Scarica Parafrasi Adone di Marino, e più Appunti in PDF di Italiano solo su Docsity! CANTO PRIMO LA FORTUNA • Invocazione a Venere (1-4). • Dedica a Luigi XIII e a Maria de’ Medici (5-9). • Venere punisce Amore, reo di aver fatto innamorare Giove (10-18). ALLEGORIA LA FORTUNA. Nella sferza di rose e di spine con cui Venere batte il figlio si figura la qualità degli amorosi piaceri, non giamai discompagnati da’ dolori. In Amore che commove prima Apollo, poi Vulcano e finalmente Nettuno, si dimostra quanto questa fiera passione sia potente per tutto, eziandio negli animi de’ grandi. In Adone che con la scorta della Fortuna dal paese d’Arabia sua patria passa all’isola di Cipro, si significa la gioventù che sotto il favore della prosperità corre volentieri agli amori. Sotto la persona di Clizio s’intende il signor Giovan Vincenzo Imperiali, gentiluomo genovese di belle lettere, che questo nome si ha appropriato. nelle sue poesie. Nelle lodi della vita pastorale si adombra il poema dello Stato rustico, dal medesimo leggiadramente composto. ALLEGORIA Amore, battuto con una frusta di rose e spina da Venere, fugge adirato e piangente prima da Apollo, poi da Vulcano e infine da Nettuno. Commuove tutti e tre con la sua bellezza e i piaceri d’amore, mai disgiunti dai dolori. Adone, bel giovane nel fiore degli anni, spinto dalla volubile Fortuna dalla natia Arabia arriva a Cipro e qui è accolto dal pastore Clizio, allegoria del nobile letterato Imperiali. ARGOMENTO Passa in picciol legnetto a Cipro Adone da le spiagge d’Arabia, ov’egli nacque. Amor gli turba intorno i venti e l’acque, Clizio pastor l’accoglie in sua magione. ARGOMENTO Adone, dai lidi dell’Arabia, si trasferisce in una Piccola barchetta a Cipro, dove nacque. Amore Gli scatena contro una tempesta e il pastore Clizio lo accoglie nella sua abitazione. 1 Io chiamo te, per cui si volge e move la più benigna e mansueta sfera, santa madre d’Amor, figlia di Giove, bella dea d’Amatunta e di Citera; te, la cui stella, ond’ogni grazia piove, de la notte e del giorno è messaggiera; te, lo cui raggio lucido e fecondo serena il cielo et innamora il mondo, 2 tu dar puoi sola altrui godere in terra di pacifico stato ozio sereno. Per te Giano placato il tempio serra, addolcito il Furor tien l’ire a freno; poiché lo dio de l’armi e de la guerra spesso suol prigionier languirti in seno, e con armi di gioia e di diletto guerreggia in pace et è steccato il letto. 3 Dettami tu del giovinetto amato le venture e le glorie alte e superbe; qual teco in prima visse, indi qual fato l’estinse, e tinse del suo sangue l’erbe. E tu m’insegna del tuo cor piagato a dir le pene dolcemente acerbe, 1 Io ti chiamo, santa madre di Amore, figlia di Giove, per la quale la più dolce e calma sfera si gira e si muove, bella dea d’Amantuta e di Citera; chiamo te, la cui stella, dalla quale proviene ogni grazia, è annunciatrice della notte e del giorno; chiamo te, il cui chiaro e ispiratore raggio rischiara il cielo e fa innamorare. 2 Solo tu puoi far godere gli altri, sulla terra, di uno stato d’ozio pacifico e sereno. Giano, calmato, ha chiuso per te il tempio, la Rabbia, addolcita, frena la sua ira; dato che Marte spesso è solito stare nel tuo seno e combatte con gioia con armi felici e dilettevoli, e il letto viene chiuso. 3 Tu raccontami i casi fortunati E la gloria alta del tuo amato giovinetto; Come visse prima, quale destino Lo uccise e tinse l’erba del suo sangue. Insegnami a raccontare i dolori dolcemente acerbi Del tuo cuore ferito, le dolci lamentele e il dolce pianto; e tu inculcami il canto dei tuoi cigni. e le dolci querele e ’l dolce pianto; e tu de’ cigni tuoi m’impetra il canto. 