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PARADISO, DANTE ALIGHIERI, Sintesi del corso di Letteratura Italiana

Parafrasi e analisi canti: I, III, IV, VI, VIII, X, XI, XII, XV, XVI, XVII, XXI, XXIII, XXVII, XXX, XXXIII

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020
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Caricato il 07/01/2022

gloria-selva-16
gloria-selva-16 🇮🇹

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Scarica PARADISO, DANTE ALIGHIERI e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! PARADISO DANTE ALIGHIERI Parafrasi e analisi canti: 1, 111, IV, VI, VII, X, XI, XII XV, XVI, XVII XL, XXHIL XXVIL OX, XOOXITI CANTO! Argomento del Canto Proemio della Cantica. Dante e Beatrice ascendono al Paradiso. Dubbi di Dante e spiegazione di Beatrice circa l'ordine dell'Universo. È mezzogiorno di mercoledì 13 aprile (o 30 marzo) del 1300. Proemio della Cantica (1-36) Apollo Citaredo (Il sec. d.C.) Dante dichiara di essere stato nel Cielo del Paradiso (l'Empireo) che riceve maggiormente la luce divina che si diffonde nell'Universo: lì ha visto cose difficili da riferire a parole, poiché l'intelletto umano non riesce a ricordare ciò che vede quando penetra in Dio. Il poeta tenterà di descrivere il regno santo nella Ill Cantica e per questo invoca l'assistenza di Apollo, in quanto l'aiuto delle Muse non gli è più sufficiente. Il dio pagano dovrà ispirarlo col suo canto, come fece quando vinse il satiro Marsia, tanto da permettergli di affrontare l'alta materia del Paradiso e meritare così l'alloro poetico. Apollo dovrebbe essere lieto che qualcuno desideri esserne incoronato, poiché ciò accade raramente nei tempi moderni; Dante si augura che il suo esempio sia seguito da altri poeti dopo di lui. Ascesa di Dante e Beatrice (37-63) Il sole sorge sull'orizzonte da diversi punti, ma quello da cui sorge quando è l'equinozio di primavera si trova in congiunzione con la costellazione dell'Ariete, quindi i raggi del sole allora sono più benefici per il mondo. Quel punto dell'orizzonte divide l'emisfero nord, in cui è già notte, da quello sud, in cui è giorno pieno: in questo momento Dante vede Beatrice rivolta a sinistra e intenta a fissare il sole come farebbe un'aquila. L'atto della donna induce Dante a imitarla, proprio come un raggio di sole riflesso si leva con lo stesso angolo del primo raggio, per cui il poeta fissa il sole più di quanto farebbe sulla Terra. Nell'Eden le facoltà umane sono accresciute e Dante può vedere la luce aumentare tutt'intorno, come se fosse spuntato un secondo sole. Trasumanazione di Dante (64-81) Dante distoglie lo sguardo dal sole e osserva Beatrice, che a sua volta fissa il Cielo. Il poeta si perde a tal punto nel suo aspetto che subisce una trasformazione simile a quella di Glauco quando divenne una creatura marina: è impossibile descrivere a parole l'andare oltre alla natura umana, perciò il lettore dovrà accontentarsi dell'esempio mitologico e sperare di averne esperienza diretta in Paradiso. Dante non sa dire se, in questo momento, sia ancora in possesso del suo corpo mortale o sia soltanto anima, ma di certo fissa il suo sguardo nei Cieli che ruotano con una melodia armoniosa e gli sembra che la luce del sole abbia acceso in modo straordinario tutto lo spazio circostante. Primo dubbio di Dante e spiegazione di Beatrice (82-93) Nel poeta si accende un fortissimo desiderio di conoscere l'origine del suono e della luce, per cui Beatrice, che legge nella sua mente ogni pensiero, si rivolge subito a lui per placare il suo animo. La donna spiega che Dante immagina cose errate, poiché non si trova più in Terra come ancora crede: egli sta salendo in Paradiso e nessuna folgore, cadendo dalla sfera del fuoco in basso, fu tanto rapida quanto lui che torna al luogo che gli è proprio (il Paradiso). Secondo dubbio di Dante: l'ordine dell'Universo (94-142) Beatrice ha risolto il primo dubbio di Dante, ma ora il poeta è tormentato da un altro e chiede alla donna come sia possibile che lui, dotato di un corpo mortale, stia salendo oltre l'aria e il fuoco. Beatrice trae un profondo sospiro, quindi guarda Dante come farebbe una madre col figlio che dice cose insensate e spiega che tutte le cose dell'Universo sono ordinate tra loro, così da formare un tutto armonico. In questo ordine le creature razionali (uomini e angeli) scorgono l'impronta di Dio, che è il fine cui tendono tutte le cose. Tutte le creature, infatti, sono inclini verso Dio in base alla loro natura e tendono a fini diversi per diverse strade, secondo l'impulso che è dato loro. Questo fa sì che il fuoco salga verso l'alto, che si muova il cuore degli esseri irrazionali, che la Terra stia coesa in sé stessa; tale condizione è comune alle creature irrazionali e a quelle dotate di intelletto. Dio risiede nell'Empireo come vuole la Provvidenza, e Dante e Beatrice si dirigono lì in quanto il loro istinto naturale li spinge verso il loro principio, che è Dio. È pur vero, spiega Beatrice, che talvolta la creatura non asseconda questo impulso e devia dal suo corso naturale in virtù del suo libero arbitrio; così l'uomo talvolta si piega verso i beni terreni e non verso il Cielo, come una saetta tende verso il basso e non verso l'alto. Dante, se riflette bene, non deve più stupirsi della sua ascesa proprio come di un fiume che scorre dalla montagna a valle; dovrebbe stupirsi del contrario, se cioè non salisse pur privo di impedimenti, come un fuoco che sulla Terra restasse fermo. Alla fine delle sue parole, Beatrice torna a fissare il Cielo. Interpretazione complessiva Il Canto si apre con il proemio alla Ill Cantica, che si distende per ben 36 versi e risulta così di ampiezza tripla rispetto al proemio del Purgatorio (I, 1-12) e addirittura quadrupla rispetto a quello dell'Inferno (II, 1-9): la maggiore ampiezza e solennità si spiega con l'accresciuta importanza della materia trattata, dal momento che il poeta si accinge a descrivere il regno santo come mai nessuno prima di lui aveva fatto e dovrà misurarsi con la difficoltà di riferire cose difficili anche solo da ricordare, anticipando il tema della visione inesprimibile che tanta parte avrà nel Paradiso. Ciò spiega anche perché Dante debba invocare l'assistenza di Apollo oltre che delle Muse, chiedendo al dio pagano (che naturalmente è personificazione dell'ispirazione divina) di aiutarlo nell'ardua impresa e consentirgli di cingere l'agognato alloro poetico: Apollo dovrà ispirarlo con lo stesso canto con cui vinse il satiro Marsia che lo aveva sfidato, in maniera analoga a Calliope che aveva sconfitto le Pieridi (Purg., I, 9-12) e sottolineando il fatto che la poesia di Dante dovrà essere ispirata da Dio e non un folle tentativo di gareggiare con la divinità nella rappresentazione di ciò che supera i limiti umani (ciò sarà ribadito anche nell'esordio del Canto seguente, vv. 7-9). Dante ribadisce anche il fatto che pochi, ormai, desiderano l'alloro, per cui la sua ambizione dovrebbe rallegrare Apollo ed essere di stimolo ad altri poeti dopo di lui perché seguano il suo esempio, nel che c'è forse una fin troppo modesta excusatio propter infirmitatem, dal momento che più volte nella Cantica egli esprimerà l'orgoglio di essere il primo a percorrere questa strada poetica. Dopo l'ampia e complessa descrizione astronomica che indica la stagione primaverile e l'ora del mezzogiorno (è questa l'interpretazione più ovvia, mentre è improbabile che il poeta intenda l'alba), Dante vede Beatrice fissare il sole e imita il suo gesto, sperimentando l'accresciuto acume dei suoi sensi nell'Eden. | due hanno iniziato a salire verso la sfera del fuoco che divide il mondo terreno dal Cielo della Luna, anche se Dante non se n'è ancora reso conto e ha notato solo l'aumento straordinario della luce: il poeta si sente trasumanar, diventare qualcosa di più che un essere umano e non può descrivere questa sensazione se non con l'esempio ovidiano del pastore Glauco, che si tramutò in una creatura acquatica e si gettò in mare dicendo addio alla Terra (come vedremo, Dante ricorrerà spesso nella Cantica a similitudini mitologiche per rappresentare situazioni prive di termini di paragone «terreni»). L'aumento progressivo della luce e il dolce suono con cui ruotano le sfere celesti accendono in Dante il desiderio di più basso, quello della Luna, benché lei e gli altri gioiscano di partecipare all'ordine voluto da Dio. Essi hanno il grado più basso di beatitudine perché i loro voti furono non adempiuti o trascurati in parte. Spiegazione dei vari gradi di beatitudine (58-90) Dante risponde e spiega a Piccarda che nel loro aspetto risplende qualcosa di divino che li rende diversi da come erano in vita e che questo gli ha impedito di riconoscerla subito, poi chiede se lei o gli altri beati desiderino acquisire un grado più elevato di beatitudine. Piccarda sorride un poco con le altre anime, poi risponde lietamente e spiega che la carità placa ogni loro desiderio e li induce a volere solo ciò che hanno e non altro. Se desiderassero essere in un grado superiore di beatitudine, i loro desideri sarebbero discordi dalla volontà di Dio che li colloca lì, il che è impossibile in Paradiso dove è inevitabile essere in carità. Anzi, aggiunge, l'essere beati comporta necessariamente l'adeguarsi alla volontà divina, per cui la posizione occupata dai beati in Paradiso trova l'approvazione di Dio come di tutti i beati. Questo dà loro la pace, perché Dio è il termine ultimo al quale si muovono tutte le creature dell'Universo. L'inadempienza del voto. Costanza d'Altavilla (91-120) Dante ha compreso il fatto che tutti i beati godono della felicità eterna, anche se in grado diverso, ma se la risposta di Piccarda ha sciolto un suo dubbio ne ha acceso subito un altro, per cui il poeta le chiede quale sia il voto che lei non ha portato a compimento. La beata spiega che un Cielo più alto ospita santa Chiara d'Assisi, fondatrice nel mondo dell'Ordine delle Clarisse alla cui regola molte donne si votano e prendono il velo. Piccarda, da giovinetta, indossò quell'abito e pronunciò i voti monastici, ma degli uomini più avvezzi al male che al bene la rapirono dal convento e la obbligarono a una vita diversa. Piccarda indica poi un'anima splendente alla sua destra, che ha vissuto la stessa esperienza poiché fu suora e le fu tolto forzatamente il velo, anche se in seguito rimase in cuore fedele alla regola monastica: è l'imperatrice Costanza d'Altavilla, che da Enrico VI generò Federico Il di Svevia. Sparizione delle anime (121-130) Alla fine delle sue parole, Piccarda intona l'Ave, Maria e pian piano svanisce, come un oggetto che cade nell'acqua profonda. Dante la segue con lo sguardo quanto può, poi torna a osservare Beatrice che però col suo splendore abbaglia la vista del poeta, così che i suoi occhi dapprima non riescono a sopportare tanto fulgore. Questo rende Dante più restio a domandare. Interpretazione complessiva Il Canto presenta la prima schiera di beati incontrati da Dante nel | Cielo e la protagonista assoluta è Piccarda Donati, che spiega al poeta il motivo per cui lei e le altre anime sono rilegate nel Cielo più basso e qual è la legge che regola i diversi gradi di beatitudine in Paradiso. La collocazione in Cielo di Piccarda era già stata preannunciata dal fratello Forese in Purg., XXIV, 13-15 («La mia sorella, che tra bella e buona / non so qual fosse più, triunfa lieta / ne l'alto Olimpo già di sua corona»), in contrapposizione alla futura dannazione di Corso, su domanda diretta di Dante che quindi conosceva la giovane; ciò è confermato in questo episodio, nel quale Dante non riconosce subito Piccarda e se ne scusa adducendo il diverso aspetto di queste anime rispetto a quello che avevano in vita, per cui non è stato a rimembrar festino. In effetti gli spiriti difettivi, che in vita non portarono a compimento il voto e perciò godono del più basso grado di felicità eterna, sono gli unici beati a mostrarsi a Dante con un'immagine vagamente umana, talmente evanescente da sembrare riflessi nell'acqua: Dante ricorre a una doppia preziosa similitudine per descrivere queste figure diafane, quella di volti riflessi su un vetro o su uno specchio d'acqua tersa e quella di perle bianche che si distinguono appena sulla bianca fronte di una giovane donna (ciò rientrava nella moda del tempo ed era tipico delle giovani aristocratiche, per cui l'immagine aggiunge raffinatezza alla scena). Il ricorso alla mefatora dell'acqua non è naturalmente nuovo, poiché Dante ha già paragonato la descrizione del Paradiso a un viaggio per mare (II, 1 ss.; e Beatrice aveva parlato di gran mar de l'essere in |, 113) e più avanti la scomparsa di Piccarda e degli altri beati sarà assimilata a quella di un corpo che affonda nell'acqua profonda, così come gli spiriti del Cielo di Mercurio sembreranno pesci che si avvicinano al pelo dell'acqua per prendere il cibo (V, 100-105). Beatrice dichiara che gli spiriti difettivi sono confinati in questo | Cielo per manco di voto, anche se in realtà lei stessa spiegherà più avanti che i beati risiedono tutti nell'Empireo e semplicemente appaiono a Dante nel Cielo il cui influsso hanno subìto in vita: il poeta chiede infatti a Piccarda di rivelare il proprio nome e la sorte sua e degli altri beati, per cui la giovane si presenta e spiega che essi godono il grado più basso di beatitudine, proprio perché indotti o forzati in vita a non rispettare il proprio voto, come nel suo caso il voto di castità seguente alla monacazione. Questo naturalmente accende in Dante la curiosità di sapere se i beati desiderino un più alto grado di beatitudine e la domanda fa sorridere le anime, dal momento che un simile desiderio sarebbe impossibile in Paradiso. La risposta di Piccarda precisa una legge che coinvolge tutti i beati del terzo regno, ovvero il fatto che essi ardono della virtù di carità e quindi, grazie ad essa, non possono che conformarsi alla volontà di Dio che li cerne, li colloca in quella posizione; se i loro desideri fossero discordi da quelli divini ciò sarebbe incompatibile con la loro condizione stessa di beati, proprio perché verrebbe meno l'ardore di carità che è premessa indispensabile alla beatitudine (secondo la filosofia scolastica la carità comportava l'adeguamento alla volontà dell'oggetto amato). Il discorso di Piccarda è conciso e stringente nella sua logica e si avvale di un preciso linguaggio filosofico, che include latinismi puri (necesse, beato esse) e tecnicismi (formale, nel senso di causa essenziale) che saranno usati spesso dal poeta nel corso della III Cantica; l'idea stessa della gradazione della beatitudine e della divisione dei beati in varie schiere, se da un lato risponde a un criterio analogo rispetto a Inferno e Purgatorio, dall'altro risponde alla trattazione che ne dà san Tommaso e che verrà ripresa nel Canto seguente, specie nel tentativo di correggere l'opinione espressa da Platone nel Timeo riguardo alla collocazione delle anime dopo la morte. L'ultima parte del Canto è dedicata a Piccarda personaggio, la fanciulla conosciuta da Dante a Firenze e costretta dal fratello Corso a sposarsi contro il suo volere, rapita de la dolce chiostra ad opera di Corso medesimo e dei suoi complici, definiti da lei uomini... a mal più ch'a bene usi (con sereno distacco dalle vicende terrene e senza l'ombra di rancore verso l'ingiustizia patita); la conclusione della sua vicenda personale è affidata a un verso lapidario quanto allusivo, Iddio si sa qual poi mia vita fusi, che è stato giustamente accostato ad altre celebri chiuse di personaggi danteschi, da Ulisse (Inf., XXVI, infin che "I mar fu sovra noi richiuso), al conte Ugolino (XXXIII, 75 Poscia, più che 'l dolor poté 'l digiuno), senza contare il manzoniano La sventurata rispose relativo alla monaca di Monza e per il quale il grande romanziere potrebbe essersi ispirato proprio a questo passo. Piccarda rievoca la sua vicenda umana per spiegare quale voto non ha portato a termine e per farlo indica a Dante due diverse donne, che costituiscono due diversi esempi di devozione religiosa: la prima è santa Chiara d'Assisi, la fondatrice delle Clarisse alla cui regola Piccarda si era votata, mentre la seconda è l'imperatrice Costanza d'Altavilla, la madre di Federico Il di Svevia che ha subìto il suo stesso destino e ora risplende accanto a lei in questo Cielo. Dante accoglie la leggenda della monacazione di Costanza e dell'obbligo impostole di sposare Enrico VI, matrimonio da cui era nato Federico Il (accusato dalla pubblicistica guelfa di essere l'Anticristo in quanto frutto di un'unione peccaminosa, come del resto suo figlio Manfredi); il fatto era totalmente falso, tuttavia non impedisce a Dante di collocare la donna in Paradiso come, del resto, Manfredi in Purgatorio, a significare che la via della salvezza non è necessariamente legata alle vicende terrene o alla condanna della Chiesa, come più volte è stato affermato nella Il Cantica e sarà ancora ribadito nella III, specie nei Canti dedicati al problema della giustizia. La spiegazione di Piccarda accende due nuovi dubbi in Dante, relativi all'inadempienza del voto e alla collocazione effettiva dei beati in Paradiso, che saranno spiegati da Beatrice nei Canti IV-V, mentre alla fine di questo il fulgore con cui la guida di Dante abbaglia la sua vista lo rende a dimandar più tardo, proprio come lo sarà all'inizio del successivo perché incerto su quale domanda rivolgerle per prima. Note e passi controversi Al v. 1 il sole è naturalmente Beatrice, in quanto primo amore di Dante e luce in grado di chiarire i suoi dubbi in materia di fede. | verbi provando e riprovando (v. 3) sono tecnicismi della Scolastica, poiché indicano i due momenti dell'argomentazione di Beatrice del Canto precedente («riprovare» significa confutare, «provare» vuol dire portare argomenti a favore della propria tesi). Alv. 13 le postille sono le immagini riflesse sull'acqua. Il v. 14 allude alla moda femminile del Due-Trecento di portare in fronte una perla appesa a una coroncina o a una reticella. | vv. 17-18 ricordano il mito di Narciso, che vedendo la propria immagine riflessa nell'acqua se ne innamorò credendola reale (Dante incorre nello sbaglio opposto, poiché crede immagini riflesse quelle reali). La fonte è Ovidio, Met., III, 407 ss. Alv. 26 coto deriva da «cotare», «cogitare» e vuol dire «pensiero». La spera più tarda (v. 51) è il Cielo della Luna, che è il più vicino alla Terra e quello che ha minor raggio, quindi ruota più lento. Al v. 57 è presente il bisticcio véti / vòti, ovvero «voti» / «vuoti» (nel senso di non compiuti). Al v. 63 latino significa «chiaro», «facile a intendersi» ed è attestato nella lingua del tempo. Il primo foco del v. 69 è certamente lo Spirito Santo, cioè Dio in quanto primo amore; altri hanno pensato al primo amore per cui arde una donna, ma sembra immagine poco adatta a raffigurare una beata. Capére (v. 76) significa «aver luogo» ed è termine della Scolastica che deriva dal lat. capere. Ai vv. 95-96 il voto non portato a termine è paragonato a una tela non finita di tessere. Al v. 97 inciela («colloca in cielo») è neologismo dantesco con quest'unica occorrenza nel poema. Lo sposo citato al v. 101 è naturalmente Cristo, poiché la donna che diventava monaca si sposava con Lui (Ila metafora delle nozze mistiche deriva dalle Scritture ed è largamente usata dagli scrittori della letteratura religiosa del Due-Trecento). Il secondo vento di Soave (v. 119) è Enrico VI, secondo imperatore della casa sveva, mentre il terzo e ultimo è Federico II. Il termine vento è stato interpretato come «gloria», «potenza» e anche «superbia». CANTO IV Argomento del Canto Ancora nel | Cielo della Luna. Beatrice risolve due dubbi di Dante, circa la sede dei beati e l'inadempienza del voto. Volontà assoluta e relativa. Nuovo dubbio di Dante: le opere buone possono sostituire i voti pronunciati? È il tardo pomeriggio di mercoledì 13 aprile (0 30 marzo) del 1300. Beatrice intuisce i due dubbi di Dante (1-27) Dante ha due dubbi e non sa quale esprimere per primo, come un uomo fra due cibi ugualmente distanti e attrattivi, o un agnello tra due lupi o un cane fra due daini, per cui tace e ciò non è da biasimare né da lodare. Il desiderio di Dante traspare comunque dal suo viso, per cui Beatrice si comporta come Daniele quando indovinò e interpretò il sogno del re Nabucodonor, placando la sua ira. La donna dice di sapere quali sono i due dubbi di Dante, il primo dei quali riguarda l'inadempienza del voto quando essa è ulteriore problema dal fatto che anime come Piccarda e Costanza hanno subìto un atto di violenza e ciò sembrerebbe giustificare il non compimento del voto, facendo apparire iniquo il minor grado di beatitudine di cui esse godono. La questione è materia di fede ed è affine al problema della mancata salvezza di coloro che non hanno conosciuto il Cristianesimo, che sarà ampiamente affrontata nel Canto XIX: qui Beatrice spiega che quelle anime avrebbero potuto resistere alla violenza patita con un atto supremo della volontà, quindi (nel caso delle due donne citate) rientrare in convento o rifiutarsi di contrarre matrimonio, mentre non l'hanno fatto per umana debolezza e timore di subire più gravi conseguenze. Tale suprema volontà è simile a quella dimostrata da san Lorenzo sulla graticola o da Mucio Scevola nel bruciarsi la mano, ma essa è molto rara e non si può pretendere che tutti ne siano dotati, per cui questi spiriti non sono esclusi dalla beatitudine e, tuttavia, non possono godere del massimo grado di comunione con Dio. Beatrice distingue ulteriormente tra volontà assoluta e relativa (o condizionata), poiché la prima può essere contraria al male, ma la seconda può essere influenzata dalle circostanze del momento e, se colui che subisce violenza la asseconda con la volontà relativa, se ne rende in certo modo complice, non potendo addurre a scusante la prepotenza che gli è stata perpetrata. A questo riguardo Dante si rifà alla dottrina aristotelica dell'Etica Nicomachea (III, 1), secondo la quale ad id quod agitur per metum, voluntas timentis aliquid confert («la volontà di chi teme conferisce qualche cosa a ciò che si fa per timore»), ripresa poi da san Tommaso d'Aquino nella Summa Theologica e dalla Scolastica in genere che distingueva tra absoluta voluntas e voluntas secundum quid. Tale spiegazione è posta nei Canti iniziali del Paradiso in quanto essenziale alla comprensione della struttura del terzo regno e poiché la considerazione della debolezza umana di fronte a influenze di vario tipo poteva ingenerare dubbi insidiosi sul piano escatologico, attribuendo la responsabilità delle azioni degli uomini ad altro che non fosse la libera volontà; a un argomento simile sarà dedicata la prima parte del Canto seguente, in cui Beatrice risponderà al nuovo dubbio di Dante espresso alla fine di questo, ovvero se e in che misura i voti incompiuti possano essere ripagati da una azione virtuosa (il problema dei voti e del loro scioglimento era molto sentito al tempo di Dante e poneva conseguenze non meno rilevanti sul piano della salvezza). Note e passi controversi Gli esempi citati da Dante ai vv. 1-6 sono affini a quello cosiddetto dell'«asino di Buridano», attribuito al filosofo scolastico francese del XIV sec. secondo cui un asino, posto tra due mucchi di fieno ugualmente distanti e appetibili, morirebbe di fame non sapendo quale scegliere. Dante sostituisce all'asino l'uomo, ovvero un essere dotato di intelletto e non spinto solo dagli appetiti sensibili. Ai vv. 13-15 si allude al racconto biblico (Dan., II, 1 ss.) in cui il profeta Daniele interpretò il sogno del re babilonese Nabucodonosor, che l'aveva dimenticato e, adirato, voleva condannare a morte i saggi che non erano riusciti a soddisfare le sue richieste. Al v. 27 felle significa «fiele» e, per estensione, veleno (Beatrice indica che tale opinione è pericolosa sul piano dell'ortodossia). Alv. 28 s'india è neologismo dantesco e vuol dire «penetra in Dio». Il v. 33 allude alla dottrina