Scarica "PEDAGOGIA INTERCULTURALE" di Macinai e più Appunti in PDF di Pedagogia solo su Docsity! PEDAGOGIA INTERCULTURALE 1. Una cornice storica: dalla intercultural education all’educazione interculturale L’obiettivo di questo libro è di riflettere intorno alle questioni che rientrano sotto lo sguardo della pedagogia interculturale per interrogarsi sul significato che esse assumono per la formazione umana oggi. La pedagogia interculturale sorge a partire dal 1980 circa. L’ultimo quarto del XX secolo vede l’emergere di fenomeni che mutano rapidamente le condizioni di vita degli individui: • Società postmoderna à società globalizzata. Le società avanzate del terzo millennio si percepiscono e si rappresentano come multiculturali. Il problema del nostro tempo sta tutto nella capacità di pensare il senso di questa condizione, per poterla vivere come singoli e come cittadini, senza paura, diffidenza e pregiudizi. La pedagogia interculturale prende forma mano a mano che questo problema assume evidenza. 1.1 la prospettiva dell’interculturalità: l’esigenza di una cornice storica La posizione che si cerca di sostenere nel libro è che la situazione paradossale di dirsi cittadini della società democratica e non saper o voler riconoscere il ruolo che le differenze umane hanno per la costruzione, la salvaguardia e il rafforzamento della democrazia stessa rappresenta l’emergenza del nostro tempo. Mancano sempre di più gli strumenti cognitivi, affettivi e relazionali per comprendere le differenze umane ed ammetterle come possibili. L’emergenza del nostro tempo è dunque un’emergenza più profonda di ciò che si crede. Essa riguarda il venir meno di un èthos condiviso che sembra star regredendo. Non può esistere democrazia senza multiculturalismo. L’orizzonte dell’interculturalità è quello posto dai diritti umani fondamentali espressi attraverso il principio di non discriminazione. Il tema delle differenze è l’asse portante, il fuoco attorno a cui ruota ogni progettualità pedagogica pensata per la comunità democratica. Alcuni punti di rifermenti di cui si parlerà: o non si può pensare a una pedagogia interculturale senza un richiamo esplicito alla dimensione politica che conferisce concretezza al discorso pedagogico e tale dimensione politica si individua nei diritti umani fondamentali. Si fa sempre riferimento alla pedagogia dei diritti; o non si può conferire senso pedagogico all’interculturalità se non attraverso la difesa, l’allargamento e la promozione della democrazia intesa come èthos, come sentire comune. Obiettivo di una pedagogia interculturale: pensare, progettare e realizzare l’educazione in vista della formazione democratica degli uomini e delle donne, a partire e attraverso l’espressione attiva delle identità individuali. Uscire dall’ottica di emergenza è entrare in quella del mutamento, della processualità del divenire, primo passo verso una possibile ragione interculturale. 1.2 Multicultural education: l’affermazione del valore della diversità etnica contro i paradigmi assimilazionistici Durante il secondo 900, guardando ai processi che hanno dato forma alle democrazie occidentali contemporanee, sul piano sociale, politico e culturale, è possibile individuare elementi utili per riflettere sul significato dei concetti fondamentali della pedagogia interculturale. Il contesto dove tali questioni si manifestano in maniera chiara per la prima volta è quello degli Stati Uniti (anni 60). Il paradigma dominante era quello assimilazionista. Nel corso dei decenni precedenti nella società vi era in gioco la conservazione dei privilegi bianchi e la conquista di spazi che permettessero l’uscita della condizione di marginalità in cui afroamericani, ispanici e immigrati erano relegati. L’obiettivo politicamente strategico dell’assimilazione dei gruppi discriminati su base razziale ed etnica si tradusse in un programma educativo per la conservazione dei privilegi da parte dei gruppi dominanti sul piano sociale e culturale. Si cominciò a diffondere (fine anni 40) un Intergroup Education Movement, che assunse come finalità dichiarata il contrasto dei pregiudizi etnici e razziali, intesi come causa principale del conflitto sociale. I destinatari di questa progettualità educativa erano i gruppi discriminati. L’approccio alla deferenza etnica e culturale si rivelava marcatamente assimilazionista e poggiava sull’assunto per cui, una volta cancellata la differenza stessa, i pregiudizi sarebbero venuti a meno e i contrasti si sarebbero risolti. In questa ottica l’educazione costituiva il volano per innescare e realizzare un processo di assimilazione, di americanizzazione, dei gruppi sociali più problematici. Le misure educative utilizzate rimandavano alla visione liberale della società, che trovava