costituzione affermava l'uguaglianza dei cittadini, con pari dignità, uguali difronte alla legge e senza distinzioni di razza o sesso, e anche il diritto all'educazione e all'avviamento professionale dei minorati e inabili. Con la proclamazione della Dichiarazione universale dei diritti umani, il 10 dicembre 1948 dell'ONU, i problemi di soggetti disabili ebbero una risonanza internazionale, e così anche grazie alla Dichiarazione dei diritti del fanciullo del 1959. Le circolari ministeriali degli anni 1962-1963 stabilivano che i bambini della scuola elementare con anomalie o anormalità psicofisiche, dovessero essere avviati a: - classi o scuole speciali = insegnamento elementare ai fanciulli con minorazioni fisiche/mentali attraverso metodi didattici speciali. Edifici separati da quelli comuni. - Classi differenziali = 8-15 alunni che erano scelti da 2 medici neuropsicologi e da un pedagogista. Per la scuola materna statale bisognò aspettare la legge istitutiva n. 444 del 18 marzo 1968, che prevedeva per i bambini dai 3 ai 6 anni, affetti da disturbi dell'intelligenza o del comportamento o da menomazioni fisiche o sensoriali, la formazione di sezioni speciali presso scuole materne normali e, per i casi più gravi l'apertura di scuole materne speciali. Il nuovo clima degli anni '70 portò ad un cambiamento di mentalità e legislazione verso i diversi in genere e i disabili in particolare, prendendo avvio la fase dell'inserimento nella scuola di tutti. Il Parlamento italiano, con la legge del 1971 n. 118, propose un nuovo modello di scolarizzazione degli alunni mutilati ed invalidi civili con: - richiesta di eliminazione delle barriere architettoniche e adattamento dei trasporti; - classi speciali fruibili esclusivamente quando fosse accertata l'impossibilità di fare frequentare la scuola ai minorati; - Frequenza facilitata ma non garantita nelle scuole superiori. La legge, tuttavia, non forniva elementi precisi (quali modalità di integrazione attuare, quali norme per l’adeguamento degli edifici scolastici) per alcuni anni, dunque, le scuole speciali continuarono a funzionare. Nel frattempo anche a livello internazionale la situazione era un problema dibattuto e grazie alla Dichiarazione dei diritti degli handicappati mentali del 1971, promulgata dall'Assemblea delle Nazioni Unite, venivano finalmente riconosciuti, anche a tale livello, a tali soggetti gli stessi diritti di tutti. Sotto la spinta di ciò il ministero della P.I. il 15 giugno 1974 nominò una commissione di studio, presieduta dalla senatrice Franca Falcucci, con il compito di fare il punto della situazione dei soggetti disabili nel nostro Paese e di predisporre gli opportuni suggerimenti. Nel 1975 la commissione presento un documento che definiva i principi generali di una nuova scuola aperta a tutti con lo scopo di superare la condizione di emarginazione, anche attraverso la riorganizzazione dei servizi socio-sanitari: - La diversità è una realtà connaturale con l'essere umano per cui la frequenza dei bambini handicappati nelle scuole pubbliche non implica il raggiungimento di mete culturali minime comuni; - Criterio di valutazione dell'esito scolastico in base al grado di maturazione raggiunto dall'alunno, sia globalmente che a livello di apprendimento realizzato; - L’apprendimento deve valorizzare tutte le forme espressive attraverso le quali l'alunno realizza e sviluppa le proprie abilità. Con la legge n. 517 del 4 agosto 1977, si concludeva il lungo iter che portava all'inserimento degli alunni disabili nella scuola comune con: 1. Attività scolastica integrativa organizzata per gruppi di alunni della classe o delle diverse classi nella scuola elementare; 2. forme di integrazione e sostegno nelle scuole medie; 3. necessità di integrazione specialistica e del servizio socio-psicopedagogico; 4. sostituzione del termine "inserimento" con il termine "integrazione" con lo scopo della reale immissione completa nel gruppo dei coetanei; 5. abolizione delle classi di aggiornamento e differenziali; Tra gli anni 70 e 80 vennero emanati altri documenti importanti, alcuni dei quali stabilirono che: il docente di sostegno deve essere pienamente coinvolto nella programmazione e nella verifica dell’alunno con disabilità e deve avere apposita qualificazione; responsabilità educativa delegata a tutto il corpo insegnanti; prove di esame differenziate; necessita che la scuola affronti il processo educativo-didattico sulla base di una diagnosi funzionale > servizi specialistici. Nel 1992, Legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate aveva come obiettivi la promozione autonomia e realizzazione dell’integrazione sociale attraverso diversi propositi sviluppo della ricerca, intervento tempestivo