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Nuovi Alfabeti: educazione e culture nella società post-mediale, Sintesi del corso di Sociologia dell'Educazione

La diffusione dei media digitali e sociali e la loro pervasività di impatto sulla vita delle persone ha favorito un processo di normalizzazione della Media Education: da attenzione di nicchia, essa è diventata preoccupazione diffusa.

Tipologia: Sintesi del corso

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Scarica Nuovi Alfabeti: educazione e culture nella società post-mediale e più Sintesi del corso in PDF di Sociologia dell'Educazione solo su Docsity! CAP. 1: NORMALITA’ E LEGGEREZZA DELLA MEDIA EDUCATION (Quando si parla di Normalizzazione si fa riferimento ad una situazione diversa, “che non era normale” come, ad esempio, la Dad di cui ci sono sempre state poche pratiche con scarsa qualità ma che, a partire da una certa data, essa si è imposta a livelli educativi. La Media Education invece, rappresenta quell’ambito di studi che fonda diverse discipline, diversi saperi che vengono utilizzati nel contesto dell’educazione. Attraverso l’esempio della Dad, si può far riferimento all’uso dei media che nell’ultimo anno è diventato un qualcosa di normativizzato nella didattica scolastica. Ma sostanzialmente, la Dad utilizzata anche attraverso i Media ricorre da almeno un 30ennio anche se molti docenti opponevano resistenza a riguardo. Questo però, ad oggi, appare come unico canale di comunicazione ed in un certo senso di sopravvivenza. Ci siamo ritrovati una specie di Pandemia Big Bang delle Dad in cui ci si chiede se i Media saranno il futuro della didattica: si cestinerà completamente tutto dolo la pandemia o la si integrerà alla didattica tradizionale? Una parola chiave che risalta in questa situazione è INNOVAZIONE DELLA DIDATTICA che si definisce attraverso 5 caratteristiche:  COSA INSEGNARE: capire e definire gli obiettivi di apprendimento che l’azione didattica deve avere;  COME INSEGNARE: quali strategie utilizzare;  MODALITA’ DI VERIFICA DELL’APPRENDIMENTO: saper creare momenti di monitoraggio e verifiche intermedie per poi poter giungere alla prova ed esito finale;  STRUMENTI: affiancare, utilizzare anche altre fonti di conoscenza in aggiunta del libro in modo da integrare saperi che vadano oltre il semplice libro di testo;  RUOLO DEL DOCENTE: in cui bisogna conoscere, sperimentare, interrogarsi su come sta andando la didattica. Un tempo c’era molto resistenza e poche competenze sui media digitali per l’insegnamento; ad oggi, grazie alla realtà che stiamo vivendo e all’utilizzo necessario dei media digitali per affrontare la didattica, si stanno aprendo molte finestre in merito.) 1: LA NORMALIZZAZIONE DELLA MEDIA EDUCATION Come già negli anni ’80 del secolo scorso, la Media Education, si affermò in diversi Paesi e non ha avuto facile riconoscibilità. Solo negli anni ’90 ci si adoperò ad un lavoro principale di accreditare la Media Education: definirla come disciplina, farla entrare in Università, diffonderne la sensibilità nelle scuole. Quando di pensa ad una normalizzazione della Media Education, si sta pensando al processo esattamente contrario. Si usa questo termine in due sensi: 1.1: L’AFFERMAZIONE SOCIALE DELLA MEDIA EDUCATION A un primo livello, la Media Education diviene “normale” perché tutti ne parlano, perché il costrutto è entrato nella discorsivizzazione sociale, perché pare che più nessuno dubiti della sua rilevanza nei processi educativi. Se si utilizzasse Google per una ricerca con la parola chiave “Media Education”, si possono ritrovare molte pagine dedicate al termine ed in particolare, Wikipedia si ferma al 2006 nell’analisi di una, peraltro, stringatissima bibliografia e traduce il termine dall’inglese con “educazione ai media” o “educazione mediatica”. Si crea una sorta di Agenda digitale che indica come obiettivo della Media Education la formazione del “cittadino scientifico di domani”. Una rapida scorsa di queste fonti restituisce un passaggio di frase fatte, datato dal punto di vista dei riferimenti teorici quasi mai appoggiati alla ricerca. Dinanzi a tutto questo, viene da chiedersi quali siano le caratteristiche di un “cittadino scientifico” o come si possa pensare di educare ancora ai mass media in Letizia Rossiello tempi nuovi o di continuare a definire “nuovi” i media digitali nonostante tre decenni di presenza di cellulari e internet. La riflessione che a margine di questo tipo di considerazioni si può fare è che, quando la Media Education era un sapere di nicchia che faticava ad ottenere riconoscimento sociale, chi se ne occupava erano gli specialisti. Poi, grazie alla sua diffusione sociale, c’è stata una maggior presenza sociale e allo stesso tempo ha fatto sì che vi accostassero anche coloro che specialisti non sono. Il bello è che gli stessi specialisti che avevano lottato per un suo riconoscimento sociale, si rivelano i primi responsabili delle conseguenze negative di tale riconoscimento. Una questione che possiamo ritrovare legata all’affermazione sociale della Media Education è la sua generalizzazione, al fatto che si ritenga di poter ricondurre a essa una vasta gamma di fenomeni e di processi anche negativi come: la prevenzione dei comportamenti digitali scorretti, l’uso delle tecnologie nella didattica, competenze informatiche di base, l’uso del cinema e dei media nella didattica, i sistemi di parent control, ecc. Questi rischi che emergono cercano di applicare l’etichetta ai Media Education a qualcosa che Media Education non è. 1.2: L’IMPORSI DI UN PARADIGMA Un secondo senso della “normalità” della Media Education ha a che fare con l’epistemologia, ovvero con il modo in cui una teoria si afferma su base storica. Si pensa in modo particolare alla proposta di Kuhn che condivide il pensiero che la forza di una teoria scientifica sta nel suo valore esplicativo: più spiega, più viene accettata. In questo si coglie anche un secondo aspetto ovvero che senza l’accettazione della comunità scientifica la teoria non si potrebbe imporre. Quindi una teoria per essere valida necessita di avere una componente sia scientifica ( spiegare i fenomeni) che sociale ( accettazione da parte della comunità scientifica). Per descrivere il percorso attraverso il quale una teoria si affaccia al dibattito scientifico, Kuhn ricorre a 3 fasi: - Scienza “non normale”: diverse ipotesi teoriche si confrontano per verificare quale di esse spieghi meglio i fenomeni. Durante tale confronto, una delle teorie entra in conflitto e si impone attraverso il riconoscimento da parte degli scienziati entrando nella fase della “scienza normale” al termine del processo. La teoria vincitrice verrà corroborata e accettata da tutti. - Per confermare la sua validità, si a mettere alla prova la teoria cercando dei fenomeni che essa non riesca a spiegare (anomalie). Inizialmente, il paradigma teorico pone resistenza alle critiche ricevute e finisce per modificarsi così da spiegare anche le eccezioni sollevate dai suoi avversatori, ma con il tempo le eccezioni aumentano così tanto al punto che diviene impossibile correggere il paradigma. In questo modo si entra in una sorta di “crisi”. - Dinanzi a tale crisi si aprono le porte alla fase della “rivoluzione scientifica”in cui entrano in gioco nuovi paradigmi che entrano in conflitto con esso e dimostrano di saper spiegare meglio i fenomeni. Superano così il paradigma precedente. Se durante la fase di scienza normale i ricercatori non lavorassero alla falsificazione del paradigma, non vi sarebbe nessun progresso ma si rimarrebbe fedeli al paradigma di quel momento riconosciuto. Inoltre, durante la fase di scienza normale ci si limita ad applicare solo ciò che si ritiene valido, mentre nelle altre il lavoro di ricerca è più vivace poiché si fanno emergere dei paradigmi e si prova a mandarli in crisi. A tal proposito, quindi, la Media Education, potremmo dire che si insedia nella fase di scienza normale poiché essa attraversa un momento di stagnazione dal punto di vista della ricerca: nessuno mette mai Letizia Rossiello Entra in gioco nuovamente il problema citato precedentemente: la proporzionalità inversa tra la diffusione di una sensibilità mediaeducativa e la possibilità di trattare la questione dei media in modo aggiornato e complesso, quasi come se lo sconto da pagare alla diffusione sia la perdita di profondità o la semplificazione. Lo stesso problema si incontra in molte pubblicazioni che si indirizzano a genitori ed educatori in cui si rinuncia al linguaggio e all’apparato concettuale della ricerca: gli ISTANT BOOK. Essi trovano spazio presso piccoli editori o l’editoria religiosa ma anche nelle case editrici che si occupano di psicologia ed educazione. Come nel caso delle CHECK LIST, anche gli ISTANT BOOK presentano un approccio semplificatorio al problema che prende corpo in suggerimenti pratici, piccoli giochi, ricette da applicare. Tutto il contrario di quello che i media e le loro dinamiche dovrebbero suggerire. 2.5 LA VIA DEI DECALOGHI Un’altra forma della Media Education leggera è quella del DECALOGO. Ci sono diversi tipi: DECALOGO PROFESSIONALE orientato a fornire un supporto deontologico a categorie come quelle dei giornalisti che sono particolarmente provocate dalla questione etica riguardo ai media; DECALOGHI PER L’USO CORRETTO DEI MEDIA IN SCUOLA: si pensi quello proposto nel 2018 dal ministro Fedeli a Bologna in occasione di “Futura” , un incontro di tre giorni dedicato alla diffusione dei temi del Piano Nazionale Scuola Digitale in cui si promuoveva un uso responsabile dei media digitali in classe con l’obiettivo di sanare la contraddizione di politiche scolastiche che, mentre da una parte continuavano a promuovere l’uso delle tecnologie digitali in classe, dall’altra ancora riconoscevano validità al decreto Fioroni 2007 che ne proibiva l’uso. Il decalogo Fedeli correggeva il tiro chiedendo ai dirigenti scolastici di dotarsi nei loro istituti di “Politiche di Uso Accettabile ”. (PUA) (vedi fig.6, p.31) DECALOGHI VOLTI A PROMUOVERE COMPORTAMENTI CORRETTI IN RELAZIONE A SPECIFICI PROBLEMI come la sicurezza informatica o le fake news. Per quanto riguarda l’uso sicuro di Internet si può fare riferimento al DECALOGO DELLA POLIZIA POSTALE che da anni fronteggia e previene le conseguenze del crimine informatico. Per quanto riguarda, invece, le fake news il riferimento d’obbligo è sia al DECA-logo che unisce MIUR e società civile sia al DECALOGO DEI FACTCHECKERS. Quest’ultimo ha l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica al fenomeno delle fake news attraverso conferenze, corsi di formazione, lezioni nelle scuole e nelle università. MANIFESTO DELLA COMUNICAZIONE NON OSTILE: è il decalogo più famoso promosso nel 2016 dall’associazione “Parole Ostili”. Il manifesto è diventato il perno di una serie di eventi formativi di comunicazione e sensibilizzazione generale per la promozione di una più pacifica cultura della rete. Il decalogo raccoglie i punti chiave su cui s’intende portare l’attenzione. Il rischio di questo manifesto riguarda gli impliciti che la sua diffusione al grande pubblico può rischiare di accreditare: - La forma del decalogo è una natura contratta. La necessità di dire tutto brevemente e per mezzo di uno slogan rispondono alla vocazione comunicazionale del decalogo che deve colpire il target, attivare emozioni e riflessioni. Il problema è che la brevità implica il non dover esplicare tutti i passaggi necessari perciò si ricade in una scarsa coerenza argomentativa: la generalizzazione astratta e lo spostamento del problema. - Linearità del decalogo che si esprime attraverso l’intenzione di proporre singole proposizioni come regalo di comportamento. Essa accredita l’idea che il problema dei media si può circoscrivere e risolvere in forma semplice come nel caso delle cheklist, ma soprattutto propone implicitamente Letizia Rossiello l’idea che rispettando queste idee minime si possa stare tranquilli, invece di approfondire e analizzare al meglio le questioni. 