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Parafrasi canto V dell'Adone, Esercizi di Letteratura Italiana

Parafrasi canto V dell'Adone di Marino.

Tipologia: Esercizi

2021/2022

In vendita dal 17/10/2023

CaterinaPernechele
CaterinaPernechele 🇮🇹

5

(3)

12 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Parafrasi canto V dell'Adone e più Esercizi in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! Canto V: Il giovane, attraverso una piacevole strada, entra nel bel palazzo tra delizie nuove. Immagina con sé il messaggero di Giove e con atti festosi lo tiene a bada. 1. La lingua umana è quasi un freno che regge il morso alla ragione precipitosa. Un timone che è dato per regolare con la legge della marineria il dubbio corso dell'anima. E' una chiave che apre i pensieri, una mano che corregge gli errori della mente e del discorso. E' penna e pennello che dipinge e scrive con vive note e con vivi colori. 2. È uno strumento sonoro che sparge torrenti di miele e di latte, ora gradevoli, ora pesanti. Nel suo dire sono insiemi severi e dolci le voci come tuoni gli accenti come fulmini. [l'umana lingua] mette insieme i pungiglioni e i favi delle api, potenti nel ferire e nel raddolcire; è un divino suggello che, mentre esprime i detti, imprimi negli animi i concetti. 3. Ma come una spada che, usata bene o male, difende o ferisce, secondo il diverso uso, essa in modi diversi cambia qualità e diventa buona o malvagia e se esce dalla dritta strada si trasforma in un malvagio sermone, trafigge, uccide e, benché tenera e morbida, è più pungente di un dente mordace. 4. Sebbene però, quando saetta o tocca produca sempre piaghe mortali, il colpo maggiore lo dà quando scocca nei giovani petti delle frecce di miele. La bocca loquace adulando e trascinando i sensi fragili, verse delle catene d'oro che tessono un legame dolce e tenace al cuore, un legame che imprigiona e lusinga, nuoce e piace. 5. Un ruffiano eloquente, un messaggero scaltro, un paraninfo di cuori innamorati, che viene e va patteggiando spesso, tratta nel mercato gli acquisti d'amore, con le sue parole nei petti rozzi e nei desideri gelati fa quello che fa la cote [pieta per affilare] alpina nelle armi che non hanno taglio e le affila. 6. Oh ruffiani infernali! sozzi oratori, corrieri infami, vi fulmini il cielo, l'inferno vi attragga, siete ambasciatori di scellerati annunzi per le anime tradite, con ragioni esortatrici avete l'ardire di stimolare i cuori semplici, corrompendo con dolci inganni i pensieri! Quale mansione più vile fa maggiori danni? 7. C'è dunque da meravigliarsi se l'interprete immortale dei sommi eroi, se l'astuto messaggero potente tanto da espugnare coi suoi detti ogni volontà più tenace e salda, rende il tuo tenero cuore così caldo, oh Adone, nel fiore dei tuoi anni? È una virtù di quel ministro che sta sempre nella casa d'Amore. 8. Adone assomiglia a uno stupito contadino abituato in un povero e selvaggio villaggio se a volte viene da lontano ad ammirare la magnificenza reale di una casa di città. Somiglia al domatore dell'Oceano quando pieno il petto di stupore vide per la prima volta in lontane regioni nuove meraviglie e genti sconosciute. 9. [Adone] Gira indietro lo sguardo e mira e spia se ci sia un sentiero per ritrovar l'uscita. Ma la superba porta da cui prima entrò con tutte le sue ricchezze è già sparita. Non vede un guado, non sa trovare una via veloce per tornare indietro; e come un verme circondato da begli stami [di un fiore] tesse a sé stesso il labirinto. 10. Appena giunse là si accorse di essere prigioniero d'Amore, ma fra delizie così numerose e dolci, non si allontanò dalla cara catena; anzi, spontaneamente e volontariamente l'amante porse il piede al ceppo e il collo al giogo; e poiché gli è capitato un tale carcere, apprezza la servitù e non si cura della libertà. 