dei servizi terapeutici e riabilitativi, sostegno alla famiglia attraverso informazioni sanitarie e sociali, ecc. legge che sancì il passaggio da una forma di Stato assistenziale ad uno Stato sociale incentrato sulla persona con disabilita. La scuola deve provvedere alla formulazione del PEI (piano educativo individualizzato), con la collaborazione dei genitori, degli operatori sanitari e del docente specializzato. Nel 1994 un DPR approfondiva in maniera analitica le procedure per: - la formulazione della diagnosi funzionale (DF) descrizione funzionale dello stato psicofisico dell’alunno - del profilo funzionale (PDF) indica il prevedibile livello di sviluppo che l’alunno con disabilità dimostra di possedere nei tempi brevi, 6 mesi, e nei medi, due anni) - del PEI cioè gli interventi integrati predisposti per l’alunno con handicap Tuttavia, ancora oggi troviamo limiti nell’integrazione scolastica e sociale > diversa interpretazione del concetto di integrazione, che significa anche riconoscere i bisogni particolari per tutti (ognuno è diverso e speciale nella sua individualità). 9.6. Una risposta educativa all'handicap La Pedagogia speciale, fin dalle sue origini, ha cercato di offrire una risposta educativa al problema dell'handicap, indipendentemente dalle forme e modalità del suo manifestarsi e il suo corpus teoretico è composto da 4 punti cardine: 1. Diritto di ogni uomo, indipendentemente dalle condizioni di vita in cui si trova, di ricevere educazione; 2. Limite/deficit considerato come parte costitutiva della natura umana, quindi non va scartato; 3. Handicap e deficit vanno considerati come problemi diversi e differenziabili nel percorso di sviluppo umano, quindi richiedono risposte e percorsi di presa in carico differenti; 4. Handicap richiede percorsi umani, culturali, sociali ecc fondati entro una ratio educativa, evolutiva, prospettica volta a generare sviluppo umano e qualità di vita, indipendentemente dalla gravità e tipologia del deficit. Si formulano due approcci differenti: 1. Educativo-didattico con un'impostazione di pensiero umanistica e concentrati per lo più sui casi di disabilità sensoriale; 2. Educativo-riabilitativo concentrati su disabilità intellettive, motorie e psichiche con impostazione di tipo scientifica. L'educazione speciale oggi Lo scenario entro il quale va guardata oggi la pedagogia speciale è uno scenario che offre un concetto di disabilità modificato rispetto al passato, e con il quale oggi si intende indicare la conseguenza o il risultato di una complessa relazione tra la condizione di salute di un individuo e i fattori personali ambientali che rappresentano le circostanze in cui egli vive. A questa nuova visione hanno contribuito gli stessi disabili percependosi in modo nuovo e chiedendo anche alle altre persone di considerarli in modo differente, e ciò è relativo anche al superamento del modello medico-scientifico della disabilità, basato sull'equivalenza disabilità-malattia. Oggi ci si riferisce infatti al modello dei diritti che non si focalizza sullo stato di malattia in quanto tale, ma sulla persona disabile in quanto essere umano che, così come ogni altro uomo, gode di dignità e di diritti. Oggi si assiste ad una maggior presenza dei disabili nelle scuole, ma anche di soggetti con bisogni educativi speciali (BES) = situazioni di bisogni relativi alla presenza di difficolta di apprendimento o da condizioni di svantaggio sociale che, qualora trascurate, possono generare insuccesso scolastico ed esclusione dai processi educativi. Con particolare riferimento agli sviluppi della legislazione scolastica, nel corso del tempo si è potuto assistere alla progressiva evoluzione del significato stesso di Educazione speciale, giungendo a 3 differenti concezioni di ciò e di alunno speciale: 1. Segregativa: educazione speciale come intervento educativo, riservato ad una determinata categoria di studenti (speciali) e che si esplica tradizionalmente nella istituzione di scuole speciale e classi differenziali, prevedendo la presenza di figure professionali con competenze specifiche adeguate al trattamento e gestione educativo-riabilitativa degli studenti con diverse tipologie di deficit; 2. Integrativa: educazione speciale come educazione mirata a favorire e promuovere i processi di integrazione degli studenti certificati handicap, inseriti nella scuola di tutti; si esplica nelle scuole ordinarie, dove operano accanto agli insegnanti disciplinari, quelli di sostegno che, seppur con medesima formazione di base dei colleghi, hanno un percorso formativo aggiuntivo sulle diverse disabilità, mirato a favorire i processi di integrazione scolastica degli alunni a cui sono assegnati in base a criteri stabiliti dalla legge;