3 CONCLUSIONI In riferimento a quanto detto su normalità e leggerezza della Media Education, nella situazione attuale, occorre registrare come essa sia accompagnata da un atteggiamento di tecnoscetticismo. Tale concetto di collega al concetto di tecnoentusiasmo coniato da Bauman per indicare una delle possibili posture difronte al futuro. Dinanzi ad un futuro incerto che non possiamo controllare e del quale siamo solo pedine sulla scacchiera, l’unico sollievo è guardare indietro, guardare a ritroso: una forma di retrotopia che nel caso dell’educazione ai media prende corpo sempre più in forme di luddismo mediale, di nostalgia per la vita prima degli schermi e nella prospettazione di soluzioni di Digital detox. La retrotopia agisce qui: il digitale non è ne la nostra salvezza (utopia) ne la nostra condanna (distopia) ma qualcosa semplicemente da evitare attraverso il recupero regressivo di forme di vita analogica. Si tratta di una posizione che si tende oggi sempre più ad adottare in un clima culturale generale che accomuna la fuga dell’istruzione istituzionale (outdoor education, asili nel bosco) , la sensibilità ambientale, la sostenibilità, la ricerca del benessere, la felicità. Si tratta di ristabilire un equilibrio tra il tempo trascorso sui nostri device connessi e di uno stile di vita più analogico. La self science si propone come la nuova disciplina della cura di sé producendo seminari e percorsi da proporre nelle scuole e aziende per offrire un metodo che permette di riappropriarsi del tempo e migliorare la produttività anche quando si è lontani da notifiche, e-mail, social network. Il risultato è una forma di tecnoscetticismo sterile che non aiuta effettivamente le persone a convivere con i media sfruttandone le opportunità e alimenta l’idea erronea che in qualche modo si possa fare a meno dei media in una società che è fatta anche di media. CAPITOLO 2 ETA’ E TRASFORMAZIONI DELLA MEDIA EDUCATION CAPITOLO 2 ETÀ E TRASFORMAZIONI DELLA MEDIA EDUCATION Per Buchdahl , una qualsiasi teoria si può analizzare facendo riferimento a tre componenti: una componente ontologica , una componente metodologica è una fisica. Nel 1999 questa riflessione su Buchdahl permette la pubblicazione di Media Education. Per dimostrare che La Media Education fosse una disciplina scientifica e non solo un insieme scomposto di entusiasmi. Per farlo tornai al senso originario della riflessone di Buchdahl , provando a verificare che anche la media Education disponesse di un ontologia , di una metodologia e di un campo. Infatti il volume del 2001 dimostra ancora oggi che la media Education esce vincente dall verifica. 1.Far dialogare le culture Il punto di partenza di questi anni era comune a quello di chi lavoravano sulle differenze tra contenti formali e non formali registrando la “ differenza” di funzionamento pedagogico dei primi e dei secondi, Letizia Rossiello quest’ultimi soprattutto in relazione al nuovo , protagonisti poi quelli che si sarebbero chiamati media digitali. La mia tesi a riguardo in quegli anni era che vi fosse contraddizione tra ciò che i media hanno da suggerirci in campo educativo e il silenzio della ricerca a riguardo. Le tre istanze di allora erano : la convergenza digitale , L’ avvento del network society, l’ affermarsi di modalità collaborative di costruzione della conoscenza. È facile notare come tutte queste istanze ci rimandano ad una base di tipo comunicativo e implichi importanti conseguenze in ambito educativo. Il telefono, il pc e la tv sono protagonisti del nuovo contento comunicativo. Quanto all’ educazione , i fenomeni descritti la descrivono in vario modo. L’obiettivo vero era quello di sollecitare la ricerca,più quella pedagogia che quella comunicazione le Di qui la denuncia esplicita di un ritardo , se no addirittura una dimenticanza. Questo quadro generale indica non solo un atto di attualità sulla comunicazione ma anche un atto di urgenza nel ridurlo a strategia operativa a diversi livelli. La questione è che di tale consapevolezza non si trova traccia. Nel campo universitario possiamo dire che il riconoscimento disciplinare tra pedagoga e comunicazione é stato risolto poiché ci sono corsi sulla Media Education. Una Grazie questione è anche la Media Education con il tema della cittadinanza.Il compito dei media Education divenirne quello di fornire un nuovo modo di sviluppare il vivere sociale cioè facciamo riferimento all’ educazione alla cittadinanza : abbracciare i media e impegnarsi responsabilmente all’ utilizzo di essi e con essi. Dall’ altra parte abbiamo il fattore del’associazionismo cioè L’ educazione può garantire alla comunicazione anche uno spazio di confronto e riflessione di idee , condivisone di esperienze non solo tra singoli. Facciamo riferimento al MED ( associazione italiana per L’ educazione ai media e alla comunicazione ) nata con questo compito. Il MED poi è entrato anche nel campo della formazione. 2.”nascita” di una nuova “ disciplina” L’ esigenza di avvicinare i mondi della comunicazione e dell’ educazione trova risposta , pressappoco negli stessi anni , nel lavoro di costruzione teorica della Media Education come disciplina. Il punto di partenza era capire se la media Education fosse solo movimentismo o anche scienza. In sostanza la convinzione che c’era inizialmente era che se la media Education non si fosse presentata come una disciplina non avrebbe potuto farsi riconoscere dai suoi interlocutori. Bisogna , quotando ci siderars la media Education non più come oggetto-valigia ma oggetto -frontiera capace di raccogliere apporto sia dalle scienze dell educazione che da quelle della comunicazione. Ma in realtà non ci dovrebbe più parlare di due ptocessi scissi ma di media Education come campo multidisciplinare di ricerca e intervento. Definito così L’ oggetto della media Education e data una definizione Larga del termine possiamo procedere dimostrando essa aveva una storia. Lo si dimostra attraverso dei criteri guida : specifici ( ovvero L’ attenzione prima rivolta alla carta stampata, al cinema, poi alla televisione e in fine si media digitali) metodologie e gli approcci ovvero differenti modelli teorici che nel tempo di sono susseguiti a guidare il lavoro educativo. Però oltre alla storia, molto probabilmente la media Education ha anche una preistoria poche la prima definizione Di media Education risale agli anni 70 del secondo scorso data dall’ UNESCO ma come abbiamo visto il rapporto tra media ed educazione è precedente , ed è chiaro che bisogna parlare di preistoria della media Education. 3.Un metodo per la Media Education L’ ultimo elementi da descrivere è il metodo della media Education. La proposta che emergeva era principalmente un mix derogabile da tre contenuti : semiotica, sociologia del consumo e formazione. Da sempre nella tradizione della media Education vale il principio secondo cui gli specchi dei media sono sporchi, opachi. Ecco perché si parala di tre fondamentali dimensioni della media Education: • la dimensione testuale ( elementi grammaticali, codici ..) • La dimensione istituzionale ( contesto economico , politico ..) Letizia Rossiello oppure di media-ambiente come nel caso del cinema. Infine, l’empowerment, è il tipo di intervento più specificamente mediale. In questo caso i media non sono solo strumenti di elaborazione del disagio, ma lo spazio stesso entro cui il disagio di manifesta. L’obiettivo è di far maturare le competenze, di costruire la capacità del soggetto di usare i media in termini positivi, funzionali alla cittadinanza, lontani dalle forme della trasgressione. Gli strumenti sono il laboratorio e la riflessione come palestre in cui allenare il senso critico e costruire la responsabilità. Quest’ambito della prevenzione anticipava quello che negli anni successivi sarebbe diventato il CREMIT (2006), con riferimento alla metodologia della Peer & Media Education e alle collaborazioni con i contesti sociosanitari. L’empowerment, non rappresenta un terzo ambito, ma uno stile di declinazione dei due precedenti. È di fatto la specificità della Media Education sia in chiave preventiva che clinica. Lo si nota nelle proposte che il CREMIT negli ultimi anni ha lasciato per la prevenzione e cura del cyberbullismo. (Tabella 1 pag. 77) Rivoltella arriva così a sostituire le metafore del farmaco e dell’alfabeto con quelle del luogo e del ponte. Il luogo, come ambito di intervento allude a come il web, in particolare i social, rappresentino per l’intervento di prevenzione a tutti gli effetti nuovi spazi individuali e sociali in cui il disagio si può manifestare; il ponte, fa riferimento a come proprio gli spazi di social networking possano costituire per gli operatori una prima occasione per agganciare i portatori di bisogno, accostarli per un primo sopporto, accompagnarli al servizio per l’avvio del trattamento. 5. Peer & Media Education La Peer Education rappresenta una metodologia di prevenzione del rischio in adolescenza (soprattutto correlato all’uso di sostanze o alla trasmissione di malattie sessuali) che costituisce un’alternativa ai metodi classici basati sull’informazione da parte di specialisti (medici, psicologi). Il vantaggio della Peer Education sta nel fatto che i destinatari non sono un semplice terminale passivo di informazioni (difficili da recepire per il difficile linguaggio utilizzato) e che se sono i pari età a promuovere comportamenti, essi risultano sicuramente più convincenti di professionisti adulti, percepiti come lontani e sempre molto preoccupati delle conseguenze di qualsiasi comportamento. Su tale metodologia, l’associazione Contorno viola aveva già lavorato per anni, mettendo a fuoco un approccio basato su un training breve e su un coinvolgimento meno centrale degli insegnanti, quando poi nel 2008 Rivoltella fu invitato a tenere una relazione al convegno da loro organizzato a Verbania sulla Peer & Video Education. Da questo convegno emerse che Contorno viola era nata come associazione dei familiari dei malati di HIV, estendendo poi la loro azione di prevenzione anche per le malattie sessualmente trasmesse e, attraverso la Peer Education, aveva finito per incontrare i media; Rivoltella e il suo centro di ricerca invece, partiti dalla Media Education in scuola, avevano poi esteso gli interventi media-educativi anche fuori dai contesti scolastici, finendo comunque per incontrare il mondo della prevenzione e la Peer Education. Nel 2008 quindi, la Peer & Video Education era concepita come un modo di fare Peer Education in cui il nucleo d’attività che i peer propongono ai compagni consiste nell’analisi o nella produzione di un video. Letizia Rossiello Esempio, se l’obiettivo è promuovere l’uso del profilattico, chiedere ai Peer di costruire uno spot di pubblicità sociale che si rivolga agli adolescenti e che abbia questo obiettivo; sarebbe un modo per