11. Qui non manca un'accorta schiera di ninfe festeggianti pronta a corteggiarlo, né manca un delizioso drappello di giovani arcieri con piume d'oro e dipinte. Essi svolgono la funzione di ancelle e sorveglianti del bel fanciullo, intenti a diversi compiti nel luogo dove impera la bella dea che fu presa e conquistata. 12. Chi gli versa sui capelli sottili l'ambrosia, chi lo avvolge di rose e chi di pesche [..lo colora di rosa e di color rosso più intenso], chi gli decora il bel e candido collo un pomposo e barbaro gioiello, altri con un atto simile gli appendono alle orecchie una gemma sfolgorante e luminosa; finché si vede tutto adornato di morbidi e femminili decorazioni. 13. Adone incantato dai vezzi e tutto preso da queste cose così nuove e non usuali, un po' vinto dallo stupore e un po' soprappensiero non apre la bocca, non muove occhio, sospeso e non sa con chi sia e dove si. e intanto , ricoperto di un gentile colore rosso tiene per vergogna in basso lo sguardo. 14. Qui era presente il nipote di Atlante che spesso lascia la sua natia Cillene e spesso viene dalle eterne ruote qui a scherzare con Amore. Costui si avvicina al ragazzo e lo scuote sì che gli fa alzare gli occhi sereni e gentili. E poi dolcemente con favole lo consiglia e con modi piacevoli lo richiama: 15. "Oh damigello! che sotto un velo umano sei fatto degno degli dèi, io vengo a rallegrarmi con te del tuo destino invidiato in cielo. Possa il tuo fuoco non sentire mai il gelo, né ti devi preoccupare del regno degli dei, poiché la regina dei re ti ha dato lo scettro con cui tu regni su di lei e sul suo stato. 16. Ma siccome ti vedo muto e pensieroso, sia per i tuoi pensieri che per rispetto o per dolore; oggi vogli consolare il triste, rassicurare il dubbioso e consigliare l'incerto. L'orgoglio della bellezza per cui sei famoso non ti faccia insuperbire, perché è un fiore che dura poco e, se non lo sai, fugge e quando è fuggito non torna più. 17. E ti voglio raccontare, se ti fa piacere, ciò che è successo al povero Narciso. Narciso era un ragazzo di cui si innamoravano tutte le belle ninfe di Cefiso. La più bella di queste, che aveva nome Eco, ardeva di passione per il suo bel viso e adorando quella sembianza divina sembrava diventa non un'amante ma un'idolatra. 18. Un tempo, questa ninfa era eloquente più di chiunque altra, ma da Giunone, iraconda e piena di risentimento, le furono lasciati solo gli ultimi accenti. Eppure, sebbene i lamenti tronchi non sapessero esprimere la sua pena aspra e profonda, ora con sguardi amorosi e ora con sospiri ella suppliva chiedendo pace per i grandi dolori. 19. Ma il giovane ingrato tiene chiuse le porte della pietà al suo dolore mortale. Porta la morte negli occhi e nelle mani, nemico delle fiere e di più dell'amore. Arma il viso di asprezza e il cuore di fierezza, crudele tanto quanto è bello e forte. Si appaga di se stesso e lascia negli altri il dubbio se la grazia o la ferocia prevalga in lui. 20. Le vergini amanti dicevano: " Amore sei preso in giro da questo sordo serpente, dove sono l'arco e la fiamma di cui ti vanti? Perché lui non ne rimane arso e ferito? Deh, tu signore fa che egli con sospiri e pianti ami invano senza essere riamato e senza essere gradito! Come sopporti tanto orgoglio? Vendica i tuoi scorni e i torti degli altri". 21. L'arciere contro la cui freccia non vale alcuno schermo porse il suo orecchio a queste calde preghiere e un giorno scorse il superbo cacciatore tutto soletto in un luogo solitario. Egli, stanco di inseguire cinghiali e orse, cerca riparo dal fuoco celeste; ogni uccello tace per il gran calore, tranne la cicala roca e stridula. 22. Tra colli verdi disposti come in un teatro sta una valle rustica e boscosa; qui non si usa la falce, qui l'aratro non incide la terra, non si taglia corteccia; una piccola fonte inghirlandata con una treccia di fiori, fresca e buia con belle ombre, qui si difende dal sole e così brilla che l'occhio arriva fino al suo fondo cristallino. 