platonica per cui l'anima permarrebbe più o meno a lungo nell'astro a seconda dei meriti. Ai vv. 43-45 Dante si rifà a san Tommaso, Summa theol., I, q. I, a. 9: conveniens est Sacrae Scripturae divina et spiritualia sub similitudine corporalium tradere... Est autem naturale homini ut per sensibilia ad intellegibilia veniat: quia omnis nostra cognitio a sensu initium habet («è necessario che la Sacra Scrittura tramandi le cose divine e spirituali attraverso similitudini fisiche; del resto è naturale per l'uomo giungere alla conoscenza intellettiva attraverso immagini sensibili, poiché ogni nostra conoscenza prende inizio dai sensi»). L'altro che Tobia rifece sano (v. 48) è l'arcangelo Raffaele, che guarì Tobia dalla cecità (Tob., III, 25; VI, 16). Al v. 53 decisa è latinismo e vuol dire «separata» (da decîdo, «tagliare»). Al v. 68 argomento è stato variamente interpretato, poiché può voler dire «prova», «dimostrazione», oppure «motivo». Forse Beatrice indica semplicemente che la giustizia divina è argumentum fidei, ovvero materia inconoscibile all'intelletto e che può essere solo oggetto di fede. I due esempi ai vv. 82-84 sono relativi a san Lorenzo, il martire spagnolo arso vivo su una graticola nel 258 d.C. durante le persecuzioni dell'imperatore Valeriano, e a Gaio Mucio Scevola, il giovane romano che tentò di uccidere il re di Chiusi Porsenna e, avendo fallito, bruciò la mano destra per punirla (Livio, Ab Urbe condita, II, 12). Da osservare che i due esempi sono tratti dalla tradizione cristiana e pagana. Ai vv. 103-105 Dante allude al mito di Alcmeone, il figlio di Anfiarao che uccise la madre Erifile poiché questa aveva rivelato il nascondiglio del padre (Stazio, Theb., VII, 787-788; Ovidio, Met., IX, 408). Qui Dante dice in maniera imprecisa che era stato Anfiarao a chiedere al figlio di vendicarlo. Al v. 118 amanza è provenzalismo e vale «prediletta». La formula esse frustra (v. 129) nel senso di «essere invano» è propria del linguaggio della Scolastica. L'espressione mia virtute diè le reni (v. 141) indica che la virtù visiva di Dante, sopraffatta dall'aspetto di Beatrice, batte in ritirata, cioè viene meno. CANTO VI Argomento del Canto Ancora nel Il Cielo di Mercurio. Giustiniano si presenta a Dante. Digressione sulla storia dell'Impero Romano. Invettiva contro i Guelfi e i Ghibellini. Condizione degli spiriti operanti per la gloria terrena. Presentazione di Romeo di Villanova. È la sera di mercoledì 13 aprile (o 30 marzo) del 1300. Giustiniano narra la sua vita (1-27) Giustiniano risponde alla prima domanda di Dante, spiegando che dopo che Costantino aveva portato l'aquila imperiale (la capitale dell'Impero) a Costantinopoli erano passati più di duecento anni, durante i quali l'uccello sacro era passato di mano in mano giungendo infine nelle sue. Egli si presenta dunque come imperatore romano e dice di chiamarsi Giustiniano, colui che su ispirazione dello Spirito Santo riformò la legislazione romana. Prima di dedicarsi a tale opera egli aveva aderito all'eresia monofisita, credendo che in Cristo vi fosse solo la natura divina, ma poi papa Agapito lo aveva ricondotto alla vera fede e a quella verità che, adesso, egli legge nella mente di Dio. Non appena l'imperatore fu tornato in seno alla Chiesa, Dio gli ispirò l'alta opera legislativa e si dedicò tutto ad essa, affidando le spedizioni militari al generale Belisario che ebbe il favore del Cielo. Ragioni della digressione sull’impero (28-36) Fin qui Giustiniano avrebbe risposto alla prima domanda di Dante, ma la sua risposta lo obbliga a far seguire un'aggiunta, affinché il poeta si renda conto quanto sbagliano coloro che si oppongono al simbolo sacro dell'aquila (i Guelfi) e coloro che se ne appropriano per i loro fini (i Ghibellini). Il simbolo imperiale è degno del massimo rispetto, e ciò è iniziato dal primo momento in cui Pallante morì eroicamente per assicurare la vittoria di Enea. Storia dell'aquila: dai re alla Repubblica (37-54) Giustiniano ripercorre le vicende storiche dell'aquila imperiale, da quando dimorò per trecento anni in Alba Longa fino al momento in cui Orazi e Curiazi si batterono fra loro. Seguì il ratto delle Sabine, l'oltraggio a Lucrezia che causò la cacciata dei re e le prime vittorie contro i popoli vicini a Roma; in seguito, i Romani portarono l'aquila contro i Galli di Brenno, contro Pirro, contro altri popoli italici, guerre che diedero gloria a Torquato, a Quinzio Cincinnato, ai Deci e ai Fabi. L'aquila sbaragliò i Cartaginesi che passarono le Alpi al seguito di Annibale, là dove nasce il fiume Po; sotto le insegne imperiali conobbero i loro primi trionfi Scipione e Pompeo, e l'aquila parve amara al colle di Fiesole, sotto il quale nacque Dante. Storia dell'aquila: l'età imperiale (55-96) Nel periodo vicino alla nascita di Cristo, l'aquila venne presa in mano da Cesare, che realizzò straordinarie imprese in Gallia lungo i fiumi Varo, Reno, Isère, Loira, Senna, Rodano. Cesare passò poi il Rubicone e iniziò la guerra civile con Pompeo, portandosi prima in Spagna, poi a Durazzo, vincendo infine la battaglia di Farsàlo e costringendo Pompeo a riparare in Egitto. Dopo una breve deviazione nella Troade, sconfisse Tolomeo in Egitto e luba, re della Mauritania, per poi tornare in Occidente dove erano gli ultimi pompeiani. Il suo successore Augusto sconfisse Bruto e Cassio, poi fece guerra a Modena e Perugia, infine sconfisse Cleopatra che si uccise facendosi mordere da un serpente. Augusto portò l'aquila fino al Mar Rosso, garantendo a Roma la pace e facendo addirittura chiudere per sempre il tempio di Giano. Ma tutto ciò che l'aquila aveva fatto fino ad allora diventa poca cosa se si guarda al terzo imperatore (Tiberio), poiché la giustizia divina gli concesse di compiere la vendetta del peccato originale, con la crocifissione di Cristo. Successivamente con Tito punì la stessa vendetta, con la conquista di Gerusalemme; poi, quando la Chiesa di Roma fu minacciata dai Longobardi, fu soccorsa da Carlo Magno. Invettiva contro Guelfi e Ghibellini (97-111) Terminata la sua digressione, Giustiniano invita Dante a giudicare l'operato di Guelfi e Ghibellini che è causa dei mali del mondo: i primi si oppongono al simbolo imperiale dell'aquila appoggiandosi ai gigli d'oro della casa di Francia, i secondi se ne appropriano per i loro fini politici, per cui è arduo stabilire chi dei due sbagli di più. | Ghibellini dovrebbero fare i loro maneggi sotto un altro simbolo, poiché essi lo separano dalla giustizia; Carlo Il d'Angiò, d'altronde, non creda di poterlo abbattere coi suoi Guelfi, dal momento che l'aquila coi suoi artigli ha scuoiato leoni più feroci di lui. | figlispesso pagano le colpe dei padri e Dio non cambierà certo il simbolo dell'aquila con quello dei gigli della monarchia francese. Condizione degli spiriti nel Il Cielo (112-126) Giustiniano risponde alla seconda domanda di Dante e spiega che il Cielo di Mercurio ospita gli spiriti che in vita hanno perseguito onore e fama, per cui quando i desideri sono rivolti alla gloria terrena è inevitabile che si ricerchi in minor misura l'amor divino. Tuttavia, spiega Giustiniano, lui e gli altri beati sono lieti della loro condizione, in quanto i premi sono commisurati al loro merito e la giustizia divina è tale che non possono nutrire alcun pensiero negativo. Voci diverse producono dolci melodie, e così i vari gradi di beatitudine producono una dolcissima armonia nelle sfere celesti. Romeo di Villanova (127-142) Giustiniano indica a Dante l'anima di Romeo di Villanova, che splende in questo stesso Cielo e la cui grande opera fu sgradita ai Provenzali, che tuttavia hanno pagato cara la loro ingratitudine nei suoi confronti. Raimondo Berengario IV, conte di Provenza, ebbe quattro figlie e grazie all'opera dell'umile Romeo tutte furono regine; poi le parole invidiose degli altri cortigiani lo indussero a chiedere conto del suo operato a Romeo, che aveva accresciuto le rendite statali. Egli se n'era andato via, vecchio e povero, e se il mondo sapesse con quanta dignità si ridusse a chieder l'elemosina, lo loderebbe assai più di quanto già non faccia. Agapito (v. 16) fu papa nel 533-536: si recò a Costantinopoli per trattare la pace coi Goti e il basileus bizantino, e in quell'occasione avrebbe convinto Giustiniano del suo errore quanto al monofisismo (la fonte è il Trésor). Il v. 21 indica che Giustiniano vede le verità di fede chiaramente, come Dante vede che in un giudizio contraddittorio una frase è falsa e una è vera (è il principio aristotelico di «non contraddizione»: se si dice che Socrate o è vivo o è morto, vuol dire che una delle due frasi è vera, l'altra per forza falsa, in quanto tertium non datur). La parola «fede» è ripetuta tre volte da Giustiniano, ai vv. 15, 17, 19. Nella lunga digressione sull'Impero (vv. 34-96) il soggetto è quasi sempre l'aquila, simbolo dell'autorità imperiale. Il v. 39 allude alla leggenda degli Orazi e dei Curiazi, che secondo il racconto di Livio (Ab Urbe condita, I, 24 ss.) lottarono a tre a tre per decidere le sorti della guerra tra Roma e Alba Longa. | vv. 43-45 accennano alla guerra di Roma contro i Galli di Brenno (387 a.C.), contro Pirro (282-272 a.C.) e contro altri monarchi e repubbliche dell'Italia centrale. Torquato e Quinzio (v. 46) sono rispettivamente T. Manlio Torquato, vincitore di Galli e Latini, e L. Quinzio Cincinnato, vincitore degli Equi, così chiamato perché era ricciuto e non per la chioma arruffata (cirro negletto); l'errore, presente anche in Petrarca, nasce forse da una chiosa errata di Uguccione da Pisa. Al v. 49 Cartaginesi di Annibale sono detti anacronisticamente Aràbi, come i genitori di Virgilio erano detti Lombardi (Inf., 1, 68). Il colle citato al v. 53 è Fiesole, distrutta secondo la leggenda dai Romani (fra cui si pensava fosse anche Pompeo, che in realtà era in Oriente) dopo la guerra con Catilina. I fiumi citati ai vv. 58-60 sono tutti della Gallia e videro le imprese di Cesare: Varo e Reno costituiscono i confini occidentale e settentrionale, l'Isara è l'Isère, l'Era è prob. la Loira (ma potrebbe essere la Sane, detta Arar in latino). I vv. 67-39 alludono alla deviazione che Cesare avrebbe fatto nella Troade per visitare il sepolcro di Ettore, mentre inseguiva Pompeo in Egitto: Antandro e Simeonta (Simoenta nella grafia latina) sono rispettivamente il porto della Frigia da cui salpò Enea e il fiume che scorreva accanto a Troia. Al v. 73 bàiulo indica «portatore» ed è latinismo. Il lito rubro (v. 79) è il Mar Rosso, con cui si allude alla conquista da parte di Ottaviano dell'Egitto. Il terzo Cesare (v. 86) è Tiberio, che per Dante era il terzo imperatore (dopo Cesare e Augusto). I vv. 91-93 alludono alla distruzione del Tempio di Gerusalemme operata da Tito nel 70 d.C., giusta punizione secondo la dottrina medievale per la crocifissione di Cristo: in realtà Tito non era ancora succeduto al padre Vespasiano. Al v. 106 Carlo novello è Carlo Il d'Angiò, figlio e successiore di Carlo |. I vv. 109-110 non sono chiarissimi, poiché Dante apprezzava i figli di Carlo Il (specie Carlo Martello, che fu suo amico) e non sembra verosimile che qui profetizzi le loro sventure come punizione divina del padre; forse la massima è generale. Al v. 118 gaggi vuol dire «premi», «riconoscimenti» (è francesismo). Le quattro figlie (v. 133) di Raimondo Berengario IV furono Margherita, moglie di Luigi IX il Santo re di Francia; Eleonora, moglie di Enrico IIl d'Inghilterra; Sancia, moglie di Riccardo conte di Cornovaglia e re dei Romani nel 1257; Beatrice, moglie di Carlo | d'Angiò. Secondo la tradizione cui si rifà Dante, questi quattro matrimoni regali furono tutti organizzati da Romeo di Villanova. L'espressione a frusto a frusto (v. 141) significa «a tozzo a tozzo» e allude al fatto che Romeo dovette mendicare il pane. CANTO VIII Argomento del Canto Ascesa al III Cielo di Venere. Incontro con gli spiriti amanti. Colloquio con l'anima di Carlo Martello. Spiegazione sulle diverse inclinazioni degli uomini volute dalla Provvidenza. È la sera di mercoledì 13 aprile (o 30 marzo) del 1300. Ascesa al Ill Cielo di Venere. Gli spiriti amanti (1-30) Dante spiega che il mondo pagano credeva che la dea Venere diffondesse dal terzo pianeta la tendenza all'amore sensuale, per cui gli antichi adoravano questa divinità e anche Dione e Cupido, madre e figlio della dea. Essi identificavano con Venere l'astro che in certi periodi dell'anno appare prima del Sole, in altri dopo di esso. Dante non si accorge di ascendere al IIl Cielo, se non per il fatto che la bellezza di Beatrice è accresciuta: poi vede varie luci (gli spiriti amanti) ruotare in cerchio più o meno veloci, simili a faville che si distinguono nella fiamma o a una voce modulante che si sente insieme a una voce ferma. Le luci si avvicinano a Dante e Beatrice rapidissime, più veloci di qualunque folgore si sia mai vista sulla Terra. Quelle più vicine a Dante intonano il canto Osanna, in modo tale che il poeta ha sempre avuto il desiderio di sentire ancora quella melodia. Incontro con Carlo Martello (31-48) Una delle anime (Carlo Martello) si fa più vicina a Dante e dichiara di essere pronta, come gli altri beati, a soddisfare ogni richiesta del poeta. Spiega che essi ruotano insieme all'intelligenza angelica dei Principati, cui Dante stesso si rivolse con la canzone Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete, e sono talmente pieni di amore che pur di compiacerlo sono disposti a fermarsi un poco. Dante si rivolge con uno sguardo a Beatrice, che risponde con un cenno di assenso, quindi torna a parlare all'anima e le chiede di presentarsi. La luce che avvolge il beato si fa assai più splendente, tale è la gioia che egli prova nel rispondere a Dante. Carlo Martello si presenta (49-84) Il beato spiega di essere vissuto poco tempo sulla Terra, mentre se fosse rimasto lì più a lungo si sarebbero evitati molti mali ora presenti. La sua gioia lo avvolge completamente di luce, rendendolo inconoscibile a Dante che in vita lo amò molto e con ragione: se lui fosse vissuto più a lungo, avrebbe ricambiato il suo affetto in modo adeguato. Egli si presenta come il signore atteso nella terra di Provenza, solcata dai fiumi Rodano e Sorga, e in Italia meridionale, dove sorgono le città di Bari, Gaeta e Catona e dove scorrono i fiumi Tronto e Verde. Era già stato incoronato re d'Ungheria, la terra attraversata dal Danubio, e avrebbe regnato anche sulla Sicilia, dove l'Etna erutta per un fenomeno naturale e non per la presenza del gigante Tifeo, se il malgoverno degli Angioini non avesse scatenato la rivoluzione del Vespro. E se il fratello di Carlo Martello, Roberto d'Angiò, ponesse mente a questo, eviterebbe l'avara povertà dei Catalani per non subire danni: bisogna che lui stesso o altri pongano rimedio, per evitare che il regno di Napoli non subisca più gravi conseguenze. Roberto, pur discendendo da antenati di indole liberale, ha un'indole gretta e meschina, per cui avrebbe bisogno di truppe che non badassero unicamente a intascare i guadagni. Spiegazione sulle diverse inclinazioni umane (85-135) Dante manifesta la sua gioia nel parlare con Carlo Martello, osservando che il beato la può leggere nella mente di Dio, il che rende il poeta anche più lieto. Ora Dante chiede allo spirito di chiarirgli come sia possibile che da un padre liberale nasca un figlio avaro. Carlo risponde dicendosi pronto a illuminare Dante con la verità e spiega che Dio, che fa ruotare i Cieli del Paradiso, fa che la sua Provvidenza diventi virtù operante negli astri. Dio determina non solo le nature umane per la loro essenza, ma anche per il loro fine nel mondo, per cui ogni cosa stabilita dalla Provvidenza si avvera in base a un determinato scopo. Se non fosse così, le influenze celesti sarebbero rovinose per gli uomini, il che non è possibile dal momento che le intelligenze angeliche che muovono i Cieli non sono manchevoli, come non lo è Dio. Carlo chiede a Dante se su questo punto necessiti di un'ulteriore spiegazione, ma il poeta si dichiara soddisfatto. Carlo prosegue spiegando che l'uomo sulla Terra deve soprattutto essere cittadino, cosa che trova Dante d'accordo, e ciò richiede che gli uomini svolgano diverse funzioni e mestieri, come argomentato da Aristotele. Dunque, è inevitabile che l'indole degli uomini sia volta a volta diversa, per cui uno nasce legislatore (Solone) e un altro re (Serse), uno sacerdote (Melchisedech) e un altro ingegnere (Dedalo). La virtù dei Cieli opera queste distinzioni, ma non distingue tra le varie casate: perciò accade che Esaù sia del tutto diverso dal fratello Giacobbe, mentre Romolo ha un padre talmente umile che si favoleggia essere nato da Marte. Se la Provvidenza divina non operasse in tal modo, i figli seguirebbero sempre le orme dei padri e ciò non sarebbe utile alla società. Gli uomini devono assecondare le inclinazioni (136-148) Ora, afferma Carlo, Dante ha compreso perfettamente, ma vuole aggiungere ancora un corollario alla sua spiegazione. Se la disposizione naturale trova l'ambiente intorno a sé discordante per via della sorte, gli effetti sono sempre negativi; e se gli uomini badassero di più alle inclinazioni naturali di ciascuno, avrebbero persone più rette e adatte alla loro funzione. Invece il mondo, conclude Carlo, forza a diventare monaco chi sarebbe nato per diventare guerriero, e costringe a diventare re chi sarebbe portato alla vita religiosa, per cui il cammino degli uomini è fuori dalla strada tracciata da Dio. Interpretazione complessiva Protagonista assoluto del Canto è Carlo Martello, il primogenito di Carlo Il d'Angiò che Dante conobbe giovanissimo a Firenze nel 1294 e al quale fu legato da affettuosa amicizia, per cui l'episodio si può accostare agli incontri con Casella, Nino Visconti e Forese Donati nel Purgatorio (almeno nel tema, poiché il tono è qui decisamente lontano da quello colloquiale della Il Cantica). Carlo è incluso fra gli spiriti amanti del Ill Cielo, anche se ignoriamo per quale motivo Dante faccia questa scelta: è probabile che il poeta vedesse nell'amico l'esemplare di buon sovrano, che come detto nella Monarchia (1,11) deve essere governato dalla carità come virtù opposta alla cupidigia, il che spiega anche il duro attacco rivolto a suo fratello Roberto nel corso del Canto. Certo Dante lo colloca fra i beati a meno di cinque anni dalla morte e il suo esempio è molto diverso da quello di Cunizza e Folchetto, esempi entrambi di personaggi che arsero prima di amore sensuale, poi si ravvidero e si rivolsero all'amore spirituale; del resto all'inizio di questo Canto Dante spiega che l'influsso all'amore che promana dal Cielo di Venere non è quello all'amore fisico che credevano le genti pagane e che può portare alla dannazione, bensì ovviamente quello all'ardore di carità che deve condurre a Dio, come del resto aveva già chiarito in Conv., II, 5 (con la differenza che là tale influsso era riferito all'intelligenza angelica dei Troni, mentre qui ai Principati: e non è il solo punto del Convivio ad essere rivisto da Dante nella Ill Cantica, come si è visto nel Canto delle macchie lunari). L'incontro con Carlo Martello è diviso in due parti, che corrispondono all'autopresentazione del beato con le critiche rivolte al fratello Roberto (vv. 49-84) e al discorso sulle inclinazioni individuali (94-148) che si riallaccia a quello più ampio degli influssi astrali. La prosopopea di Carlo è in stile alto e solenne, come si conviene a un personaggio del suo rango e molto simile per tono a quella di Giustiniano nel Canto VI: dopo essersi presentato come amico di Dante e aver rimpianto di non essere vissuto più a lungo per non aver potuto dimostrare a Dante il suo affetto e non aver evitato il malgoverno degli Angioini, il beato allude a sé stesso come l'erede dei domini di Provenza, Napoli e Ungheria, senza mai fare il proprio nome direttamente. Le tre regioni vengono anch'esse indicate con una elegante perifrasi geografica, in quanto la Provenza è la terra solcata dai fiumi Rodano e Sorga, il regno di Napoli è il corno solo nel 1309, quindi è probabile che il beato parli proprio dell'indole del fratello degenere rispetto ai suoi antenati. Al v. 102 salute vuol dire «fine», «scopo» delle varie nature. Il maestro vostro citato al v. 120 è Aristotele. Solone (v. 124) è il celebre riformatore ateniese del VI sec. a.C., mentre Serse è il gran re persiano che mosse guerra alla Grecia nel 480-479 a.C.; Melchisedèch (v. 125) è il primo grande sacerdote di Israele (Gen., XIV, 18-20), mentre quello / che, volando per l'aere, il figlio perse è Dedalo, il cui figlio Icaro morì volando troppo vicino al Sole con le ali di cera da lui fabbricate. Quirino (v. 131) è Romolo, figlio in realtà del pastore Faustolo ma attribuito a Marte per nobilitarne l'origine. CANTO X Argomento del Canto Ascesa di Dante e Beatrice al IV Cielo del Sole. Apparizione degli spiriti sapienti della prima corona. Incontro con san Tommaso d'Aquino, che presenta gli altri undici beati. È la notte di mercoledì 13 aprile (o 30 marzo) del 1300. Dante contempla l'ordine del creato (1-27) Dante osserva che Dio ha creato i Cieli con tale perfezione che non è possibile guardare tale spettacolo senza godere del suo valore, perciò invita il lettore a contemplare il punto in cui si intersecano Equatore celeste ed eclittica e ad ammirare l'opera del supremo artefice. Da quel punto diverge lo Zodiaco, obliquo rispetto all'Equatore per generare le stagioni, per cui se tale divergenza fosse maggiore o minore l'ordine della Terra verrebbe alterato. Il lettore deve pensare a ciò che si preannuncia, poiché il poeta è tutto assorbito dall'alta materia dei suoi versi e non potrà più assisterlo con altre indicazioni. Ascesa al Cielo del Sole e apparizione delle anime (28-54) Il Sole, che riflette sulla Terra il suo influsso benefico e misura il tempo, si trova nel punto equinoziale e Dante non si accorge di penetrare in esso, se non come colui che ha un improvviso pensiero e se ne avvede quando si è manifestato. Beatrice guida Dante di Cielo in Cielo, tanto velocemente che il suo atto è quasi istantaneo: una volta nel IV Cielo, il poeta vede delle luci ancor più splendenti della luce già intensissima del Sole, cosicché non potrebbe mai descrivere ciò a parole (il linguaggio umano è insufficiente a esprimere contenuti così elevati). Qui appaiono a Dante gli spiriti sapienti, sempre appagati dalla visione di Dio, e Beatrice esorta Dante a ringraziare l'Altissimo per il privilegio cui lo ha ammesso. Dante ringrazia Dio (55-63) Il cuore di un uomo non fu mai così ben disposto a rivolgersi a Dio e pronto a esprimere la propria gratitudine, come lo è quello di Dante a tali parole: egli si volge a Dio per ringraziarlo e il suo raccoglimento è tale che dimentica Beatrice. A lei non dispiace, anzi ne sorride al punto che lo splendore dei suoi occhi induce il poeta a dividere la sua attenzione tra Dio e lei stessa. La prima corona di spiriti sapienti (54-81) Dante vede più luci sfolgoranti che circondano lui e Beatrice come una corona, che cantano con voce melodiosa, simili all'alone luminoso che talvolta di notte attornia la Luna quando l'aria è molto umida. Il canto dei beati è così armonioso che per Dante è impossibile descriverlo a parole, così come è impossibile descrivere pienamente le bellezze del Paradiso. Le luci degli spiriti ruotano attorno a Dante e Beatrice per tre volte, simili a stelle che ruotano vicino al polo celeste, poi si arrestano e sembrano donne che danzano e si fermano attendendo che la musica riprenda. San Tommaso presenta sé stesso e gli altri beati (82-138) Uno dei beati si rivolge a Dante e dichiara che la grazia divina risplende nel poeta, poiché gli è permesso accedere da vivo al Paradiso, quindi è impossibile che gli spiriti non esaudiscano spontaneamente tutti i suoi desideri, proprio come l'acqua scende naturalmente dall'alto verso il basso. Dante vuole sapere quali sono gli altri spiriti della corona e il beato si presenta come un membro