costringerli a prendere informazioni, elaborarle e montarle in immagini e suoni. Quindi il video funge da elemento di motivazione; il lavoro di realizzazione consente al gruppo di acquisire quelle conoscenze e svilupparle in competenze che l’intervento di prevenzione si propone. Funziona come una sorta di mediatore didattico nella logica della didattica indiretta: mettere al centro l’attenzione del video, ma di fatto intende sviluppare life skills. Rivoltella al convegno si colloca da un punto di vista simmetrico e capovolto rispetto al Contorno viola: Loro vedevano i media da operatori della prevenzione, Lui cercava di guardare alla prevenzione da operatore della Media Education. E ciò lo porta a interrogarsi su, in che misura l’intervento di Peer & Video Education, mentre consentiva di fare prevenzione attraverso la produzione di un video, non consentisse anche di educare alla produzione del video. Non solo, il video stesso inteso come prodotto socio-culturale, poteva essere reso oggetto di un discorso di prevenzione dal momento che costituisce un potente dispositivo di rappresentazione sociale e di orientamento dei comportamenti. Inoltre, cercare di estendere le considerazioni da fare non solo al video ma all’intera sfera che comprende la diffusione del web 2.0 e dei primi social network. Ciò quindi suggeriva non solo che i dispositivi di rappresentazione sociale dei comportamenti si erano moltiplicati e consistevano di spazi più pervasivi e ubiqui, ma anche che ragionare su questi spazi (i blog, i social) nella logica della prevenzione comportava di chiedersi se la classe rappresentasse ancora il luogo più adatto per l’adolescente. Il dibattito che emerse al convegno produsse due seminari residenziali a porte chiuse a Verbania nei quali ci si interrogò a fondo sulle convergenze tra Peer Education e Media Education e i risultati di quei seminari furono un quaderno monografico per la rivista l’Animazione sociale e un volume per FrancoAngeli. Nel quaderno di Animazione sociale Rivoltella cercò di dar corpo alle sue riflessioni. Il suo punto di partenza era l’individuazione del terreno comune tra Peer e Media Education: “Sia la Peer che la Media Education hanno lo stesso problema: il rischio in età evolutiva. In un caso vi è il rischio di contrarre malattie a trasmissione sessuale, o dipendenza da sostanze, nell’altro è di rinunciare a pensare con la propria testa del consumismo, della superficialità, della sicurezza in Internet. Per cui, l’obiettivo di entrambe è la prevenzione. Inoltre, entrambe si occupano di fronteggiare il rischio con metodi attivi e guardano alle culture partecipative giovanili nella logica dell’animazione. Ci si chiede quindi se Peer Education è in qualche modo Media Education. Si risponde a ciò rifacendosi proprio alla diffusione dei media digitali e sociali; Cell, Facebook, Messanger, appartengono alla quotidianità del preadolescente e adolescente di oggi. Essi prolungano il tempo da trascorrere con i propri amici arrivando a costituire uno spazio di investimento affettivo, dinamica relazionale. Ciò comporta due conseguenze: -molte delle pratiche rispetto alle quali la Peer Education intende fare prevenzione passa proprio attraverso questi media: dagli autoscatti a impatto sessuale spediti via cell o condivisi in Facebook nei vari gruppi; - proprio i digital e i social media divengono oggetto e spazio di un intervento rivolto alla prevenzione poiché in essi si costruiscono comportamenti e culture cui i più giovani si confrontano. Quindi sembra vi sia uno spazio condiviso tra Peer e Media Education, tanto da poterla anche definire una Peer Education 2.0, per distinguerla dalla 1.0 in cui i media non erano previsti o erano usati solo come strumenti. A Rivoltella però piace più chiamarla Peer & Media Education, dove la & indica che non si parla né di una né dell’altra ma di un intervento che è allo stesso tempo Peer e Media. Letizia Rossiello In questa posizione merita di essere sottolineato il coraggio e il rischio. Il coraggio sta proprio nell’optare per una relazione forte tra Peer Education e Media Education, in quanto non si assomigliano, ma entrambe sono orientate allo sviluppo di life skills e caratterizzate da una vocazione preventiva. Il rischio risiede anche in questo, se la Peer Education è anche Media Education, significa allora che ogni intervento di Peer è anche un intervento di Media Education? La soluzione risiede nell’andare a salvaguardare l’apporto di ciascuna delle due tradizioni attraverso la creazione di uno spazio metodologico che ne garantisse il reciproco rafforzamento. Da qui, Peer & Media Education. In questo spazio metodologico ritroviamo degli elementi distintivi: situazione, obiettivo, contenuti e competenze. Quando si parla di situazione, si fa riferimento non a uno spazio fisico ma a uno scenario di azione. Nel caso della Peer & Media Education le situazioni da poter immaginare sono tre: - Peer & Media Education brick. Brick vuol dire mattone e fa riferimento a una situazione presenziale, il cui riferimento è il gruppo (come in 1.0). L’intervento qui viene condotto attraverso l’uso integrato dei media sia come strumento che come contenuto dell’intervento stesso. - Peer & Media Education click. Click indica lo spazio della Rete e fa riferimento ad una situazione online in cui il peer non opera su un gruppo preciso ma all’interno di una community o di un social network. Qui, l’intervento viene operato senza condivisione di una situazione presenziale e affidato alla sola relazione per via telematica del peer con i soggetti su cui sta intervenendo. - Peer & Media Education brick and click. Si tratta della situazione più comune, ovvero quella in cui il riferimento è il gruppo, con esso in presenza si fa un uso integrato dei media digitali e comunque l’intervento prosegue anche nel social network dove il peer, oltre che ha a che fare con i membri del gruppo, interagisce anche con altri soggetti che appartengono ai loro network sociali. Queste tre situazioni sono di fatto due, l’ultima appare come una doppia possibilità per una delle due. La prima situazione (Brick) è quella di una Peer & Media Education, che come la classica, trova nella scuola lo spazio più naturale per il reclutamento dei peer, si svolge all’interno del gruppo dei pari in presenza e utilizza i media come strumento e oggetto di intervento. Quando questa situazione viene prolungata nello spazio e nel tempo grazie ad ambienti online, si parla di una Peer & Media Education che articoli quella che Slevin (2000) definisce la sua arena di circolazione primaria dei significati, con altre arene di circolazione secondarie. Lo spazio online quindi, oltre a rappresentare lo spazio in cui i peer si rivolgono direttamente al loro gruppo (arena primaria), può diventare uno spazio in cui i membri del gruppo possono invitare i loro amici a popolare (arena secondaria). L’altra situazione (Click) è rappresentata da una Peer & Media Education che cerchi direttamente in Rete i propri destinatari. Completamente online, non si rivolge quindi ad un gruppo intercettato in presenza e tato meno si estende agli amici dei membri, ma raggiunge pari direttamente online in quelle che Slevin chiamerebbe arene periferiche di circolazione. L’obiettivo invece, della Peer & Media Education, si colloca in un continuum compreso tra la necessità di evitare o eliminare il rischio e la costruzione di consapevolezza. La prevenzione può ridursi allo sviluppo delle skills (capire che devo usare il profilattico per rapporti sicuri) ma può anche spingersi oltre, verso lo sviluppo di un atteggiamento responsabile appoggiato alla riflessione critica e alla cultura. Il continuum cui si fa riferimento è compreso tra la semplice riduzione del danno e la comprensione dei significati profondi delle pratiche. Letizia Rossiello La logica della rappresentazione è sempre una logica di distanziamento e di delega. Si tratta di logiche opportune che però nascondono un’oscillazione. Il distanziamento, la giusta distanza, serve a mettere a fuoco meglio l’oggetto: molte volte si comprende solo quando ci si sofferma sulle sue rappresentazioni. Se diventa eccessiva la distanza sottrae l’oggetto alla sfera d’azione del soggetto, lo può occultare, può farlo apparire per quello che non è. La delega, se da una parte legittima la rappresentanza, dall’altra può nascondere il senso di una delega che dice di un disinvestimento, di uno scarso impegno, della tendenza a non investire in prima persona. Essere una società delle delega o della testimonianza, della fiducia o del disimpegno, è una questione che impatta sulla rappresentazione della politica e dell’impegno civile e che chiede di tornare a parlare di libertà e partecipazione, come del resto occorre fare se si prendono sul serio le provocazioni che giungono dalla trasformazione del mercato nella direzione di una nuova forma di capitalismo digitale e dalle nuove forme di omologazione del pensiero prodotte dalla pressione di conformità tipiche dei social. Il terzo verbo è controllare: chiunque senza spesa o necessità di sviluppare particolare competenze può accedere allo spazio pubblico senza mediazioni di sorta. Capita quando si posta in un blog, sulla bacheca di Facebook, in Youtube. Il problema in questo caso sta nel determinare il livello dell’iscrizione di potere di questa comunicazione. Infatti tale iscrizione rimane prendendo le forme del riporto, del mirroring, della condivisione. La pressione di conformità o il peso degli opinion leaders rimangono infatti anche nel social network, se non addirittura si intensificano, e così si scopre che anche in questi casi sono pochi quelli che orientano la comunicazione e forse di libertà non ce n’è poi molta. Le majors, ovvero le grandi corporations che detengono il potere economico e di indirizzo delle scelte delle persone, continuano a esistere anche se hanno cambiato nome e business: oggi si chiamano Google, Facebook, Amazon, eBay. Sono i grandi punti di accesso alla rete, le porte dalle quali la stragrande maggioranza delle persone passa. Apparentemente gratuiti, questi servizi costruiscono il loro potere sui nostri dati, sulle informazioni che regaliamo loro, con il risultato che rappresentano, come dice Battelle il vero database dei desideri dell’umanità. Il quarto verbo è impegnarsi, mentre richiama il tema della responsabilità, lancia il problema educativo che completa il framework con le tre topiche. La prima, l’etica della Mediapolis, si costruisce, seguendo la riflessione di Silverstone, attorno a tre valori: l’ospitalità, la giustizia, la sincerità. Anzitutto, educare nella Mediapolis significa educare all’ospitalità. Essere ospitali significa vedere nell’altro un pezzo di sé, qualcuno che è complementare. Nella comunicazione digitale oggi il segno dell’ospitalità è accettare di far spazio all’altro, alle sue esigenze, al suo modo di fare comunicazione. Aprire la bacheca ed interagire con l’altro. Essere ospitali significa esercitare il pensiero posizionale cioè accettare di decentrarsi, di assumere il punto di vista dell’altro; significa lasciare che l’altro comunichi senza il bisogno di chiederne il permesso. Per il valore della giustizia invece, Se si vuole costruire una comunità della comunicazione, ovvero se si vuole che la comunicazione serva a non strategicamente a sopraffarci, ma cooperativamente a costruire qualcosa insieme, allora bisogna creare le condizioni