4 Ma mentr’io tento pur, diva cortese, d’ordir testura ingiuriosa agli anni, prendendo a dir del foco che t’accese i pria sì grati e poi sì gravi affanni, Amor, con grazie almen pari a l’offese, lievi mi presti a sì gran volo i vanni, e con la face sua, s’io ne son degno, dia quant’arsura al cor luce a l’ingegno. 5 E te, ch’Adone istesso, o gran Luigi, di beltà vinci e di splendore abbagli e, seguendo ancor tenero i vestigi del morto genitor, quasi l’agguagli, per cui suda Vulcano, a cui Parigi convien che palme colga e statue intagli, prego intanto m’ascolti e sostien ch’io intrecci il giglio tuo col lauro mio. 6 Se movo ad agguagliar l’alto concetto la penna, che per sé tanto non sale, facciol per ottener dal gran suggetto col favor che mi regge et aure et ale. Privo di queste, il debile intelletto, ch’al ciel degli onor tuoi volar non vale, teme a l’ardor di sì lucente sfera stemprar l’audace e temeraria cera 7 Ma quando quell’ardir ch’or gli anni avanza, sciogliendo al vento la paterna insegna per domar la superbia e la possanza del tiranno crudel che ’n Asia regna, vinta col suo valor l’altrui speranza fia che ’n su ’l fiore a maturar si vegna, allor, con spada al fianco e cetra al collo, l’un di noi sarà Marte e l’altro Apollo. 8 Così la dea del sempreverde alloro, Parca immortal de’ nomi e degli stili, a le fatiche mie con fuso d’oro di stame adamantin la vita fili, e dia per fama a questo umil lavoro viver fra le pregiate opre gentili, come farò che fulminar tra l’armi s’odan co’ tuoi metalli anco i miei carmi. 4 Ma mentre io tento, dea benigna, di costruire un racconto che superi gli anni, iniziando a dire dell’ardore che ti accese gli affanni prima così grati e poi così gravi, Amore, con dolcezze pari quasi alle offese Mi alzi leggero a tanta altezza E con la sua fiamma, se ne sono degno, infiammi il cuore, illumini l’ingegno. 5 E te, o Luigi, che superi in bellezza E di splendore lo stesso Adone E, seguendo nonostante la giovane età, le tracce Del defunto padre, quasi lo raggiungi, Per il quale Vulcano si affatica nella sua fucina, al quale Parigi Deve cogliere palme e scolpire statue, rivolgo la preghiera affinchè mi ascolti e intrecci il mio alloro con il tuo giglio. 6 Se io mi spingo a raggiungere la tua grandezza con la penna, che da sola non ce la fa, lo faccio affinchè mi dia il soffio necessario e le ali per completare la gran opera. Senza tali aiuti, il fragile intelletto, che non pareggia l’altezza dei tuoi onori, ha paura della così abbagliante luce del sole che scioglie l’audace e temeraria cera. 7 Ma quando quel coraggio che ora anticipa gli anni, facendo vibrare al vento lo stendardo paterno per combattere la superbia e la forza del crudele sultano che regna sull’Asia, vinta col tuo valore la vanità degli altri sovrani prima che la maturità sia raggiunta, allora, tu con la spada al fianco e io con la cetra al collo, l’uno sarà Marte e l’altro Apollo. 8 Così Minerva, alla quale era caro l’alloro, come la Parca che fila e spezza il filo della gloria dei poeti, possa filare la vita alle mie fatiche con filo di diamante e fuso d’oro, e conceda con la fama a questo mio modesto lavoro di vivere tra le opere più note come renderò possibile che, col rumore delle armi, si ascoltino anche le mie poesie con i tuoi metalli. Note al testo Allegoria. Le allegorie poste dal Marino in apertura ai canti, attribuite a Lorenzo Scoto, rappresentano una sorta di vernice morale che attinge ai luoghi comuni della trattatistica e della mitologia classica, e tuttavia non offrono una guida effettiva per intendere gli indirizzi del poema, e più ancora i suoi intenti che rimangono tuttora nell’ombra. Questo il reciso giudizio di Stigliani: «Le quali allegorie (accioché si sappia ancora quest’altra verità), non sono state fatte dallo Scoto, ma da lui stesso, sì perché lo stile le accusa per tali, come perché io le ho vedute in Parma scritte di sua propria mano, e mandate da lui a Fortuniano Sanvitali» (Stigliani, Occhiale, p. 227). Per Lorenzo Scoto (autore anche di una Fenice, andata a stampa a Torino nel 1614) e per i suoi rapporti con il Marino vd. Lettere, ad indicem; Marino, Rime, ed. Slawinski, III, p. 380. Un ultimo aspetto di cornice riguarda la composizione tipografica delle allegorie che in questo canto e in alcuni dei successivi riprenderebbero i technopaegnia di Teocrito presenti già nell’Hypnerotomachia Poliphili (al riguardo Colombo, Cultura e tradizione, pp. 33-34) Giovan Vincenzo Imperiali: figura di rilievo della nobiltà genovese, entrato in contatto con il Marino per il tramite di Bernardo Castello sin dal 1603-1604; per i rapporti tra il Marino e l’Imperiali vd. Lettere, pp. 32-48, e l’epitalamio Urania, composto in occasione delle nozze dell’Imperiali con Catarina Grimaldi, già nel 1604. La scelta del modello dell’Imperiali risulta sorprendente, tanto più perché non fondata su ragioni di omaggio encomiastico: all’altezza del 1623 i contatti, da quanto pervenuto, dovevano essersi diluiti e sfilacciati, e tuttavia il Marino decise di mantenere, in massima vista all’interno del poema, l’omaggio al letterato e nobile genovese, in possesso tra l’altro di una sontuosa collezione artistica. Sulla figura dell’Imperiali vd. E. Russo-F. Pignatti, Imperiali Giovan Vincenzo, in DBI, vol. LXII 2004, pp. 297-300. Argomento. Gli argomenti dei canti si devono, come dichiarato sin dal frontespizio, a Fortuniano Sanvitale, interlocutore del Marino sull’importante piazza di Parma e suo amico di lunga data (vd. almeno Lettere, pp. 320, 343-344, per testimonianze vicine alla stampa del poema; inoltre una breve schedabiografica in Balsamo Crivelli, Introduzione, p. IX; e in Marino, Rime, ed. Slawinski, III, pp. 378- 379). Per l’eventualità, assai probabile, che il Marino abbia dettato, se non direttamente stilato, le quartine degli argomenti vd. la nota di Stigliani citata appena sopra. INVOCAZIONE A VENERE 1. L’invocazione a Venere, anticipata rispetto alla proposizione della materia (che arriverà all’ottava 3) e la ripresa dell’esordio dal De rerum natura di Lucrezio («Aeneadum genetrix, hominum divumque voluptas, / alma Venus») presenta un consapevole tasso di infrazione rispetto alla tradizione dell’epica. «Invocazione né Pagana né Cristiana. Non Pagana perché la deità della poesia non era Venere, ma le Muse ed Apollo. Non Cristiana perché il Poeta pio non dee oggidì implorare altri che il nostro verace Iddio, overo i suoi santi. Sconvenevolezza di costume» (così Stigliani, Occhiale, p. 138). Da questo passaggio avrebbe preso origine una diffusa trattazione da parte dei difensori del Marino (vd. anche G.F. Busenello, nella celebre lettera a Giacomo Scaglia: Epistolario, II, p. 109) sulle caratteristiche sia dell’invocazione mariniana, sia di quelle degli altri epici antichi e moderni: Aleandro, Difesa, I, pp. 121- 126. Villani, Uccellatura, pp. 205-206; D’Alessandro, pp. 229-233; Aprosio, Occhiale stritolato, pp. 165 sgg., ove sono ricordate numerose “invocazioni” pagane. Per la definizione di Venere come santa madre d’Amore per rimandi alla tradizione cinquecentesca vd. i luoghi richiamati da Pozzi (Commento, p. 176), in particolare l’Alamanni della Coltivazione (I 268 sgg.: «Alma Ciprigna dea, lucente stella / de’ mortai, de gli dei vita e diletto; / tu fai l’aer seren, tu queti il mare ...»), il Dolce della Favola di Adone, 72 (Martini, Oltre l’idillio, in