dell'Ordine domenicano, dove ci si arricchisce spiritualmente se non si devia dalla regola. Egli è san Tommaso d'Aquino e lo spirito alla sua destra è il suo maestro Alberto Magno. Il beato invita Dante ad ascoltarlo seguendo con lo sguardo le altre luci, quindi presenta Francesco Graziano, che distinse tra legge divina e legge umana, Pietro Lombardo e Salomone, rispetto al quale nessuno fu più sapiente. Il beato indica poi Dionigi l'Areopagita, autore di un'opera sull'angelologia, Paolo Orosio, la cui opera storica aiutò sant'Agostino e Severino Boezio, la cui opera spiega la fallacia del mondo e il cui corpo giace nella basilica di San Pietro in Ciel d'Oro, a Pavia. Gli altri spiriti della corona sono Isidoro di Siviglia, Beda il Venerabile e Riccardo di San Vittore, mentre l'ultimo beato alla sinistra di Tommaso è Sigieri di Brabante, che insegnò filosofia a Parigi e dimostrò delle verità che suscitarono invidie contro di lui. Canto e danza delle anime (139-142) Non appena Tommaso ha finito di parlare, la corona ricomincia a ruotare e a cantare così dolcemente che ricorda a Dante un orologio che tintinna per chiamare i frati di un convento a celebrare il Mattutino, in modo tale da riempire d'amore lo spirito ben disposto. L'armonia di quel canto è tale che Dante non potrebbe descriverla, poiché solo chi la ascolta direttamente in Paradiso può averne un'idea precisa. Interpretazione complessiva Il Canto descrive l'ascesa al Cielo del Sole di Dante e Beatrice, che lasciano alle spalle i primi tre Cieli in cui i beati avevano subìto un influsso limitante dai rispettivi astri ed entrano in quello che è stato definito il Paradiso vero e proprio, cui corrisponde un innalzamento della materia: ciò è sottolineato dall'elevatezza dello stile e dall'appello al lettore che è invitato a «cibarsi» da solo in quanto l'attenzione del poeta è tutta concentrata sui suoi versi, con un'apostrofe analoga a quella di Purg., IX, 70-72 (anche in quel caso, del resto, Dante stava per varcare la porta del Purgatorio presidiata dall'angelo). L'inizio di questo Canto è una solenne descrizione del grandioso spettacolo del Creato, opera ineffabile di Dio che il lettore è invitato a contemplare in tutta la sua perfezione: la perifrasi astronomica che indica il punto equinoziale dove si trova il Sole dà modo al poeta di spiegare la funzione dell'inclinazione dello Zodiaco, responsabile del ciclo stagionale e quindi dell'ordinato procedere del mondo; l'intero Universo è una macchina meravigliosa in cui ogni ingranaggio funziona in modo perfetto, incluso il ministro maggior de la natura (il Sole) che imprime il suo benefico influsso sulla Terra e la illumina fungendo anche da unità di misura del tempo umano. Questo accenno alla misurazione del tempo tornerà alla fine del Canto, con la descrizione dell'orologio che tintinna e richiama i frati del monastero alla celebrazione del Mattutino, quindi all'inizio della giornata, riprendendo l'immagine iniziale del cosmo come una perfetta costruzione in cui nulla è lasciato al caso (su tutto domina la volontà di Dio, supremo architetto che ha reso possibile tutto questo). Gli spiriti che appaiono in questo Cielo sono delle luci sfavillanti che risaltano per luminosità nella luce pur intensissima del Sole, in un modo che per Dante è quasi impossibile da descrivere a parole: è il preannuncio di quella poetica dell'«inesprimibile» che tanta parte avrà nella Cantica e che in questo Canto è più volte ribadita, col dire che il linguaggio umano è troppo inferiore all'elevatezza della materia (vv. 43-44: Perch'io lo 'ngegno e l'arte e l'uso chiami, / sì nol direi che mai s'imaginasse; 74-75: chi non s'impenna sì che la sù voli, / dal muto aspetti quindi le novelle; 147-148: in dolcezza ch'esser non pò nota / se non colà dove gioir s'insempra). Inizia da questo Cielo anche l'uso di immagini astratte nell'apparizione dei beati, che infatti formano una corona di dodici spiriti che circondano Dante e Beatrice e ruotano intorno con un canto melodioso: il cerchio è simbolo di perfezione e sapienza, ricordando anche il disco solare il cui influsso questi beati hanno subìto in vita, così come negli altri Cieli vedremo i beati formare una croce, l'aquila imperiale, una scala dorata. Dopo il ringraziamento a Dio da parte di Dante, a ciò esortato da Beatrice, è san Tommaso d'Aquino a presentare sé stesso come uno dei beati della corona e a indicare gli altri undici spiriti al poeta: la scelta del domenicano è ovviamente non casuale, trattandosi del maggior filosofo cristiano del Medioevo e appartenente a uno dei due principali Ordini mendicanti, così come filosofi e teologi di primo piano sono i beati che formano con lui la corona. Il lungo discorso di san Tommaso è stilisticamente elevato, con la metafora iniziale del vino e della fiala («ampolla») che dovrà soddisfare la sete di conoscenza di Dante, l'adynaton dell'acqua che non può non scendere verso il basso, il paragone tra i beati della corona e i fiori che formano una ghirlanda, che in questo caso abbellisce Beatrice che ha portato fin qui Dante. San Tommaso presenta gli undici spiriti partendo dal suo maestro Alberto Magno alla sua destra e procedendo in quella direzione, facendo di ognuno il nome tranne nel caso di Salomone, indicato come colui che fu tanto saggio che a veder tanto non surse '| secondo (questa frase susciterà il dubbio di Dante, che Tommaso chiarirà nel Canto XIII); tra gli altri spicca soprattutto Boezio, una delle principali fonti dantesche il cui cristianesimo è dubbio peri moderni, nonché Sigieri di Brabante, la cui ortodossia fu messa in discussione della Chiesa e da Tommaso stesso, che qui invece lo presenta come assertore di verità dottrinali (il loro accostamento in Paradiso è simmetrico a quello di san Bonaventura e Gioacchino da Fiore, in XII, 139-141). Tommaso presenta invece se stesso come uno degli agnelli della santa greggia di san Domenico, l'Ordine dove ci si arricchisce di meriti a condizione di non deviare dalla regola, altra affermazione che indurrà Dante a dubitare e il cui chiarimento sarà occupato interamente dal Canto successivo: il beato farà infatti il panegirico di san Francesco, fondatore dell'altro Ordine mendicante, per poi biasimare i difetti del proprio e cioè l'inclinazione peccaminosa ai beni terreni e alle ricchezze, parte della polemica contro la corruzione della Chiesa che diventerà essenziale nella III Cantica (il Canto XII avrà invece struttura speculare rispetto all'XI, poiché san Bonaventura, francescano, dopo il panegirico di san Domenico biasimerà i difetti del proprio Ordine, ovvero la poca fedeltà dei confratelli alla regola di Francesco). Il Canto si chiude come detto con la descrizione del movimento armonioso della corona che viene paragonata al meccanismo di un orologio, i cui ingranaggi si integrano perfettamente per far suonare il richiamo alle ore canoniche: l'immagine si ricollega a quella iniziale del Sole indicato come principale indicatore del tempo e rimanda a quella del monastero dove il tempo è suddiviso nei momenti liturgici e dove i monaci vivono in perfetta armonia come gli spiriti di questo Cielo (che appartennero quasi tutti, come quelli della seconda corona, a ordini monastici). Da rilevare infine la presenza nei versi finali dell'onomatopea tin tin, che riproduce il suono dell'orologio in maniera semplice e immediata, e del verbo s'insempra che chiude il Canto ed è uno dei tanti neologismi danteschi presenti nella Cantica, che qui come altrove ha la funzione di impreziosire ed innalzare lo stile in corrispondenza con un argomento elevato (tali artifici, come si vedrà, diventeranno via via più frequenti nel corso del Paradiso). Note e passi controversi | vv. 1-5 indicano che Dio (il primo e ineffabile Valore), guardando il Figlio con lo Spirito Santo (l'Amore) che spira da entrambi, ha creato il movimento armonioso dei Cieli (quanto per mente e per loco si gira, ovvero grazie alle Intelligenze angeliche motrici). Alv. 9 l'un moto e l'altro indicano i due opposti movimenti rotatori dei corpi celesti, quello diurno da est a ovest sul piano dell'Equatore celeste e quello annuo da ovest a est, sull'eclittica. | due piani di Equatore celeste ed eclittica formano un angolo di 23 gradi e mezzo e si intersecano in due punti detti da tutti, e non era servito che Cesare durante la guerra civile con Pompeo la trovasse sicura e tranquilla in compagnia del pescatore Amiclàte; non le servì dimostrarsi fedele e fiera, come quando aveva seguito Cristo sulla croce mentre Maria era rimasta ai piedi di essa. Tommaso precisa a questo punto che sta parlando di Francesco e di Madonna Povertà, unitisi appunto in mistiche nozze. ‘a rancesco: dalla predicazione alla morte (76-117) La concordia di Francesco e Povertà, il loro amore e il dolce sguardo dell'uno per l'altra suscitavano pensieri santi e indussero per primo Bernardo di Quintavalle a unirsi a loro e a seguirli scalzo, con lieta sollecitudine. Il suo esempio fu presto seguito da Egidio e Silvestro, che andarono dietro allo sposo per amore della sposa (aderendo all'ideale francescano di povertà); e Francesco fu a capo di quella famiglia, che ormai portava i fianchi cinti da una corda. Francesco si recò poi a Roma per illustrare a papa Innocenzo III la sua severa Regola, e nonostante fosse figlio di un mercante, Pietro Bernardone, non si vergognò della sua umile condizione e di fronte al pontefice si comportò con modi regali; il papa diede la prima approvazione all'Ordine. | seguaci aumentarono di numero, così papa Onorio III diede la seconda approvazione, con cui lo Spirito Santo coronò il santo volere di Francesco. Egli si recò poi in Terrasanta, presentandosi davanti al Sultano, ma trovò quelle genti non ancora pronte alla conversione; tornò in Italia e si ritirò sul monte della Verna, fra Tevere e Arno, dove ricevette l'ultimo e definitivo sigillo alla Regola (le stimmate), che portò per due anni. Quando a Dio piacque di chiamarlo a sé da questa vita, Francesco raccomandò ai confratelli la sua donna, la Povertà, quindi la sua anima lasciò il corpo ed egli fu seppellito nudo nella nuda terra, secondo le sue volontà. Tommaso biasima i difetti dei Domenicani (118-139) Tommaso invita Dante a pensare quale fu il degno collega di Francesco nel governare la nave della Chiesa in alto mare, e questi fu appunto san Domenico, fondatore dell'Ordine cui appartenne il beato; chi ne fa parte e si attiene alla Regola non può che acquistare grandi meriti. Tuttavia, le pecore di questo gregge sono diventate ghiotte di altro cibo, quindi si allontanano dai loro pascoli e, quanto più vagano, tanto più povere di latte tornano all'ovile (i Domenicani deviano dalla Regola e ricercano beni terreni). Certo ci sono alcune fra esse che si stringono al pastore (si attengono alla Regola), ma sono talmente poche che occorre poco panno a confezionare le loro cappe. A questo punto Dante, se ha ascoltato con attenzione, può ben capire quali sono i difetti dell'Ordine domenicano, e può intendere il biasimo di san Tommaso quando ha detto «dove ci si arricchisce spiritualmente, se non si devia dalla Regola». Interpretazione complessiva Il Canto è dedicato in gran parte alla figura di san Francesco ed ha struttura speculare rispetto al XII, in quanto qui è il domenicano san Tommaso a pronunciare il panegirico di Francesco e a biasimare i difetti del proprio Ordine, mentre nel Canto seguente sarà il francescano san Bonaventura a tessere le lodi di san Domenico e a criticare le mancanze dei Francescani (i due episodi formano una sorta di «chiasmo» e sono entrambi stilisticamente elevati). Tommaso prende spunto dal dubbio di Dante circa le sue parole alla fine del Canto X, quando parlando dei domenicani (v. 96) aveva detto u' ben s'impingua se non si vaneggia, per cui la agiografia del santo di Assisi servirà soprattutto a mettere in luce la corruzione diffusa tra i membri degeneri dell'Ordine domenicano: del resto il Canto si apre con l'accusa di Dante contro l'insensata cura de' mortali, che anziché ricercare i beni celesti si affannano dietro a quelli terreni, a differenza del poeta che è libero ormai da tutte queste lusinghe ed è accolto in gloria insieme a Beatrice nell'alto dei Cieli. Tommaso sceglie di raccontare la vita di Francesco in quanto sia lui sia san Domenico hanno perseguito il medesimo fine di assistere la Chiesa e agevolarne il cammino, entrambi ordinati dalla Provvidenza come suoi principi e campioni: l'immagine era frequente nella letteratura trecentesca, così come il ritratto dei due santi che erano visti in modo complementare, Francesco acceso di ardore di carità e Domenico pieno di sapienza divina, paragonati anche da Tommaso a un Serafino e a un Cherubino. La biografia di Francesco si apre con una grandiosa descrizione geografica di Assisi, che nella sua solennità ricorda molto quella del Canto VIII nelle parole di Carlo Martello e la perifrasi del Canto IX che introduceva il luogo natale di Folchetto di Marsiglia; Dante indica Francesco come un Sole che è nato per illuminare il mondo, come il Sole vero e proprio quando sorge nell'estremo Oriente (il Gange) nell'equinozio di primavera ed è più benefico, giocando forse sul nome Ascesi che era diffuso nell'Italia centrale del tempo e che può indicare anche l'elevazione spirituale. Segue poi la descrizione della sua vita, per la quale Dante si è certo rifatto alle fonti diffuse nel primo Trecento (come gli Actus beati Francisci e la Legenda maior di san Bonaventura), anche se il poeta trascura gli elementi più popolari e aneddotici, per concentrarsi soprattutto sulle metaforiche nozze con la Povertà e, quindi, descrivendo Franscesco come una figura esemplare di uomo di Chiesa che perseguì un ideale di povertà evangelica, in contrasto con la corruzione ecclesiastica e la ricerca di ricchezze. Ciò è coerente sia con l'apertura del Canto, sia col finale dedicato alla rampogna di Tommaso contro i domenicani corrotti: Francesco entra in contrasto col padre per sposare la Povertà, rimasta senza marito dopo la morte di Cristo, si spoglia pubblicamente di tutti i beni e, dopo le mistiche nozze, ama la sposa di giorno in giorno più intensamente (fin dall'inizio è evidente l'imitatio Christi da parte del santo, che Dante descrive come alter Christus soprattutto per la scelta di vivere poveramente e in umiltà). Attorno a Francesco e alla sua sposa si raccoglie una famiglia di seguaci che si fa via via più numerosa, per cui i frati imitano il loro maestro spogliandosi di ogni cosa e seguendolo scalzi, cingendo i fianchi con l'umile capestro (il cinto francescano) che sarà simbolo della loro scelta di vita. La severa Regola francescana riceverà poi tre «sigilli» che ne sanciranno la validità, i primi due da parte dei papi Innocenzo IIl e Onorio III, l'ultimo (il più importante) da parte dello Spirito Santo attraverso le stimmate, segno più evidente dell'imitatio Christi: da rilevare che, se Dante segue la biografia di Bonaventura nelle linee essenziali, anche invertendo l'ordine di alcuni eventi, nondimeno dipinge Francesco come una figura altamente regale e dignitosa a dispetto della sua umiltà, come nel momento in cui si presenta di fronte a papa Innocenzo per sottoporgli la sua Regola; qualcosa di simile avviene anche nell'incontro col Sultano d'Egitto, qui presentato come sovrano superbo (mentre le fonti parlano di un'accoglienza benevola da parte del re musulmano) di fronte al quale Francesco si presenta per desiderio di martirio, non riuscendo tuttavia a convertire quei popoli ancora immaturi e restii ad ascoltare il messaggio evangelico. Tornato in Italia, dopo l'episodio delle stimmate e quando a Dio piacque di chiamarlo a sé, ancora una volta il santo raccomanda ai suoi confratelli la fedeltà alla sposa-Povertà (quindi alla severità della Regola) e poi si fa seppellire nudo nella nuda terra senza altra bara, a sottolineare in quell'ultimo gesto la sua volontà di vivere privo di qualunque ricchezza; va ricordato che Bonaventura, nella sua rampogna ai francescani degeneri, spiegherà proprio che essi si divisero fra spirituali e conventuali, ovvero tra coloro che inasprirono e attenuarono la Regola contrariamente alla volontà del fondatore, che venne quindi fraintesa in entrambi i casi. Il finale del Canto è occupato dal rimprovero di Tommaso contro i confratelli del suo Ordine, che vengono accusati soprattutto di aver tradito la Regola di san Domenico per desiderio di ricchezze e beni terreni, per cui il gregge al quale il beato appartenne in vita si è allontanato dal pastore e va in cerca di altri pascoli in quanto ghiotto di altro cibo: la metafora evangelica serve a Dante per criticare la corruzione assai diffusa proprio fra i domenicani, specie attraverso la vendita delle indulgenze e l'interpretazione capziosa del diritto canonico, per cui le parole di Tommaso si rifanno a quelle di Folchetto nel finale del Canto IX (dove aveva parlato di pecore e... agni deviati e allontanatisi dal pastore diventato un lupo, a causa della sete di ricchezze alimentata dal maledetto fiore, il fiorino). Il discorso di Tommaso si rifà al tema, assai frequente nella IIl Cantica, della corruzione della Chiesa, anticipando altri celebri passi come il durissimo attacco contro papa Giovanni XXII del finale del Canto XVIII, nonché il discorso altrettanto severo di san Pietro contro Bonifacio VIII e la Curia papale corrotta di XXVII, 22-60; lo stesso Bonaventura nel Canto seguente descriverà san Domenico come un dottore della Chiesa intento a studiare la dottrina non per arricchirsi grazie ai cavilli legali del diritto canonico, ma per mettere la propria sapienza al servizio della Cristianità e stroncare le eresie, nonostante il pontefice spesso traligni dalla retta via tracciata dal messaggio evangelico. Gli esempi di corruzione ecclesiastica sono ovviamente opposti a quello di Francesco, che con la sua vita semplice ha voluto riproporre l'ideale di povertà evangelica di Gesù e dei suoi discepoli, troppo spesso disatteso dai papi e dai prelati corrotti contro i quali, in molti passi del poema e in particolare del Paradiso, Dante rivolge le sue critiche e il suo duro richiamo. Note e passi controversi Al v. 2 il termine silogismi indica i ragionamenti propri della logica aristotelica e scolastica (la forma con una sola - | - è prevalente nei codici, come in palido, Caliopè, ecc.). Al v. 4 iura indica gli studi giuridici, mentre gli amforismi si rifanno agli studi medici (Aforismi era il titolo dell'opera di Ippocrate). Al v. 13 nello è rima composta, da leggere «nèlo». Il v. 26 propone la lez. nacque di contro a surse di X, 114, in quanto attestata da quasi tutti i mss. (non è strettamente necessario che Tommaso citi letteralmente le proprie parole). Ai vv. 29-30 aspetto / creato vuol dire la vista di ogni creatura, umana o angelica. La sposa del v. 32 è ovviamente la Chiesa, unita a Cristo (colui ch'ad altre grida / disposò lei col sangue benedetto). Francesco e Domenico (vv. 37-39) sono paragonati rispettivamente a un Serafino e a un Cherubino, poiché proprio Tommaso nella Summa theol. (1 q., LXIII) riconduceva l'etimologia dei due termini all'ardore di carità e alla sapienza. La stessa immagine si trova anche nella Legenda maior di san Bonaventura. L'acqua del v. 43 è il fiume Chiascio, che scorre dal monte Ausciano (il colle) dove Ubaldo Baldassini si ritirò a vita eremitica nel XII sec. I vv. 46-48 indicano che Perugia trae vantaggio dalla sua posizione, poiché il monte Subasio le rimanda il calore estivo e il freddo dell'inverno, mentre Nocera e Gualdo, che sorgono dal lato opposto del monte, sono in posizione svantaggiosa. Improbabile, come pure alcuni critici hanno ipotizzato, che Dante si riferisca al dominio politico di Perugia sulle due città. Al v. 51 questo indica il Sole vero e proprio, che quando sorge nell'equinozio primaverile dal Gange (cioè, secondo la geografia del tempo, dall'estremo Oriente) è più luminoso e più benefico. Ciò spiega perché Assisi sia definita Oriente, avendo dato i natali a Francesco-Sole (la forma Ascesi era normale nella lingua dell'Italia centrale, anche se non si può escludere che Dante pensasse all'ascesi spirituale). Al v. 55 orto è latinismo e vuol dire «nascita» (il latino ortus era spesso usato in riferimento al sorgere del Sole). La spirital corte del v. 61 è il tribunale episcopale, di fronte al quale il padre di Francesco citò il figlio. Il primo marito della Povertà (v. 64) è Gesù, che morendo sulla croce la lasciò vedova. Interpretazione complessiva Il Canto è dedicato quasi interamente alla figura di san Domenico, di cui il francescano Bonaventura tesse l'elogio in modo speculare a quanto fatto da san Tommaso nel Canto precedente con san Francesco, per cui i Canti XI-XII formano una sorta di «chiasmo» (Bonaventura farà seguire al panegirico di Domenico la rampogna contro i francescani degeneri, così come Tommaso aveva criticato la corruzione dei domenicani). L'episodio si apre con l'apparizione di una seconda corona di spiriti sapienti, cui appartiene il protagonista del Canto san Bonaventura, che circonda la prima e accorda la propria danza e il proprio canto con essa, in modo così melodioso da risultare impossibile descriverlo a parole: Dante ricorre alla preziosa similitudine dei due archi paralelli e concolori, due arcobaleni concentrici che sono l'uno il riflesso dell'altro e che rimandano a un duplice riferimento mitologico (l'ancella di Giunone, Iride, che scende dall'Olimpo sulla Terra e forma l'arcobaleno e la ninfa Eco), nonché al racconto biblico del Diluvio Universale, dopo il quale Dio, per garantire a Noè che quell'evento non si sarebbe ripetuto, fece appunto apparire un arcobaleno. Entrambi gli esempi evocano una sorta di legame tra Cielo e Terra, mentre quello biblico sottolinea il nuovo patto sancito tra Dio e l'uomo dopo il peccato punito, oltre a innalzare notevolmente il linguaggio con una serie di riferimenti colti che introducono l'importante discorso che occuperà buona parte del Canto (lo stesso avverrà all'inizio di quello seguente, in cui la doppia corona verrà paragonata alle costellazioni più luminose della volta celeste). Viene poi introdotto il personaggio di Bonaventura, che senza presentarsi subito, quindi in maniera opposta a quanto fatto nel Canto X da Tommaso d'Aquino, si dice intenzionato a rispondere alla cortesia del domenicano che ha parlato così bene del fondatore del suo Ordine, per cui egli farà lo stesso col fondatore di quello domenicano: il motivo è analogo a quello già detto da Tommaso, ovvero il fatto che entrambi i santi ad una militaro (combatterono insieme, per lo stesso fine) e dunque è giusto che la loro gloria risplenda insieme, essendo entrambi stati creati da Dio come campioni della Chiesa sulla Terra. In effetti la metafora militare è largamente usata da Bonaventura nel panegirico di san Domenico, a cominciare dal termine militaro che allude alle battaglie da lui svolte per combattere le eresie, per poi indicare la Chiesa come essercito di Cristo che fu «riarmato» a caro prezzo (si allude alla morte di Cristo sulla croce che riconciliò Dio e l'uomo e diede all'umanità le armi per difendersi dal demonio), nonostante ora si muova esitante dietro le insegne del Cristianesimo. Dio stesso è definito 'mperador, temine carico di significati militari e guerreschi nel linguaggio classico, mentre Domenico e Francesco sono appunto i due campioni della Chiesa, il cui scopo era quello di raccogliere l'esercito cristiano ormai sbandato e riorganizzarlo, immagine che in realtà si adatta bene solo al santo spagnolo che fu, come è noto, particolarmente impegnato nella lotta ai movimenti ereticali (non a caso Domenico è detto amoroso drudo, «vassallo» di Dio, e santo atleta, santo combattente e difensore della Fede, mentre lo stesso Bonaventura nella Legenda maior aveva definito Francesco novus Christi... athleta). La biografia di Domenico si apre con la presentazione dei luoghi in cui egli nacque, che