perché sia possibile la giustizia. L’educazione deve lavorare sulla promozione della capacità di ascolto dell’altro, sul rispetto dei turni della parola, sulla creazione di una cultura di dialogo; deve combattere la battaglia dell’accesso contro ogni divario (tecnico, alfabetico, culturale); deve far crescere la capacità delle persone di vivere la propria presenza nella Letizia Rossiello infosfera con senso di responsabilità. Il terzo valore è la sincerità: avere la capacità di non barare, di non coprire, di non simulare, accettare di non essere strategici, aprirsi allo sguardo dell’altro, esporsi, accettare il rischio di essere deboli, indifesi. La seconda, la didattica della Mediapolis, chiede di prendere in carico il tema dei media digitali in scuola e nell’extrascuola. L’esito di tutto il percorso è il contenuto della cittadinanza digitale che viene declinato secondo uno schema classico in competenze alfabetiche, critiche ed espressive. Una domanda che bisogna porsi è: per cosa educare nella Mediapolis? Gli obiettivi formativi si possono ridurre a tre. Occorre insegnare a saper accedere. Non è possibile sviluppare cittadinanza riguardo ai media digitali senza conoscere le applicazioni, avere dimestichezza con le interfaccia, muoversi a livello di linguaggio e di culture. Spotted, ashtag, post, profilo e tutte le altre parole del web sono un lessico con il quale saper convivere con la consapevolezza di cosa esso serva a indicare. Occorre anche saper leggere e interpretare. Questa è la competenza più classica della Media Education, quella che prende corpo nelle diverse metodologie dell’analisi. I nuovi media presentano delle novità che sono per l’utente un motivo di difficoltà accessoria. Prendendo un profilo o una pagina Facebook si nota che presenta una forma testuale multi-frame (una cornice che contiene al suo interno forme testuali diverse, dalle conversazioni, alle fotografie, ai video), multimediale (non solo testo scritto), multiautore (perché chi commenta, mi tagga, condivide con me qualcosa, è autore al mio stesso titolo), dinamica (perché in continua trasformazione). Occorre saper comunicare. I media digitali sono autoriali, ovvero ci consentano con grande facilità non solo di leggere, di fruire ma anche di produrre, di pubblicare. Creare spettatori consapevoli e responsabili. CAPITOLO 3 I MEDIA NELLA TARDA MODERNITA’ OBIETTIVO DEL CAPITOLO: RIFLETTERE SULL’ATTUALE SITUAZIONE DELLA COMUNICAZIONE ATTRAVERSO UN PUNTO DI VISTA CHIAMATO “TECNOREVISIONISMO” CHE E’ UN ORIENTAMENTO DI RICERCA IN ALTERNATIVA AL TECNOSCETTICISMO. ESSO E’ UN APPROCCIO CHE INDICA L’IMPORTANZA DI RICONOSCERE LE LINEE DI FILIAZIONE TEORICA DEI FENOMENI, DI NON RIDURRE TUTTO AL NUOVO E DI NON VEDERE FRATTURE OVUNQUE SECONDO UN’OTTICA DI CONTINUITA’ E NON DISCONTINUITA’ CHE PERMETTE DI GUARDARE AL FENOMENO DELLA COMUNICAZIONE NELLA SUA COMPLESSITA’E INTEREZZA. ALLA LUCE DI QUESTA PROSPETTIVA, SI EFFETTUA UN RIPENSAMENTO DELLA MEDIA EDUCATION PRENDENDO IN CONSIDERAZIONE 3 FENOMENI: - ECONOMICO: IL CAPITALISMO DIGITALE ( GOOGLE, AMAZON, FACEBOOK, APPLE) CHE CON IL TRACCIAMENTO DELLE ATTIVITA’ ONLINE DELLE PERSONE, DI RIPRESA DEL PROGRAMMA DELL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE E DI MACHINE LEARNING, FANNO SI’ CHE LA NOSTRA SOCIETA’ SIA UNA “SOCIETA’ DEGLI ALGORITMI”; - TECNOLOGICO: LA TRASPOSIZIONE DELLE TECNOLOGIE DENTRO IL MONDO DELLA VITA FA SI’ CHE LA SOCIETA’ SIA UNA “SOCIETA’ INFORMAZIONALE”. TUTTO CIO’ GRAZIE A INTERNET, ALLA RIDEFINIZIONE DEL RAPPORTO TRA MACCHINA E ORGANISMI , TRA INFORMAZIONI E FATTI. Letizia Rossiello - SOCIALE: IN UNA SOCIETA’ DI TIPO ORIZZONTALE NELLA QUALE LE POSIZIONI VANNO SEMPRE CONQUISTATE, SI VERIFICA UNA FORMA DI ALIENAZIONE CHE FA IN MODO CHE CI SI SENTA SEMPRE IN COLPA PER NON AVER FATTO IN TEMPO QUELLO CHE DA NESSUNO E’ STATO IMPOSTO. QUESTA ALIENAZIONE LA SI PUO’ SPIEGARE MEGLIO CON LA CATEGORIA DELLA COMPETITIVITA’ E UNA NUOVA ECONOMIA DELLO SPAZIO E DEL TEMPO IN CUI I MEDIA ( POSTA ELETTRONICA, DEVICES, SHARING, SOCIAL) SONO DEI DISPOSITIVI ARRIVANTI. 1.PENSARE LA COMUNICAZIONE OGGI Il dibattito sui media e sul loro significato sociale si associa a due “discorsivizzazioni teoriche” che hanno dato corpo a dei rispettivi “racconti”: un racconto di emancipazione organizzato attorno all’utopia della comunicazione; un racconto di smascheramento organizzato attorno alla distopia della in-comunicazione, al contrario. Per comprendere come e perché questi racconti operino a livello sociale, bisogna riflettere sul processo attraverso il quale ogni nuova tecnologia si afferma socialmente. Flichy articola questo processo in 3 fasi: - Storie parallele: storie, ovvero percorsi che portano, sul piano del quadro di funzionamento ( hardware e software), attori diversi a studiare in contesti diversi lo stesso fenomeno. Si fa riferimento alle vicende di tutti coloro che hanno avuto a che fare con quella determinata tecnologia. Diverse sono le storie parallele da studiare: la vicenda del lavoro d’ufficio che inizia ad automatizzarsi, i telefonisti in cerca di meccanismi per comunicare a distanza, come anche la vicenda della pratica musicale intorno al pianoforte e alla canzone. Questo negli anni’90, ovviamente vi sono vicende anche più attuali: esempio è TWITTER a alle storie parallele di Jack Dorsey che con i suoi colleghi depositò il brevetto nel 2006 senza minimamente pensare alle direzioni che questo canale avrebbe potuto prendere diversamente da quanto avevano immaginato, diventando una fonte di informazioni giornalistiche e uno potentissimo strumento di comunicazione politica, di marketing e comunicazione sociale. Lo scopo primordiale, invece, era semplicemente quello di creare una piattaforma di comunicazione instantanea interno ad un’organizzazione o a un gruppo ( come whatsapp). - “Oggetto-valigia”. Flichy la definisce tale perché alcuni storyteller raccolgono alcune delle storie parallele e le organizzano in una discorsivizzazione coerente il cui obiettivo è voler accreditare socialmente le possibilità della tecnologia. Alcuni oggetti-valigia, ad esempio nella storia delle tecnologie di comunicazione, sono “internet”, “multimedialità”, “intelligenza artificiale”, “codici”. Ovviamente dietro queste discorsivizzazioni ed elaborazioni di oggetti-valigia vi sono gli interessi dei produttori o della politica. Esempio: internet come oggetto-valigia per chi sviluppa i devices, chi gestisce il traffico dati o per quanto riguarda “l’autostrada delle informazioni” e come essa abbia funzionato durante il governo Clinton come una vera e propria “frontiera tecnologica”. È chiaro però che garantire la connessione a tutti non significa risolvere problemi come quello dell’analfabetismo funzionale o superare il knowledge gap tra società ricche con alto capitale culturale e società povere con basso cap. culturale. Possiamo notare come in ogni discorsivizzazione ci siano sempre pro e contro, narrazioni utopiche e distopiche in cui gli apocalittici e gli integrati, secondo l’accezione di Umberto Eco, si confrontano. Esempio: a chi salutava all’inizio del nuovo Millennio le opportunita’ dischiuse dal digitale profetizzando la nascita di una nuova generazione dotata di skills sconosciute a quella precedente e di una nuova cultura, ha risposto chi, invece, segnala i pericoli dei media digitali in relazione a memoria, attenzione, salute. Questi dibattiti implicano incertezze, confusioni e ambiguità. La fase dell’oggetto-valigia Letizia Rossiello in essa per massimizzare le opportunità e minimizzare gli impatti. Si tratta, per giungere alla prospettiva della Media Education, di una constatazione né entusiastica né catastrofica. 1.2 IL DIGITALE A SCUOLA Il secondo esempio è quello delle possibilità e dei limiti del digitale a scuola. Ci si focalizza sulle logiche di lettura delle dinamiche sociali e culturali attivate dai media a quelle dell’istruzione elementare evidenziando come quest’ultime si sottopongano allo stesso fenomeno di discorsivizzazione. La retorica tecno-ottimista, favorevole all’introduzione del digitale a scuola, va ricostruita storicamente a partire dalla sua origine, il primo Piano Nazionale di Informatica. Quel piano nel 1985, introduce per la prima volta, la prima fase della storia del digitale nella scuola italiana: Informatica nella scuola. L’obiettivo era la modernizzazione dell’insegnamento e soprattutto l’upgrade del sistema d’istruzione in modo da renderlo adatto a rispondere alle istanze della società dell’informazione che proprio in quegli anni andava sviluppandosi. Si iniziò a dotare di computer le scuole, allestendo aule informatiche ed effettuando una curricolarizzazione della programmazione informatica attraverso una dotazione supplementare di ore di insegnamento agli insegnanti di matematica. Negli anni ’90 si entra nella seconda fase: quella “multimediale” in cui ci si focalizza sulla programmazione ai programmi-autore. Si tratta di software che servivano a produrre ipertesti basati sul primo storico programma-autore sviluppato negli USA: TOOLBOOK. Una fra queste è l’interfaccia facilitata per la scuola primaria dal nome AMICO. Questi programmi favorirono il diffondersi della didattica per progetti trasformando le aule in laboratori multimediali in cui il risultato fu l’apertura delle classi, la trasversalità delle discipline, la mobilitazione dei saperi in situazioni diverse da quelle della didattica frontale. Nel 1998 ci fu una svolta per quanto riguarda la diffusione sociale di Internet in Italia che da quell’anno diventa anch’essa parte di un’elite delle nazioni più connesse. Si entra così in una terza fase che coinvolge tutto il nuovo millennio fino ad oggi. È la fase/ stagione delle Reti e dei dispositivi il cui focus sono le LIM, i tablet, gli smartphone, il BYOD, le stampanti 3D fino ad arrivare ai più recenti strumenti come i coding, tinkering, making. In questa traiettoria potremmo notare una narrazione ottimistica che si basa su 2 convinzioni: 1) La prima è l’attenzione neufunzionalista agli strumenti e ai linguaggi. Il digitale a scuola deve trovare spazio perché gli studenti devono imparare a conoscere i dispositivi e a impadronirsi di nuovi alfabeti per affacciarsi sul mercato del lavoro. La scuola deve preparare gli studenti a inserirsi nel sistema produttivo senza problemi per loro e per chi fa impresa. 