espressione nella metafora carica di retorica del melting pot. Secondo la visione liberale della società, gli individui, una volta liberati dal peso e delle conseguenze delle differenze etniche e razziali che esprimevano, avrebbero potuto trovare il proprio posto all’interno di una società moderna, giusta 4 neutra dal punto di vista culturae. Ogni differenza culturale, letta a partire da questa prospettiva, assumeva un significato negativo, venivano viste come forma di arretratezza. L’educazione assumeva scopo politico: permetteva a ciascuno di superare questa forma di arretratezza, agendo sulla cancellazione dei tratti culturali. Quello che non era dichiarato apertamente era che l’assimilazione di un modello culturale, che negava l’identità individuale, avrebbe relegato l’individuo ai margini della società. Il processo assimilatorio prendeva forma sulla base degli stessi stereotipi che si cercava di contrattare. Si svilupparono movimenti di protesta, ad esempio il movimento delle black people (Stati Uniti, 60), fu il principale soggetto politico ad opporsi all’ideologia liberale. Poi i movimenti si diffusero in tutto il mondo. Un primo passo fu compiuto attraverso la nascita e lo sviluppo dei cosiddetti ethnic studies, avviati allo scopo di rinnovare i curricola scolastici e formativi, con l’inserimento di programmi e corsi caratterizzati da contenuti incentrati sulla cultura afroamericana o ispano-americana. Si cominciò ad avvertire il bisogno di un’educazione multietnica che desse attenzione alla dimensione dei contenuti, del linguaggio, degli atteggiamenti, delle aspettative implicite con cui i docenti erano soliti entrare in relazione con gli alunni, delle norme e dei valori e alle modalità di verifica e certificazione. Lo scopo principale era che ogni studente potesse fare esperienza di un’educazione equa, di pari opportunità formativa a prescindere dal gruppo etnico e culturale di appartenenza. Successivamente, esigenze analoghe vennero con forza crescente espresse da altri gruppi sociali discriminati o penalizzati in materia di diritto all’accesso scolastico (donne, disabili). Tutte queste spinte confluirono nel concetto di multicultural education che fosse pronta a raccogliere esigenze e bisogni specifici di una gamma ampia e composita di gruppi sociali, soggetti collettivi e individuali. Dagli anni 80, negli Stati Uniti, si intese rilasciare l’obiettivo originario di un’educazione finalizzata a risolvere le ingiustizie sociali attraverso il contrasto ai processi di segregazione e traverso la desegregazione delle agenzie formative. La multicultural education insiste sulla necessità di diversificare i curricoli formativi rivolti ai gruppi oppressi, specificandoli in relazione ai contenuti culturali che ne caratterizzano l’identità etnica e valorizzandone i significati. Si sostiene che sia possibile affrontare il tema della giustizia educativa e sociale, destrutturando i pregiudizi e lavorando sull’affermazione positiva delle identità, offrendo strumenti per reagire ai processi di marginalizzazione e di esclusione sociale. Nel corso dell’800 l’aggettivo “naturale” subisce una forte rilettura attraverso l’idea di “nazione”. In tale rilettura l’appartenenza nazionale interveniva a fondare una seconda natura dell’uomo, una natura concreta perché politica e culturale, sebbene interpretata secondo caratteri che rimandavano all’essenzialità ottenuta ricorrendo all’ipotesi più concreta e storicizzata della discendenza e dell’ereditarietà. È occorso compiere un capovolgimento radicale della questione stessa: dalla ricerca del fondamento, assoluto o positivo, filosofico o politico, dei diritti, alla affermazione dei diritti stessi come fondamento della cultura umana. Il secondo 900 si trova a fare i conti non tanto con l’idea di natura umana, quanto sui residui ideologici di una concezione che lega i diritti al possesso degli specifici attributi che marcano l’appartenenza in senso nazionale, discriminando l’alterità. Il processo si svolse in maniera capovolta rispetto alle intenzioni di chi lo condusse. Fase ottocentesca. Emersero, in questa fase, molte contraddizioni a livello sociale, ma si mossero su un piano politico ristretto da contenuti ideologici. L’ideologia borghese aveva messo in chiara luce le esigenze di una classe particolare di individui, esprimendole sotto forma di principi universali e giunse a tradurli in diritti positivi particolari, senza ricorrere a una lettura di tipo filosofico. Tuttavia, nel corso del 19° sec., i bisogni umani legati alle condizioni di vita (sopravvivenza e conservazione vita) espresse in quella società in rapido mutamento si approfondì. Qui il concetto di dignità umana venne riletto alla luce dei bisogni fondamentali la cui soddisfazione