23. Sulla sponda letale di questa fonte che i fiori cospargono di perle e che fa un limpido specchio al cavo monte che la ripara dal sole con la sua altezza, [Narciso] appoggia il petto e la fronte affannata, immerge le mani e le labbra arse. E qui l'Amore, mentre egli è chinato a bere, vuole dargli una lezione così che impari a schernire la virtù di Amore. 24. [Narciso] ferma lo sguardo attento nelle belle onde e dentro vi vede la propria immagine; sente un nuovo tormento per uno strano amore, per lei che non crede essere una finta immagine; abbraccia l'ombra dentro il fuggitivo luccichio e sospira e desidera ciò che. non possiede; Oh misero, va cercando quel che porta in sé e non può trovare quel che ha vicino. 25. Corre, per avere refrigerio, verso l'onda fresca, ma qui, nel cuore, gli sorge una sete maggiore; qui risveglia la fiamma, ne accende l'esca dove il piede lo porta a mitigare l'arsura; arde e la sua 52. Le ninfe di lago e di montagna, nella stagione in cui gli cadono le corna, per cui ne rimane spoglio e privo e devono passare più giornate prima che rispuntino, gli componevano in mille modi una frasca ombrosa sulla fronte e in questa bella maniera rendevano di nuovo cornuto quello che per cause naturali aveva perso. 53. Tra i tanti che lo amavano e l’avevano caro ci fu Ciparisso, un giovane pellegrino, per il quale languiva il gran signore di Claro, poiché egli non vide mai volto più bello. L’età andava di pari passo con la bellezza, che era ancora giovane e della sua bella gioventù l’alba amorosa gli arrossava le guance. 54. Questo fanciullo, dai cui occhi ardeva accesa la luce del sole più che dai suoi stessi raggi, sempre lo seguiva, sempre era intento a tenerlo con sé, lo favorì e lo amò sopra ogni altro. Con le sue mani gli aveva fabbricato e appesa al collo una ghirlanda di campanelle d’argento, affinché quando ne sentiva il suono da distante, lo potesse ritrovare s’egli si perdeva. 55. Il giorno vaga con lui, la sera torna là dove lo accoglie un letto d’erba e di fiori. Spesso gli corre in braccio, gli siede in grembo, e dalle sue mani si nutre di foglie o beve acqua. Ciparisso è orgoglioso di possederlo, e il cervo ubbidisce umile ai suoi desideri e, con redini di seta, veloce e leggero si lascia montare come un cavallo. 56. Era estate, quando il sole non fa semplicemente vibrare i propri raggi sulle sponde assolate, ma fulmina dal cielo. Il bel fanciullo, stanco dopo una lunga caccia, arrivò in un querceto antico che formava una grande ombra su un prato verde, e il suo [cervo] addomesticato gli veniva dietro. 57. Adesso, mentre il cervo pascola ed egli riposa le membra nella foresta, vede non lontano un bel fagiano sporgere la testa rossa da un cespuglio. Piano piano prende l’arco, si alza da terra, e prepara la migliore freccia della sua faretra; tende la corda, poi l’allenta e scocca in avanti la freccia. 58. La freccia si spinge dove l’arciere la scocca, ma affretta le ali dove egli non vorrebbe. Dopo quel cespuglio, di fatti, si era messo il suo diletto cervo a pascolare. Per cui scagliato dal possente nervo, trafigge il fianco del povero. Pensa tu: per la ferita mortale cade, e tra il sangue vermiglio perde la vita. 59. Accorre il suo signore, rivolgendo lo sguardo pio verso il muggito flebile. E quando lo vede, ahi cacciatore afflitto!, che al posto dell’uccello che voleva ferire e sente gemere il poverello trafitto, che sembra volergli dire: “Cosa ti ho fatto, io?”, si sgomenta e trema e afflitto da grande dolore, vorrebbe trafiggersi il cuore con quella stessa freccia. 60. Scende lì, dal suo carro lucente e immortale, il dio dai lunghi capelli biondi, e gli dimostra con grandi discorsi che è una cosa da nulla quello che lo affligge. Ma nessuna ragione che adduca vale a consolare lo sconsolato. Bacia e abbraccio il collo amato del cadavere freddo, e vuole morirgli accanto. 