2) Technological push : illusione che la tecnologia agisca sulle organizzazioni come la scuola e sugli individui secondo quello che le teorie economiche classiche chiamano “modello di propagazione”. Il senso di questo modello lo possiamo cogliere mediante la metafora dell’impatto: la tecnologia produce impatti sulla scuola, sul nostro modo di lavorare, sulle nostre vite. Come se la tecnologia producesse dei veri e propri urti fisici e fosse capace di modificare radicalmente tutto, su entrambi i fronti. Una valutazione più attenta, invece, consiglierebbe di considerare la tecnologia come una delle variabili in gioco accanto a molte altre, così da escludere facili semplificazioni che attribuiscano ad essa tutte le colpe anche quelle che non è possibile verificare sperimentalmente. Quest’ultima considerazione sembra essere quella più efficace e fa parte di un argomento principe di cui si serve la retorica tecno-scettica. Il fatto che la ricerca non possa dimostrare che, come vorrebbero i tecno-ottimisti, le tecnologie in scuola migliorano gli apprendimenti non fa altro che incentivare la convinzione dei tecno-scettici che la tecnologia non migliora gli apprendimenti, anzi li peggiora: è una certezza che accomuna sia gli opinionisti della rete che degli studiosi della carta Letizia Rossiello stampata anche quelli che un tempo erano tecno-ottimisti. Anche in questo caso si possono riconoscere sottese a questa posizione due convinzioni: -la prima riguarda ciò che vien detto nel 1 capitolo su Bauman. Bauman ha introdotto il concetto di retrotopia per fare riferimento ad un pensiero che, incapace di pensare il futuro si ripiega sul passato per trovarvi conforto mantenendo un atteggiamento conservatore. Questo è l’esempio più emblematico per fare riferimento a quando le scuole non accettano e metabolizzano il nuovo. Per capirci meglio: entra in gioco l’atteggiamento classico del “noi e loro”: “ noi eravamo più seri, noi studiavamo seriamente, i nostri esami erano tutt’un’altra cosa; “loro non sanno leggere, riflettere, hanno tutto facilmente, non concettualizzano. Questo capita proprio ai “nativi digitali”: ipotesi formulata da Prensky e Ferri per fare riferimento alle nuove possibilità cognitive sviluppate dai media digitali nelle giovani generazioni che invece i nostalgici della lavagna e del gesso giudicano come una conferma assoluta che se le nuove generazioni sono vittime di un progressivo degrado cognitivo, la colpa è proprio dei media digitali. -la seconda convinzione è una variante della prima: si riprende una polemica mai sopita in favore della “scuola dei contenuti” contro la “scuola dei pedagogisti”. Alcuni testi come Senza Educazione e Aula vuota mettono a fuoco questa convinzione perché sottolineano la consapevolezza di una crisi insieme alla nostalgia in cui “le cose andavano meglio” “se siamo senza educazione, un tempo l’avevamo” e “se le aule oggi sono vuote, è probabile che prima fossero piene”. La colpa di questa crisi viene attribuita alla pedagogia accusata di essere colpevole di aver fatto sì che i contenuti siano stati sostituiti con il metodo, da parte dei “disciplinaristi” che, allo stesso tempo, accusano la pedagogia di non essere nemmeno una vera e propria scienza a differenza di tutte le altre discipline, con un linguaggio epistemologico adeguato per occuparsi della scuola. Le tecnologie didattiche, quindi, essendo associate al “nuovo”, finiscono per essere considerate come espediente di cui la pedagogia si serve per togliere serietà all’impresa educativa e sostituire alla fatica dell’acquisizione e memorizzazione, la leggerezza del gioco e della distrazione. Bisogna individuare elementi comuni che ci consentano di risalire oltre alle costruzioni discorsive dei tecno- ottimisti e tecno-scettici. Un primo elemento comune, dal punto di vista tecnologico, consiste nella presa d’atto che i network, i dati e il codice, rappresentano una realtà difficile da raggirare o eliminare dalle nostre vite individuali e sociali. Un secondo elemento è, dal punto di vista degli apprendimenti, l’impossibilità di istituire tra essi e la tecnologia una relazione di causalità diretta. Questo perché non ci sono evidenze scientifiche sia per sostenere le tecnologie a favore degli apprendimenti, sia per il contrario. Quello che la ricerca scientifica invece dimostra è che: il 50% del risultato di apprendimento dipende dallo studente e dal suo metodo di studio, dalla capacità di ascolto attivo durante la lezione, dal note taking, dalle competenze di sottolineatura, dalla capacità di lettura profonda e di sintesi delle conoscenze. L’ipotesi che si può trarre è quella di una radicale riconcettualizzazione del lavoro mediaeducativo e del significato operativo dei concetti di senso critico e responsabilità. Il senso critico va quindi, aggiornato secondo le nuove sfide della società informazionale. La responsabilità, invece, va messa in relazione alla gestione del tempo, allo sviluppo di una cultura dell’ospitalità, alla consapevolezza del limite tra spazio pubblico e privato, alla valutazione delle conseguenze delle proprie azioni. 2. La società degli algoritmi In una conversazione del 2018 a Lucca, David Buckingam docente all’università di Londra, riflettè su come il problema educativo quando si parla di media digitali venga associato ai dispositivi e suggeriva la necessità per una Media Education “contemporanea”, di allargare lo sguardo più verso le logiche che agli strumenti tenendo conto anche della riconcettualizzazione del senso critico. Infatti, un conto è educare all’uso critico Letizia Rossiello dello smartphone, un conto è sviluppare consapevolezze riguardo al capitalismo digitale, a come orienta quadri di pensiero e comportamento, a come collocarsi rispetto a esso e alle pratiche sociali che esso promuove. 2.1 Pedagogia del controllo e pedagogia delle regole La tensione a educare all’uso consapevole dello strumento proviene, da una parte, da una pedagogia del controllo che consiste nell’atteggiamento restrittivo e vigile dell’adulto che deve monitorare il tempo passato dal figlio con il telefonino, ridurne il consumo e decidere quando sia giunto il momento di concedere l’accesso a ( internet, primo telefonino, iscrizione ai social). D’altra parte, questa tendenza la ritroviamo anche nella pedagogia delle regole. Non si fa riferimento alle regole da imporre e far rispettare, bensì a quelle regole attraverso le quali indicare l’agire corretto. Questa pedagogia si esprime nei siti di servizio e negli istant book che funzionano da veri e propri ricettari educativi dove vi è una galleria di possibili casi e comportamenti ai quali corrispondono le relative misure di intervento, l’indicazione di cosa fare e cosa non fare. Queste sono delle pedagogie che non funzionano e che non colgono il nucleo della questione, ottenendo adirittura il risultato opposto a quello atteso. Perciò, a questo punto, ci si chiede: controllare serve? Chen e Shi individuarono tre strategie cui il genitore ricorre: -mediazione attiva: genitore attento e presente, che discute con i figli sulle questioni legate al consumo mediale; -mediazione restrittiva: fornitura di regole e tentativo di controllo, evidenziando soprattutto gli effetti negativi del consumo mediale; -uso condiviso: genitori che fanno cose insieme ai figli senza commentare o ricondurre le pratiche che stanno condividendo ad una questione educativa; Spesso si pensa che la mediazione attiva sia la più efficace sia in famiglia che a scuola. Questa convinzione deriva dal fatto che nulla di tutto ciò che sia imposto dall’alto ha lo stesso effetto di quando vi è una negoziazione e una compartecipazione alle decisioni fra adulto e minore. In realtà le cose sono più complicate. La mediazione restrittiva, infatti, si dimostra la più efficace nella riduzione del tempo di consumo, la mediazione attiva invece e in parte anche l’uso condiviso, risultano più efficaci per quanto riguarda la riduzione del rischio. Tuttavia, non si può fare una generalizzazione poiché tutto dipende dalle variabili che entrano in gioco come l’età o il tipo di rischio. Ad esempio, gli effetti della mediazione genitoriale diminuiscono con il crescere di età dei figli, dimostrando che le regole funzionano più con i piccoli che con i grandi. La mediazione attiva, inoltre, si dimostra più efficace nel prevenire i rischi legati al comportamento e cioè nell’educare a cosa postare nei social ma non funziona, invece, quando si tratta di richiamare l’attenzione su chi si incontra in internet. Infine ed, ovviamente, la mediazione ha maggiore efficacia se i genitori hanno un elevato livello di conoscenza della tecnologia. Da ciò si deduce che tutto è dinamico sulla base di quelle che sono le variabili in gioco, perciò non si possono indentificare degli stili di mediazione parentale “puri”. Così, combinando lo stile della mediazione attiva e quello della mediazione restrittiva ( che associamo alla pedagogia del controllo) con quelli proposti da Valkenburg, si può verificare come ciascuno di questi due stili possa essere giocato attraverso una mediazione di supporto all’autonomia, di controllo, incosistente. Il risultato interessante è che se uno stile restrittivo viene messo in atto nella prospettiva di sviluppo dell’autonomia del ragazzo (ad esempio spiegando le ragioni che portano il genitore a imporre determinate regole d’uso) , ottiene risultati migliori nel produrre comportamenti prosociali rispetto ad uno stile di mediazione attiva che però non supporti l’autonomia ( genitori che parlano con il figlio ma senza finalizzare la discussione a produrre l’empowerment, senza dare regole e lasciando fare). Si Letizia Rossiello comportamento dei fenomeni e delle persone, anticipandone il futuro. Questo è tratto distintivo di una SOCIETA’ DEL CODICE. La mole dei dati che si genera produce una seria difficoltà a gestirli, selezionarli, fare uso. Spesso, per un’eccessiva numerosità di dati nel proprio “menù carattere”, si finisce per utilizzare quei pochi di cui si ha già conoscenza e soddisfano le esigenze, escludendo gli altri rimanenti. È qui che entra in gioco il sistema degli algoritmi che risolvono il problema applicando alla ricerca e alla selezione delle informazioni, la stessa logica di cui si è parlato precedentemente nel ambito dei prodotti di consumo. Tutto ciò è reso possibile dal Machine learning, ovvero un programma che permette alla macchina di elaborare solo tramite un set di dati che vengono elaborati attraverso algoritmi sviluppando una propria logica per svolgere un compito. In parole più semplici: il ML permette ai computer di imparare dell’esperienza ( informatica). C’è apprendimento quando le prestazioni del programma migliorano dopo lo svolgimento di un compito o il completamento di un’azione. In questa prospettiva, anziché scrivere il codice di programmazione attraverso il quale, passo dopo passo, si dice alla macchina cosa fare, al programma vengono forniti “solo” dei set di dati che vengono elaborati attraverso algoritmi. Il Machine Learning, consiste nel ricorso all’informatica per facilitare l’informatica retrieval e il knowledge management: il mio assistente digitale, come Alexa di Amazon, o Siri di Apple, serve per dipanare la complessità delle informazioni che mi potrebbero interessare e seleziona quelle che, sulla base di ciò che conosce di me tramite richieste e ricerche precedenti, ritiene possa interessarmi. Si tratta di una delle possibili applicazioni dell’intelligenza artificiale il cui programma si promette di rappresentare nel prossimo futuro uno dei più interessanti settori di ricerca e produzione. A tal proposito, nell’ambito della società degli algoritmi, un tema fondamentale è quello dell’INTELLIGENZA ARTIFICIALE GENERALE, ovvero un sistema di IA in grado di modificare autopoieticamente l’algoritmo che lo ha generato senza nessun intervento del suo progettista. Una società degli algoritmi che cede il passo a una società del codice in cui anche gli orientamenti di ricerca si spostano dai Media Studies ai Software Studies secondo i quali, oggi, i software dettano al mondo le sue condizioni di pensabilità sostituendo l’opposizione tra reale e virtuale con quella tra il materiale e il programmabile. La caratteristica di questa società è di essere segnata dalla generatività dell’informatica che consente a essa di creare nuove porzioni di realtà, modulare lo spazio e il tempo, di produrre, come nel caso del ML e IA, nuove forme di vita: vita artificiale, nello specifico. Per