è la precondizione alla vita sociale e politica. La soddisfazione di questi bisogni non è affatto scontata. Storicamente i primi diritti ad essere stati teorizzati e rivendicati sono stati le libertà fondamentali. La dignità umana è un concetto concreto, che significa storico e vitale, poiché si esprime attraverso le condizioni di vita (non è astratto come “natura umana”). I diritti fondamentali corrispondono ai bisogni fondamentali. I bisogni primari identificano la cosiddetta “seconda generazione dei diritti”: storicamente sono successivi, ma concretamente, precedono le libertà civili e sono primari rispetto ad esse. I diritti di prima generazione sono espressi nella forma attiva delle libertà positive (libertà di dire, pensare, agire, esprimersi). Si riferiscono al valore della libertà, inteso come esercizio della propria autonomia. I diritti di seconda generazione sono espressi nella forma passiva delle libertà negative (libertà dal bisogno, dalla sofferenza, dalla paura, dallo sfruttamento, dall’ignoranza, dalla violenza). Si riferiscono al valore della sicurezza, intesa come libertà da tutto ciò che minaccia la vita. Trovano la loro formulazione nel 19° sec. e esprimono il diritto fondamentale alla vita e alla sua conservazione. Questi diritti concorrono a determinare i contenuti del concetto di dignità umana. Alla metà del secolo XX viene a cadere ogni ipotesi di naturalità dei diritti. I diritti sono storicamente relativi e come tali non potranno mai ricevere un fondamento assoluto (cambiano a seconda dell’epoca). C’è un termine che gli storici dei diritti umani utilizzano per riassumere l’importanza del sentimento soggettivo e comune che emerge in ogni epoca, in rapporto alle condizioni di vita sperimentate sul piano sociale, politico ed economico da uno stesso gruppo: empatia. 2.2 I diritti tra bisogno e sentimento: il ruolo dell’empatia Un bisogno può essere soggettivo e individuale. Per essere riletto come un diritto, quel bisogno deve poter essere generalizzato. Per poter generalizzare bisogna riconoscere nell’altro i propri stessi bisogni (EMPATIA). Quando una simile generalizzazione venne proposta nella forma dell’universalità si era venuta a creare una cultura, fondata sul riconoscimento reciproco e il sentire comune. Come si può passare un’esperienza soggettiva (sentire un bisogno) a un’idea astratta e universale (reclamare un diritto)? Storicamente si presentarono 2 strade: § Scoperta diritti fondata su un processo di tipo logico-deduttivo. È esistito uno stato originario, in cui ogni uomo è stato libero di esprimere la propria natura innata. Espressione di un bisogno individuale che rivela una natura comune a tutti gli esseri umani. § Idea di diritti basata su una dimensione sentimentale. I diritti per essere convincenti devono essere sentiti. Se un individuo non si sente coinvolto in quella universalità, la sua adesione all’idea di diritto sarà solo teorica. Il fondamento dei diritti non può essere una via astratta (come il primo punto). Quando la traduzione di bisogni individuali in diritti generali riuscì a suscitare un moto collettivo, allora l’idea dei diritti incontrò un consenso convinto. Se i diritti sono universali perché riguardano i bisogni di tutti, tutti devono sentire che i bisogni di ciascuno sono i propri bisogni. Il sentimento dell’empatia può fondare la condizione che i diritti possono essere universali. L’accesso all’idea di diritti umani all’interno di una cornice politica avvenne nel corso dell’800, quando la concezione borghese-liberale-illuminista incontrò una riformulazione in senso progressista e democratico. Durante la prima metà del 900, si continuò ad utilizzare l’aggettivo “universale” per riferirsi ai diritti umani. Era, però, sempre più chiara la fragilità dell’idea di diritti universali di fronte al problema di una naturalità inattingibile. La perdita della speranza di un universalismo dei diritti mette in crisi l’idea stessa dei diritti umani. Fino a qui si faceva riferimento al primo punto sopra (1°via di accesso). Seconda strada. A metà 900, prese a snodarsi il processo di elaborazione che condusse all’emergere della attuale nozione dei diritti. Questa consisteva nel considerare l’universalità dei diritti non come un dato a priori, ma come un traguardo cui tendere nel divenire storico dei processi culturali, sociali, e politici che riguardano l’umanità, intesa nella sua irriducibile varietà. Il contenuto dei diritti da proporre al consenso sta nei principi o nei valori di cui il testo è espressione contingente. Un valore sarà tanto più profondo quanto più sarà acconsentito. Oggi, i diritti non sono più naturali e diventano essi stessi fondamentali. I diritti umani fondamentali sono storici, non astratti: sono emersi nel corso della storia, nelle circostanze in cui gli uomini hanno sperimentato e preso coscienza dei bisogni. I diritti fondamentali si sono evoluti dopo la loro scoperta e si sono continuati a evolvere con il mutare delle condizioni di vita espresse dalle società umane. È di fronte ad esso che prende forma il tema dell’educazione. 