vuole essere parallela rispetto a XI, 43-54, anche se lì Dante si mostrava profondo conoscitore della geografia di Assisi e del territorio circostante, mentre qui la descrizione è più generica: la città castigliana di Calaroga viene indicata con il riferimento all'estremità occidentale dell'Europa, dove in primavera spira il vento zefiro e l'Oceano percuote le coste spagnole, mentre la Castiglia è evocata dal suo stemma in cui soggiace il leone e soggioga (è stato osservato che, mentre Francesco era paragonato a un Sole nascente e la città di Assisi era detta appunto Oriente, Domenico nasce invece nell'Occidente del mondo cristiano, per cui sembra che i due santi provengano da punti opposti per convergere entrambi al cuore della Cristianità). Segue poi la vita del santo in cui Dante si rifà agli elementi leggendari e aneddotici diffusi nella agiografia del tempo, quindi citando il sogno profetico fatto dalla madre prima della nascita e quello della madrina dopo il battesimo, in occasione del quale vennero celebrate delle mistiche nozze tra Domenico e la Fede, in maniera parallela a quanto detto per Francesco e la Povertà. Il nome del santo è messo in relazione col possessivo di Dominus, quindi indicherebbe l'appartenenza e la totale devozione di Domenico a Dio, mentre lo stesso viene fatto per il nome del padre, Felice, e della madre, Giovanna, che nei lessici medievali veniva interpretato come «Grazia di Dio»; Domenico dimostra la sua dedizione alla Fede e a Dio fin da piccolo, quando viene spesso trovato dalla nutrice sveglio e per terra, a indicare il suo destino di umiltà e l'attaccamento alla povertà. Domenico si dedica poi allo studio della teologia, non per arricchirsi come poi faranno i domenicani degeneri attraverso l'interpretazione sottile del diritto canonico, ma per volontà di servire la Chiesa e difenderla dai suoi nemici: Dante sottolinea che il santo chiederà al papa la licenza di combattere contro le eresie, quindi l'approvazione del proprio Ordine, e non la possibilità di arricchirsi grazie a sofisticati cavilli legali (il poeta usa i termini propri del linguaggio canonico, mentre Ostiense e Taddeo citati prima sono due famosi canonisti, autori di quei volumi che, secondo Folchetto di Marsiglia, avevano i margini più sgualciti rispetto al Vangelo e ai libri di dottrina; cfr. IX, 133-135). Evidente è allora il parallelo tra Domenico e Francesco, entrambi lontani dalle lusinghe dei beni terreni e tutti votati alla loro missione religiosa, con la differenza che Francesco abbraccerà un ideale di povertà evangelica, mentre Domenico con dottrina e con volere si batterà per estirpare la mala pianta dell'eresia, soprattutto quella albigese in Provenza, lasciando dietro di sé un'eredità che almeno all'inizio sarà raccolta dai suoi confratelli, impegnati a proseguire l'opera del fondatore per curare l'orto di Cristo (lo stesso Domenico era stato definito agricola, «contadino» voluto da Cristo per custodire la sua vigna, mentre va ricordato che entrambi gli Ordini, francescano e domenicano, erano nati come «mendicanti»). Il panegirico di Domenico è poi seguito dal biasimo dei francescani degeneri, accusati da Bonaventura di aver tradito la Regola del fondatore e di volerla inasprire (è la critica rivolta agli «spirituali», guidati da Ubertino da Casale) oppure di volerla attenuare (come proposto dai «conventuali», il cui capo era Matteo d'Acquasparta). Entrambe le correnti nate nel francescanesimo vengono condannate da Dante, che mette in bocca a Bonaventura la complessa e sofisticata metafora della ruota del carro della Chiesa rappresentata da Francesco, il cui solco sul terreno è stato abbandonato e presenta la muffa al posto della gromma, ovvero il tartaro che si forma all'interno delle botti e che ammuffisce se non viene curato; il poeta prende quindi le distanze sia dagli spirituali sia dai conventuali, ed è quindi assai improbabile che l'ulteriore metafora del loglio separato dal grano (cioè i francescani buoni che saranno distinti dai cattivi) si riferisca alla bolla di Giovanni XXII che espelleva dall'Ordine gli spirituali dissidenti. Alla fine del suo discorso Bonaventura presenta infine se stesso e gli altri spiriti sapienti della sua corona, tra cui spicca soprattutto il calabrese abate Gioacchino, quel Gioacchino da Fiore che fondò l'Ordine florense e fu autore delle cosiddette profezie gioachimite, in cui preannunciava una prossima palingenesi della Cristianità: le sue idee si diffusero ampiamente tra i francescani spirituali e furono aspramente combattute proprio da Bonaventura, che ora invece è posto accanto a Gioacchino in perfetta concordia, in modo dunque parallelo a quanto si è visto per san Tommaso e Sigieri di Brabante in X, 133-138. Il parallelismo è evidente anche nella rassegna dei beati che formano le due corone, che nel caso di Tommaso precede e nel caso di Bonaventura segue il panegirico e il biasimo che sono al centro dei Canti XI-XII, per cui si può veramente parlare di struttura «chiastica»; nei due episodi l'accenno a Gioacchino da Fiore conferma ulteriormente, poi, che in Paradiso i contrasti terreni sono ormai superati, come si è visto nell'episodio di Piccarda Donati che nessun risentimento nutriva per chi l'aveva rapita dal chiostro, e forse in quello di Giustiniano che faceva ammenda dei suoi errori verso il generale Belisario, attraverso l'elogio di Romeo di Villanova. Note e passi controversi Al v. 3 la santa mola è la prima corona, detta così perché ruota orizzontalmente come la macina di un mulino. Il v. 9 allude al raggio riflesso (quel ch'e' refuse) che è più luminoso di quello diretto (il primo splendor). Al v. 10 paralelli al posto di «paralleli» è la forma consueta nel volgare toscano del Trecento, ‘ampiamente attestata da quasi tutti i codici della Commedia. Il v. 12 accenna al noto mito di Iride, l'ancella di Giunone che, quando scendeva sulla Terra per recare un messaggio della dea, tracciava l'arcobaleno (lunone e iube, «ordina», sono due latinismi). | vv. 14-15 alludono al mito della ninfa Eco, che, innamorata di Narciso e non corrisposta, fu consumata dall'amore fino a ridursi alla sola voce che ripeteva gli altri suoni (Ovidio, Met., III, 339 ss.). Al v. 24 blande vuol dire «piene di carità». | vv. 26-27 indicano semplicemente che le due corone si fermano simultaneamente, come gli occhi si aprono e si chiudono insieme. I vv. 29-30 alludono alla bussola, da poco introdotta in Occidente nel XIV sec., il cui ago si credeva attratto dalla Stella Polare. Al v. 33 per cui vuol dire «a causa del quale», riferito a Francesco. Il vb. si raccorse (v. 45) vuol dire probabilmente «si ravvide», ma alcuni interpretano «si raccolse». Il grande scudo del v. 53 è lo stemma del re di Castiglia, in cui vi sono quattro quartieri: in quelli di sinistra il leone sta sotto la torre, in quelli di destra sta sopra (vedi figura). Al v. 55 drudo non vuol dire «amante», ma «vassallo» ed è termine militare; al v. 56 atleta vuol dire invece «difensore». Il v. 60 allude al sogno profetico che Giovanna, la madre di Domenico, avrebbe fatto prima della sua nascita: la donna sognò di partorire un cane bianco e nero (i colori dell'Ordine domenicano) con in bocca una fiaccola, che poi incendiava il mondo. La leggenda ha punti di contatto con la nascita di Ezzelino da Romano (cfr. IX, 28-30) e con quella di Paride, anche se qui il sogno ha significato positivo. I vv. 64-66 si riferiscono al sogno fatto dalla madrina di battesimo del santo (la donna che per lui l'assenso diede), in cui vide il bambino con una stella in fronte, simbolo della sua missione religiosa. Alcune biografie riferiscono tale sogno alla madre del santo. Ai vv. 71, 73 e 75 la parola Cristo rima con sé stessa, come sempre avviene nella Commedia (alcuni critici pensano che Dante faccia ammenda della rima Cristo / tristo / malacquisto di Rime, XXVIII, 9-14 (la Tenzone con Forese Donati). Il primo consiglio dato da Cristo (v. 75) potrebbe essere quello all'umilità della prima beatitudine, oppure quello alla povertà dato al giovane ricco (Matth., XIX, 21); sembra più verosimile la seconda ipotesi, visto che Domenico bambino viene trovato in terra dalla nutrice. Al v. 83 Ostiense e... Taddeo sono Enrico da Susa, nominato nel 1262 vescovo di Ostia (da cui il soprannome) e prob. il fiorentino Taddeo d'Alderotto, entrambi autori di apprezzati volumi di diritto canonico. L'immagine della vigna (vv. 86-87) che imbianca, si secca se non è curata dal vignaiolo, è evangelica (Matth., XX, 1-16); il vb. circuir è prob. un latinismo puro e significa «custodire». La sedia del v. 88 è il soglio del papa, di cui si dice che un tempo fu più pronto a dispensare le ricchezze ai poveri. Nei vv. seguenti Dante si rifà al linguaggio canonico, alludendo all'usanza di dare solo un terzo o la metà di quanto si doveva ai poveri (v. 91), di occupare il primo beneficio ecclesiastico libero (v. 92), di impadronirsi delle decime (v. 93). Il seme (v. 95) è la Fede, mentre le ventiquattro piante sono i beati delle due corone. con la similitudine di una lira celeste che la mano di Dio allenta e tira, che smette di cantare spinta dall'amore che sempre si liqua (latinismo per «si manifesta») in una volontà benevola, il che induce Dante ad affermare che le anime beate non possono essere sorde alle preghiere dei vivi; poi l'apparizione di Cacciaguida è descritta come una stella cadente che d'improvviso attraversa il quieto cielo nottuno, precisando in seguito che la luce del beato si muove lungo il braccio destro della croce simile a una gemma che non lascia il suo nastro e a una fiamma visibile dietro una parete di alabastro (più avanti Dante chiamerà lo spirito vivo topazio, accentuando la preziosità dei paragoni). Cacciaguida si rivolge quindi a Dante senza fare il proprio nome, cosa che avverrà solo verso la fine dell'episodio, dapprima paragonato all'ombra di Anchise che accoglie il figlio Enea nei Campi Elisi e poi mostrato mentre parla al suo discendente in latino, chiedendosi a chi oltre che a Dante la porta del Cielo è stata aperta due volte. Il doppio riferimento è ovviamente al viaggio di Enea nell'Ade, narrato da Virgilio nel libro VI dell'Eneide e in occasione del quale l'eroe ascoltò dall'anima del padre il preannuncio dell'alta missione che lo avrebbe portato alla fondazione della stirpe romana, ma anche a san Paolo che nella Il Epistola ai Corinzi narrava di essere stato rapito al III Cielo, per cui la domanda retorica di Cacciaguida sottintende che oltre a Dante la porta del Paradiso è stata aperta due volte solo al santo. Enea e san Paolo erano entrambi citati da Dante in Inf., II, 28 ss., quando il poeta aveva esposto a Virgilio i suoi dubbi circa il viaggio nell'Oltretomba, per cui è come se Dante qui volesse sottolineare il carattere provvidenziale del suo viaggio che è stato voluto da Dio per consentirgli di adempiere a un'importante missione (quella di raccontare nel poema tutto ciò che ha visto, come l'avo gli spiegherà nel Canto XVII); inoltre è evidente il parallelismo tra Anchise e Cacciaguida, che infatti saluta il suo discendente con l'espressione sanguis meus che è ripresa letterale di Aen., VI, 835 e che nel Canto XVII profetizzerà a Dante il futuro esilio, investendolo della sua missione come Anchise aveva fatto con il figlio. L'incontro fra Dante e Cacciaguida ha quindi un'importanza che va al di là dell'ambito personale e familiare in cui potrebbe sembrare circoscritto e investe la sostanza stessa del poema, con la definizione della missione sacrale di cui il poeta si sente investito e la cui dichiarazione solenne affida all'anima di questo suo oscuro antentato, scelto in quanto martire morto combattendo per la fede e vissuto in una Firenze molto diversa da quella attuale da cui Dante sarà esiliato. La rievocazione di questa Firenze ideale del XII secolo, più piccola di quella del XIV e la cui popolazione non viveva ancora nel lusso sfrenato dovuto alla diffusione della ricchezza, è al centro della successiva prosopepea del beato, il quale, richiesto da Dante di rivelare la propria identità, si limita inizialmente a dire di essere stato suo antenato e concittadino: l'idealizzazione della Firenze antica a paragone di quella moderna riprende l'accusa di Forese Donati alle sfacciate donne fiorentine di Purg., XXIII, 91-111 e anticipa la rassegna delle principali famiglie fiorentine del Canto seguente, in cui sarà evidente il rimprovero di Cacciaguida alle genti nove e ai sùbiti guadagni che hanno diffuso la corruzione nella città e hanno causato le discordie interne, portando infine all'esilio del poeta profetizzato nel Canto XVII. Non a caso gli abitanti di questa Firenze ideale vivevano una vita semplice e modesta, con gli uomini più in vista che indossavano abiti non eleganti e le donne che non sfoggiavano monili e vestiti sfarzosi, non si imbellettavano i visi, erano certe di morire in patria perché la città non conosceva ancora gli esili politici; la rievocazione di Cacciaguida è sentita e ricca di pathos, specie all'inizio con la quadruplice anafora Non... dei vv. 100-109, in cui l'avo sottolinea i costumi corrotti della Firenze attuale paragonandoli polemicamente a quelli morigerati dei suoi antichi concittadini. Particolarmente significativa, poi, la descrizione delle donne intente a badare alla propria casa, ad allevare i figli e a filare la lana (l'immagine è tratta dalla lett. classica e si rifà a quella della donna dell'antica Roma), mentre raccontano alla famiglia (che comprende anche la servitù, come in epoca romana) dell'antica e leggendaria fondazione di Firenze ad opera dei Romani e di Cesare: il paragone tra Firenze e Roma è tanto più significativo, in quanto Dante riteneva che gli abitanti della sua città di sangue «puro» discendessero proprio dai Romani, mentre quelli venuti da Fiesole e in seguito inurbatisi dal contado avevano contaminato questa originaria purezza portando in città l'avidità di guadagno che tutto aveva corrotto (è la tesi sostenuta da Cacciaguida nel Canto XVI, ma anche da Brunetto Latini in Inf., XV, 61-78). Non a caso i due esempi più famigerati di Fiorentini degeneri del Due-Trecento, Cianghella e Lapo Salterello, sono paragonati in forma chiastica a Cincinnato e Cornelia, ovvero due illustri esempi di quelle alte virtù virili e femminili che caratterizzavano i cittadini dell'antica Roma, mentre il paragone implicito tra le due città è evidente anche nell'accostamento tra Monte Mario (Montemalo) e l'Uccellatoio, col dire che Firenze ha superato Roma nel lusso degli edifici ma sarà più rapida nella decadenza. Dante crea un parallelo tra l'evoluzione politico-morale delle due città, in quanto entrambe hanno avuto un passato glorioso caratterizzato dalla vita austera e dalla grandezza politica (Firenze aveva toccato il suo massimo splendore nella prima metà del Duecento), ma poi sono cadute nella corruzione morale e nell'ambizione, finendo per declinare rapidamente: Roma in passato aveva visto il crollo del suo Impero, poi ristabilito da Carlo Magno, Firenze vedrà assai presto la fine del proprio dominio politico ad opera di un imperatore in grado di riportare la sua autorità in Italia, o almeno così si augura e profetizza Dante. La rievocazione di Firenze dà modo a Cacciaguida di presentarsi e fare infine il proprio nome, raccontando brevemente la sua vita in cui spicca soprattutto la partecipazione alla Il Crociata al seguito dell'imperatore Corrado III, che l'aveva fatto cavaliere in seguito al suo bene ovrar : l'avo si presenta dunque come martire caduto combattendo in Terrasanta contro gli infedeli, che tuttora usurpano i luoghi santi per colpa d'i pastor, per la trascuratezza dei papi (è la consueta polemica di Dante contro il guelfismo e a favore dell'autorità imperiale), ma afferma anche orgogliosamente la propria nobiltà, l'appartenenza a quell'aristocrazia cittadina formata, secondo Dante, dalla semenza santa dei Romani che avevano fondato Firenze e della quale lui stesso sentiva di fare parte. La dichiarazione di Cacciaguida dà modo all'esule Dante, sconfitto sul piano politico e bandito dalla propria ingrata città, di affermare con orgoglio la sua nobiltà, cosa di cui farà in parte ammenda all'inizio del Canto successivo: i versi seguenti preciseranno meglio le origini di Cacciaguida e riprenderanno la rievocazione dell'antica Firenze ideale, con la rassegna delle famiglie più cospicue e la rampogna contro l'imbastardimento della popolazione per l'immigrazione dal contado, causa prima (come si è detto) della corruzione e della decadenza politica della città che Dante sta scontando con l'esilio. L'antica nobiltà di Cacciaguida è anche garanzia della veridicità delle profezie che pronuncerà nel Canto XVII, e che riguarderanno non soltanto la vicenda biografica di Dante ma anche le imprese militari e politiche di Cangrande della Scala, forse da identificare col «veltro» destinato a cacciare la lupa, quindi l'avarizia, dall'italia: il complessivo episodio di Cacciaguida si inserisce pertanto in un quadro assai più ampio della vicenda personale del poeta e va ben al di là del comprensibile rancore che egli nutriva per i suoi ingrati concittadini, il che spiega la scelta di questo personaggio come protagonista dei Canti centrali del Paradiso, nonché l'elevatezza dello stile che li caratterizza e, almeno in parte, l'orgogliosa affermazione da parte di Dante della propria superiorità morale sui suoi antichi nemici politici. Note e passi controversi Alv. 1si liqua è lat. da liqueo, «manifestarsi», che Dante rende della prima coniugazione. | vv. 19-24 indicano che la luce di Cacciaguida si muove lungo il braccio destro della croce e scende in basso, senza staccarsi da essa come una gemma che resta attaccata al suo nastro. La lista radial è propriamente il raggio che divide il cerchio, quindi è ciascuno degli assi della croce che, essendo perpendicolari, è come se dividessero un cerchio in quattro quadranti uguali. Il v. 24 allude a una particolare proprietà dell'alabastro che lascia trasparire la luce: può darsi che Dante avesse visto delle finestre di alcune chiese fatte in quel materiale, che lasciavano filtrare la luce del sole. | vv. 25-27 si riferiscono ovviamente ad Aen., VI, 684 ss., quando Enea scende agli Inferi e incontra l'ombra del padre Anchise nei Campi Elisi; la maggior musa è prob. Virgilio, ma potrebbe essere anche l'alta poesia dell'Eneide. Le parole in latino ai vv. 28-30 significano: «O mio discendente, o abbondanza grazia divina, a chi come a te fu aperta per due volte la porta del cielo?». Sanguis meus è calco virgiliano (Aen., VI, 835), mentre le altre espressioni come superinfusa, gratia Dei, celi ianua sono di derivazione biblica. La domanda è retorica e sottintende che il primo a compiere un viaggio in Paradiso da vivo fu san Paolo (cfr. Inf., II, 28 ss.) Il magno volume (v. 50) è il libro della mente di Dio, dove ogni cosa è immutabile e dove Cacciaguida ha letto dell'arrivo di Dante. Al v. 55 mei è lat. da meare, «procedere» (cfr. Par., XIII, 55). Al v. 74 la prima equalità è Dio: Dante vuol dire che peri beati l'intelletto è pari al loro sentimento e lo possono esprimere a parole, mentre per lui, mortale, questo è più difficile. | vv. 91-94 alludono al figlio di Cacciaguida, Alighiero | bisnonno del poeta, che da più di un secolo è nella | Cornice del Purgatorio: il suo nome, che poi divenne il cognome di Dante, deriva da quello degli Aldighieri, la famiglia della moglie di Cacciaguida (vv. 137-138). I vv. 97-99 alludono all'antica cinta muraria di Firenze, che risaliva al IX-X sec. ed era assai più ristretta di quella dei tempi di Dante, realizzata nel 1173 quindi dopo la morte di Cacciaguida. Il v. 98 si riferisce alla chiesa di Badia, che si trovava presso le antiche mura e suonava ancora le ore canoniche. Alcuni mss. leggono al v. 101 donne contigiate, ma è prob. che Dante si riferisca al capo di abbigliamento. Contigiato deriva dall'ant. fr. cointise, «ornamento». Al v. 106 le case sono dette vòte perché troppo grandi a causa del lusso e quindi sproporzionate; alcuni intendono un'allusione agli esili deltempo di Dante, ma sembrerebbe fuori contesto in questo passo (l'avo biasima i costumi lussuosi della Firenze del Trecento). | vv. 109-111 indicano che il monte Uccellatoio, che sorge alle porte di Firenze, non aveva ancora superato Monte Mario a Roma, cioè il fasto degli edifici di Firenze non aveva ancora oltrepassato quello della città di Roma; forse Dante allude più in generale all'ascesa e poi al declino politico-morale della sua città. Uccellatoio è quadrisillabo per trittongo. Bellincione Berti (v. 112) era il padre della buona Gualdrada (Inf., XVI, 37) e fu un fiorentino illustre della nobile famiglia dei Ravignani, di cui sappiamo ben poco (visse nel XII sec.). | Nerli e i Vecchietti (Vecchio, v. 115) erano altre famiglie cospicue di parte guelfa, anch'esse contemporanee dell'avo. | vv. 118-120 vogliono dire che le antiche donne di Firenze non seguivano i mariti in esilio e non erano abbandonate dagli stessi per andare a commerciare in Francia. L'immagine ai vv. 124-126 riprende quella del v. 117 e descrive le donne della Firenze antica intente a filare la lana, come le brave matrone dell'antica Roma; la famiglia è l'insieme dei servi e ad essi la donna fiorentina narrava le antiche storie delle origini della città, da Roma, e attraverso questa, da Troia. Cianghella (v. 129) era la figlia di Arrigo della Tosa, che dopo la morte del marito Lito degli Alidosi, imolese, tornò a Firenze e condusse vita dissoluta sino alla morte, avvenuta forse nel 1330; Lapo Salterello era un giurista e poeta contemporaneo di Dante, accusato di brogli e baratteria e che passò alla parte Nera dopo i fatti del 1301-1302 (fu, a quanto pare, uomo di corrotti costumi). A questi due esempi negativi Dante contrappone quelli positivi di Quinzio Cincinnato, il celebre dittatore romano che vinse gli Equi, già ricordato da Giustiniano in Par., VI, 46, e di Cornelia, la figlia di Scipione l'Africano e rievocazione della città del XII secolo, e che qui prosegue attraverso le domande che Dante, curioso di altri particolari, rivolge all'avo. Questi infatti, dopo aver rivelato il proprio anno di nascita e il luogo di Firenze dove abitavano i suoi avi (il sestiere di Porta S. Pietro, il che dimostra l'antica nobiltà della famiglia e la sua discendeza dagli antichi Romani), e dopo aver ricordato l'esigua popolazione fiorentina dei suoi tempi, torna sul problema della decadenza della città individuandone la causa nell'inurbamento di genti dal contado, che avrebbero imbastardito l'antica purezza della popolazione e diffuso la corruzione e il degrado che poi portarono alla situazione dei tempi di Dante. È la stessa tesi già sostenuta in parte da Brunetto Latini in Inf., XV, 61-78 e soprattutto da Dante stesso in XVI, 73-75, quando aveva spiegato ai tre sodomiti fiorentini che la causa della corruzione morale della città erano la gente nova e i sùbiti guadagni che avevano generato orgoglio e dismisura: anticamente la popolazione fiorentina era etnicamente pura in quanto discendeva dai Romani che avevano fondato la città dopo la distruzione di Fiesole, sia pure mescolati ai superstiti della stessa Fiesole che non erano altrettanto nobili, poi nel corso del Duecento i nuovi venuti dal contado avevano provocato una vera confusione di genti, che è stata causa per Cacciaguida di tutti i futuri mali della città. Infatti, questi villani inurbati si dedicavano soprattutto al commercio e al cambio di valuta, dunque ad attività fondate sullo scambio di denaro e sul guadagno facile, il che (oltre ad essere di per sé criticabile secondo la visione cristiana) ha poi diffuso l'avidità e la corruzione, fonte prima delle discordie civili che insanguinarono Firenze nel primo Trecento e portarono all'esilio dello stesso poeta. È chiaro che Dante include il proprio avo e se stesso fra quei Fiorentini nobili in quanto discendenti diretti degli antichi Romani