61. sfoga il suo sdegno disperato e rabbioso contro l’innocente arco infelice. Spezza quella freccia empia e dice: “Ormai voi non spargete più sangue meno degno. Ma tu, mano ingrata e crudele, esecutrice del mostruoso colpo, perché ti sostengo? Perché, se hai commesso un errore con la freccia, non lo ripari con la spada in questo cuore? 62. Perché io, perfido e sbadato, con le mie stesse mani mi sono privato di ogni tesoro e, perduta ogni gioia e ogni conforto, schivo e aborro gli oggetti lieti e giocondi; ti prego, cielo, fa sì che io, senza il mio bene, che è morto, non resti vivo tra tanto dolore; fa’ almeno che io non senta e non veda se non feretri e lacrime e sospiri.” 63. Appena ha la forza di esprimere questo, gli si indurisce la pelle e gli si ingrossa il busto. Sorge un funesto tronco piramidale, la polpa e le ossa gli si fanno legno. I capelli diventano le fronde verdeggianti e per tutto il resto l’antica forma umana è rimossa da lui. Diventa una pianta tragica e funerea e, come l’uomo desiderava, diventa albero. 64. Se avesse curato, come chiederebbe la ragione, un amante divino più che una bestia, forse non avrebbe in tal modo dato spazio al destino che lo travolse. Ora tu non fare in modo che un’occasione vana ti porti via da lei, che ti elesse suo signore, perché la scompagnata beltà non è al sicuro, lontano da cui ne ha cura e amore. 65. So che spesso ti diletti a vagare per le selve, dove si aggirano trani animali, girando ardito e intrepido, cacciando con lancia o con freccia. Deh! Non voler entrare da solo tra i pericoli dei boschi, lasciando un tal piacere. Se non vuoi porre fine alla tua vita, ricordati del caso di Ila. 66. Ila, il bel figlio di Teodamante, era scudiero del generoso Ercole. Il sole non vide mai un volto più bello, un aspetto più bello, più begli occhi, più bei capelli. Spesso portava, con la giovane mano, le armi omicide dell’amante bellicoso, e reggeva il carico fedelmente dell’immensa e smisurata clava. 67. Quando il forte campione tolse anima e vita a Gerione, ad Anteo; quando vinse sull’idra, sul leone nemeo, sul cinghiale e sul toro, Ila fu sempre parte delle sue vittorie, e non lo volle mai abbandonare, seguendo con pronto spirito amico le grandi fatiche del suo signore invincibile. 68. 69. Sorse, portata da un buon vento, la famosa nave tra i verdi lidi di Misia, dove si ormeggia e fa scendere l’equipaggio. Qui, i giovani cercano riparo all’ombra delle belle campagne; chi apparecchia il cibo sulle rive, chi si fa un letto o una sedia con erba e foglie. 70. Ila, afflitto dal caldo e dalla sete, cerca dove poter riempire di acqua fresca un vaso, per cui si dirige dove lo porta il caso, con in spalla una urna dorata. Il sole, che avanza verso occidente, fa crescere le ombre della vegetazione folta; ed egli guarda dappertutto, se sente lo scrosciare di acqua. 71. Ed ecco, giunge dove una parete coperta di museo e felce, di edera selvaggia e di selce fitta fa ombra a una gran parte della spiaggia soleggiata. Qui, l’olmo, la quercia, l’ontano, il leccio scacciano il sole, quando batte più forte, donando della frescura dalla chioma scura, fitta di fronde. 72. Quasi come se fosse il cuore del bosco, una fonte ombrosa ravviva mormorando nel mezzo del prato, ed offre al viandante un luogo fresco dove riposare, al riparo dalla stagione estiva nel verde. Dal seno profondo del fondo erboso nasce una fonte che per cento diramazioni dà nutrimento all’erba, agli arboscelli, ai fiori. 73. Sotto questa fontana, le napee (ninfe delle valli e dei prati) del bel luogo, con i capelli sciolti, erano solite esercitarsi in balli di carole, in cerchio nel pomeriggio inoltrato. Come Ila rivolse a loro lo sguardo, riuscì a infiammarle nell’acqua, per cui abbandonarono il ballo, dal laghetto che si increspò nel mezzo. 74. Come una stella cadente cade nel mare dall’azzurro sereno del cielo estivo, o come il raggio del sole, al sorgere, fende il cielo notturno, così quella rara bellezza, rapita giù dentro quel capannello, precipitando tra le acque chiare si ritrovò in braccio alle fredde ninfe. 