2.3 I diritti nell’età contemporanea: tra universalismo e relativismo, la dimensione interculturale Metà del 900. Occorre lavorare su un piano di concretezza e realtà per generare consenso facendo leva sulla forza della suggestione di cui invece si serve il sentimento. La realizzazione dei diritti dipende da quanto i valori che ne ispirano e ne esprimono i contenuti potranno risultare convincenti. La fase di “internazionalizzazione dei diritti” si avviò all’insegna di una nuova emergente complessità. Si palesò un rischio inedito e peggiore: la caduta del relativismo assoluto. I diritti continuavano a fare parte della dotazione di cui l’individuo dispone fin dalla sua nascita. Questa dotazione veniva declinata nell’ottica ristretta dell’appartenenza a una comunità scelta di individui, che si potevano identificare per una serie di tratti comuni, l’assenza dei quali permetteva di escludere chiunque dal godimento di tali diritti. Il sentimento di appartenenza a un gruppo di simili si era rivelato bene più forte di qualsiasi ipotesi filosofica astratta. L’idea di nazione > idea di natura umana. L’esito peggiore fu la nazionalizzazione dei diritti (solo chi apparteneva per nascita alla nazione era titolare di diritti. Dal 1945 a ora (terza fase storica dei diritti umani) si pose la possibilità di superare le letture che consegnavano i significati dei diritti alla dimensione di un relativismo assoluto e che postulavano l’inconciliabilità tra particolati specifiche visioni del mondo. Uscì un documento ufficiale (1948), Dichiarazione universale dei diritti umani, dove “universale” fa riferimento alla dichiarazione non ai diritti. Inizio si una decisiva presa di coscienza. Nel 1947 fu pubblicato lo Statement on Human Rights, manifesto nel quale si affermò che la credenza nell’autoevidenza dell’universalità dei diritti altro non fosse se non una mera conseguenza del pregiudizio etnocentrico. Da quel momento il discorso sui diritti umani si aprì al dialogo con altre culture umane, fino ad assumere in maniera decisiva una caratteristica interculturale. Il principio di non discriminazione è cardine della odierna concezione interculturale dei diritti fondamentali. 1. La posizione originaria non è l’universalità dei diritti, ma le differenze umane. 2. Alcune delle caratteristiche che rendono diversi gli esseri umani tra loro, possono essere causa di discriminazione per alcuni esseri umani. 3. I diritti umani appartengono a tutti gli esseri umani, che sono tutti diversi, indipendentemente da quelle caratteristiche che possono essere causa di discriminazione. Senso di un’universalità che non è postulata come dato di fatto assoluto e a priori, ma come condizione che riguarda singolarmente e relativamente ciascun essere umano. L’orizzonte dei diritti è un complesso di valori, non di contenuti. Il concetto di dignità umana rappresenta l’orizzonte dei diritti del 900. Racchiude l’idea di un’umanità planetaria, ricca di differenze culturali e capace di individuare le ragioni valide per la costruzione delle condizioni che permettono il dialogo sopra una piattaforma condivisa di valori. Si prefigura un possibile destino dell’umanità, quello della convivenza pacifica e del reciproco riconoscimento. 2.4 I diritti fondamentali nell’era postglobale: empatia cosmopolita e dignità umana L’approvazione della Dichiarazione universale sui diritti umani costituì sul piano giuridico e polito, lo strumento che fissava gli standard tutt’ora vigenti per la risoluzione delle dispute tra Stati, tra cittadino e Stato, tra ogni cittadino e ogni Stato del mondo. Appoggiare su standard giuridici internazionali condivisi sull’adesione a principi ideali che esprimevano attraverso un complesso di valori, implicava l’attribuzione di un ruolo decisivo all’educazione, riconosciuta come un diritto fondamentale. L’educazione rappresentava un diritto particolare in quanto veniva riconosciuta come condizione necessaria per il riconoscimento e l’esercizio di tutti gli altri diritti fondamentali. Assumeva il senso di un’educazione alla vita degna. senso di piena realizzazione come individuo può giungere a cogliere il soggetto solo a patto che la sua specificità gli sia riconosciuta da altri. Ciò che denominiamo identità è l’esito temporaneo e mai definitivo di un processo dinamico e relazionale di individuazione che impegna il soggetto alle prese con la dimensione sociale del suo esistere. Procede per