quanto riguarda lo SPAZIO e il TEMPO: - Lo spazio: per comprendere servono due esempi, il primo è quello di un negozio che si differenzia da un magazzino proprio perché vi si possono concludere acquisti grazie alla rete o alla lettura delle carte di credito. Questo stesso negozio, nel caso degli Amazon Stores, sempre grazie al codice, rivoluziona completamente il significato del sito commerciale perché non occorrono né sorveglianze nè pagamenti e né contactless: il cliente entrando, viene riconosciuto dal sistema di telecamere, i suoi acquisti vengono registrati e dopo che è uscito gli viene fatto il conto e glielo si addebita direttamente. Il secondo esempio è la Realtà Aumentata che è un sistema di layers, di “fogli esperenziali”, che si sedimentano l’uno sull’altro espandendo la nostra percezione dello spazio e la possibilità di muoversi e di operare in esso ( si pensi ai nuovi navigatori, che visualizzano le indicazioni sulla direzione da prendere direttamente sull’immagine in tempo reale che la telecamera dell’auto, proietta sullo schermo di bordo). - Il tempo verrà affrontato successivamente in questo capitolo. Importante è soffermarsi sul concetto di “vita artificiale”. Si è sempre pensato che solo l’uomo possa fare esperienza del mondo, o imparare, a decidere delle qualità e dell’opportunità di ciò che dalle macchine ci veniva restituito. Quest’idea, costruita in fondo sull’idea weberiana della neutralità della tecnologica rispetto al valore, è stata messa in crisi nel momento in cui sono comparsi gli organismi artificiali capaci di imparare dall’esperienza. Esempio è proprio il machine Learning. La presenza di Letizia Rossiello algoritmi intelligenti, suggerisce l’idea di un organismo artificiale non solo intelligente ma anche consapevole. È necessario, perciò, che in questa epoca rivoluzionaria in cui forse noi siamo gli ultimi sapiens, nella prospettiva del tecnorevisionismo, prendere atto del cambiamento e provare a comprendere come posizionarsi rispetto ad esso. 3. La società informazionale Finora abbiamo realizzato che la nostra è una società informazionale in cui le tecnologie migrano nelle nostre vite con quel che ne consegue in termini di “internet delle cose”, annullamento del referente, ridefinizione del rapporto tra macchine e organismi artificiali e informazioni e fatti. Per corroborare questa prospettiva di lettura si può volgere lo sguardo a 4 brevi percorsi di approfondimento che corrispondono ad altrettanti aspetti di tale società: connettività, ibridazione, mediazione, invisibilità. 3.1 La pelle della cultura Rivoltella suggerisce la possibilità di ricostruire la storia dei media moderni attorno a delle metafore. La prima è quella dei media-strumenti: la radio, la televisione, sono strumenti che estendono le possibilità percettive dei nostri organi di senso: la radio è come un occhio elettrico, la televisione come un occhio elettrico e, se si tiene a mente la riflessione di McLuhan, essa non è solo un occhio ma un medium tattile, suggerendo l’immagine di qualcosa che non si guarda ma che ti massaggia. Quando McLuhan dice che “il mezzo è il messaggio”, getta le basi per quella che è stata definita Medium Theory. Il “mezzo è il messaggio” significa che studiare, ad esempio, Facebook dal punto di vista dei contenuti e delle pratiche che vi si costruiscono e scambiano è interessante sì ma ma non come comprendere come Facebook abbia modificato i nostri modi di socializzare e comunicare. L’interesse vero è da riconoscere al mezzo, alla tecnologia intesa come “psicotecnologia”, accezione di “Kerckhove”. La ricezione dei media come “messaggio” è emblematica da decenni con tre sottolineature non prive di ricadute educative: 1) La disponibilità: lo strumento come diceva Heidegger in essere e tempo, è alla mano, cioè a nostra disposizione e come tale, non può o può essere utilizzato. 2) La neutralità al valore: se i media sono strumenti, allora non sono in sé né buoni né cattivi ma tutto dipende dall’intenzionalità e dagli usi che se ne vogliono fare; 3) L’alfabeto specifico: la strumentalità ovvero il valore di ciascun medium ha caratteristiche sue proprie che prendono corpo in un quadro d’uso che richiede competenze tecniche e di linguaggio, con il risultato che spesso “ insegnare i media” si è ridotto a insegnare “come usarli”. Inoltre, a partire dagli anni’80, in concomitanza con la diffusione dei media elettronici, si afferma una seconda metafora che interpreta i media come ambienti. Sono due le idee che ne stanno alla base. La prima è legata al crescente protagonismo di una società degli schermi: viaggiamo in treno leggendo sul display di bordo, lo stato o il ritardo del viaggio, mentre usiamo il nostro smartphone con un portatile sulle ginocchia; guardiamo la corporate tv dell’azienda dei trasporti sulla banchina di una stazione della metropolitana; leggiamo il nostro turno su un display menre siamo in coda negli uffici pubblici. Allo stesso tempo la nostra società è anche una società postmediale in cui vi è il principio dell’invisibilità : i media non si vedono più perché ormai, troppo radicati, abitano gli oggetti e gli artefatti di consumo. La seconda idea è legata alla tendenza, a partire dagli anni’90, a intendere i media elettronici come luoghi in cui entrare e uscire. Si pensi ai MUDs, alle piattaforme per l’e-learning, a Second Life, e oggi ai social e agli ambienti interattivi 3D. Si definiscono “ambienti” tutti i luoghi sociali, non solo quelli fisici, in cui è possibile incontrarsi, comunicare, scambiare idee e informazioni, progettare, realizzare artefatti, fare esperienze. Si sviluppa così una concezione o meglio, istanza ecologica. Neil Postman, sarà il primo a parlare di “ecologia dei media” alludendo alla natura di mezzo-ambiente, di sistema ecologico dei Letizia Rossiello media dal punto di vista sia sociale che educativo. Oggi possiamo dire di essere entrati in una nuova fase in cui i media sono un vero e proprio tessuto connettivo. In merito al concepire i media come tessuto connettivo, si può ben dire che quanto avevano detto Postman e McLuhan sono delle anticipazioni di questa idea. La convinzione che per capire i media bisogna pensare meno ai contenuti e più al tipo di comunicazione e di società che contribuiscono a costruire, anticipa l’idea della connettività come sistema di relazioni. Secondo la prospettiva della connettività, alludiamo ad un funzionamento dei media non solo cognitivo ma anche psico-motorio secondo una prospettiva “embodied” (incorporata) che ben si adatta ad un secondo significato della connettività: quello che intende i media come “la pelle” della nostra cultura, ovvero come la nostra interfaccia verso gli altri e il mondo esterno, dall’altra come ciò che “tiene insieme” la cultura e il mondo. In questo senso si evidenzia ancora di più la dimensione ecologica tipica di Postman. 3.2 Teste ben vuote? Maurizio Ferraris dedica la sua ricerca allo studio dei media e delle forme di comunicazione digitale nel segno della “trascrizione”. In una società, come quella Occidentale basata su un sistema grafocentrico, l’evoluzione dei mezzi di comunicazione contemporanei dovrebbe cercare non tanto il ritorno dell’oralità ( messaggi vocali, deriva conversazionale dei sociale o instant messaging) quanto piuttosto la permanenza della scrittura, o meglio, della trascrizione. L’esigenza di produrre tracce grafiche, nasce da un’istanza burocratica che risale all’origine del passaggio dall’oralità primaria ai sistemi di scrittura. Pensiamo ai sumeri che con i sigilli potevano ricordare chi avesse e non avesse assoluto un pagamento o i Greci con l’alfabeto fonetico tramite il quale con la memorizzazione di un set limitato di caratteri potevano comporre tutte le parole di una lingua. Il problema di fondo, però, è sempre l’insufficienza della memoria psichica, la difficoltà a ricordare quando i contenuti da conservare aumentano oltre una certa soglia. Ecco perché l’evoluzione dell’uomo e delle società, producendo un numero elevato dei contenuti da conservare, è seguita dall’introduzione di metodi sempre più efficaci e potenti di registrazione fino all’avvento di memorie digitali esterne: floppydisk, pendrive, mass storage units, mobile devices, cloud. A riguardo delle memorie esterne ci si potrebbe ulteriormente soffermare: il concetto di “memoria esterna” pare un ossimoro; come è possibile che un qualcosa di interno come la memoria possa essere esterno? A questo punto si può fare riferimento alla concezione Mcluhana di protesizzazione dei media: in questo caso, le memorie digitali, oggi, non estendono più soltanto le nostre possibilità percettive ma l’intero sistema mente-corpo-cervello. L’idea di una memoria che si prolunga in repositori esterni consente di avanzare l’idea di una “mente estesa” ovvero di un processo di progressiva ibridazione dell’uomo. Si può fare riferimento all’obiezione di Thamus a Teuth nel Fedro platonico e cioè che la possibilità della registrazione, tanto la pagina scritta che l’archiviazione digitale funzionano da memorie esterne, non in termini di farmaco per la memoria ma per la possibilità di ricordare. Tutto questo funziona, però, solo se sappiamo e conosciamo già cosa cercare e dove cercare: es. se hai già ascoltato, lo scritto ti aiuta a ricordare; se non hai mai ascoltato, lo scritto non servirà a far ricordare. La memoria, se ci si fida troppo dei dispositivi di archiviazione digitale, si indebolisce. Bisogna creare le giuste condizioni affinché si imparino, almeno, le mappe della conoscenza, per sapere dove cercarlo. Se così non fosse il rischio sarebbe che alle teste ben piene e ben fatte si sostituiscano le teste ben vuote. Da questo punto di vista si può ben comprendere la retorica alla base delle Machine Learning: se la massa delle informazioni archiviate è ingestibile e se l’eccessiva fiducia negli archivi ha finito per renderci incapaci di sapere quello che vogliamo cercare e dove cercarlo, l’informatica sociale potrebbe venirci in soccorso dotandoci di un assistente digitale in grado di svolgere quei compiti per noi. Una forma di delega dell’intelligenza a un algoritmo che apre prospettive ancora una volta ambivalenti. Letizia Rossiello conseguenza di questo fatto è che la rapidità della scrittura e della trasmissione dispone chi ha fatto l’invio all’attesa di una risposta veloce. -ACCELERAZIONE : La velocità di diffusione delle informazioni, il loro accumulo per stratificazione, la necessità che sembrano imporci di una risposta in tempo reale, sono elementi che ci fanno percepire le nostre esistenze all’insegna dell’accelerazione. Dinanzi a una vita che viaggia a velocità sempre maggiore, l’impressione è quella di non riuscire ad avere il tempo per rispondere a tutte le richieste e riconosciamo che la giornata dovrebbe durare più di 24 ore. Non riusciamo più ad arrivare in tempo, non ce la facciamo a rispettare i termini di consegna di un lavoro, la realtà ci scavalca e noi rimaniamo indietro. Questo genera sensi di colpa e non ci porta ad essere coscienti che è la realtà a viaggiare troppo veloce e che non possiamo chiedere a noi stessi più di quanto non sia lecito e umano attendersi. L’unico modo che ci sembra adeguato per elaborare questo senso di colpa è quello di estendere il nostro orario lavorativo al mattino presto, durante il fine settimana, a tarda sera, durante le ferie. Questo produce una forma di alienazione attiva in cui, come