75. La schiera bagnata delle dee vezzose lo nasconde in mezzo a sé, prova a consolarlo; Driope, Egeria, Nicea, Nisa, Neera gli asciugano gli occhi con le trecce bionde. Egli piange la perduta libertà e con il pianto amaro aumenta le acque. Ahi cosa disse, ahi cosa fece, intanto, il domatore tebano di mostri, folle di dolore? 76. Lungo la spiaggia, di corsa, cerca e ricerca ogni calletta nascosta. Nella mano feroce tiene la grande mazza, sulle spalle ha la faretra libica. “Ila, Ila, Ila” chiamò per tre volte ad alta voce nella valle solitaria; nulla gli fu risposto, tranne che un mormorio debole e basso dal profondo monte. 77. Dopo che invano aspettò il suo ritorno, lanciò al cielo gemiti disperati, accese il bosco di sospiri rabbiosi, si dolse di sé, delle stelle, d’amore. Tifi, dopo aver spiegato le vele all’alba, accolse sulla poppa della nave gli eroi. Ercole rimase ad urlare sul lido con dolorose grida, povero amante. 78. Fra le tante storie che ti narro, voglio sottolineare un punto principale. Non essere, in amore, una foglia incostante, che al primo soffio rischia di cadere. Non essere una alga leggera e tremula nel mare, che piega qua e là il suo volere. Stabile ai venti e alle onde, raccogli in te la fermezza dei tronchi e degli scogli. 79. Un cuore giovane, vago del bello e del leggero, si infiamma di due begli occhi. Vacilla agitato, ora lascia, ora prende ogni colore, come fosse un camaleonte. Il pianeta volubile che splende nella notte, non cambia tante forme incontro al sole, quante egli sa cambiare. 80. So che il bene si diffonde e per sua natura ama comunicarsi agli altri. Ma chi arriva a godere di una bellezza perfetta non deve cercare l’esce di un nuovo ardore. L’anima gentile, stretta in una nobile unione, non si cura del frutto del giardino pubblico, perché una bellezza prodiga e volgare, posseduta da molti, è una ricchezza vile. 81. Non c’è niente che irriti tanto un cuore, quando Amore vinto dalla ragione si sdegna, quanto il vedersi i suoi piaceri tolti da una mano ingrata, e per una ragione meno degna. A te insegna di fuggire a più non posso, se hai senno, gli inviti lusinghieri e dolci degli altri, perché Venere non faccia di te quello che un’altra dea fece di Atide. 82. Cibele, madre feconda degli dei, fu un tempo innamorata di Atti, e ne era ben degna l’aria felice del viso che egli aveva, bello come ce l’hai tu. Aveva bocca rossa e capelli biondi, e occhi lucenti sotto ciglia scure, e la guancia rossa e colorita non era ancora coperta dei primi peli di barba. 83. Dopo che ella lo rese degno di salire sull’ultimo gradino della scala d’amore, gli disse più volte: “Tu vedi bene come io solo per te languisco e gemo. Non fare un torto alla freccia d’amore che mi trafisse, io troppo temo, solo perché ti amo troppo. Non ingannare la fede giurata, se non vuoi che questo favore si converta in danno.” 84. “No, no” diceva il giovane “non vedo bellezza che mi possa adescare nella sua trappola. Dal giorno in cui avete preso posto nel mio cuore, non seppi più languire per altri occhi che per i vostri. Qualunque, ovunque io sia, non devo essere altro che vostro, altro che voi. Arderò d’amore, vi amerò, così prometto, finché avrò sangue nelle vene e anima nel petto.” 85. Non passò molto che, mentre cercava acqua per spegnere la sete, desideroso di refrigerio e di pace, nell’ora più calda della giornata, le stelle insidiose e cattive lo guidarono in certi luoghi solitari e segreti, dove l’ombra gelida e fitta cadeva dalle chiome di un bosco silenzioso. 86. Tra spiagge solitarie e discoscese, una grande rupe rivolge le spalle montuose al sole; la sua parete fa ombra su piante selvagge, quasi come se fossero l’ispido crine della sua testa rocciosa; per l’apertura di un canale, distilla un ruscello argentato e cristallino; ai piedi della fonte, si apre un antro, come se fosse una grande gola, e forma la bocca del monte. 