differenziazione e omologazione. La coscienza ha un Io e ha un mondo: vi è un soggetto che guadagna se stesso, implica il proprio oggetto e poi lo nega per tornare a sé. La piena realizzazione di sé implica una dimensione relazionale o culturale. Se le identità individuali si pongono per differenziazione, sono le culture a funzionare come marcatori di identità differenziate. Il processo di identificazione di tali condizioni può seguire due direzioni opposte: in gioco c’è un Io e un non-Io, uno va posto e l’altro conseguentemente negato per affermare positivamente il primo. La condizione di marginalità è tale da impedire all’Io di porre se stesso. L’Io marginalizzato è tale perché costituisce il non-Io posto e negato da un Io dominante nel movimento della sua presa di coscienza (l’orientale non si pone come orientale finché un occidentale non lo definisce come altro da sé). Seguendo questa strada, l’unica possibilità per uscire dalla condizione di subalternità o di passività sarà l’assimilazione e la negazione di quei tratti differenti che all’occhio del dominatore mi pongono nell’alterità. L’altra strada possibile si traduce nell’atto di rivendicare il senso positivo di ciascuno di quei tratti distintivi che marcano una differenza, rimpossessarsene e farne un segno identitario. L’unica strada possibile per giungere a questo approccio è far valere il significato positivo della propria differenza specifica (orientale non significherà, in questo modo, essere non-occidentale. I movimenti per il riconoscimento dei diritti civili come black people o i movimenti neofemminismi hanno percorso questa strada. Si auspica che essa possa valere anche per quei gruppi che solo di recente hanno conquistato la possibilità di esporre in pubblico la propria differenza per riaffermarla in positivo, nell’ottica di un allargamento di diritti (es: LGBTQIA). La differenza non può sussistere in forma isolata, ogni possibile determinazione del suo concetto sorge acquistando senso come prodotto del confronto tra due o più entità. Ciò che denominiamo “confronto” è a sua volta il risultato di un processo di selezione e di isolamento di alcune caratteristiche particolari che permette di discriminare e quindi valutare tali entità, orientandole in maniera reciproca e gerarchica, in base al possesso o meno di quelle stesse caratteristiche. Quando la misura del possesso di tali caratteristiche si carica di significati identitari, allora si innescano dinamiche di inclusione e di esclusione (ingroup e outgroup). Da questo punto di vista la differenza assume la forma di una costruzione sociale: solo alcune caratteristiche vengono riconosciute come differenze e solo alcune assumo significato identitario tale da includere o escludere dal gruppo l’entità. Es: Avere i capelli o no, non comporta esclusione, mentre il colore della pelle sì. Le identità attraverso il processo di costruzione delle differenze vengono in questo modo fissate a livello sociale. Il processo della creazione/attribuzione di differenze prevede: • la selezione di certe caratteristiche e non di altre; • la costruzione di significati identitari sopra di esse; • l’attribuzione di tali significati agli individui che così possono essere riconosciuti e discriminati. Da caratteristica soggettiva, essa diventa criterio sociale per l’inclusione o esclusione. Le caratteristiche che subiscono questa lettura non sono solo qualità fisiche, ma anche tratti culturali (viene trasformato in un’essenza fissa e immutabile). Concezioni reificate di certi elementi culturali possono essere alla base di quelli che potremmo definire “eccessi di cultura”: esse inducono a concepire, più o meno consapevolmente, gli esseri umani non come persone, ma come meri supporti di determinate caratteristiche e attitudini culturali, assumendo però il termine culturale come sinonimo di naturale, biologico, essenziale e quindi non passibile di cambiamento. L’esito del processo di reificazione dei tratti culturali conduce verso una sorta di deriva razzistica del concetto stesso di cultura. Troviamo le spie rivelatrici degli eccessi di cultura nel linguaggio con cui si esprime il senso comune (es: attraverso aggettivi o epiteti). Se dovessimo ricorrere a una metafora per rappresentare in forma visiva il concetto di “cultura” forse potremmo pensare a un fiume. Come un fiume, ogni cultura modella il territorio che pretende di contenerla e delimitarla e come un fiume una cultura non è mai identica a se stessa nel tempo: la sostanza del fiume è il suo scorrere, quella della cultura di divenire costantemente altro da sé. La caratteristica che meglio esprime la dinamicità di ciò che chiamiamo “cultura” è la sua processualità. Ogni cultura è costantemente prodotta e riprodotta nelle sue manifestazioni umane e nel gioco delle interazioni sociali. Ogni cultura è in sé pluralistica, perché è aperta e porosa. Gli individui non “possiedono” una cultura, ma più precisamente partecipano alla cultura perché sono vivi e umani. 