Lectura Marini, pp. 13- 23, a p. 15), il Bernardo Tasso della Favola di Leandro ed Ero, in Amori, III 355 (vd. l’ed. a cura di D. Chiodo, Torino, Res, 1995, p. 390: «Santa madre d’Amore, primo e maggiore / diletto degli dei, che col tuo lume / rendi l’aere seren, lieta la terra; che col caldo gentil del tuo bel foco / ardendo dolce il cor d’ogni mortale, / in eterna union conservi il mondo: / [...] il tuo santo favor largo mi presta, / e solleva i pensieri e l’intelletto»), mentre l’indicazione forse più puntuale, quella relativa all’avvio dell’Amadigi di Bernardo Tasso («Santa madre d’Amore, il cui bel raggio / serena l’aria e ’l mar turbato acqueta / senza cui fora il mondo ermo e selvaggio / sterile e privo d’ogni cosa lieta»), si deve ad Aprosio, Il veratro, p. 19 (vd. anche Russo, Marino, pp. 278-280); infine gli Inni naturali di Marullo (ed. 1582, cc. 70r-71v), certamente noti al Marino. Tra le prove mariniane: il sonetto Bella madre d’Amor nelle Rime del 1602 (Rime marittime, 34); l’epitalamio Venere pronuba; lo stesso testo d’apertura della Galeria è dedicato a Venere, ma ha altro tono, raffigurandola nell’atto di svelarsi a Marte (da un dipinto di Palma); vd. A. Martini, Oltre l’idillio, in Lectura Marini, p. 22. 4. Amatunta: città meridionale dell’isola di Cipro (vd. Sampogna, Prosepina, 446). 7. 1-8. Ma quando ... Apollo: ‘ma quando il coraggio che ora anticipa gli anni, dispiegando l’insegna del padre, maturerà e supererà con il proprio valore anche le speranze più fervide, per vincere l’ingiusto potere che regna in Asia, allora tu sarai Marte armato di spada, io Apollo munito di cetra’. Il rimando alle future imprese di Luigi XIII, magari contro gli infedeli, e la promessa del canto epico che il Marino vi avrebbe consacrato, è ancora elemento tradizionale (ad es. Stazio, Theb., I 25-40; inoltre Tempio, 172), e vale a chiarire la materia non epica, ma appunto amorosa e “divina” del poema mariniano; sembrano versi pertinenti alla virata del 1617, con la sostituzione del dedicatario, e non al 1623 quando il valor di Luigi XIII aveva già offerto diverse prove (ricordate nei canti X e XX). Rimane la dissonanza tra la materia assunta dal Marino (vd. anche ottava 9) e l’adozione in questa zona iniziale di movenze da «magnifico dicitore» di marca epica che occorreranno di rado nel resto del poema. 6. fia ... vegna: ‘accada che venga infine a maturare’, con riferimento all’ardir del v. 1. 8. Questa ottava risulta aggiunta rispetto alla redazione testimoniata in Adone 1616: inserisce sul tracciato originario la speranza che Minerva (dea del sempreverde alloro) conceda all’opera vita immortale (vv. 3-4), ed è inserto puramente esornativo. 2. Parca: Minerva viene paragonata a una delle Parche, impegnata a filare e troncare la durata della gloria e delle opere degli uomini. 9. 1. La donna ... tolto: sulla presunta etimologia mare/Maria prende avvio l’elogio di Maria de’ Medici, che riprendeva le lodi pronunciate nel Tempio da un Marino appena giunto a Parigi: il novo Amor qui alluso è Luigi XIII, mentre il novo Marte è Enrico IV, al cui omicidio Marino avrebbe dedicato sia un sonetto (La valorosa man, quella che tanto; vd. Russo, Marino, pp. 155-156), sia alcuni degli attacchi più violenti della Sferza. Probabilmente proprio per questo specchiarsi nella famiglia reale francese il Marino rende qui Amore figlio di Marte e non figlio di Vulcano (come invece farà poco appresso, all’ottava 67 di questo stesso canto; al riguardo vd. Pozzi, Commento, p. 178). 