87. Lì trova seduta Sangarida, un’amadriade molto bella e vezzosa. L’avviso della dea serve a poco, egli la contempla furtivo e non parla. Si sente arrivare al cuore una dolcezza nuova e il cuore gli lampeggia come una stella, ora avvampa, ora raggela e trema come agli alberelli vicini tremano le chiome. 88. All’ombra del suo bell’albero natio, sotto una pioggia di fiori che le cade in grembo, la bella ninfa ha steso sul letto del fiume il lembo della gonna e, dimenticatasi di ogni altro pensiero, coglie dal prato quel lembo fiorito, dal prato a cui più che ciò che la mano non prende, con antico uso il guardo rende. 89. Mentre compone un bel fermaglio per i capelli di fiori bianchi e rossi, si specchia e sembra che rifletta tra sé e sé con l’umore sereno. Ma contro i fiori del bel viso e del bel seno, perdono di molto le rose e i gigli, e i fiati della bella bocca vincono sull’odore del giglio e della rosa. 90. Fatto ciò dopo che ha tre o quattro volte immerso il volto nelle acque tranquille, fa con la mano un recipiente per bere dell’acque. Ahi! Ella beve acque, Ati faville, anche se hanno in ciò fonti diverse: dalla mano e dagli occhi a poco a poco, mentre ella beve acqua, egli beve fuoco. 91. Allora egli spinse il passo fuori del boschetto ed esalò un sospiro che partiva dal centro del cuore, un sospiro che lo spirito strinse nell’aria e fu il muto oratore del suo martirio. Ella allora si riscosse e l’altro tinse le sue guance bianche del color porpora. Voleva parlare ma, come ghiaccio al sole, la voce veniva meno alle parole. 92. Si avvicinò alla leggiadra vergine, sospirando e gemendo, con un desiderio così ardente espresso in volto che nei suoi sospiri chiedeva tacendo, ma così riverente e dimesso che nei suoi gemiti taceva chiedendo, e spargeva fuori dagli occhi mille spiritelli alati, armati di frecce dorate. 93. Come ella volse il volto a quella voce, la giovinetta arse di pari ardore. Depose i fiori ed egli colse quel fiore che diletta tanto i seguaci d’Amore. Quando in un letto profumato li accolse la morbida, fresca e rugiadosa erbetta, ci fu sussurrare, bisbigliare di fronde, e dolce mormorio tra le onde. di oro, credo, se si aprisse la quarta sfera; la tenda reale, quando si aprì, offrì agli occhi selve, statue, palazzi. 122. In questa, Mercurio vuole presentare un gentile spettacolo al fortunato Adone. Mercurio è colui che prepara i personaggi e fa esercitare e provare ogni istrione e ciascuno di loro, secondo l’attitudine, mette per una parte gioiosa o triste, né consente di recitare con sé a una turba volgare di gente mercenaria. 123. Il tema della sua tragedia lo stendono l’Invenzione, la Favola, il Poema, l’Ordine, il Decoro e l’Armonia, la Facezia, l’Arguzia e l’Energia, l’Eloquenza è l’artefice suprema, e con lei è sovrastante la poesia; con loro, si prendono cura della Musica il Numero, il Metro e la Misura. 124. Si danno alla coppia i seggi d’oro, da cui si vede tutto quello che viene messo in atto; ed ecco uscire il primo di tutti, il portatore delle eterne ambasciate, che si vede venire dalle quinte per spiegare l’argomento in coro e il soggetto proposto e di cui si vuole convincere è il caso del misero Atteone. 125. E Atteone succede al Prologo, e viene con archi e frecce e cani e corna e si vede cinto da molti scudieri, armati di lance e vestiti nobilmente; e mentre che egli manda parte di questi a spiare i soggiorni delle selvagge prede, e traccia i passi e ordina il cammino, con diversi motivi loda la caccia. 126. Ed ecco, allo squillo di una tromba, Adone ha visto sbucare d’improvviso più di uno stuolo di bestie mansuete tra cespugli di mirti e ginepri; e dal palco saltano con gran trasporto daini e camosci e caprioli e lepri e in parte vanno in braccio alla dea, e parte si mettono sul suo grembo. 