3.3 Terzo lato della cornice concettuale per l’intercultura: complessità Nel corso del primo decennio del terzo millennio, il concetto di complessità è definito come un paradigma ormai compiuto: un modello interpretativo che permette di riconoscere e di spiegare i fenomeni che danno forma e visibilità all’essere e all’esistere dell’umano nel tempo e nella realtà attuale (questo è un problema). Parlare della complessità come di un nuovo paradigma equivale a chiudere il discorso: ne viene sterilizzato l’elemento che più la caratterizza, ossia la dinamicità e la fluidità. La complessità è la categoria radicale che permette la costruzione di significati in assenza di paradigmi. Parleremo della complessità non come un paradigma, ma come una prospettiva, una cornice, che non trattiene la realtà costringendola in definizioni, ma la lascia fluire e si lascia da essa attraversare. Una prospettiva complessa è tale perché abbraccia la realtà circostante e permette di allargare lo sguardo. L’attenzione di sposta dalla complessità delle cose (i fenomeni) alla complessità dello sguardo di chi le osserva (il pensiero). Si inizia a parlare di complessità quando comincia a cambiare il modo di concepire la conoscenza della realtà. Si fa largo la consapevolezza che la conoscenza significhi costruzione di sapere sulla realtà che dà forma e trasforma la realtà stessa. L’obiettivo della conoscenza, per il pensiero capace di adottare la prospettiva della complessità è quello di rinunciare a qualsiasi fondamento esterno, al conoscere stesso, avendo come garanzia la capacità e la possibilità di sottoporlo costantemente al vaglio del pensiero critico, esercitato in piena autonomia, con piena responsabilità e il rigore della ragionevolezza. L’orizzonte della complessità si apre al pensiero, che deve rinunciare in partenza alla presunzione di poter cogliere la completezza della realtà come panorama. Quali caratteristiche assume il sapere, se la nostra conoscenza è una continua impresa di costruzione e ricostruzione di significati condivisi, e se il pensiero capace di esprimerla si muove non nell’orizzonte del vero e dell’assoluto, ma in quello del certo e del possibile? Mettiamo in risalto 5 caratteristiche che riassumono il carattere assunto dai saperi nel tempo che richiede l’esercizio del pensiero complesso. 1. Relativismo storico-evolutivo. I saperi umani sono provvisori in quanto storici, ossia mantengono validità in funzione della pertinenza delle risposte che forniscono di fronte al mutare delle condizioni di vita sperimentate nella circostanza presente e in riferimento alle domande di senso che da essa scaturiscono. La conoscenza non trova altro fondamento se non i bisogni, le esigenze, i problemi e le questioni che deve soddisfare e pertanto si trasforma con il mutare delle condizioni di vita della comunità umana che la esprime. 2. Prospettivismo. I saperi umani sono relativi in quanto prospettici, ossia sempre incarnati in un fascio particolare di esperienze soggettive e localizzati in un repertorio plurale di culture. 3. Problematicismo. I saperi umani sono aperti in quanto storici, ossia sempre orientati a cogliere l’incongruenza, l’antinomia, la contraddizione che emerge nella relazione con la realtà, tra come il mondo si dà e come potrebbe o dovrebbe darsi. La problematicità è il dato originario che emerge dall’esperienza di incontro con il mondo. 4. Laicità. I saperi umani sono plurali in quanto relazionali, ossia orientati al dialogo, al confronto e alla sintesi. I saperi sono umani perché servono alla vita e in essa dono immersi; in quanto tali non possono non essere democratici, patrimonio condiviso che richiede partecipazione attiva, diffusione orizzontale, possibilità di scelta e assunzione di responsabilità. 5. Interculturalità. I saperi umani sono gratuiti in quanto espressione dell’umano dell’uomo e della donna, ossia rappresentano l’immane e inesauribile sforzo di cura che gli esseri umani rivolgono a se stessi. È il requisito che prefigura l’obiettivo della conoscenza e lo pone come ideale regolativo e al tempo stesso come criterio etico. Il sapere è tale perché rende liberi e la conoscenza è ricerca di libertà. 