che fondarono la città per volere di Cesare, prendendo le distanze tanto dalle bestie fiesolane originariamente accolte a Firenze, quanto dai contadini successivamente inurbati che hanno ampliato le dimensioni e la popolazione della città: per questi ultimi Cacciaguida ha parole di grande disprezzo, parlando del puzzo che i Fiorentini «puri» devono sostenere per la loro vicinanza e affermando che i nuovi venuti sono dei villani pronti a barattare, a compiere cioè traffici e raggiri di ogni tipo, mentre poco oltre dirà che il nuovo cittadino di Firenze e cambia e merca, è dedito cioè a quelle attività finanziarie che sono condannate in quanto espressione della nuova civiltà comunale e mercantile, che sta facendo tramontare i valori della vecchia civiltà cortese e feudale che Dante non si è rassegnato a considerare ormai morta. La causa prima di tutto ciò è individuata da Cacciaguida nell'azione della Chiesa, che è stata matrigna per Cesare (cioè per l'imperatore) usurpandone l'autorità e pretendendo di esercitare il potere temporale al suo posto, come già sostenuto da Marco Lombardo in Purg., XVI e con allusione all'ostilità del papa e del partito guelfo ad Arrigo VII di Lussemburgo. Ciò avrà un riflesso nella profezia di Cacciaguida riguardo Cangrande Della Scala nel Canto seguente, ma già qui l'avo preannuncia il futuro declino politico della città di Firenze, che avrà presto lo stesso destino di Luni e Orbisaglia e che è testimoniato dalla decadenza delle principali famiglie fiorentine dei suoi tempi: rispondendo alla domanda di Dante sull'argomento, Cacciaguida ne trae spunto per compiere una grandiosa rassegna delle più cospicue casate della città, le quali tutte hanno prima o dopo conosciuto un pesante declino, alcune per propria colpa e altre per circostanze diverse, ma in ogni caso dimostrando che nulla è eterno e che Firenze stessa vedrà presto oscurata la propria fama (è quanto già annunciato nel Canto XV, attraverso il parallelismo con Roma). Alcuni di questi nomi hanno poco significato per il lettore moderno, tuttavia rappresentano validi esempi della transitorietà della gloria terrena, nonché della nobiltà di sangue che all'inizio Dante ha definito poca e che è destinata a scomparire se non accompagnata da un agire virtuoso: tra gli esempi fatti da Cacciaguida i più evidenti sono quello degli Uberti, la grande famiglia ghibellina che fu cancellata da Firenze dopo Benevento (significativo a riguardo l'incontro con Farinata, in Inf., X), e quello dei Buondelmonti, che a causa dell'oltraggio a una fanciulla degli Amidei avevano originato le divisioni politiche nella città (cfr. a proposito l'incontro con Mosca dei Lamberti, Inf., XXVIII). La figura di Buondelmonte dei Buondelmonti, che ruppe la promessa di matrimonio e fu ucciso nell'ambito di una vendetta familiare, diventa quasi emblematica della decadenza morale della città, in quanto l'uomo apparteneva a una famiglia inurbatasi a Firenze in tempi antichi: benché Dante sembri indicarlo come il primo di quella casata a venire in città, confondendo volutamente o meno la verità storica (i Buondelmonti si inurbarono già nel XII sec.), fa pronunciare comunque a Cacciaguida una dura invettiva contro la sua persona, con l'affermazione che meglio sarebbe stato per la pace interna di Firenze se invece di entrare in città egli fosse annegato nel torrente dell'Ema. La sua uccisione fu l'inizio delle discordie intestine che poi avrebbero insanguinato Firenze, alimentate da superbia, invidia e avarizia come detto da Ciacco in Inf., VI, per cui è significativo che Buondelmonte fosse assassinato presso il frammento della statua che si attribuiva a Marte primo patrono della città, il quale avrebbe poi preteso un pesante tributo di sangue negli anni a venire: Cacciaguida conclude la rassegna con questo sinistro presagio, precisando che la Firenze in cui lui ha vissuto era molto diversa e godeva di una pace duratura, prevalendo sempre sui suoi nemici e mantenendo intatta la sua gloria, cosa che non si può certo dire della città dalla quale Dante è stato esiliato. Questa rievocazione nostalgica del passato prelude alla profezia dell'esilio e delle gesta di Cangrande che seguirà nel Canto XVII ed è forse la pagina più sentita ed esacerbata del poema sul declino politico-morale della città del poeta, il che spiega perché questo Canto è stato definito il più «fiorentino» del poema (in seguito la polemica politica tenderà ad essere di respiro più ampio e a coinvolgere soprattutto la Chiesa con la condanna dei suoi vizi, come sarà evidente nel Canto XXVII). La gente nova e i sùbiti guadagni: Dante contro la civiltà mercantile L'autore della Commedia non perde occasione nel poema per scagliarsi contro la civiltà comunale fondata sul commercio e sulla circolazione del denaro, da lui vista come fonte di corruzione e di decadenza politico-morale soprattutto della sua città, Firenze: la cosa non può non sembrare strana e addirittura inspiegabile agli occhi di noi moderni, specie pensando alle novelle di Boccaccio che, oltre a essere grande ammiratore di Dante, esalterà proprio la figura del mercante solo pochi decenni dopo la morte del grande poeta. L'avversione di Dante per il mondo mercantile ha una ragione innanzitutto religiosa, rifacendosi al precetto evangelico per cui l'uomo deve ricavare il sostentamento dal lavoro della terra e non dallo sfruttamento del denaro che produce altro denaro, da cui nasce la condanna dell'usuraio che pecca di violenza contro Dio in quanto offende l'operosità umana, ma anche del mercante, colpevole di monetizzare il tempo che invece dev'essere il tempo di Dio scandito dalle ore canoniche, non sfruttato dall'uomo a fini di lucro. Dante aggiunge poi anche una considerazione storico- sociale, individuando nell'avidità di guadagno e nella cupidigia la principale fonte della corruzione e del disordine politico che affliggeva l'Italia del Trecento, quindi bollando la circolazione del denaro come il fattore destinato ad alimentare le ingiustizie: Folchetto di Marsiglia in Par., IX, 127-142 si scaglia contro il maladetto fiore (fiorino) diffuso in Europa dai banchieri di Firenze che finanziavano la monarchia francese, e dunque fomentavano la corruzione della Curia papale suscitando l'avidità di guadagno da parte dei pontefici corrotti come Bonifacio VIII o Giovanni XXII. E il denaro è stato causa della rovina della stessa Firenze, da cui sono scomparsi onore e cortesia a causa della gente nova e i sùbiti guadagni, ovvero la propensione agli affari e alle baratterie da parte dei contadini inurbatisi in città che, secondo il discorso di Dante ai tre sodomiti fiorentini in Inf., XVI, 73-75, hanno accresciuto orgoglio e dismisura, diffondendo a Firenze la corruttela e il degrado morale. È la stessa analisi fatta dall'avo Cacciaguida in Par., XVI, 49 ss., quando afferma che proprio l'ingresso in città di elementi del contado, pronti a barattare e a darsi a ogni genere di scambio e mercatura, ha imbastardito l'antica purezza della popolazione che discendeva dai Romani che la fondarono per volontà di Cesare: l'accusa non è solo di tipo sociale, legata cioè al mestiere esercitato dai nuovi arrivati, ma addirittura di tipo etnico, per cui Dante si ritiene parte di un'antica e pura nobiltà cittadina che mal sopporta la vicinanza coi «villani» che meglio avrebbero fatto a restare nel contado, invece di venire a Firenze per portare disordine morale e inquinare la «purezza» della stirpe. Ciò può far pensare a un Dante addirittura razzista, il che non è forse eccessivo se lo si giudica coi parametri della società moderna fondata sull'integrazione culturale e la convivenza, ma su tutto domina la nostaglia del poeta per l'antica società di tipo feudale e cortese, fondata su un sistema di valori antitetico rispetto a quello della civiltà comunale e che nel Trecento stava ormai sparendo, causando secondo Dante un declino morale che è all'origine di molti mali politici del suo tempo. Dante non si rassegna a questa evoluzione in senso «capitalistico» della società e all'imporsi di nuovi valori quali la ricerca del profitto, la circolazione delle merci e la concorrenza: ai suoi occhi il mercante cerca di lucrare attraverso l'uso del denaro, è portatore di qualità negative come l'astuzia e l'occhio aguzzo, tenta di ottenere un guadagno spesso raggirando il prossimo, tutte caratteristiche che Boccaccio e il Trecento esalteranno in quanto appartenenti a una mentalità più simile alla nostra. Dante rimpiange come il suo contemporaneo Folgòre da San Gimignano la scomparsa della cortesia e della cavalleria, tema al centro di molte pagine del poema (cfr. soprattutto Purg., XIV) e di alcune Rime (cfr. la canzone sulla liberalità, XLIX) e al quale egli riconduce anzitutto il declino morale e politico non solo di Firenze, ma dell'Italia intera in cui inevitabilmente trionfa l'ingiustizia: è certo una posizione anacronistica e anti-storica, ma che non deriva solo dalla nostalgia per il passato, quanto piuttosto dall'amara considerazione che l'avidità di denaro porta gli uomini a compiere ogni sorta di misfatto e ciò è fonte di sofferenza per tutti quelli che, come lui, si battono per il bene e per la corretta applicazione delle leggi. Se il denaro è fonte del male, allora Dante tuona con furore biblico contro tutti coloro che ne fanno un idolo, come i papi simoniaci, e al contrario esalta una figura come quella di san Francesco che si spoglia di tutto e cerca di attualizzare l'ideale di povertà evangelica, esempio per tutti coloro che vogliono seguire Dio con fede sincera: la matrice del pensiero dantesco in materia è soprattutto religiosa e ciò spiega la distanza che ci separa dal suo atteggiamento mentale, in quanto noi apparteniamo a una società fondata sui consumi e sull'edonismo, mentre egli crede ancora a una vita fondata sulla privazione e l'ascetismo, di cui non solo Francesco è esempio insigne da additare ai suoi lettori. La posizione di Dante era forse non in linea con la sua stessa epoca sempre più fondata sui commerci e il capitale, ma gli va dato atto che negli anni dell'esilio rimase coerente coi suoi principi, adattandosi a mendicare il pane altrui pur di non derogare dalla condotta che si era imposto e non rinunciando mai, nonostante i molti rischi corsi, a denunciare il male politico che per lui era alimentato principalmente dalla corruzione e dal denaro. Note e passi controversi Alv. 7 raccorce è prob. seconda persona del vb. «raccorciare», usato in forma intransitiva («accorciarsi»). I vv. 10-11 alludono alla convinzione, assai diffusa nel XIV sec., che il «voi» come forma di cortesia fosse dato per la prima volta a Cesare dopo che questi aveva assunto il potere a Roma; in realtà il «voi» onorifico si diffuse solo nel III sec. d.C. | popolo del Lazio sono invece soliti usare il «tu» anche con persone di riguardo, il che spiega il v. 11. | vv. 14-15 si riferiscono alla dama di Malehaut, che nel romanzo francese di Lancillotto e Ginevra assiste, non vista, al primo colloquio d'amore fra i due e manifesta la sua presenza tossendo; il primo poeta si abitui a esprimerli liberamente così che vengano esauditi. Dante si rivolge allora a Cacciaguida e gli ricorda, come lui ben sa leggendo nella mente di Dio, che guidato da Virgilio egli ha udito all'Inferno e in Purgatorio delle oscure profezie sul suo conto, per cui il poeta vorrebbe avere maggiori ragguagli in merito: benché, infatti, egli sia preparato ai colpi della sorte, una sciagura prevista è più facile da affrontare. Dante, in questo modo, obbedisce a Beatrice e rivela ogni suo dubbio all'anima del suo antenato. Cenni di Cacciaguida alla prescienza divina (31-45) Cacciaguida risponde splendendo nella sua luce, con un discorso chiaro e perfettamente comprensibile e non con le espressioni tortuose e oscure proprie degli oracoli delle divinità pagane: il beato spiega che tutti i fatti contingenti, presenti e futuri, sono già scritti nella mente divina, il che non implica che debbano accadere necessariamente, come l'occhio che osserva una nave scendere la corrente di un fiume sa che questo avverrà, ma non lo rende perciò inevitabile. Allo stesso modo, spiega Cacciaguida, egli prevede iltempo futuro di Dante, come la dolce musica di un organo giunge alle orecchie umane. L'esilio di Dante (46-69) Dante, profetizza l'avo, dovrà abbandonare Firenze allo stesso modo in cui Ippolito dovette partire da Atene per la malvagità della sua matrigna. Questo è voluto e cercato già nell'anno 1300 da papa Bonifacio VIII, nella Curia dove ogni giorno si mercanteggia Cristo: la colpa dell'esilio verrà imputata ai vinti, così come di solito avviene, ma ben presto la punizione verso i Fiorentini dimostrerà la verità dei fatti. Dante dovrà lasciare ogni cosa più amata, ciò che costituisce la prima pena dell'esilio, quindi proverà com'è duro accettare il pane altrui mettendosi al servizio di vari signori. Ciò che gli sarà più fastidioso sarà la compagnia di altri fuorusciti, sempre pronti a mettersi contro di lui, tuttavia saranno loro e non Dante ad avere le tempie rosse di sangue e di vergogna nella battaglia della Lastra. Le conseguenze del loro comportamento dimostreranno la loro follia, così che per Dante sarà stato molto meglio fare parte per sé stesso. Profezie su Cangrande Della Scala (70-99) Dante troverà anzitutto rifugio a Verona, sotto la protezione di Bartolomeo Della Scala che sullo stemma della casata reca l'aquila imperiale: egli sarà così benevolo verso il poeta che gli concederà i suoi favori senza bisogno di ricevere richieste. A Verona Dante vedrà colui (Cangrande) che alla nascita è stato fortemente influenzato dal pianeta Marte, così che le sue imprese saranno straordinarie. Nessuno se n'è ancora accorto perché molto giovane, avendo egli solo nove anni, ma prima che papa Clemente V inganni Arrigo VII di Lussemburgo il suo valore risplenderà chiaramente, mostrando la sua noncuranza per il denaro e gli affanni. Le sue gesta saranno così illustri che i suoi nemici non potranno tacerle, quindi Dante dovrà attendere il suo aiuto e i suoi favori, dal momento che Cangrande ha generosamente mutato le condizioni di molte persone, trasformando i mendicanti in ricchi e viceversa. Cacciaguida aggiunge altri dettagli relativi alle future imprese di Cangrande, imponendo però il silenzio a Dante che ascolta incredulo quanto riferito dall'avo. Cacciaguida conclude dicendo a Dante che non dovrà serbare rancore verso i suoi concittadini, poiché la sua vita è destinata a durare ben oltre la punizione che li colpirà. Dubbi di Dante (100-120) Dopo che il beato ha terminato di parlare, Dante torna a rivolgersi a lui in quanto desidera ricevere una spiegazione e un conforto, certo di trovarsi di fronte a un'anima sapiente, virtuosa e amorevole. Dante dichiara di rendersi conto che lo aspettano aspre vicissitudini, per cui è bene che sia previdente e che non si precluda il possibile rifugio in altre città a causa dei suoi versi, visto che dovrà lasciare Firenze. All'Inferno, in Purgatorio e in Paradiso il poeta ha visto cose che, se riferite dettagliatamente, suoneranno sgradevoli a molti; tuttavia, se egli non dirà tutta la verità della visione, teme di non ottenere la fama destinata a renderlo famoso presso le generazioni future. La missione poetica di Dante (121-142) La luce che avvolge Cacciaguida risplende come uno specchio d'oro colpito dal sole, quindi l'avo risponde dicendo che i lettori con la coscienza sporca per i peccati propri o di altri proveranno fastidio per le sue parole, e tuttavia egli dovrà rimuovere ogni menzogna e rivelare tutto ciò che ha visto nel viaggio ultraterreno, lasciando che chi ha la rogna si gratti. Infatti, i suoi versi saranno sgradevoli all'inizio, ma una volta digeriti saranno un nutrimento vitale per le anime. Il grido di Dante sarà come un vento che colpisce più forte le più alte cime, il che non è ragione di poco onore, e per questo nei tre regni dell'Oltretomba gli sono state mostrate solo le anime note per la loro fama: il lettore non presterebbe fede ad esempi che fossero oscuri e non conosciuti da tutti, né ad altri argomenti che non fossero evidenti di per sé. Interpretazione complessiva Il Canto chiude il «trittico» dedicato all'incontro con l'avo Cacciaguida e alla definizione della missione poetica di Dante, dopo il XV in cui l'antenato si era presentato rievocando l'antica Firenze del XII sec. e dopo il XVI in cui, dopo l'analisi delle cause della decadenza morale della città, c'era stata la rassegna delle principali famiglie fiorentine cadute poi in declino. Firenze è ancora al centro del Canto XVII, poiché Dante chiede all'avo spiegazioni circa l'esilio che gli è stato più volte preannunciato nel corso del viaggio ultraterreno, il che indurrà poi il poeta a manifestare i suoi dubbi circa l'adempimento della missione: lo stile è retoricamente elevato, già in apertura con il paragone fra Dante e Fetonte che si rivolse alla madre Climene per avere rassicurazioni sul fatto che Apollo fosse suo padre, mentre qui il poeta vuole avere conferma circa le parole spesso malevole che ha udito contro di sé (anche Fetonte, secondo il mito classico, aveva subìto lo scherno di Epafo che non credeva fosse figlio di Apollo). È molto evidente poi il parallelismo, come nel Canto XV, fra Dante e Enea che incontra il padre Anchise nel libro VI dell'Eneide, in quanto Cacciaguida profetizza a Dante l'esilio e lo investe dell'alta missione poetica che gli ha affidato la Provvidenza, proprio come Anchise preannunciava al figlio le guerre che lo attendevano nel Lazio e la missione provvidenziale della fondazione di Lavinio, da cui avrebbe avuto origine la stirpe romana. La stessa rassegna delle antiche famiglie di Firenze nel Canto XVI si rifaceva alla presentazione da parte di Anchise dei futuri eroi di Roma, mentre in questo episodio tutto è centrato su Dante destinato a lasciare la sua città in seguito alle vicende politiche del 1301-1302 e, come esule sconfitto politicamente, ad adempiere all'altissimo incarico di cui è investito: il discorso di Cacciaguida è chiaro e privo di ambiguità, diverso dunque dalle velate allusioni di personaggi come Farinata, Brunetto Latini e Oderisi da Gubbio che avevano predetto l'esilio in modo oscuro, ma diverso anche dai responsi oracolari degli dei pagani che si prestavano a doppie interpretazioni (il riferimento è anche alla Sibilla cumana, che Enea incontra nel suo antro e alla quale chiede espressamente una profezia, prima di compiere la discesa agli Inferi dietro la sua guida). Dopo l'accenno al delicato problema della prescienza divina, che non determina in modo necessario gli eventi pregiudicando così il libero arbitrio, Cacciaguida annuncia a Dante che dovrà lasciare Firenze per la malvagità dei suoi concittadini, come Ippolito fu costretto a lasciare Atene per la perfidia della matrigna Fedra (il parallelo Firenze-Atene era quasi un classico nella letteratura del Due-Trecento, già visto in Purg., VI, 139, sia pure in chiave ironica). Più che alle beghe cittadine tra le opposte fazioni di Guelfi Bianchi e Neri, l'avo riconduce la questione dell'esilio alla caparbia volontà di papa Bonifacio VIII di favorire la parte Nera in combutta con la monarchia francese e Carlo di Valois, per cui la vicenda personale di Dante si inserisce in un più ampio contesto politico che va oltre la prospettiva comunale di Firenze e riguarda il conflitto tra potere papale e autorità imperiale, fonte secondo Dante dei mali poltici dell'Italia. Cacciaguida predice a Dante le amarezze e le sofferenze del suo girovagare di città in città, accusato di falsi crimini dai suoi ex-concittadini e in contrasto con gli altri fuorusciti destinati ad essere sconfitti nella battaglia della Lastra, costretto infine a mendicare il pane dai signori che gli offriranno protezione e rifugio: tra questi spiccano naturalmente gli Scaligeri di Verona, soprattutto quel Cangrande che sarà il principale protettore del poeta e al quale Dante dedicherà proprio il Paradiso, indirizzandogli anche la famosa e discussa Epistola XIII che sarà fondamentale per l'interpretazione del poema. Cangrande si colloca al centro della profezia dell'esilio, in quanto Cacciaguida ne traccia un piccolo panegirico e lo presenta come personaggio destinato a grandi imprese, che mostrerà il suo valore militare e politico disdegnando le ricchezze e soprattutto tenterà di ristabilire l'autorità imperiale in Italia del Nord: non a caso egli è stato identificato sia col «veltro» di Inf., I, 101 ss., sia col «DXV» di Purg., XXXIII, 37 ss., e non è da escludere che proprio la sua azione sia da mettere in rapporto con la prossima punizione di Firenze che è preannunciata qui da Cacciaguida e altrove dallo stesso Dante, essendo legata probabilmente al rovesciamento del governo dei Neri da parte di un vicario imperiale destinato a ristabilire la legge e la giustizia, sia questi Cangrande o un altro personaggio. Naturalmente questo resterà un sogno mai realizzatosi, così come anacronistica e non in linea con i tempi era la posizione politica di Dante relativamente al ruolo dell'Impero in Italia, ma l'attesa fiduciosa di un personaggio in grado di porre fine ai soprusi e alle ingiustizie politiche attraversa vivissima l'intero poema ed è lo sprone che induce Dante a compiere la sua missione poetica fino in fondo, senza mostrare mai il minimo cedimento o timore. Questa missione è poi solennemente dichiarata da Cacciaguida a Dante nella seconda parte del Canto, dopo che il poeta ha espresso i suoi dubbi che nascono proprio dalla profezia dell'esilio delineatasi finalmente con chiarezza: Dante sa che è chiamato dalla Provvidenza a rivelare tutto ciò che ha visto nel corso del viaggio, ma sa anche che i suoi versi riusciranno sgraditi a molti e quindi teme di precludersi possibili aiuti e protezioni se dirà tutta la verità, rischiando in caso contrario di scrivere un'opera di poco peso e, quindi, di non ottenere la fama imperitura. La risposta di Cacciaguida è tale da non lasciare incertezze ed è una chiara esortazione a non essere timido amico della verità, poiché proprio questo è il compito di Dante: nei tre luoghi dell'Oltretomba gli sono stati mostrati exempla di anime dannate o salve secondo il criterio della notorietà, poiché solo attraverso personaggi conosciuti il lettore ne sarà colpito al punto di modificare la sua condotta, dunque sarebbe una grave mancanza da parte di Dante omettere qualche particolare della «visione» o tacere i nomi di quei personaggi da cui potrebbe attendersi ostilità o ritorsioni. Il valore del poema è allora soprattutto quello di un'alta denuncia contro i mali dell'Italia del tempo, che sono legati all'assenza di una autorità centrale in grado di garantire le leggi, alla corruzione diffusa capillarmente nella Chiesa, più in generale all'avidità di guadagno che è dovuta alla diffusione del denaro: Dante non dovrà tirarsi indietro rispetto a tale compito e dovrà quindi riferire fedelmente tutto ciò che gli è stato mostrato, ovvero la condizione delle anime post mortem che secondo la finzione del poema (e in base a quanto Dante stesso afferma nell'Epistola XIII) gli viene fatta conoscere da vivo in virtù di un altissimo privilegio e in considerazione dei suoi meriti poetici. Il discorso di Cacciaguida è perciò stilisticamente solenne, ma non rinuncia talvolta ad espressioni crude e di immediata evidenza, come la frase lascia pur grattar dov'è la rogna che rende bene l'idea della missione affidata a Dante, quella cioè di dire la verità anche quando questa suonerà sgradevole alle orecchie dei potenti (in XXVII, 22-27 san Pietro userà parole ancor più dure contro Bonifacio VIII, colpevole di aver trasformato il Vaticano una cloaca / del sangue e de la puzza); del resto la voce del poeta sarà simile a un vento che colpirà maggiormente proprio le cime più alte, ovvero i personaggi più illustri deltempo che erano più di altri responsabili della decadenza morale e politica dell'Italia, per