detto precedentemente, siamo noi ad alienarci e a consegnarci come merce al mercato di lavoro. Siamo alienati ogni volta che facciamo volontariamente qualcosa che non vorremmo realmente fare. -ANTICIPAZIONE : In questo caso non ci si riferisce alla contrazione del tempo, all’accelerazione sociale che produce forme di alienazione ma alla capacità del codice di produrre una prolessi del tempo. Grazie al codice, è possibile anticipare il futuro, con almeno due conseguenze considerevoli. Fino ad oggi, l’attenzione sia prima dell’avvento digitale che dopo, è alle informazioni già disponibili, non a quelle che potrebbero essere tali in futuro. Il passaggio, invece, è oggi proprio a studiare i modi per anticipare le informazioni che potrebbero diventare disponibili in futuro: sullo sfondo si annuncia il passaggio da una società archivistica a una società oracolare. In secondo luogo, cambia l’iscrizione temporale dell’economia del nostro agire. Se nella società informazionale la contrazione dei tempo e l’accelerazione fanno sì che tutte le nostre azioni tendano all’istantaneità (real time) , nella società del codice l’anticipazione del futuro diviene la regola ( near time). CAPITOLO 4 Nuove sfide per il lavoro mediaeducativo Nel capitolo precedente abbiamo fatto emergere tre istanze della media Education: una di queste è il capitalismo digitale. Essi afferma che non è più sufficiente allenare il pensiero critico e che il problema non sono né i dispositivi e ne i loro contenuti. Se uso Facebook con attenzione, pensando prima di postare qualcosa , se spiego a mio figlio che ci sono dei tempi da rispettare per poter stare al tablet non evito che i suoi dati vengano raccolti da chi gestisce L’ app. E quindi c’è bisogno di un salto di livello nella concettualizzazione del pensiero critico. La seconda istanza è stata la società informazionale la quale mette in questione in concetto stesso di media Education. Come abbiamo visto, ormai i media fanno parte della nostra vita. In questa prospettiva la media Education cessa di essere quello che è sempre stata per il curriculum scolastico :una delle tante educazioni. Infine, se consideriamo i media come i fattori determinati degli scompensi e dei disagi della vita tardo- moderna , stiamo isolando un solo fattore di una ladra e complessa costellazione di fenomeni. Per risolvere il problema dell’ attenzione o dell’ iperattività dei bambini di oggi, non sara sufficiente regolare L’ uso dello smartphone, anche se questo incida in parte. La sensazione ricavabile dalla considerazione di queste istanze è che occorra muoversi in due direzioni Letizia Rossiello La prima è chiara, i media non possono essere più esclusi dalle nostre vite poichè sono la nostra interfaccia con L’ altro e con il mondo esterno. La seconda viene di conseguenza in quanto se i media sono diventati quei, la media Education non può essere individuata come problema individuale ma va intesa come istanza sociale e collettiva. Per verificare de queste tue ipotesi di lavoro siano valide, si è svolta una indagine qualitativa. 2.metodologia della ricerca: la metàsintesi La metasintesi è una metodologia di ricerca che sta riscuotendo interesse in diversi campi di ricerca e che può essere utile per diverse finalità. Uno studio di metasintesi può essere impostato e conforto attraverso 7 passaggi : 1. Individuare e circoscrivere il fenomeno da studiare 2. Selezionare il corpus di studi di iniziale interesse su cui avvisare lo studio 3. Leggere gli studi ordinandoli sulla base dei temi chiave che affrontano 4. Mettere a confronto gli studi individuando aspetti comuni e Differenze 5. Mettere a confronto i risultati dei diversi studi 6. Sviluppare in categorie i temi che si sono ricavati 7. Esplicitare la sintesi così ottenuta. 2.1 cosa studiare? L’ obiettivo del nostro studio di metasintesi è l’elaborazione teorica del concetto di media Education. Più precisamente si è voluto identificare come la media Education si sia trasformata con le trasformazioni avute dal mondo digitale. 2.2 impostazione della ricerca. La metasintesi è stata condotta attraverso tre criteri 1. Si sono ricercati studi riguardanti la definizione del concetto è lo statuto epistemologico della media Education. 2. Un secondo criterio è stato selezionare solo studi compresi tra 2005/2018 3. Il terzo e ultimo criterio è consistito nel prendere in ciderazione capitoli in volumi, articoli , precedentemente pubblicato su riviste. 2.3 il corpus degli articoli di fatto media eucation e media literay continuano ad essere due locuzioni maggiormente utilizzate . Un livello più sotto si trova la parola comunicazione, a indicare probabilmente la centralità della questione e la possibilità attraverso questa categoria di inquadrare e la possibilità attraverso questa categoria di inquadrare in un contesto più ampio i media : come si vedrà dell' analisi del corpus , uno degli orientamenti condivisi è la consapevolezza che il problema non risieda nei singoli strumenti. Il terzo livello di definizione vede sullo stesso piano termini come teacher , pedagogy, digital, analysis . Analisi e cittadinanza sono due concetti che classificamente vengono affiancati a media literacy e media education. Il riferimento all' apprendimento e all' insegnamento sono due concetti da mantenere in equilibrio. è decisamente più interessante regionare sui verbi più frequentemente associati a questi costrutti che sono:definire,discutere ,precisare, verificare. L'esigenzadi classificazione concettuale è evidente. 3. Una mappa per la metasintesi la mappa della metasintesi ha quattro passaggi 1) la posizione del problema 2) il recupero dei nuovi elementi che nell’analisi dei media attuali sfidano la media Education con nuove istanze 3) sulla base di queste sfide,la riflessione sul costrutto con la valutazione delle possibili ipotesi per un suo ripensamento. 4) L’ individuazione di alcune ipotesi metodologiche. 3.1una new media Education? Letizia Rossiello Già nel 2006 si riflettaeva sulla possibilità di pensare alla New Media Education. Infatti questo significava chiedersi se i new media ( così venivano chiamati definiti i media della tarda modernità) richiedessero una forma diversa di intervento educativo , ma anche se , invece , non servisse una nuova media Education. L’ alternativa era fra due opzioni: ritenere esaurita la traiettoria della media Education con la fine dei mass media , dal momento che le caratteristiche bei nuovi media sembrano proporre temi e questioni decisamente diversi. Considerare che il bagaglio di concetti e di esperienze della media Education potessero aggiornare, rivedere , ripensare , così da renderlo adatto alle nuove sfide dello scenario mondiale. Buckingham parla di populismo pedagogico che consiste nel ritenere superata L’ idea di una media Education 1.0. La domanda da porsi è cosa la scuola ha da insegnarci? In questa prospettiva analizziamo due argomenti quello dell analfabetismo dei media digitali e la perdita di fiducia nell istituzione scolastica. L’ idea di Buckingham ha dei limiti. 3.2 le sfide della tarda modernità alla media Education Seguendo la riflessione di Buckingham abbiamo incontrato alcuni elementi che spiegano la necessità di ripensare alla media Education nell attuale contento di comunicazione. La cornice del cambiamento può essere trovata nella teoria della mediatizzazione ovvero i cambiamenti dei media non dipendono dolo dallo sviluppo tecnologia ci ma anche dalle modificazioni degli usi che le persone ne fanno. È in relazione alle pratiche dmuso non cambiamo solo i media , ma anche le forme della comunicazione umana e questi fin dalla preistoria dell’uomo sul pianeta. L’ uomo da sempre viene ubriacati dall antropologia come quell essere vivente che ha la particolarità di interpretare se stesso e il mondo in cui vive. La consapevolezza del suo ruolo e del ruolo che i media esercitano nel so lavoro e di determinazione del significato del mondo e di se stesso. Riguardo all’ attuale situazione della comunicazione, la mediatizzazione è caratterizzata da due principali fattori : il passaggio dai mainstream ai social media e il processo della convergenza al digitale. MEDIATTIVISMO ED EFUCA DELLA RESISTENZA I media digitali sono autori ali cioè consentono facilmente di produrre contenuti e pubblicarli nel web e questo intervento è possibile senza L’ interventi di apparati di mediazione. Questo comporta che hai fini di quel che viene reso pubblico, le responsabilità del singolo e delle imprese di comunicazione siano sostanzialmente le stesse. Oggi si può additare chiunque anche un adolescente perché il semplice possesso dello strumento lo abilità a postare imponendogli delle responsabilità rispetto a questa azione. L’ AVVENTI DEJ TERZI SLAZI un secondo elemento è il protagonismo di quelli che Potter è MC Dougall definiscono terzi spazi. Essi possono fare riferimento : in senso fisico a degli spazi reali che si collocano nell’ informale , come un cineclub , uno spazio di co working, In senso metafisicò a degli spazi simbolici che possono collocarsi anche nei contesti si educazione formale. Questo composta che oggi molto più che in un recente passato occorre pensiero critico. DIGITAL DIVIDE E PARTICIPATORY GAP il passaggio dai mainstream ai social media da molto è stato salutato come L’ apertura di uno spazio di maggiore partecipazione e pluralismo , ma a questo dipende chiaramente dalle condizione i di accesso. La disponibilità della connessione non serve se non viene accompagnata dallo sviluppo di alfabetismo funzionale e da un lavoro di capacity building orientato a costruire cultura tecnologica. Ecco perché il tema dei digital divide occupa un ruolo importante nell’ agenda politica internazionale. La Hofstatter lavorando su questo assunto , richiama la distinzione della Norris tra GLOBAL DIVIDE : tra paesi più o meno evoluti tecnologicamente SOCIAL DIVIDE: tra popolazione con alta o bassa capacità economica DEMOCRATIC DIVIDE: tra chi usa e non usa infrastrutture digitali. Letizia Rossiello 4.I metodi:tra tradizione e innovazione Diversi sono gli elementi che è utile evidenziare : La relazione tra parola e possibilità di trasforma il l’ondo. Si tratta di un classico tema freireano. Leggere e scrivere significa poter trasformare le cose : è questo vale naturamlmenge anche per nuove forme di letteratura e scrittura. La lettura è un atto di decodifica che non si ferma ai messaggi, ma si estende alla dinamiche sociali , al mondo. Imparare a leggere significa imparare a comprendere il mondo. Farlo vuol dire creare le condizioni per trasformatelo. Di qui il compito di insegnare a leggere le cose rendendo consapevoli i soggetti che esse non stanno con i media spesso dicono che stiano. Quindi concludendo possiamo parlare non da un metodo innovativo, ma a un target nuovo per un intervento medioedicativo. CONCLUSIONI La ricerca ci ha portato a riflettere sul costrutto della Media Education per verificarne se nell’attuale contesto socio-culturale sia ancora funzionale o non richieda un ripensamento sulla base del fatto che alcuni tratti che lo hanno caratterizzato alle sue origini, siano oggi superati o siano andati ridefinendosi in profondità. 