3.4 Quarto lato della cornice concettuale per l’intercultura: interculturalità L’interculturalità è apertura verso l’esterno. Lo spazio dell’interculturalità è fisico e cognitivo, esterno e interno, relazionale e mentale, l’interculturalità è la condizione, ciò che rende concreta la possibilità del passaggio e del divenire, rafforzando contemporaneamente il senso di appartenenza. L’interculturalità non è la condizione di chi si trova tra più culture, ma è la modalità in cui un soggetto “abita” la cultura, il modo in cui vive il senso di appartenenza ai significati culturali che gli sono propri. Tracciare un confine significa in primo luogo separare e descrivere, in secondo luogo significa indicare il punto esatto dove può avvenire il passaggio. Il confine come soglia, sul piano culturale, indica il punto del passaggio possibile. Se il confine è una linea che distingue un dentro da un fuori, la frontiera è la striscia di territorio posta tra il dentro e il fuori, in cui non si è ancora dentro e non del tutto fuori (essere in between). È la terra di mezzo dove avviene l’incontro. Il confine è il fulcro di una possibile relazione di incontro, di dialogo, di costruzione condivisa di significati possibili. L’esistenza è liminare in sé. Esistere è stare vivendo. Stare vivendo significa essere costantemente rivolti verso il confine, ossia il futuro. L’interculturalità è prendere le misure dei confini che limitano le possibilità di fare esperienza del mondo e degli altri. È una prospettiva che porta a concepire l’esistenza umana come alimentata da un’incessante esigenza di andare incontro a ciò che ancora non si è avuto occasione di conoscere. È la convinzione che l’incontro con ciò che è diverso da sé sia l’unica possibilità che ci viene offerta per continuare a crescere. La nozione di cittadinanza intesa come diritto a rivendicare diritti, si è formata in epoca contemporanea. Tale definizione di cittadinanza ha preso consistenza in stretta relazione con l’idea di nazione (insieme di individui per cui vige tale definizione) e con il sentimento di appartenenza ad essa (relazione di reciprocità). Il problema del nostro tempo è: • Come rendere le comunità inclusive? • Come fare a lasciare alle spalle un sistema selettivo come quello dell’appartenenza nazionale, che si dimostra inadeguato a corrispondere alle esigenze di tutti i membri di una società caratterizzata dall’emersione e dalla visibilità delle differenze? La cittadinanza è rappresentata da 4 idee portanti che la racchiudono in una cornice (una gabbia concettuale): o Sovranità. Il diritto di una collettività a definire se stessa facendo valere il proprio potere su un territorio circoscritto. È l’atto con cui la collettività definisce se stessa come popolo. L’elemento che interviene per confermare la dichiarazione è il sentimento di appartenenza o Territorialità. Concetto fondamentale e determinante sul piano politico e ideologico durante il consolidamento degli stati-nazione. Fa da collante tra individuo e comunità. o Nazione. Durante la prima età contemporanea, la ragione stessa di uno Stato era l’esistenza di una nazione (nation building). Per fare una nazione gli ingredienti indispensabili erano: una comunità identificabile attraverso un territorio. Ciò che rese l’idea di nazione tanto potente fu l’interpretazione della naturalezza, identificativo di un’appartenenza comune, circoscritta a pochi. Una serie di fattori comuni, concentrata entro un perimetro di un territorio definito, trasformava gli individui che vi risiedevano in una comunità di affini per natura. Nella realtà reale i fattori comuni erano ben poco omogenei (es: lingua). L’idea di nazione è dunque una credenza. I diritti si saldano all’appartenenza a una ben precisa e determinata comunità territoriale che si esprime attraverso la partecipazione all’identità nazionale (un’identità costruita per differenziazione e contrapposizione). L’identità nazione ha rappresentati un criterio utilizzato per escludere dai benefici dell’appartenenza nazionale tutti coloro che non fossero in possesso di tali requisiti. o Sangue. Può fornire un fondamento soggettivo. Il sangue è ciò che di più intimo si dia in natura ed è lì che si viene a porre la fonte soggettiva dell’identità nazionale e quindi culturale: la discendenza (presupposto definitivo dell’appartenenza alla nazione e quindi alla possibilità di rivendicare diritti). l’appartenenza però deve essere un dato di fatto ascrittivo di ogni individuo. Lo ius sanguinis trasforma lo statuto giuridico della cittadinanza in una questione biologica. In questo modo lo status di cittadino e di straniero assumono carattere di immutabilità (2 possibili condizioni a cui l’individuo può essere riferito). Il principio giuridico che fonda la cittadinanza sul sangue, da un lato istituzionalizza una concezione biologica dei diritti, dall’altro lato, contribuisce a rafforzare, legalizzandola, una concezione negativa della differenza culturale. La discriminazione si traduce, quindi, in una penalizzazione dei diritti fondamentali, per quanto riguarda la possibilità del loro riconoscimento o esercizio. Rappresentazione del “razzismo senza razza” (razzismo istituzionale che nega il pieno godimento dei diritti, dei beni e dei servizi). 