cui solo in tal modo Note e passi controversi | vv. 1-3 alludono al mito di Fetonte, figlio di Apollo e Climene (Ovidio, Met., I, 748 ss.; II, 1 ss.) che era stato deriso da Epafo il quale non credeva che il dio del Sole fosse realmente suo padre e si era rivolto alla madre per avere rassicurazioni: in seguito Apollo, per confermare la versione di Climene, gli permise di guidare il carro del Sole, ma Fetonte deviò dal retto cammino e venne fulminato da Giove (per questo il giovane è esempio di come i padri debbano essere scarsi, non condiscendenti coi figli). Al v. 13 piota vuol dire «pianta del piede», quindi per estensione «radice». Il vb. t'insusi è neologismo dantesco. Al v. 31 ambage è latinismo per «tortuosità», «espressioni oscure» e allude ai responsi oracolari dei pagani (la gente folle) che spesso erano ambigui; preciso / latin (vv. 34-35) vuol dire «discorso chiaro» e non necessariamente che il beato parli latino come qualcuno ha supposto (cfr. il discreto latino di XII, 144). Alcuni mss. al v. 42 leggono corrente, che però è lectio facilior. I vv. 46-48 alludono al mito di Ippolito, il figlio di Teseo, che respinse le profferte amorose della matrigna Fedra e fu da lei accusato di fronte al padre; questi credette alla moglie e cacciò ingiustamente il figlio da Atene (Ovidio, Met., XV, 493 ss.). Alcuni interpreti pensano che Dante paragoni Firenze a Fedra, indicandola cioè come città «matrigna». | vv. 49-51 alludono certamente a Bonifacio VIII, intento a compiere simonia nella Curia di Roma (là dove Cristo tutto dì si merca) e a complottare per favorire la presa del potere dei Neri a Firenze. Non è necessario pensare che Dante intenda attribuire al papa la volontà di esiliare lui personalmente, anche se un riferimento in tal senso non si può escludere. | vv. 53-54, non chiarissimi, intendono dire che presto Firenze verrà punita da Dio e ciò ristabilirà la verità, dimostrando cioè la falsità delle accuse rivolte a Dante (prob. ciò si riferisce all'accusa di baratteria). | vv. 61-66 si riferiscono agli altri fuorusciti fiorentini a cui Dante in un primo tempo si era unito, anche se non è chiaro a cosa egli alluda dicendo che questa compagnia... era diventata tutta ingrata, tutta matta ed empia contro di lui. Probabile che fossero sorti contrasti circa il modo di rientrare a Firenze, per cui Dante si era staccato da loro e non aveva preso parte alla battaglia della Lastra in cui erano stati sconfitti, con le tempie rosse di sangue e vergogna. Il gran Lombardo citato al v. 71 è quasi certamente Bartolomeo Della Scala, figlio di Alberto | (morto nel 1301, prima dell'esilio di Dante) e fratello maggiore di Cangrande, nato nel 1291; egli resse Verona dal 1301 al 1304, quindi Dante sarebbe stato da lui nei primissimi anni dell'esilio. Del successore, Alboino, il poeta dà un giudizio severo in Conv., IV, 16 e quindi è poco probabile che si tratti di quest'ultimo. Alv. 72 il santo uccello è l'aquila imperiale, che lo stemma degli Scaligeri recava sul simbolo della scala; essi divennero vicari imperiali nel 1311, ma non è inverosimile che l'aquila fosse già presente prima. I vv. 76 ss. alludono senza nominarlo a Cangrande, nato nel 1291 e quindi di appena nove anni al momento del colloquio con Cacciaguida: il beato ne predice le grandi imprese, che si vedranno prima che Clemente V (il Guasco) inganni Arrigo VII di Lussemburgo (l'alto Arrigo), ovvero prima del 1312 quando il papa si rivoltò contro l'imperatore al quale aveva dapprima accordato il favore. | vv. 91-93 contengono una profezia delle imprese di Cangrande, che però Dante non dovrà riferire: identico espediente in IX, 1-6 quando Carlo Martello predice il castigo nei confronti di chi aveva ingannato i suoi figli, cioè prob. il fratello Roberto. Al v. 97 vicini sono i «concittadini» di Dante. Al v. 122 corusca è latinismo e vuol dire «splendente». CANTO XXI Argomento del Canto Ascesa di Dante e Beatrice al VII Cielo di Saturno. Lo scaleo d'oro; apparizione degli spiriti contemplanti. Incontro con Pier Damiani. Discorso sulla predestinazione; il beato parla di se stesso. Invettiva contro il lusso dei prelati. È la tarda mattinata di giovedì 14 aprile (o 31 marzo) del 1300. Ascesa al Cielo di Saturno (1-24) Dante torna a volgere il suo sguardo a Beatrice e si accorge che la donna non sorride come solitamente fa. È Beatrice stessa a spiegargli che se sorridesse il poeta verrebbe ridotto in cenere come accadde a Semele di fronte a Giove, dal momento che la sua bellezza accresce man mano che si sale di Cielo in Cielo, per cui il suo splendore dev'essere temperato agli occhi mortali di Dante. | due, aggiunge la donna, sono appena saliti al VII Cielo di Saturno, che è congiunto alla costellazione del Leone e diffonde sulla Terra il suo influsso mescolato a quello della costellazione stessa. Dante dovrà osservare con molta attenzione quello che vedrà e fissarne l'immagine nei propri occhi: il godimento del poeta nel guardare l'aspetto di Beatrice è intenso, ma quando passa a guardare lo spettacolo del VII Cielo l'ubbidirle gli causa un piacere altrettanto grande, per cui è come se le due cose si bilanciassero. Lo scaleo d'oro (25-42) Nel Cielo di Saturno, il dio sotto il cui dominio il mondo conobbe l'età dell'oro, Dante vede una scala scintillante di colore dorato, che si erge verso l'alto a perdita d'occhio, tanto che il poeta non può vederne la fine. Moltissime luci di beati (gli spiriti contemplanti) scendono lungo la scala, fermandosi e compiendo vari movimenti sui diversi gradini, simili ai corvi grigi quando si muovono al mattino per scaldarsi e alcuni volano via senza fare ritorno, altri tornano al punto donde erano partiti, altri ancora volteggiano nello stesso posto. Così fanno le anime quando scendono e incontrano i gradini della scala, per cui alcune si fermano, altre vanno senza tornare e altre ancora ruotano intorno ad essi. Incontro con l'anima di Pier Damiani (43-72) Uno degli spiriti (san Pier Damiani) si ferma vicino a Dante e Beatrice, splendendo con tale intensità che il poeta capisce quanto è l'amore che manifesta nei suoi riguardi. Dante vorrebbe rivolgergli delle domande, ma si trattiene poiché Beatrice non ha ancora detto nulla; dopo che la donna ha intuito il desiderio del poeta, leggendolo nella mente di Dio, lo invita a parlare liberamente al beato. Dante a questo punto si rivolge allo spirito e gli chiede la ragione per cui si è avvicinato a lui, e il motivo per cui le anime in questo Cielo tacciono, contrariamente agli altri Cieli in cui intonavano un canto sublime. Il beato risponde anzitutto a questa domanda, spiegando che Dante ha un udito mortale come la vista e quindi le anime non cantano per lo stesso motivo per cui Beatrice non sorride. In seguito, dichiara di essere sceso lungo la scala solo per manifestare la gioia dei beati per la presenza di Dante e non perché provi un amore più intenso verso di lui, in quanto le altre anime provano un amore pari o superiore al suo (come dimostrato dal loro splendore fiammeggiante). È stata la volontà divina a incaricare il beato di farsi incontro a Dante, facendo leva sul suo ardore di carità. Imperscrutabilità della predestinazione (73-102) Dante riprende la parola e afferma di capire come la carità spinga ad obbedire alla Provvidenza divina, ma vorrebbe sapere come mai proprio lui è stato destinato al compito di accoglierlo nel Cielo di Saturno. Dante non ha ancora finito la domanda, quando il beato inizia a ruotare velocemente sul proprio asse come una mola, quindi lo spirito spiega che la grazia divina penetra in lui e, unita al suo intelletto, lo eleva a tal punto che egli può vedere la somma essenza di Dio. Da qui nasce il suo splendore, che è pari alla gioia che prova nella visione divina: tuttavia, aggiunge, neppure il Serafino che è più vicino a Dio potrebbe dare una risposta adeguata alla sua domanda, poiché tale materia affonda nell'abisso del giudizio divino ed è lontanissima da ogni sguardo di creature umane o angeliche. Il beato esorta Dante ad ammonire il mondo, una volta tornato sulla Terra, a non presumere di comprendere tali misteri divini, poiché la mente che in Cielo è illuminata in Terra è come offuscata dal fumo, quindi l'uomo non può comprendere l'enigma della predestinazione da vivo dal momento che non può farlo neppure quando è beato. Lo spirito si presenta come Pier Damiani (103-126) La risposta dello spirito soddisfà a tal punto Dante che il poeta abbandona la questione della predestinazione e si limita umilmente a domandare l'identità del suo interlocutore. Questi spiega che sull'Appennino non lontano da Firenze sorge il monte Catria, al di sotto del quale si trova l'eremo camaldolese di Fonte Avellana che, un tempo, era destinato unicamente al culto di Dio. Qui il beato, quand'era sulla Terra, si ritirò a vita monastica e condusse un'esistenza umile, accontendandosi di cibi modesti e dedicandosi alla contemplazione di Dio. Un tempo, spiega il beato, quel monastero forniva molte anime sante al Paradiso, mentre oggi ne è privo e presto la cosa sarà evidente a tutti; in quel chiostro egli fu Pier Damiani e col nome di Pietro Peccatore fu nel monastero di S. Maria in Porto presso Ravenna, sul lido adriatico. Era vicino alla morte quando fu inisignito della dignità cardinalizia, indossando il cappello che ora passa da un individuo indegno a un altro ancora peggiore. jer Damiani contro il lusso dei prelati (127-142) San Pietro e san Paolo, prosegue Pier Damiani, vissero poveramente e chiedendo l'elemosina, accettando il cibo da chiunque, mentre ora i cardinali vogliono essere circondati da servi che li sorreggano da entrambi i lati, che li portino in carrozza e che sollevino lo strascico del mantello, tanto essi sono corpulenti e pesanti. Coi loro ampi mantelli coprono i loro cavalli, così che sotto di essi sembrano esserci non una ma due bestie: grande è la pazienza di Dio che sopporta un lusso così sfrenato! Dopo le ultime parole del beato, Dante vede scendere dall'alto molte luci di altre anime, facendosi più belle e luminose da un gradino all'altro; esse si fermano attorno a Pier Damiani ed emettono un grido fragoroso come un tuono, il cui significato Dante non riesce a comprendere. Interpretazione complessiva Il Canto è dedicato come parte del successivo alla descrizione del Cielo di Saturno, in cui a Dante si manifestano le anime di coloro che in vita, subendo l'influsso di questa stella, si diedero alla vita contemplativa e alla meditazione religiosa: sarà san Benedetto a spiegarlo con chiarezza in XXII, 46-48, mentre protagonista di questo Canto è il camaldolese san Pier Damiani che era forse la figura di spicco del monachesimo al tempo del poeta, che tuttavia (come si vedrà) mostra di non avere informazioni accurate sulla sua biografia. L'ascesa a questo Cielo non è avvertita da Dante contrariamente a quanto avvenuto in precedenza, neppure grazie all'accresciuto splendore di Beatrice, la quale infatti spiega che il suo sorriso ridurrebbe il poeta in cenere e questa è la stessa ragione per cui i beati non cantano (sarà Pier Damiani a precisare la cosa su domanda di Dante). Alcuni interpreti hanno visto nell'insolito silenzio di questo Cielo una similitudine con la pace e la tranquillità dei monasteri dove gli spiriti contemplanti hanno vissuto sulla Terra, mentre fin troppo chiara è la simbologia della scala dorata che si alza verso l'alto a perdita d'occhio e lungo la quale scendono le luci dei beati per parlare con Dante: sempre san Benedetto spiegherà che essa ha termine nell'Empireo dove queste anime normalmente risiedono (XXII, 68-72) e che si tratta della stessa scala vista in sogno da Giacobbe in Gen., XXVIII, 12 ss., generalmente interpretata come immagine della vita contemplativa. Anche l'insieme dei movimenti compiuti dalle anime intorno ai gradini della scala dorata rimandano a quelli degli angeli che Giacobbe vide scendere lungo quella sognata, senza per forza voler vedere una simbologia troppo precisa in ognuno di essi il prelato e tutto il suo seguito in un raffinato banchetto in cui fa sfoggio di magnificenza e liberalità (è questo il tema della Giornata conclusiva del Decameron). La vicenda dell'abate è una sorta di edificante apologo, poiché egli guarisce il suo stomaco astenendosi dai suoi stravizi culinari (il riferimento evangelico al pane e al vino ha un evidente significato religioso) e moderando anche il suo orgoglio nobiliare, al punto che non solo rinuncia ai suoi propositi vendicativi contro Ghino ma addirittura intercederà presso il papa Bonifacio VIII perché i due possano riconciliarsi, così che il papa nominerà il brigante frate dell'Ordine degli Spedalieri di San Giovanni di Gerusalemme, in virtù delle buone cure prestate all'abate di Cluny. Quanto meno curioso è poi il giudizio benevolo che Boccaccio dà non solo di Ghino, descritto come un nobile e magnificente signore e non come assassino e predone, ma dello stesso Bonifacio VIII, definito colui che di grande animo fu, e vago (compiaciuto) de' valenti uomini, il che contrasta con la condanna terribilmente severa che contro questo pontefice Dante pronunciò a più riprese nella Commedia: segno che i tempi in cui visse l'autore del Decameron erano decisamente cambiati e lo scrittore del tardo Trecento poteva guardare certi personaggi e episodi storici con occhio meno critico, nonostante il culto che Boccaccio nutrì verso Dante e la sua opera (ben diversa, del resto, era la natura della polemica anticlericale di Boccaccio, rivolta non tanto alla simonia e alla corruzione ma all'ipocrisia dei comportamenti dei religiosi, specie in materia sessuale). (per ulteriori informazioni è possibile visitare il sito www.decameron.weebly.com) Note e passi controversi Il v. 6 allude al mito di Semele (Ovidio, Met., III, 253 ss.), la figlia di Cadmo re di Tebe che divenne amante di Giove e dal quale generò Bacco: Giunone, desiderosa di vendicarsi, le apparve con le sembianze della sua nutrice e la convinse a chiedere a Giove di manifestarsi con tutta la sua maestà divina, cosa che il dio fece dopo aver invano cercato di dissuaderla; al suo apparire la giovane venne tramutata in cenere. Dante accenna al mito di Semele anche in Inf., XXIX, 1 ss. | vv. 14-15 si riferiscono al fatto che Saturno nel marzo-aprile del 1300 era in congiunzione con la costellazione del Leone. I vv. 25-27 alludono al mito secondo cui Saturno, dopo essere stato spodestato dal figlio Giove, regnò nel Lazio durante l'età dell'oro in cui l'umanità era felice. | vv. 28-30 sono stati interpretati in due modi: nel senso che la scala dorata scintilla ai raggi del sole, oppure che essa è trasparente ed è attraversata da essi (più probabile la prima). L'immagine deriva da Gen., XXVIII, 12 ss., secondo quanto detto da san Benedetto nel Canto XXII, ovvero la descrizione del sogno di Giacobbe: viditque in somnis scalam stantem super terram et cacumen illius tangens caelum angelos quoque Dei ascendentes et descendentes per eam («e vide in sogno una scala poggiata sulla terra, la cui cima toccava il cielo, mentre gli angeli di Dio salivano e scendevano attraverso di essa»). Le pole (v. 35) sono i corvi grigi, accostati agli eremiti per il loro carattere solitario e anche perché secondo una leggenda raccolta da Pier Damiani i corvi furono assai cari a san Benedetto e lo seguirono da Subiaco a Montecassino, dove nidificarono. Al v. 78 consorte è plur. femm. e significa «consorti», le anime che condividono la stessa sorte di Pier Damiani. Il v. 81 indica che la luce del beato inizia a ruotare orizzontalmente sul proprio asse, come la macina (mola) di un mulino. Alv. 84 m’inventro è probabile neologismo dantesco, derivato da «ventre» e significa «sto chiusa», «sto avvolta». L’alma citata al v. 91 è probabilmente Maria, colei che più a fondo legge nella mente divina. | Serafini (v. 92) sono la gerarchia angelica associata al IX Cielo del Primo mobile, quindi è la più vicina a Dio. | vv. 101-102 vogliono dire: «dunque guarda come può la mente umana in Terra comprendere quelle cose che non può capire neppure quando è accolta in Cielo». | vv. 106-111 indicano gli Appennini (i sassi), nel tratto Tosco-emiliano posto tra le coste del Tirreno e dell'Adriatico (Tra' due liti d'Italia), non molto distanti in effetti da Firenze e dove alcune cime raggiungono quota 2000 metri (quindi i tuoni cadono più bassi delle vette). Qui sorge il monte Catria, sotto il quale venne costruito l'eremo di Fonte Avellana in cui visse Pier Damiani. Làtria (la pronuncia esatta è latrìa) significa «culto riservato a Dio» e il vocabolo era forse noto a Dante attraverso Isidoro di Siviglia, Etym., VIII, 11. Al v. 115 cibi di liquor d’ulivi indicano cibi di magro, adatti a chi vive di penitenza e preghiera. Il v. 120 allude a una prossima rivelazione del fatto che simili monasteri ora sono vuoti, ma non sappiamo a cosa Dante si riferisca. La terzina ai vv. 121-123 è assai tormentata, per l'ambiguo significato di fu' che può voler dire «fui» o «fu» e quindi per l'incertezza dell'identità di Pietro Peccatore: potrebbe trattarsi di un altro personaggio effettivamente vissuto nella chiesa ravennate di S. Maria in Porto, un tempo accostato alla famiglia degli Onesti, oppure dello stesso Pier Damiani che talvolta si firmava Petrus peccator monacus (la questione è aperta). Il lito adriano (v. 123) è la costa adriatica. Non risponde a verità quanto detto ai vv. 124-125, poiché Pier Damiani divenne cardinale nel 1057 e dunque quindici anni prima della morte, avvenuta nel 1072 (Dante aveva sicuramente notizie incerte sulla sua biografia). Il cappello (v. 125) è il copricapo rosso simbolo della dignità cardinalizia, ma questa è un'altra inesattezza in quanto esso fu istituito solo nel 1252 da papa Innocenzo IV, anche se forse il personaggio vi allude in modo metaforico. Cefàs (v. 127) è il nome dato a Simone (san Pietro) da Gesù e vuol dire «pietra» in aramaico; il gran vasello / de lo Spirito Santo è invece san Paolo, detto così dall'espressione Vas electionis («strumento della scelta»: cfr. Inf., II, 28). L'espressione chi di rietro li alzi (v. 132) può alludere sia ai caudatari, i servi che sollevavano l'ampio strascico dei prelati, sia agli staffieri che li aiutavano a montare in groppa al cavallo; i palafreni (v. 133) sono in effetti le cavalcature. CANTO XXIII Argomento del Canto Ancora nell'VIII Cielo delle Stelle Fisse. Il trionfo di Cristo e la schiera di tutti i beati. Dante può sostenere il sorriso di Beatrice. Trionfo di Maria e apparizione dell'arcangelo Gabriele. Ascesa di Cristo e Maria all'Empireo. Apparizione di san Pietro. È il pomeriggio di giovedì 14 aprile (0 31 marzo) del 1300. Attesa di Beatrice (1-15) Beatrice sembra attendere con ansia l'arrivo di qualcuno o qualcosa, rivolta verso quella parte del Cielo sotto la quale il Sole sembra muoversi più lentamente: Dante la paragona a un uccello che aspetta il sorgere dell'alba su un ramo dell'albero, ansioso di andare in cerca di cibo con cui sfamare i suoi piccoli nati. Vedendola in quell'atteggiamento il poeta vorrebbe saperne la ragione, tuttavia si limita ad attendere in silenzio nella speranza di apprenderlo presto. Il trionfo di Cristo (16-45) Dante deve in realtà aspettare poco tempo, poiché d'improvviso vede il Cielo rischiararsi sempre di più, mentre Beatrice annuncia l'arrivo delle schiere dei beati e di Cristo in trionfo. Il volto della donna arde di carità e gli occhi sono pieni di gioia, al punto che il poeta deve rinunciare a descriverlo. Dante vede in seguito migliaia di luci, simili alle stelle che circondano la luna nelle notti serene, in quanto sono illuminate da una luce assai più intensa (Cristo): all'interno di essa il poeta scorge la figura umana di Gesù, ma essa trascende le sue capacità visive e non è in grado di sostenerla. Beatrice gli spiega che tale visione supera ogni forza, poiché essa rappresenta Colui che con la sua morte riaprì la strada fra Cielo e Terra. Dante sente che la sua mente esce da sé stessa, come il fulmine che esce dalla nube e scende in basso contro la sua natura, per cui non è in grado di riferire cosa essa fece in quel preciso momento. Il sorriso ineffabile di Beatrice (46-69) Beatrice esorta Dante a guardarla, poiché egli ha visto cose tanto alte (l'immagine umana di Cristo) che ormai è in grado di sostenere il suo sorriso. Il poeta è come colui che tenta di rammentare una visione avuta da poco e già dimenticata, quando raccoglie l'invito della donna con un tale piacere che, questo sì, non si cancellerà mai dalla sua memoria. Dante vorrebbe descrivere la bellezza del sorriso di Beatrice, ma se anche le Muse lo aiutassero con tutta la loro arte non arriverebbe a raffigurare che una minima parte di ciò che vide, per cui il suo poema sacro deve necessariamente saltare alcune parti. Il lettore deve considerare l'altezza del tema affrontato e capire i limiti della poesia umana di Dante, dal momento che la nave della sua arte percorre un tratto di mare impegnativo e degno del massimo impegno da parte del timoniere. Le anime dei beati illuminate da Cristo (70-87) Beatrice invita Dante a non fissare solamente il suo viso ma a rivolgere lo sguardo allo spettacolo del Cielo delle Stelle Fisse, che è come un giadino fiorito sotto i raggi di Cristo e in cui si trovano Maria, la rosa dove Cristo si fece uomo, e gli Apostoli, che con la loro predicazione misero l'umanità sul retto cammino. Dante raccoglie subito l'invito e vede moltissime luci a loro volta illuminate da una luce più grande, come i fiori di un prato sotto i raggi del sole che filtra tra le nubi. Cristo si è infatti innalzato per consentire a Dante di vedere tale spettacolo, poiché i suoi deboli occhi sarebbero stati abbagliati dal suo splendore. Trionfo di Maria. L'arcangelo Gabriele (88-111) Dante fissa subito lo sguardo sulla luce più intensa di Maria, colei il cui nome egli invoca mattina e sera, e non appena ne ha visto lo splendore e l'aspetto ecco che dall'alto scende una corona luminosa (l'arcangelo Gabriele) che circonda Maria e inizia a ruotare intorno a lei. Gabriele intona una dolcissima melodia, tale che anche la musica terrena più piacevole parrebbe, al confronto di quella, il fragore di un tuono. L'arcangelo dichiara di ardere d'amore per Maria, nel cui ventre nacque Gesù, e afferma che continuerà a girarle intorno finché la Vergine seguirà Cristo nell'Empireo, rendendo quel Cielo più bello di quanto non sia già. Mentre Gabriele compie il suo inno, tutti i beati intonano il nome di Maria. Cristo e Maria salgono all'Empireo. Apparizione di san Pietro (112-139) Il Primo Mobile, che avvolge con la sua sfera tutti i Cieli, è ancora molto distante da Dante e Beatrice, così il poeta non è in grado di seguire con lo sguardo Maria che sale verso l'alto coronata dall'arcangelo Gabriele, mentre segue suo figlio Cristo. Tutte le anime dei beati si protendono verso l'alto con la parte alta delle loro luci, simili albambino che è stato appena allattato dalla mamma e tende a lei le braccia per manifestarle il suo affetto; poi restano al cospetto di Dante, cantando il Regina celi con tale dolcezza che il ricordo non lascerà mai il poeta. Grandissima è la beatitudine di quelle anime che, sulla Terra, furono abili a seminare e qui, in Cielo, raccolgono i frutti della loro bontà, dopo l'esilio terrestre simile a quello di Babilonia. Qui celebra il proprio trionfo sui beni mondani anche san Pietro, che ricevette da Cristo le chiavi del Paradiso e che ora condivide la felicità eterna coi beati del Vecchio e del Nuovo Testamento. La similitudine dei vv. 25-27 allude a Trivia, la Luna identificata dagli antichi con Diana, che nelle notti di plenilunio sereno risplende tra le ninfe etterne, le stelle, come Cristo illumina col suo splendore i beati. Al v. 30 le viste superne sono le stelle, che al tempo di Dante si credeva erroneamente che fossero illuminate dal Sole (cfr. XX, 6). Al v. 32 la lucente sustanza è la figura umana di Cristo, che Dante intravede attraverso la