127. Ma poco dopo si dilegua al volo la caccia, e una nuova immagine prende il palco, perché librato in un polo volubile, sospeso in quel cardine, il quale ruota agevolmente ben confitto al suolo, e ora sale e ora scende, e portando intorno il suo peso mobile, alla fine chiude corno con corno. 128. Il mondo, come congiunti in un solo globo, lega insieme due emisferi diversi, per l’orizzonte che sega nel mezzo da cima a fondo la ruota universale, così l’ordigno che gira intorno fa vedere varie scene in un teatro, se non che, dove quello ne contiene due, questo ne contiene di più nel suo cerchio, 129. così che, per ogni volta che si vuole far vedere ad altri un nuovo gioco, l’ampia mole orbicolare fa cambiare aspetto al luogo in un solo istante, che dentro riesce a muoversi piano piano una vita concava, senza far rumore, e con tanto artificio ora si abbassa, ora si alza, in modo tale che l’occhio dello spettatore non se ne accorge. 130. Reggono la grande opera vari sostegni: correnti, pendenti, assi, travi, legni armati di bronzo ben saldo, catene solide e ferri grossi e pesanti, e con mille argani e mille artifici dello stello metallo, e chiodi e chiavi; e questo ordine risponde così bene a quello, che non si confondono tra di loro. 131. Ed ora, che per cacciare il fanciullo tebano toglie il piede dal verde prato, appena sul grande vertice bucato mosso il bastone ferrato si gira, la scena cambia luogo e si vede l’apparato trasformare l’aspetto, e, al cadere del primo sipario, rivela agli altri diverso aspetto. 132. Ci sono caverne buie, belle foreste, spiagge fresche, ombre scure e fonti chiare. Ippocrene sparge lì vive acque, qui Parnaso bifronte si erge in due fronti. Apollo discende da quei verdi monti con le sue dotte e vergini sirene, imitando quaggiù, belle e leggere, le danze che in cielo fanno i pianeti. 133. Ciascuno si coordina come una sola persona i passi, le movenze e le note al suono dell’organo, e con la mano, col piede e con la bocca in un dato momento percote o l’aria, o le corde o il suolo. Finito il ballo, in un momento parte la maestria dei meccanismi nascosti e, avvolgendosi sul perno a cui si appoggia, riveste il palco di una scena diversa. 134. Dopo il primo intermedio, di nuovo si vide il bosco e qui apparve Cinzi, che venne, stanca, a rinfrescarsi all’ombra verde e folta della vale Gargafia e, spogliatasi di ogni vestito, si lavò le membra stanche e assolate e, tra le acque cristalline e pure rimase a parlare con le altre ninfe. 135. Gira la scena e in un balendo, girando, la piazza è piena di centauri guerrieri; chi con nella destra un pugnale appuntito, chi con una lancia leggera e chi con una mazza pesante. Salvo lo scudo in braccio, non hanno nient’altro che copra il resto, né elmo o corazza. Grida la tromba in canti bellicosi: “Alla guerra, alla guerra, alle armi, alle armi.” 136. Già sembra che con furore si assalgano l’un l’altro, già sembra che il suolo si cosparga di sangue. La battaglia è armonica e costruita ad arte, ora si intreccia, or crea una testa, ora si allarga e mentre questo si scaglia contro quello, fanno cozzare clava con clava e scudo con scudo e, battendosi a tempo la schiena o il petto, fanno nascere diletto in mezzo all’orrore. 137. Mentre Adone è intento a guardare il bel gioco, Amore pietoso viene a rinfrescarlo, e gli porta due coppe piene d’ambrosia e di nettare, una d’oro e una d’argento. Egli assaggio dell’alimento solo quanto basta per ristorarsi, poiché mangia con gli occhi e beve con le orecchie un’altra esca, che gli piace di più. 138. Al terzo atto la macchina versatile si gira attorno al fuso rotante e ritorna Atteone, sgualcito e col volto pieno di polvere e sudore, e decide di riposarsi; raccoglie le reti e si imbosca da solo nella selva ombrosa e scura. 