7-8. né sdegnerà ... lasciva: si avvia qui, nel distico finale dell’ottava sulla regina, il passaggio entro il quale Marino pare raccogliere la materia, lo statuto e gli indirizzi del poema: le tenerezze d’amor come argomento e la penna lasciva come opzione stilistica presentano l’Adone come pertinente da subito ad un registro non epico, abbandonando quella materia bellica appena allusa nel riferimento alle imprese di Enrico IV. VENERE PUNISCE AMORE, REO DI AVER FATTO INNAMORARE GIOVE 10. 1-4. Ombreggia ... arcani: puntuale, ed evidente, il richiamo ai versi con cui il Tasso della Liberata (I 3: «Sai che là corre il mondo ove più versi / di sue dolcezze il lusinghier Parnaso, / e che ’l vero, condito in molli versi, / i più schivi allettando ha persuaso») invitava a leggere in filigrana significati ulteriori rispetto a quelli forniti dalla lettera del poema; più importa la metafora del sileno che ricorreva già in Dicerie sacre, p. 212 («Che perciò furono ritrovate le statue de’ sileni, le cui concave viscere erano gravide de’ simulacri degli’Iddii, acciocché i divini arcani si tenessero alla gente vulgare appannati ed occulti»); il passaggio è stato investito di dichiarazione rivelatrice per un poema a marca filosofica in M.-F. Tristan, La scène de l’écriture. Essai sur la poésie philosophique du Cavalier Marin, Paris, Honoré Champion, 2002; in chiave diversa, di recente Lazzarini, Ritratti. 3. scorza: ‘aspetto esterno’. 5-8. Però dal vel ... doglia: mentre sul vel tessuto dalla tela del Marino avrebbe ironizzato Stigliani (Occhiale, p. 139; con risposta difensiva in Aleandro, Difesa, I, p. 127), importa la definizione ulteriore che Marino fornisce dello stile assunto nel poema, i molli versi e favolosi e vani indicano la morbidezza lirica del dettato, la pertinenza mitologica della materia, e soprattutto la vanità lo statuto di finzione della favola, in contrapposizione alla serietà del senso riposto. In questo passaggio i celesti arcani annunciati al v. 4 si riducono per l’Adone al senso verace del v. 7, ad un insegnamento cioè di stretto ordine morale, quello dichiarato in fine di ottava, del resto non riferibile in via diretta e senza dubbi alla complessa vicenda amorosa che lega Adone e Venere. Al riguardo cfr. Pozzi, Commento, p. 179, con rinvio a Orazio, Carm., II 16 27-28 e in Ovidio, Met., VII 453-454; meno convincente a mio avviso il rinvio a Ronsard, e all’avvio di un suo poemetto su Adone, che Pozzi aggiunge subito di seguito. 11. 1. Amor pur dianzi: l’azione del poema si avvia nel tempo indefinito della mitologia classica, in un momento nel quale Amore (il fanciullin crudele) ha appena consumato una delle sue imprese, non individuata nel dettaglio, ai danni di Giove: la funzionalità puramente narrativa dell’esordio si chiarisce in questa mancanza di ogni precisazione. 4. gelò ... dea: in Pozzi, Commento, p. 179, la sottolineatura della paronomasia: «l’effetto insito di trovar diverso (a livello del significato) ciò che è uguale (a livello del significante) è qui reduplicato»; questo espediente sarà assai frequente nel corso del poema, a determinare una sorta di illusoria prossimità fonica a dispetto di significati diversi, e anzi quasi opposti. 5- 8. e ’ncontro ... battuto: ‘e contro Amore con deboli lamenti [Giunone] si rivolse a Venere (Citerea, dal nome dell’isola di Citera, sacra alla dea); per questo il fanciullo, furbo seppur giovane, pianse punito dalla madre’; il tema dell’Amor punito ha antecedenti, nobili e frequenti, richiamati da Pozzi, Commento, pp. 179-180, anche con riguardo al versante figurativo (e vd. Petrarca, Tr. Pud., 91-96, 124-126); si può aggiungere almeno la Venere che punisce Amore, incisione di un artista assai prossimo al Marino, quel Giovan Luigi Valesio cui si deve il frontespizio figurato dell’edizione veneziana del poema: vd. M.A. Terzoli, ‘L’Adone’: iconografia del frontespizio, pp. 289-320); e ancora una serie di ben undici componimenti di C. Rinaldi (Rime, ed. 1603, pp. 107 sgg., indirizzate «Al Facini pittore») in materia appunto di Amore sferzato da Venere; qui e nel seguito Marino sembra però piegare la scena verso un realistico-quotidiano che contrasta con la somma bellezza di Venere e l’infinita potenza di Amore, due delle forze cruciali nello sviluppo del poema. La scelta è significativa e va a sancire, in una posizione eminente, in apertura del canto d’esordio, la mescolanza stilistica che definisce zone cromaticamente diverse e che caratterizza l’Adone nel suo insieme. 14. Tutta l’ottava, e soprattutto l’attacco, ha l’andamento e il tono di una rampogna materna, che scandisce sonora la punizione fisica avviatasi in 11 8 e condotta fino a 16 8. 5. che per ... discacci: Stigliani, Occhiale, p. 139, rivendicava come proprio questo verso (dal sonetto O del fraterno lume, in Stigliani, Rime 1623, p. 72: «Ti discacci dal Ciel l’eterna cura») e aggiungeva: «E qui voglio che il lettore avvertisca una volta per sempre, e per tutti gli altri luoghi da registrarsi, come io nell’Adone non biasimo i furti ad uno ad uno, ma la soverchia frequenza di quegli; se bene non la mostrerò tutta, ma la verrò solo accennando» (ibid.); la paternità di questo verso in particolare, tuttavia, come già notava Aprosio, Occhiale stritolato, p. 177, non pare proprio segno di eccellenza letteraria. Persino più ironica e sferzante la replica all’osservazione di Stigliani in Aleandro, Difesa, I, pp. 129-130. 7-8. su i ... belve: i gioghi dell’Ircania e le foreste dei monti Caspi erano sede, secondo tradizione, di belve ferocissime; vd. almeno Poliziano, Stanze, I 39 («qual tigre, a cui dalla pietrosa tana / ha tolto il cacciatore li suoi car’ figli / rabbiosa il segua per la selva ircana»); Tasso, Liberata, XVI 57. 15. 1. egri ... mortali: «egri mortali» è sintagma già petrarchesco, e di lì transitato nella tradizione lirica, mentre per languidi mortali vd. Liberata, XIII 58. Venere sopporta dunque che Amore distribuisca dolori tra gli uomini ma condanna gli strazi destinati agli dei: è, in anticipo, un lamento per le sofferenze che alla stessa Venere toccheranno per Adone (vd. anche Dante, Inf., I 115 sgg.). 8. serpentello: per Amore come serpente il rinvio di Pozzi, Commento, p. 180, alla favola su Amore e Psiche (Met., V 17), anche in relazione al canto IV. Da un punto di vista ritmico il serpentello orgoglioso, pausa ed acme della sequenza, replica l’arcier villano dell’ottava precedente, l’omicida del senno e l’aspe di paradiso delle ottave 12 e 13, in una sequenza che si snoda nell’argomentazione e si raccorda nei versi finali. 16. 1. de le ... duce: qui con riferimento a Giove. 3-4. e spesso ... canta: «Giove si tramutò in toro per rapire Europa (Ovidio, Met., II 847 e VI 103) in cigno per amare Leda (Ovidio, Met., VI 109) e in aquila per Ganimede (Ovidio, Met., VI 108)»: Pozzi, Commento, p. 180; una simile raccolta delle metamorfosi amorose di Giove in Poliziano, Stanze, I 107. 5. orbo di luce: la cecità tradizionale di Amore, qui allusa, non è elemento che entri in conto nella narrazione successiva, giostrata dal Marino liberamente e senza una stretta consequenzialità di passaggi. 17. 1. Con flagello di rose: di Pozzi (Commento, p. 180) il rinvio ad Ausonio, Cupido cruciatus, 89- 93, come antecedente per questo particolare cruento di un fascio di fiori pungenti che feriscono a sangue le porpore di Amore (e vd. le fonti citate in nota all’ottava 11). 6. fiero vagir: è ossimoro interno alla coloritura comico-parodica che connota l’intera scena, giusto accanto alla nobile memoria