sua luce. Alv. 43 dape, «vivande», è latinismo e ha quest'unica occorrenza nel poema. L'immagine della mente di Dante che si dilata fino a uscire da se stessa (vv. 40-45) è tipica degli scrittori mistici che descrivono l'excessus mentis, ovvero l'esperienza mistica del rapimento in estasi: cfr. ad es. Gregorio Magno (Dial., II, 35) che a proposito di san Benedetto dice non coelum et terra contracta est, sed videntis animus dilatatus, quia Deo raptus videre sine difficultate potuit («non furono la terra e il cielo a restringersi, ma fu l'animo di colui che vede a dilatarsi; rapito da Dio, poté vedere senza difficoltà»). La visione oblita del v. 50 è quella della figura umana di Cristo, che Dante tenta invano di ricordare. Il libro che "| preterito rassegna (v. 54) è quello della memoria. Al v. 56 Polimnia è la Musa della poesia lirica, il cui nome in greco vuol dire «dai molti inni»; al v. 57 pingue è plur. femminile, riferito a lingue. L'immagine dell'ispirazione poetica come latte che deve nutrire i poeti è già stata usata in Purg., XXII, 101-102 (quel Greco / che le Muse lattar più ch'altri mai, riferito ad Omero). Al v. 67 pareggio vale «lungo e difficile tratto di mare»; alcuni mss. leggono pileggio. Ai vv. 73-75 la rosa è Maria, mentre i gigli sono gli Apostoli. Alv. 79 mei, «trapassi», è latinismo (meare, già usato in XIII, 55). Il v. 93 vuol dire che la luce di Maria vince col suo splendore quella degli altri beati in Cielo, così come sulla Terra vinse con la sua virtù tutte le altre creature. Al v. 107 dia vuol dire «divina», nel senso di «splendente» (cfr. XIV, 34). La spera supprema (v. 108) è l'Empireo, dove Maria sale per seguire Cristo; invece, il real manto (v. 112) è il Primo Mobile, che circonda tutti gli altri Cieli. Alv. 132 bobolce è latinismo (da bubulcus, «bifolco») e indica le anime dei beati come lavoratrici abili a coltivare il bene sulla Terra; altri l'hanno interpretato come «terre da arare», ipotesi meno probabile ma che non cambia il senso generale. L'antico e.... novo concilio (v. 138) sono le schiere dei beati del Vecchio e Nuovo Testamento. Il v. 139 allude ovviamente a san Pietro. CANTO XXVII Argomento del Canto Ancora nell'VIII Cielo delle Stelle Fisse. Invettiva di san Pietro contro la corruzione della Chiesa; profezia di un futuro intervento divino. Ascesa di Dante e Beatrice al Primo Mobile. Invettiva di Beatrice contro la cupidigia degli uomini. È il tardo pomeriggio di giovedì 14 aprile (0 31 marzo) del 1300. I beati intonano il Gloria. San Pietro arrossisce di sdegno (1-15) Tutti i beati intonano il Gloria alla Trinità, con un canto talmente dolce che riempie Dante di ebbrezza, poiché al poeta sembra di vedere il riso di tutto l'Universo: egli è commosso di fronte all'indicibile gioia che proviene dalla felicità eterna, contrapposta alla brama delle ricchezze materiali. Le quattro luci delle anime di san Pietro, san Giacomo, san Giovanni e Adamo restano splendenti di fronte ai suoi occhi, poi quella di Pietro aumenta il suo fulgore e assume un colore rossastro, proprio come se Giove fosse un uccello e scambiasse le sue penne con quelle di Marte. Invettiva di Pietro contro la corruzione della Chiesa (16-36) La Provvidenza divina ha posto fine al coro dei beati, quindi san Pietro spiega a Dante che non deve stupirsi del fatto che è arrossito, in quanto alle sue parole faranno lo stesso tutte le altre anime. Il santo ‘aggiunge che colui (Bonifacio VIII) che usurpa in Terra il soglio pontificio, ha trasformato il Vaticano in una sordida cloaca a causa dei suoi traffici, al punto che Lucifero gode della corruzione della Chiesa. Dante vede allora tutto l'VIII Cielo assumere un colore rossastro, come una nuvola illuminata dal sole all'alba o al tramonto, ed anche Beatrice arrossisce come una donna onesta che ascolta le parole peccaminose altrui. San Pietro profetizza il futuro intervento divino (37-66) San Pietro prosegue nelle sue accuse, con voce non meno alterata del suo aspetto, dicendo che la Chiesa non è stata alimentata dal sangue suo e degli altri papi martirizzati per essere usata al fine di arricchirsi, bensì il sacrificio di quei pontefici era rivolto a meritare la vita eterna. L'intenzione sua e degli altri papi non era certo consentire ai successori corrotti di dividere il popolo cristiano, né di usare il simbolo delle chiavi di Pietro come vessillo per combattere gente battezzata; Pietro freme di sdegno al pensiero che la sua effigie sia stampata sui documenti con cui vengono venduti i privilegi e i benefici ecclesiastici. | papi, che dovrebbero essere pastori, sono diventati lupi famelici, per cui Pietro invoca il soccorso divino: pontefici come Clemente V e Giovanni XXII si apprestano a ricavare lucro dalla Chiesa, un esito ben triste per un'istituzione creata con santa intenzione. Ma la Provvidenza divina, prevede Pietro, interverrà presto come già fece con Scipione per salvare Roma, per cui Dante è invitato a non nascondere questo, ma anzi a rivelarlo una volta che sarà tornato nel mondo. Ascesa dei beati all'Empireo. Dante e Beatrice salgono al Primo Mobile (67-102) Come dal cielo cadono fiocchi di neve nel pieno dell'inverno, sulla Terra, così in Paradiso Dante vede le anime dei beati salire lentamente in alto, dirette all'Empireo; il suo sguardo le segue finché non sono troppo distanti e le perde di vista, quindi Beatrice invita Dante ad abbassare lo sguardo e ad osservare quanto spazio egli abbia percorso ruotando insieme all'VIII Cielo. Il poeta obbedisce e si accorge di aver percorso circa novanta gradi, poiché guardando la Terra vede a ovest di Cadice lo stretto di Gibilterra, e a est quasi fino alle coste della Fenicia. Vedrebbe una parte maggiore della Terra, se il Sole non avesse già percorso più di un segno zodiacale, per cui la parte più a oriente è già in ombra. Dante arde dal desiderio di guardare nuovamente Beatrice e quando lo fa il suo sorriso è di tale bellezza che supera qualunque allettamento terreno che possa attirare lo sguardo. La virtù degli occhi della donna stacca Dante dalla costellazione dei Gemelli e lo spinge nel IX Cielo, il Primo Mobile che ruota velocissimo: esso è uniforme in ogni sua parte, per cui il poeta non sa dire in quale punto sia penetrato nella sua sfera trasparente. Caratteristiche del Primo Mobile (103-120) Beatrice intuisce la curiosità di Dante e inizia a parlare, sorridendo lietamente come se Dio risplendesse nel suo volto: spiega che il principio animatore del mondo, che tiene la Terra ferma al centro dell'Universo e fa ruotare gli altri pianeti, inizia da questo Cielo. Il Primo Mobile trae la virtù che lo fa ruotare e con cui irraggia l'influsso astrale sugli altri Cieli dalla mente di Dio, che lo avvolge come esso fa con le altre sfere celesti, in un modo comprensibile solo al Creatore. Il suo movimento non può essere misurato, al contrario di tutti gli altri movimenti che hanno la loro unità di misura nel Primo Mobile, ed anche il tempo trae la sua origine da questo Cielo. Invettiva di Beatrice contro la cupidigia (121-148) Beatrice accusa la cupidigia degli uomini, che li tiene a terra e impedisce loro di sollevare lo sguardo al Cielo: il desiderio del bene è innato nell'uomo, ma la corruzione e la mancanza di una guida sicura lo rende guasto e totalmente sterile. L'innocenza è propria solo dei bambini e li abbandona prima che a questi cresca la barba, cosicché chi ancora non sa parlare pratica la virtù, ma appena cresce e apprende il linguaggio si dedica subito a ogni vizio; e chi ancora non sa parlare ama e rispetta la propria madre, augurandole poi la morte quando è diventato adulto. Così la pelle bianca diventa scura al primo apparire dell'Aurora, cioè l'umanità da buona diventa malvagia: Dante deve pensare al fatto che sulla Terra non c'è un'autorità che governi, laica o ecclesiastica, e questa è la causa della corruzione degli uomini. Tuttavia, prima che gennaio esca del tutto dall'inverno a causa dello sfasamento del calendario, ci sarà un intervento divino che raddrizzerà la situazione e ristabilirà virtù e giustizia dove ora c'è soltanto la decadenza morale. Interpretazione complessiva Il Canto è suddiviso in due parti distinte, il cui filo conduttore è la rampogna della corruzione del mondo e il preannuncio di un futuro intervento divino destinato a ristabilire la giustizia: nella prima, infatti, san Pietro prorompe in una violenta invettiva contro la corruzione della Chiesa e i papi simoniaci, in particolare Bonifacio VIII già più volte bersaglio delle accuse di Dante, mentre nella seconda (dopo l'ascesa al Primo Mobile e la descrizione del IX Cielo) è Beatrice a rimproverare la cupidigia degli uomini, contro la quale si abbatterà la punizione divina come sui pontefici corrotti. L'episodio si apre del resto con il grandioso spettacolo del Gloria intonato da tutte le anime, che riempie Dante di ebbrezza e lo spinge a inneggiare alla vera felicità che proviene dalla beatitudine eterna, in contrasto con le ricchezze materiali: le sue parole preparano il terreno all'invettiva di Pietro, sottolineata dal colore rossastro che assume la sua luce come quella di tutti gli altri beati e dello stesso VIII Cielo, che simboleggia lo sdegno provato da tutto il Paradiso per la vergogna della Chiesa corrotta (Dante rappresenta la scena con la similitudine paradossale di Giove e Marte, paragonati a due uccelli che si scambino le piume, e con quella naturalistica della nube colorata di rosso all'alba o al tramonto). Le parole di Pietro vengono sottolineate dal silenzio di tutti i beati e si qualificano come un durissimo attacco anzitutto a Bonifacio VIII, il papa presente sul soglio pontificio al momento dell'immaginario viaggio (primavera del 1300), che il santo accusa di «usurpare» il suo posto come successore indegno e di aver tramutato il Vaticano in cui lui è sepolto in una cloaca / del sangue e de la puzza: il riferimento è alle circostanze in cui Bonifacio succedette a Celestino V (cfr. Inf., XIX, 52-57) e forse all'illegittimità della sua elezione, mentre di sicuro Pietro rinfaccia al papa di sfruttare la sua carica per arricchirsi illecitamente, tanto da procurare piacere coi suoi atti a Lucifero che dal Cielo venne precipitato al centro della Terra. Il linguaggio crudo e a tratti volgare di Pietro è ripreso poco oltre, dopo la descrizione del «trascolorare» di tutto il Cielo e di Beatrice, attraverso il paragone con l'oscuramento del Sole il giorno della morte di Cristo (il rosso è anche il colore del sangue, più volte evocato nel discorso del santo, mentre non va scordato che il papa è appunto il vicario di Cristo in Terra): Pietro crea un contrasto fra se stesso e i primi papi, che vennero martirizzati per costruire la Chiesa delle origini, e i papi attuali, per i quali la sposa di Cristo serve unicamente come fonte di guadagno illecito, per cui l'effigie di Pietro compare sui documenti papali con cui si fa compravendita di cose sacre e il simbolo delle chiavi fregia i vessilli con cui si fa guerra ai battezzati anziché agli infedeli, come nel recente assedio di Palestrina ad opera proprio di Bonifacio (cfr. Inf., XXVII, 85 ss.). | papi simoniaci sono definiti lupi rapaci con immagine scritturale, come del resto pieno di furore biblico è l'intero discorso (con accenti simili all'invettiva di Dante contro Niccolò III in Inf., XIX) e Pietro profetizza anche le ruberie di due successori di Bonifacio VIII, Clemente V e Giovanni XXI I vv. 79-81 alludono alla divisione della Terra in sette climi operata dagli antichi geografi: erano delle fasce parallele che andavano dall'Equatore alle zone fredde, corrispondenti ai vari climi della zona abitabile del globo, aventi una longitudine di 180 gradi; Dante intende dire di aver ruotato insieme al Cielo delle Stelle Fisse dal centro alla fine del primo clima, quindi di 90 gradi. Al v. 82 Gade è Cadice, in Spagna, a occidente della quale si scorge il varco / folle d'Ulisse (l'oceano da lui percorso). Ai vv. 83-84 il lido è la Fenicia, dove secondo il mito la ninfa Europa salì in groppa a Giove tramutatosi in toro, che in tal modo la rapì; si obietta che in base alla complessa descrizione astronomica la Fenicia dovrebbe essere in ombra e non visibile a Dante dalla sua posizione, ma la sua indicazione è forse più generica oppure il poeta confondeva la Fenicia con Creta dove Europa venne portata (cfr. Ovidio, Met., II, 833 ss.). Al v. 88 donnea vuol dire «vagheggia amorosamente». Alv. 98 il bel nido di Leda è la costellazione dei Gemelli, così detta in quanto Castore e Polluce, la cui figura è ricordata dal segno zodiacale, nacquero dall'uovo di Leda fecondato da Giove tramutatosi in cigno. Al v. 108 meta si riferisce probabilmente alla colonnina che nel circo dell'antica Roma segnava il punto in cui i carri dovevano girare durante la corsa: Dante intende dire che il Primo Mobile è il principio e la fine del mondo sensibile. | vv. 109-111, variamente interpretati, vogliono dire: «Questo Cielo (il Primo Mobile) non ha altra collocazione se non la mente divina (che corrisponde all'Empireo), in cui si accendono l'amore che lo fa ruotare e la virtù che esso esercita». Il X Cielo non è un luogo fisico ma corrisponde alla mente di Dio, Luce e amor (v. 112) che circondano il IX Cielo e imprimono ad esso il movimento. Il v. 117 intende dire che tutti i movimenti fisici sono commisurati a quello del Primo Mobile, come il numero dieci è commisurato al cinque e al due (suoi sottomultipli). Al v. 118 testo è lat. per «vaso». | vv. 125-126 si rifanno forse all'antico proverbio secondo cui «Quando piove la domenica di Passione, ogni susina va in bozzacchione»: i bozzacchioni sono le susine vuote e guaste, mentre la pioggia fuor di metafora è l'ambiente corrotto che influisce negativamente sugli uomini. | vv. 136-138 sono una delle cruces interpretative del poema, poiché non è chiaro a cosa alluda Dante con la bella figlia / di quel ch'apporta mane e lascia sera: potrebbe trattarsi dell'Aurora, la figlia mitologica di Iperione, oppure la Chiesa, figlia di Dio, o ancora Circe, figlia del Sole nel mito. La terzina vuol forse dire che la pelle bianca, al primo apparire della luce dell'Aurora, diventa scura, quindi (fuor di metafora) gli uomini nascono inclini al bene e poi si corrompono. La questione è tutt'altro che conclusa. | vv. 142 ss. vogliono dire che, prima che passino migliaia di anni (litote per dire «fra breve») avverrà l'intervento divino: Dante allude alla necessaria riforma del calendario adottato da Giulio Cesare nel 46 a.C., che prevedeva un anno bisestile ogni quattro ma lasciava 12 minuti di eccedenza l'anno, per cui l'anno civile restava in lieve ritardo rispetto a quello astronomico. Senza una modifica (che sarebbe avvenuta nel 1582 col calendario gregoriano, tuttora in vigore) l'equinozio di primavera sarebbe caduto 90 giorni prima, quindi a gennaio che sarebbe uscito dall'inverno (ciò sarebbe avvenuto in realtà 90 secoli dopo il 1300). La centesma è la centesima parte del giorno, appunto i 12 minuti di eccedenza rispetto all'anno astronomico. Alv. 142 Gennaio è bisillabo per trittongo. Al v. 145 fortuna può voler dire «fortunale», «tempesta», ma anche (più probabilmente) «Provvidenza». Al v. 147 classe è lat. per «flotta». CANTO XXX Argomento del Canto Scomparsa dei cori angelici e accresciuta bellezza di Beatrice. Ascesa al X Cielo (Empireo): il fiume di luce e la candida rosa dei beati. Il seggio di Arrigo VII di Lussemburgo. È la notte di giovedì 14 aprile (o 31 marzo) del 1300. Scomparsa dei cori angelici e accresciuta bellezza di Beatrice (1-33) Quando sulla Terra è l'alba e a circa seimila miglia di distanza arde il sole di mezzogiorno, le stelle in cielo cominciano a farsi meno lucenti, man mano che procede l'aurora, fino a che scompare anche la stella più luminosa per il sopraggiungere del giorno. In maniera simile i cerchi luminosi (i cori angelici) iniziano a diventare meno visibili agli occhi di Dante, finché il poeta non vede più nulla e torna a fissare gli occhi di Beatrice: la bellezza della donna è tal punto aumentata che tutte le parole di lode rivolte a lei finora sarebbero insufficienti a rappresentarla e il suo aspetto è così sovrumano che solo Dio può goderlo pienamente. Dante confessa la sua incapacità poetica a raffigurare una tale bellezza, giacché il solo ricordarla indebolisce la sua mente come la luce del sole offusca una vista debole. Egli ha descritto le bellezze di Beatrice dal giorno del loro primo incontro fino a questa visione, senza interruzioni, ma ora è costretto a rinunciare per la sua inadeguatezza di scrittore, come un artista che che è giunto al limite estremo delle sue possibilità. Ascesa di Dante e Beatrice all'Empireo (34-54) Così splendida e bella quale Dante non è in grado di descriverla, Beatrice informa il poeta che hanno lasciato il Primo Mobile e sono saliti all'Empireo, il Cielo che è pura luce piena di intelletto, di amore, di bene e di gioia, dove Dante vedrà il trionfo degli angeli e dei beati, questi ultimi col loro corpo mortale di cui si riapproprieranno il Giorno del Giudizio. Dante è subito avvolto da una luce vivissima, che sulle prime gli impedisce di vedere alcunché, proprio come gli occhi quando sono colpiti da un lampo improvviso: Beatrice gli spiega che l'Empireo accoglie sempre in tal modo l'anima che vi ascende, per disporla alla visione di Dio. Il fiume di luce (55-81) Dante non fa in tempo ad ascoltare le parole di Beatrice quando capisce di aver acquistato una facoltà visiva maggiore di quella naturale, poiché ora è in grado di osservare coi suoi occhi qualunque luce, anche la più intensa: infatti vede una luce simile a un fiume, che scorre tra due rive piene di fiori, e dal fiume escono delle faville che si avvicinano ai fiori, simili a rubini incastonati in monili d'oro. Le faville tornano poi a sprofondarsi nel fiume di luce, in modo tale che quando una esce un'altra entra, e viceversa. Beatrice osserva che Dante arde dal desiderio di sapere cosa sta vedendo e ciò la riempie di gioia, tuttavia il poeta deve guardare quello spettacolo ancora un po' prima di capire di che si tratta: infatti quel fiume di luce è un'immagine che adombra ben altra verità (gli angeli e i beati), per osservare la quale gli occhi di Dante non sono ancora dotati di una vista sufficiente, quindi è necessaria una sorta di velata prefigurazione. La candida rosa dei beati (82-123) Dante si affretta a fissare lo sguardo nel fiume di luce, proprio come un neonato che si sveglia più tardi del solito e si getta verso il latte: gli occhi di Dante assaporano quella visione e d'improvviso il fiume gli sembra essere diventato di forma circolare, simile a un lago, mentre in seguito i fiori e le faville si trasformano, come persone che gettano la maschera indossata fino a quel momento, cosicché Dante può vedere entrambe le corti celesti, quella degli angeli e quella dei beati. Dante invoca la luce divina affinché gli dia modo di rappresentare al meglio l'alto trionfo del Paradiso che si offrì alla sua visione: egli ha visto la luce di Dio, che rende il Creatore visibile alle creature ammesse nell'Empireo, e che ha forma circolare e dimensioni tanto estese che l'ampiezza del Cielo del Sole sarebbe di gran lunga inferiore. La luce di questa rosa celeste si riflette sulla superficie concava del Primo Mobile, che da essa trae il proprio movimento e la virtù che riverbera sugli altri Cieli, e così come un colle fiorito si specchia nell'acqua di un lago sottostante, allo stesso modo Dante vede le anime dei beati che si specchiano nella luce della rosa, disposte in più di mille gradini. Il più basso di questi emana una luce grandissima, quindi il lettore può capire quanto sia estesa la rosa nei gradini superiori: tuttavia lo sguardo di Dante non vi si smarrisce, in quanto nella rosa dei beati la maggiore o minore distanza non toglie e non dona nulla alla visione, dal momento che le leggi naturali lì non hanno alcun valore. Il seggio di Arrigo VII di Lussemburgo (124-148) Beatrice conduce Dante al centro di quella rosa celeste, che si estende per gradi ed emana un profumo di lode al sole (Dio) che non conosce mai inverno, mentre il poeta tace pur volendo porre domande: la donna spiega che quello è il concilio dei beati, la Gerusalemme celeste che si estende in tutta la sua ‘ampiezza e nella quale i seggi sono già quasi tutti occupati, in quanto ben pochi mortali sono ormai destinati al Cielo. Beatrice indica a Dante un seggio su cui è posta una corona e gli spiega che su di esso siederà, prima della morte del poeta stesso, l'anima di Arrigo VII di Lussemburgo, che sarà imperatore e verrà a raddrizzare l'Italia quando questa non sarà ancora pronta a riceverlo. La folle cupidigia ha reso gli uomini simili al lattante che muore di fame, e tuttavia caccia via la nutrice: al tempo di Arrigo sarà a capo della Chiesa un papa (Clemente V) che si comporterà con l'imperatore in modo ambiguo, causandone indirettamente la sconfitta. Tuttavia, Dio non sopporterà che tale pontefice resti a lungo in carica, poiché egli sarà presto sprofondato nella stessa buca delle Malebolge dove già si trova Simon mago e dove spingerà verso il fondo papa Bonifacio VIII. Interpretazione complessiva Il Canto apre la descrizione dell'Empireo che occuperà gli ultimi quattro della Cantica e del poema, insieme alla presentazione diretta dei cori angelici e della candida rosa dei beati che farà da preludio alla visione di Dio come conclusione del viaggio ultraterreno: c'è quindi ancora una volta un innalzamento dello stile e del linguaggio, già all'inizio del Canto con la complessa similitudine astronomica delle stelle che pian piano svaniscono alla luce del mattino, paragonate alla graduale scomparsa dei cerchi luminosi, e in seguito con l'appassionata lode alla bellezza di Beatrice che, a detta di Dante, è talmente sovrumana da poter essere goduta pienamente soltanto da Dio. È qualcosa di più della consueta ammissione da parte del poeta della sua inadeguatezza a descrivere lo splendore della visione celeste, in quanto Beatrice perde quel poco di umano che finora aveva conservato per riacquistare tutta la sua essenza ultraterrena, anche in ragione del suo significato allegorico di grazia santificante: è lei infatti a preparare Dante all'ascesa al X Cielo, in cui gli verranno mostrati non solo i cori angelici ma anche i beati con il corpo mortale che, in realtà, riavranno materialmente solo il Giorno del Giudizio (al poeta è dunque concesso un altissimo e unico privilegio) e di lì a poco, all'inizio del Canto XXXI, il posto di Beatrice come guida sarà rilevato da san Bernardo che accompagnerà Dante alla visione finale della mente divina. Anche l'ingresso nell'Empireo ha qualcosa di solenne e introduce a una nuova più alta rappresentazione, lontanissima dalle rozze descrizioni paradisiache degli scrittori precedenti benché fatta di immagini molto semplici, per cui poco oltre il poeta invocherà nuovamente l'assistenza dell'ispirazione divina in una sorta di proemio al finale di Cantica: Dante è subito avvolto da una luce intensissima che gli impedisce di vedere qualunque cosa, per poi acquistare una accresciuta capacità visiva che gli consentirà di vedere il trionfo degli angeli e dei beati, sia pure attraverso tappe graduali (è Ai vv. 43-45 l'una e l'altra milizia / di paradiso sono gli angeli e i beati, questi ultimi mostrati a Dante col corpo mortale di cui si rivestiranno il Giorno del Giudizio (a l'ultima giustizia). Al v. 46 discetti è lat. per «disperda», «disgreghi». | vv. 49-51 sembrano un riferimento al racconto di san Paolo negli Atti degl Apostoli (XXII, 6-11), quando racconta la folgorazione sulla via di Damasco: subito de caelo circumfulsit me lux copiosa... cum non viderem prae claritate luminis illius («d'improvviso una gran luce scesa dal Cielo mi avvolse, e non vedi più nulla per lo splendore di quel lume»). Al v. 53 salute vuol dire «saluto», ma anche, ambiguamente, «salvezza», «beatitudine». Alcuni mss. al v. 