139. Ora, tra la fine di questo e l’altro atto si frappone un altro intervallo, non meno bello: si vede ondeggiare un mare, non so se fatto di zaffiro o di argento o di cristallo e le sponde si rivestono tutte, d’un tratto, di alga e di limo e di porpora e di corallo e le onde tremano con un moto ceruleo e i delfini guizzano fuori e dentro a nuoto, 140. e da qui e lì per il campo mobile si spiegano gli alberi alati le vele, urtano gli sproni e con rimbombo vengono a guerreggiare due armate possenti. Intanto, il colorato lampo di Giove fa vibrare per l’aria mille lingue di fuoco con lunghe strisce, fiamme oblique come bisce, che riempiono il cielo scuro di linee d’oro. 141. folgora il cielo e folgorano le spade, le onde tempestose e nere si gonfiano, le strade ondose si riempiono si acqua e sangue e piove dalle nubi e piovono le schiere. Chi scampa la spada e poi cade nel fuoco, chi scampa il fuoco e poi muore in acqua, chi muore ucciso ricoperto di fuoco e di acqua, insieme arso e sommerso. 142. Così è la guerra e la tempesta e il gelo, che quello che sembra è uguale a quello che è; ma in poco vedi rasserenarsi il cielo e in un solo colpo diventare il mare placido, e vedi Iri stendere per il cielo chiaro e rugiadoso il suo umido velo colorate; spariscono le navi, svanisce il mare, si strugge l’arco e tutto si dilegua. 143. Ciò fatto, di nuovo il bel teatro si chiude, e poi si vede sgorgare una bella fontana, dove tra le molte ninfe nude sta Atteone, a vagheggiare Diana. Ed ella, con le mani leggere e crudeli, gli toglie il cuore, e dopo le sembianze umane; rende cervo dal pelo irsuto e dalle corna ramose il cacciatore misero. 144. Alla fine, all’improvviso, il cielo diventa scuro e abbellendo d’argento il manto, vengono fuori le stelle e la luna. Poi, dando il cambio al pigro arturo, a mano a mano col giorno sorge l’aurora; sembrano veri il sole e l’alba, che rischiara le nebbie e dilegua le ombre. 145. Si alza il palco di sotto in uno stesso momento, e crea un mezzo anfiteatro. In esso appare una scena superba, con una ricca mensa, sontuosa e grande, e c’è tutto lo stuolo dei grandi dei, in tale pompa di arnesi e vivande, con tanti tesori e tanto splendore, che il cielo sembra sceso sulla terra. 146. Allora incominciò dal basso un concerto di musicisti, dall’altro e dal lato si udivano concordi vari strumenti, alcuni a mano, alcuni a gamba e alcuni a fiato, e si alternavano al beato pranzo versi acuti, veloci, lenti e gravi, ai quali rispondevano insieme, in molti cori, stuolo di ninfe e sinfonie d’amori. 147. La notte stava scendendo, quando comparve il cervo mentre attraversava il monte, inseguito da cani e da cacciatori. Ma Adone, instupidito, non poté più tenere aperti gli occhi o sostenere la testa, per cui china dal sonno il capo in grembo a colei che gli sta accanto. 148. Alla stessa maniera in cui, toccato a volte dal primo sole, il papavero rosso china la testa sonnacchiosa e tramortisce tra la rosa e il giglio, si addormenta in braccio a lei, che non si dispiace di tale incarico; né certo lei poteva avere peso più dolce, né lui cuscino più bello. 149. Questo fu il motivo per cui non poté sentire la fine della tragica strage, né con che strazio doloroso e cattivo venne sbranato a morte il giovano, né i lamenti d’Autonoe e di Aristeo, né sentire i pianti del vecchio Cadmo, poiché la pietosa dea che l’accolse sul suo seno, non lo volle risvegliare fino al giorno seguente. 150. Già il portatore del sole richiamava al giogo e al morso i corridori alati e già la bellissima nutrice dei prati, svegliata dal suono dei freni d’oro, serena e ridente fuori più del solito, era sorta dal suo letto di piume viola, per allattare con le sue acque celesti le erbe e le piante e tra le piante i fiori, 151. quando si svegliò Adone e così si accorse, che già il sole entrava chiaro dai balconi. Si sfregò gli occhi con le mani e si alzò, invitato da Mercurio e dalla dea. La bella Venere gli porse la mano e, dalla strada che usciva nel cortile, lo portò in un giardino, comparato al quale il verde dei beati Elisi perde di pregio.