1. OLTRE LA MEDIA EDUCATION Un primo elemento su cui riflettere è un triplice chiaro superamento degli aspetti tradizionali della Media Education. • Il primo è il SUPERAMENTO DELLA VOCAZIONE ISTITUZIONALE. La Media Education nasce nella e per la scuola. Il termine stesso “Education” che spesso viene erroneamente tradotto in italiano con “educazione” fa riferimento all’istruzione cioè ad una collocazione dentro i contesti di educazione formale come, in buona sostanza, la scuola. Oggi però il problema educativo dei media è esploso fuori dai contesti di educazione formale che si è ritrovato in relazione anche con lo sviluppo di un sistema sociale di cui i media rappresentano sempre più un fattore determinante, un elemento integrativo. Infatti, questo viene detto anche da Potter e McDougall nel 2017 quando parlano dei terzi spazi che, dall’emergere della storia evolutiva della Media Education, né sposta sempre più lo spazio di intervento fuori dai contesti scolastici a comprendere l’animazione socioculturale, la prevenzione del rischio in adolescenza e il ripensamento dell’intero lavoro di prevenzione sulla base della nuova presenza dei media, l’aging e le possibilità della telemedicina e del Welfare 2.0. • Il secondo superamento è IL SUPERAMENTO DELLA VOCAZIONE INFANTILE che va cercata nella rappresentazione dell’infanzia come età fragile e nella Comunicazione Research. Ripercorrendo la storia dell’infanzia, nell’800 essa guadagna una nuova rappresentazione tanto da essere denominato “secolo dell’infanzia”. Infatti, come Ariès ha fatto ben vedere con la sua ricerca, prima di allora non esisteva una rappresentazione dell’infanzia come età separata: ai bambini, non venivano negate la vista del sesso e della morte, tanto meno veniva risparmiato loro di lavorare né più né meno che come un adulto. È proprio in questo secolo che si vengono a creare le condizioni ed il bambino comincia ad essere più tutelato preparando la strada di quel che sarebbe stato tanto da riuscire a, nel secolo successivo, formulare quelli che sono i diritti dell’infanzia. Se questo può apparire positivo, si finisce però per favorire l’affermazione di un’idea di bambino come di un piccolo adulto non ancora sviluppato e, questo concetto di “minore”, rimarca la visione del bambino come adulto “meno qualcosa”, è un adulto diminutivo in cui gli mancherebbe non solo la struttura fisica ma anche la piena consapevolezza relazionale. Da qui però nasce anche l’idea che il bambino da solo, è incapace di difendersi dai media e che proprio per questo necessiti di un intervento ad hoc come quello rappresentato dalla Media Education. Questa idea Letizia Rossiello trova un complemento e un rinforzo nella Comunicazione Research, in particolare in quelle teorie note come degli effetti forti tra cui spicca quella del proiettile magico o ago ipodermico. La metafora è chiara: gli effetti dei media, come un proiettile magico, vanno sempre a bersaglio, come un ago infilato sotto la pelle che iniettano comportamenti e valori nei soggetti senza che essi se ne possano accorgere. Un primo implicito che queste teorie trasmettano è proprio che lo stesso messaggio produca gli stessi effetti su qualsiasi tipo di pubblico e, come secondo implicito invece, è che i media agiscono sotto il livello di consapevolezza dei loro destinatari: questa forza e questo carattere subdolo dei media, rinforzano l’idea che il bambino non ancora formati e quindi indifeso, abbia bisogno di protezione e, essa stessa, gli proviene grazie ad un intervento mediaeducativo. OGGI PERÒ, le cose appaiono profondamente diverse. Gli studi hanno infatti superato l’idea della infanzia come età incompiuta, smascherando e la natura di costruzione sociale. La ricerca, d’altra parte, ha consentivo anche di andare oltre il paradigma degli effetti forti, mostrando come i media agiscono sulle audiences in modo più complesso e sofisticato anche se non per questo meno efficace nell’orientamento di valori e comportamenti. L’età target della Media Education si allarga sia nella direzione della prima infanzia (0-6 anni) sia in direzione dell’età adulta e anziana. Questi sono due fattori molto importanti: la prima infanzia era sempre stata ritenuta una sorta di media free zone in cui si sosteneva che il bambino deve poter privilegiare la manipolazione e l’uso del corpo e quindi i media devono essere il più possibile sottratti al suo spazio di azione RISCHIANDO PERÒ di non considerare che essi vivono in un microclima fatto anche di media e di persone che li usano intorno a loro modellizzazione i comportamenti. ESTENDERE L’ATTENZIONE MEDIAEDUCATIVA A PRIMA SEI SEI ANNI SIGNIFICA CAPIRE CHE LO SVILUPPO DI COMPORTAMENTI CONFORMI DI CITTADINANZA DEVE PARTIRE A QUELL’ETÀ, aspettare potrebbe essere tardi. D’altre parte è anche chiaro come gli adulti non siano comunque al riparo della cyberstupidity e, come gli anziani, ancora scontino un divario digitale rispetto all’uso dei media. Questa doppia considerazione accredita l’idea di una Lifelong Media Education capace di coprire tutte le età della vita fornendo a ciascuna strumenti ed elementi di riflessione appropriati. • L’ultimo superamento è il SUPERAMENTO DEL PENSIERO CRITICO. Il pensiero critico è sempre stato il caposaldo del lavoro mediaeducativo attraverso il suo strumento concettuale per eccellenza ovvero l’analisi. L’idea che i media non siano trasparenti, che siano delle costruzioni, che attraverso di essi chi comunica possa imporre idee e valori al proprio destinatario, ha condotto la Media Education ad individuare proprio nell’analisi dei messaggi lo strumento per favorire lo sviluppo di pensiero critico rispetto a essi: smontare le costruzioni mentali significa accorgersi di cosa nascondano guadagnandone una comprensione chiara. A momenti di questa consapevolezza vi sono almeno tre matrici concettuali: - La prima è la PEDAGOGIA DO OPRIMIDO di Paulo Freire: nello specifico l’idea che la coscientizzazione sia l’unica possibilità aperta davanti a chi viene mantenuto dal Potere in condizioni di analfabetismo funzionale e culturale. Media come fattori di controinformazine, media come opportunità per sviluppare consapevolezza è proprio per questo cittadinanza. - La seconda matrice è la TEORIA CRITICA FRANCOFORTESE: per Horkheimer e Adorno (1947) la cultura di massa sviluppata dai media rappresenta la fase ultima dell’affermazione storica del modo capitalistico di produzione. Il suo obiettivo è la standardizzazione dei gusti e dei comportamenti attraverso l’applicazione delle regole della produzione industriale alla creazione culturale. A questo proposito, Benjamin (1936) avrebbe spiegato questo processo osservando come la riproducibilità tecnica, con la serializzazione, finisse per superare il concetto di originale con un duplice esito: quello di estetizzare l’esistenza e di espellere l’arte intesa come creazione originale dall’orizzonte percettivo dei soggetti. Marcuse (1964) invece, osserva come nella società di massa anche il tempo libero finisca per diventare lavorativo. Il concetto di tempo libero è una creazione della produzione che intuisce che attorno a questo concetto è possibile costruire un nuovo mercato in cui sorgono bisogni in relazione a esso e li soddisfa. Il lavoratore alienato così non trova nel tempo libero un’opportunità di riposo ma una nuova forma di lavoro Letizia Rossiello fatto ad esempio di lunghe code ai centri commerciali, fuori dal cinema. Marcuse osservava così che si trattava di una vera e propria forma di repressione addizionale che va ad aggiungersi a quella già accumulata durante la settimana lavorativa. A tal proposito, Hartmut Rosa (2010) ha consentito di completare questa analisi facendo riferimento ai media digitali e sociali dove, essi sarebbero funzione di quel processo generale do accelerazione di cui tutti siamo vittime e che è responsabile dell’erosione dello spazio e della condensazione dei tempi. L’erosione dello spazio ci rende raggiungibili ovunque, abbatte le distanze, consente di contaminare luoghi del lavoro e del riposo. Grazie a questo quindi, la condensazione dei tempi fa sì che nello stesso istante ci tocchi gestire tempi diversi: capita quando abbiamo la televisione accesa davanti, il computer sulle ginocchia per rispondere alla posta elettronica e stiamo telefonando mentre qualcuno della famiglia ci rivolge la parola. Questo doppio processo e cioè EROSIONE DELLO SPAZIO + CONDENSAZIONE DEL TEMPO, è secondo Rosa, la condanna a essere sempre in ritardo sulle consegne, a rincorrere perennemente le scadenze, sentendosi per giunta in colpa perché non si riesce a fare meglio: si tratta di una vera e proprio condizione di alienazione. - La terza matrice concettuale del pensiero critico è la SEMIOTICA DEI MEDIA in cui essa rappresenta, già dai primi anni ’60 del secolo scorso, uno strumento essenziale di lavoro dei media educator nella misura in cui fornisce metodi e strumentazione per sottoporre ad analisi i messaggi. Nel nostro Paese grazie all’importazione dalla Francia della semiotica di impostazione strutturalistica (si pensi soprattutto a Metz e Barthes) e il lavoro di pionieri come Padre Morlion, Padre Taddei o Don Gaffuri, hanno rappresentato un importante avanzamento di tutto il movimento di lettura critica delle immagini, nella fattispecie soprattutto nel caso del cinema. Ora, non che oggi il pensiero critico non serve più, anzi, ne occorre una più articolata e profonda versione dal momento che l’autorialità diffusa resa possibile dai media digitali e sociali ha prodotto una moltiplicazione dei punti di vista e una polverizzazione delle iscrizioni ideologiche oltre che delle informazioni prive di fondamento se non decisamente false (fake news, post-verità): tutto questo rende il compito dell’analisi critica molto più diffusa che in un recente passato. D’altra parte, questi stessi media sono media autoritari, ovvero media attraverso i quali, è facile produrre dei contenuti e pubblicarli nel Web: questo comporta che al pensiero critico debbano essere affiancate la responsabilità e la consapevolezza etica. 2. IL FRAMEWORK DELLA NEW LITERACY Come già detto nel capitolo dedicato al Framework, lo si è definito in modo provvisorio come il nuovo framework della Media Education. L’ipotesi adesso è di partire da questo framework per rileggerlo come applicabile al nuovo contesto culturale che abbiamo descritto in questo lavoro, un contesto segnato dalla presenza dei media ma con caratteristiche e forme completamente diverse da quelle tradizionali che riconfigurano i media come forme integrate agli oggetti e alle relazioni, più come contenuti o strumenti. In questo senso va inquadrata la proposta di adottarlo come rappresentativo di quella che per ora è la New Literacy. FIGURA 1 PAG. 193 In questa sede si può osservare come il dispositivo che esso porta in gioco coinvolga non solo i comportamenti mentali del soggetto come scrivere un post, navigare su un sito Web, gestire una conversazione on line, ma coinvolga anche le sue capacità di gestione dei diversi alfabeti che sono parte delle sue attività quotidiane. Non si tratta solo di un problema di linguaggi ma di forme della vita e della cultura: questo, quindi, significa recuperare la sociomaterialità e i terzi spazi di cui parlano Potter e McDougall (2017), senza fissarsi solo sulle forme testuali come il lavoro semiotico tradizionalmente ha sempre fatto. Questo comporta di tornare sillo schema per correggerlo in almeno due direzioni: - Anzitutto si tratta di inserire queste dimensioni dal punto di vista grafico e quindi di ripensare il quadrato centrale come la rappresentazione dello spazio di significazione e di Letizia Rossiello