62 leggono fluvido, lat. per «fluente», mentre nella lezione a testo l'aggettivo indica lo splendore rosseggiante della luce (dal lat. fulvus). Si tenga presente che il volto degli angeli era spesso rappresentato di colore rosso, mentre più avanti (v. 66) essi sono descritti come rubini. Alv. 63 primavera significa «fioritura primaverile». Al v. 68 miro gurge è lat. per «gorgo mirabile». Al v. 78 umbriferi prefazi indicano gli adombramenti della verità che si presentano a Dante, ovvero l'immagine del fiume di luce e dei fiori (prefazio è lat. da praefatio, «anticipazione», «preludio»). Al v. 82 fantin sta per «bambino», «lattante» (cfr. fantolin, XXIII, 121; più oltre, al v. 140). Il v. 87 vuol dire che scorre affinché vi si diventi migliori (il vb. s'immegli è prob. neologismo dantesco). La similitudine dei vv. 91-96 allude a persone che hanno indossato delle maschere (larve) e che poi le gettano, mostrando così il loro vero volto (allo stesso modo Dante ora vede il reale aspetto degli angeli e dei beati). Nei vv. 95-99 è ripetuta per tre volte la stessa parola-rima, vidi, cosa che in precedenza è avvenuta solo col nome di Cristo (cfr. XII, 71-75; XIV, 104-108; XIX, 104-108). I vv. 103-105 vogliono dire probabilmente che l'ampiezza della rosa dei beati è superiore a quella del Cielo del Sole, non del Sole stesso Il v. 121 vuol dire che nell'Empireo la distanza e la vicinanza non tolgono né aggiungono nulla alla visione, poiché in questo Cielo Dio governa in modo immediato (sanza mezzo). Al v. 124 il giallo della rosa sempiterna indica il centro della rosa dei beati, con la metafora degli stami gialli al centro del fiore. Al v. 125 redole sono lat. per «profuma» (cfr. DVE, I, 16, 4). Alv. 126 verna ha il senso di «far primavera», dal lat. ver, veris (primavera). Al v. 127 colui che tace e dicer vole è Dante. Al v. 129 le bianche stole sono le anime bianche dei beati, forse rivestite dei loro corpi terreni (cfr. XXV, 95). Il v. 135 indica che l'anima di Arrigo VII di Lussemburgo occuperà il suo seggio nella rosa prima della morte di Dante, dopo la quale egli siederà a sua volta a questo banchetto nuziale (tale metafora per indicare la beatitudine era frequente nel testo biblico). Al v. 136 agosta vuol dire «augusta» e allude alla dignità imperiale di Arrigo VII. | vv. 142 ss. alludono a Clemente V, che sarà papa (prefetto nel foro divino) all'epoca dell'impero di Arrigo VII; egli ingannerà il sovrano prima promettendogli e poi negandogli il suo appoggio, causando così il suo fallimento. Beatrice profetizza la sua dannazione fra i simoniaci della III Bolgia, dove spingerà più a fondo nella buca papa Bonifacio VIII, destinato a sua volta alla dannazione (questi è indicato velatamente come quel d'Alagna, ovvero colui che era nativo di Anagni, nel Lazio). CANTO XXXIII Argomento del Canto Ancora nel X Cielo (Empireo). Preghiera di san Bernardo alla Vergine e intercessione di Maria. Dante fissa lo sguardo nella mente di Dio: visione dell'unità dell'Universo. | misteri della Trinità e dell'Incarnazione. Folgorazione e supremo appagamento di Dante. È mezzanotte di giovedì 14 aprile (o 31 marzo) del 1300. Preghiera di san Bernardo alla Vergine (1-39) San Bernardo si rivolge alla Vergine e la invoca come la più alta e la più umile di tutte le creature, colei che ha nobilitato la natura umana a tal punto che Dio non ha disdegnato di incarnarsi nell'umano. Nel ventre di Maria si riaccese l'amore tra Dio e gli uomini, che ha fatto germogliare la rosa celeste dei beati; ella è per questi ultimi una perenne luce di carità e fonte di speranza per i mortali. La grandezza della Vergine è tale che benevolmente concede ogni grazia, spesso addirittura prevenendone la richiesta, poiché in lei albergano la pietà, la magnificenza, la bontà. Dante, spiega Bernardo, è giunto all'Empireo dal profondo dell'Inferno e ha visto lo stato delle anime dopo la morte, quindi supplica Maria di concedergli la virtù sufficiente per figgere lo sguardo nella mente di Dio. Il santo le porge tutte le sue preghiere affinché gli venga concesso questo, che egli desidera per Dante più di quanto l'abbia mai bramato per sé, e chiede alla Vergine di dissipare ogni velo che offusca gli occhi mortali del poeta. La implora infine di conservare puri i sentimenti di Dante dopo una tale visione, poichè la Regina del Cielo può ottenere tutto ciò che vuole, e la invita ad accogliere la sua preghiera alla quale si uniscono idealmente tutti i beati della rosa, inclusa Beatrice. Intercessione di Maria. Dante fissa lo sguardo nella luce divina (40-66) Maria tiene il suo sguardo fisso in quello di san Bernardo, dimostrando così di accogliere la sua preghiera, poi lo rivolge alla luce di Dio, nella quale solo lei può addentrarsi con tanta chiarezza. Dante si avvicina al compimento di tutti i suoi desideri, cosicché consuma in sé tutto il proprio ardore, mentre Bernardo con un cenno e un sorriso lo esorta a guardare in alto. La vista di Dante, diventando via via più chiara, si inoltra nella luce divina e da quel momento in poi la visione del poeta è tale che il linguaggio è insufficiente a esprimerla, così come anche la memoria non è in grado di ricordarla pienamente. Dante è simile a colui che sogna e, al risveglio, non ricorda nulla pur conservando nell'animo una forte impressione, in quanto egli ha dimenticato quasi tutta la sua visione e conserva in cuore la dolcezza infinita che essa gli provocò. La neve si scioglie al sole in modo simile e così le foglie con su scritto il responso della Sibilla si disperdevano al vento. Invocazione di Dante: visione dell'unità dell'Universo (67-108) Dante invoca la luce di Dio affinché essa gli consenta di ricordare in minima parte come essa gli si mostrò al momento della visione, e renda il suo linguaggio tale da poter lasciare ai posteri almeno una scintilla della Sua gloria, cosicché le parole del poeta possano esprimere la vittoria divina. Dante figge dunque lo sguardo nella mente di Dio e resterebbe smarrito se ne distogliesse gli occhi: il poeta acquista coraggio per sostenere quella straordinaria visione e addentra così il suo sguardo nell'infinito, spingendo la vista alle sue possibilità estreme. Dante vede nella mente divina tutto l'Universo legato in un volume, sostanze, accidenti e i loro rapporti uniti insieme; scorge l'essenza divina che unifica in un tutto armonico le cose create, e parlando di questo ancora oggi sente accrescere in sé la gioia. L'attimo della visione è stato ormai da lui dimenticato, più di quanto l'impresa della nave Argo (la prima a solcare il mare e a fare stupire il dio Nettuno) sia stata dimenticata in oltre venticinque secoli. Dante continua a tenere lo sguardo fisso nella luce divina, essendo impossibile volgere gli occhi altrove, poiché tutto il bene possibile è racchiuso in essa e ciò che lì è perfetto al di fuori è difettoso. Ormai ciò che riferirà della visione sarà meno di quanto potrebbe dire un bambino che sia ancora allattato dalla madre. Il mistero della Trinità (109-126) La viva luce che Dante osserva è sempre uguale a sé stessa, tuttavia è Dante a cambiare dentro di sé man mano che la sua vista si accresce, quindi quella visione muta al mutare del suo atteggiamento interiore. All'interno di essa crede di vedere tre cerchi, delle stesse dimensioni e di colori diversi (la Trinità), e mentre il secondo (il Figlio) sembra il riflesso del primo (il Padre), come un arcobaleno che ne crea un altro, il terzo (lo Spirito Santo) è come una fiamma che spira ugualmente dai primi due. Il linguaggio di Dante è del tutto insufficiente a esprimere la propria visione, e questa, in rapporto all'essenza della Trinità, è davvero un nulla: egli ha visto la luce eterna che trova fondamento in sé stessa, si comprende da sé e, compresa da se stessa, arde d'amore. Il mistero dell'Incarnazione (127-138) Dante si sofferma ad osservare il secondo cerchio (il Figlio), che sembra il riflesso del primo, e gli pare di vedere al suo interno l'immagine umana, dello stesso colore del cerchio e, tuttavia, perfettamente visibile. Il poeta è simile allo studioso di geometria, che cerca in ogni modo di risolver il problema della quadratura del cerchio e non vi riesce perché gli manca un elemento fondamentale: anche lui cerca di capire quale sia il rapporto tra l'immagine e il cerchio, benché le sue sole forze siano insufficienti. Folgorazione e supremo appagamento di Dante (139-145) Dante riconosce la propria incapacità a comprendere il mistero dell'Incarnazione dell'umano nel divino, fino a quando la sua mente viene colpita da un alto fulgore che, in una sorta di rapimento mistico, appaga il suo desiderio. Alla sua immaginazione ora mancano le forze, tuttavia l'amore divino ha ormai placato la sua volontà di conoscere, muovendola come una ruota che si muove in modo regolare e uniforme. Interpretazione complessiva L'ultimo Canto del Paradiso e del poema appare diviso nettamente in due parti, corrispondenti alla preghiera che san Bernardo rivolge alla Vergine perché questa interceda presso Dio e consenta a Dante la visione finale della Sua essenza (vv. 1-39) e alla descrizione della visione stessa (vv. 40-145), che nonostante si concluda con la «folgorazione» mistica che permette a Dante l'appagamento di tutti i suoi desideri conserva innegabilmente un carattere intellettuale e razionale. La santa orazione che il doctor mellifluus Bernardo rivolge a Maria è considerata un piccolo capolavoro retorico, che (diversamente dal Pater noster parafrasato e ampliato all'inizio del Canto XI del Purgatorio) presenta caratteri di originalità rispetto all'Ave, Maria cui pure si ispira: a una prima parte di lode ed elogio della Vergine segue infatti la preghiera vera e propria, in cui il santo si rivolge a Maria come a colei che concede sempre la sua grazia a chi gliela chiede, supplicandola non solo di permettere a Dante di spingere lo sguardo nella mente divina, ma anche di conservare sani... li affetti suoi dopo una visione così superiore alla sua natura di mortale. La prima parte della preghiera assume dunque i toni, retoricamente elevati, di una captatio benevolentiae in cui Bernardo sottolinea l'altezza e al contempo l'umiltà di Maria, figlia del proprio figlio (con due efficacissime antitesi poste nei primissimi versi del Canto), scelta da Dio per l'altissimo compito di mettere al mondo Cristo per sancire la pace tra Cielo e Terra, poiché nel suo ventre è nato l'amore che ha fatto germogliare la rosa celeste (viene già anticipato il mistero dell'Incarnazione, al centro della parte finale della visione). Di Maria è ribadito il fatto che essa è gratia plena, in grado di soddisfare ogni giusta richiesta che provenga da un cuore onesto, dunque i tratti che la caratterizzano sono la misericordia, la pietà, la magnificenza (da intendere forse come sinonimo di Dio che solo può elargire la visione di Sé all'uomo, la quale costituisce quella beatitudine che tutte le anime salve godranno per l'eternità una volta giunte in patriam, nella Gerusalemme celeste. Il Canto, la Cantica e il poema possono allora chiudersi con la solenne dichiarazione del compimento del desiderio di conoscenza da parte del poeta, che trae origine non dall'acume del suo intelletto ma dall'atto di grazia che gli è stato concesso dall'amore divino, l'amor che move il sole e l'altre stelle e che appaga intimamente la sua volontà come una ruota che si muove in modo uniforme (dunque l'immagine del cerchio chiude la poesia della Commedia, essendo simbolo della perfezione divina e dell'incapacità dell'uomo di risolvere i misteri dell'Universo, proprio come impossibile è per il geomètra... misurar lo cerchio poiché gli manca il principio fondamentale, che nella concezione di Dante è da identificare con Dio). vocazione alla Vergine nella poesia: Petrarca L'invocazione alla Vergine affidata alle parole di san Bernardo e con cui si apre il Canto XXXIII del Paradiso non è certo un caso isolato nella letteratura italiana del tempo di Dante e successiva, che si riallaccia del resto a una lunga tradizione della dossologia mariana e ha in Jacopone da Todi (autore dell'inno Stabat Mater e della lauda Donna de Paradiso) un insigne precedente: poco dopo Dante sarà F. Petrarca a chiudere i Rerum vulgarium fragmenta con la famosa canzone dedicata alla Vergine (CCCLXVI, Vergine bella, che di sol vestita), che rispetto ai versi danteschi che preludono alla visione beatifica di Dio presenta analogie e differenze. Analoga è la posizione nella raccolta petrarchesca, in quanto il componimento chiude il Canzoniere come il Canto dantesco è l'ultimo della Commedia, e simile è anche il carattere di orazione e inno religioso che la canzone assume, proponendosi come un bilancio del percorso umano e letterario del poeta quasi alla fine della sua vita; diversa è l'ispirazione della poesia in Petrarca, poiché Maria è invocata come fonte di grazia e salvezza da chi si considera peccatore e teme per la sua salvezza a causa degli errori commessi (specie in campo amoroso), dunque la canzone è espressione dei dubbi interiori e delle lacerazioni proprie di tutta l'opera di Petrarca, ben lontana dalle granitiche certezze in campo religioso ed escatologico che sono al centro del poema di Dante. La Vergine, anzi, è di fatto paragonata per contrasto alla donna amata da Petrarca, quella Laura che gli ha causato tante sofferenze e che al tempo della stesura della canzone è morta da tempo, in quanto quest'ultima è stata fonte di traviamento morale e illusioni sul piano amoroso, mentre Maria rappresenta un esempio di purezza che si oppone in modo antitetico alla bellezza seducente e pericolosa della donna mortale. Ciò è evidente fin dai primi versi, in cui Maria è indicata come colei che Dio ha scelto per l'altissimo compito di consentire l'Incarnazione di Cristo (vv. 2-3, al sommo Sole / piacesti sì, che 'n te Sua luce ascose; cfr. Par., XXXIII, 4-6) e come la creatura che risponde sempre benevolmente a chi le chiede la grazia (vv. 7-8, Invoco lei che ben sempre rispose / chi la chiamò con fede; cfr. XXXIII, 13-15), mentre più avanti si dirà che trasforma "| pianto d'Eva in allegrezza (v. 36, e infatti anche Dante la colloca al di sopra di Eva nella rosa celeste); al contrario Laura è indicata quasi spregiativamente come mortal bellezza (v. 85), terra (v. 92), poca mortal terra caduca (v. 121), a indicare non solo il fatto che la donna è morta e i suoi resti corporei si sono decomposti, ma anche l'enorme sproporzione tra l'amore celeste rappresentato dalla Vergine e l'amore terreno raffigurato da Laura (non a caso Maria è di sol vestita e coronata di stelle, Laura è terra). Questo amore è condannato da Petrarca in quanto gli ha provocato pena e grave... danno, lo ha spinto a versare lagrime e a spendere lusinghe e preghi indarno, gettandolo in un tempestoso mare in cui solo la Vergine può rappresentare per lui una stella e una fidata guida: l'amore per Laura è vano in quanto non corrisposto e fonte soltanto di sofferenza, come già dichiarato nel sonetto proemiale del Canzoniere, e la donna è descritta come colei che quand'era viva in pianto... tenne il cuore del poeta non conoscendo neppure tutti i mali che lui provava; questo amore è stato un errore, che ha tramutato Petrarca in un sasso / d'umor vano stillante (vv. 111-112) e per liberarsi del quale ora rivolge a Maria (vv. 115-117) un ultimo pianto... devoto, / senza terrestro limo (cioè senza passioni terrene), / come fu 'l primo - non d'insania vòto (torna iltema del vaneggiare del poeta dietro la bellezza di Laura, spesso indicato come la ragione per cui egli fu favola per il popolo, I, 9-11). Dunque la Vergine è invocata come colei che può concedere la grazia e intercedere presso Dio al fine di ottenere per il poeta il perdono dei suoi peccati, ma anche come l'alta creatura che si oppone alle passioni terrene che hanno sviato Petrarca dall'amore divino, rischiando seriamente di compromettere la sua salvezza nell'Aldilà: tali passioni occupano la sua anima ancora con grande forza, tanto che a suo dire egli è ancora legato al ricordo di Laura con... mirabil fede (v. 122, e val la pena di osservare il senso ambivalente della parola fede) e solo l'aiuto di Maria può fargli sperare di risollevarsi dal suo stato assai misero e vile (v. 124) e di ottenere la sospirata salvezza ora che si avvicina il giorno della morte, superando la passione terrena per Laura dalla quale, pare evidente nei versi finali, egli non riesce a liberarsi neppure a tanti anni dalla morte della donna. Più che un'invocazione, il suo è l'accorato grido di aiuto di chi vive in uno stato travagliato di lacerazione interiore e si aspetta da Maria l'intercessione per la remissione dei propri peccati, mentre in Dante l'orazione di san Bernardo doveva concedergli l'assistenza necessaria a completare il suo viaggio allegorico che è un percorso (realizzato con successo) verso Dio: l'ultima poesia del Canzoniere dimostra ulteriormente la distanza ormai incolmabile tra l'autore della Commedia, poeta della certezza e della fede che ha superato e risolto i suoi dubbi in materia religiosa, e il pre-umanista Petrarca, poeta del dubbio e dell'angosciosa incertezza, la cui fede è continuamente messa alla prova e che neppure alla fine della sua opera mostra di aver completamente risolto le ansie che caratterizzarono tutta la sua esperienza di uomo e scrittore. Interpretazioni a confronto: B. Croce e S. Battaglia A conclusione della lettura del Paradiso e del Canto conclusivo della Cantica, proponiamo due brevi estratti dei saggi di due insigni critici letterari e studiosi di Dante del Novecento, che propongono un'interpretazione alquanto diversa, se non decisamente opposta, della rappresentazione dantesca del regno santo. Benedetto Croce (1866-1952), filosofo, saggista, critico letterario fondatore di una vera e propria scuola nei primi decenni del secolo scorso, tende a svalutare la componente teologica e dottrinale del Paradiso e critica come artificiosa e ripetitiva la sua descrizione come qualcosa che è in realtà non rappresentabile, individuando gli unici momenti di alta poesia della IIl Cantica nelle immagini concrete e «domestiche» cui Dante ricorre per raffigurare la dimensione celeste; viceversa Salvatore Battaglia (1904-1971), linguista, filologo e studioso di letteratura, sottolinea proprio il valore della poesia dell'inesprimibile come la caratteristica peculiare del Paradiso e come la principale novità del poema dantesco, ben diverso da tutte le precedenti descrizioni dell'Oltretomba (questa interpretazione, del resto, è stata fatta propria dai principali dantisti del XX secolo, da E. Auerbach a U. Bosco, fino a G. Bàrberi Squarotti). Benedetto Croce: il Paradiso come «romanzo teologico» Questi spettacoli di luce e di canto, oltre il loro senso letterale e poetico ne hanno un altro, dottrinale, come l'avevano altresì i tormenti dell'Inferno e i castighi del Purgatorio. Senonché, in questa terza parte della Commedia, i due sensi se ne stanno assai meno distaccati che nelle due prime, e, di gran lunga più, tendono a entrare l'uno nell'altro. Il concetto della gioia paradisiaca restringe il poeta a pochissimi, e anzi quasi a un ordine solo d'immagini, riduce la sua tavolozza a un sol colore, che egli non può differenziare se non nel grado, nel meno e più, e non può variare se non nella configurazione spaziale, e talvolta nella sola scelta dei vocaboli e dei paragoni. Onde l'impressione che il lettore riceve, in più luoghi di quelle scene, dello sforzo, di una valentia che è sforzo, e che si ammira non come un moto naturale, ma come un gioco ginnastico (e molti, dimentichi di quel che sia propriamente poesia, riversano l'ammirazione su questi luoghi del Paradiso, prodigando lodi di dubbia legittimità estetica): l'impressione di una ricchezza esuberante, che ha della povertà e nasce da una certa povertà, come lustro di cui questa si ricopre. Tale non infrequente impressione di povertà nella profusione, e di vuoto nel pieno, è accresciuta dal carattere maraviglioso, ma intellettualistico, sebbene ingenuamente escogitato, di quelle luci, che si ordinano in ruote, in croce, in rosa, in aquila, in iscala, in lettere d'alfabeto, e, raccostando le lettere, compongono scritte latine con motti e ammonimenti. E, in questa terza parte, nelle rappresentazioni paradisiache, il poeta avverte il bisogno, e con pari candidezza lo soddisfa, di rialzare l'effetto con le iperboli negative; per esempio, con l'osservare che le bellezze della natura e dell'arte, tutte adunate, varrebbero niente «ver lo piacer divin che mi rifulse», o che, comparata al suono della lira da lui udita, qualunque più dolce melodia terrena «parrebbe nube che squarciata tuona»; e, mezzo rettorico anche meno efficace, con le continue proteste, che ciò che egli vede è indescrivibile e ineffabile. La luce, la gioia, che egli vorrebbe pensare e rappresentare, è così pura, perfetta e santa, così assoluta, che si converte sovente in un'astrattezza, e, come tale, non si può rappresentare e neppure pensare. Non si pensa e non si rappresenta se non la gioia concreta, che nasce dal dolore ed è venata di dolore e torna al dolore; la luce che è insieme ombra, e combatte con l'ombra, e la vince e n'è in parte vinta. [...] Donde, in tanto infinito, alcunché di troppo finito, e talora perfino di grottesco, che viene appunto dal contrasto tra l'infinito dell'intenzione e il finito della rappresentazione. [...] Insomma, quella monotonia, quelle ripetizioni, quegli sforzi, quell'artificiosità, quelle puerilità, che sono state troppo severamente notate nel Paradiso, e hanno fatto scuotere la testa innanzi all'ardimento del poeta e considerarlo come ardimento verso l'impossibile, e fallacemente riportarlo a un vizio della materia, particolare al Paradiso ed estraneo alla materia delle altre due cantiche, è invece qualcosa che si trova in tutte le tre cantiche, ma nella terza si accentua proprio nella rappresentazione che fa da scena o da sfondo: l'ubbidienza all'assunto didascalico, ossia al «romanzo teologico». (da La poesia di Dante, Bari, Laterza 1940) Salvatore Battaglia: il Paradiso come «regno della pura intuizione» La terza cantica trova la sua prima emozione lirica nella stessa premessa dell'insufficienza espressiva del poeta. Il Paradiso non si può rappresentare, è ineffabile. È possibile intuirlo nel colmo della fede, come mistica aspirazione, ma la sua realtà è sovrasensibile, esclude la comprensione e la raffigurazione. Il poeta è qui chiamato a sceneggiare la trascendenza divina e l'ineffabilità dei suoi misteri. Ma com'è possibile figurarla nei termini del linguaggio umano se essa per definizione ne è il superamento e la sublimazione? In questa antinomia risiede la fondamentale difficoltà e insieme la qualità linguistica della terza cantica. AI poeta toccherà esprimere l'incomunicabile. L'impresa dello stile che ora Dante progetta sembra assurda, è al di fuori d'ogni realizzazione. Perché non appena l'intelletto e la parola presumeranno di descrivere il Paradiso e di ridurlo in termini espositivi, il Paradiso stesso cesserà di fruire della sua natura trascendente, sovrumana, misteriosa. Al poeta resterà questo compito: non già di rappresentare il Paradiso nella sua inattingibile verità, ma di farne intravedere l'intatta eternità e l'immensa beatitudine con i mezzi impari di cui dispone la parola dell'uomo. Il nodo lirico del Paradiso e del suo linguaggio consiste nell'esprimere questa situazione, che prima di essere stilistica è morale: cioè, l'interna intuizione del Paradiso come simulacro esemplare dell'anima, e, nello stesso tempo, la struggente incapacità a raffigurarne realmente l'essenza. Nel Paradiso è la stessa realtà che dovrebbe risultare abolita o superata. Il poeta si trova, pertanto, al limite del reale. Immateriale, invisibile, assolutamente mistico, il Paradiso è il regno della pura intuizione, che si realizza unicamente nei silenzi incommensurabili ed essenziali dello spirito: «lì si vedrà