5. La dimensione sociale: le coordinate dell’impegno educativo per l’intercultura Pedagogia dell’impegno: obbligo a prendere una posizione di fronte alla realtà e come responsabilità di dichiarare quale essa sia (impegno politico). La dimensione sociale della pedagogia interculturale è l’impegno a rintracciare bisogni emergenti e a stimolarne l’espressione consapevole ed autonoma. Lo fa intervenendo nei contesti e progettando situazioni formative. 5.1 il quadro: la società postglobale nell’era della crisi Era postmoderna à fase globalizzazione (20 anni) à società postglobale. Globalizzazione significava la raggiunta si massima estensione possibile, sul piano geografico, demografico, dello spazio aperto al mercato arrivato a coincidere (virtualmente) con i confini stessi del pianeta. Questo sistema, che legava così saldamente il reale al virtuale, non si arrestava solo all’ambito economico e finanziario, ma anche a quello sociale, politico e culturale. Il termine globalizzazione fu usato ovunque e per tutto. Come spiegazione, giustificazione o causa di qualsiasi evento che impattasse in positivo o negativo sulla vita dei cittadini e sulla politica dei governi (es: cambiamenti climatici; tassi disoccupazione giovanile). Questo perché questo termine evocava una grande complessità, rispetto a qualsiasi possibilità di sintesi, per cui ciascuno poteva sentirsi esonerato dall’esplicitarla. La narrazione della globalizzazione assumeva due versioni possibili, a seconda dell’atteggiamento: § se il fenomeno osservato era un “problema”, la globalizzazione era il jolly che forniva la scusante di una situazione che risultava ingestibile; § se il fenomeno era “speranza”, la globalizzazione era il feticcio che forniva la rassicurazione. Nel 2006 scoppiò la bolla finanziaria. La società era compiutamente globalizzata all’insegna della nuova era: quella della crisi. L’era postglobale è dunque l’attuale età della crisi (2006 e 2012) che ci porta dove siamo ora. A differenza della globalizzazione, la crisi ha solo scenari negativi. La crisi si riflette sulla dimensione politica e su quella sociale. Sul piano politico-economico, la tendenza più forte è quella che spinge ad uscire da tutte le situazioni che hanno determinato la crisi economica stessa, piuttosto, che trovare possibili correttivi. Se essa è sorta come una crisi da globalizzazione la reazione è quella di ripararsi all’interno di un orizzonte più ristretto, nel localismo (politiche protezioniste, brexit). Anche sul piano politico-sociale c’è questa tendenza a tornare indietro. Si rafforzano le relazioni di prossimità tra i membri del gruppo, ma allentando qualsiasi forma di solidarietà verso l’altro. La narrazione che caratterizza l’età postglobale lascia intravedere il rischio che stanno correndo le società democratiche contemporanee. La pedagogia interculturale in prospettiva sociale è chiamata a raccogliere le sfide in atto in questo tempo. l’emergenza odierna sta negli strumenti di cui disponiamo sul piano cognitivo, affettivo, etico e relazionale, che appaiono fortemente inadeguati per fronteggiare il rischio di regressione a cui la società è esposta. Serve un progetto per allenare il pensiero alla differenza per favorire la conoscenza reciproca contro l’intolleranza e contro il razzismo. 5.2 il nucleo: le costellazioni familiari Le famiglie costituiscono, nel loro complesso, i nuclei che danno forma e struttura alla società. Il bisogno di famiglia appare tanto più forte nell’epoca della crisi perché attraverso di esso si esprime e prende forma l’esigenza di ritorno alle origini. La famiglia rappresenta la sponda sicura alla quale fare ritorno per mettersi in salvo dal mondo esterno. Il paradosso è che proprio la famiglia risulta la più fragile delle strutture sociali. Le famiglie attuali sono l’espressione varia e multiforme del pluralismo culturale che caratterizza l’irriducibile gamma di stili di vita, scelte e preferenze, valori e desideri, progettualità, credenze e saperi incarnati dai membri della società multiculturale. La società è composta dalle relazioni che gli individui creano tra di loro. Le relazioni familiari ci conducono esattamente al cuore della differenza culturale. Sul piano ideale il concetto di famiglia tradizionale è seriamente messo in crisi dai processi intercorsi negli ultimi 50 anni. Proprio nel momento storico in cui si ricerca l’approdo sicuro della famiglia, si scopre quanto la stessa famiglia non sia così familiare. E ancora una volta si guarda indietro per convincersi che possa restare immutabile come prima. Ammettere le differenze a livello famigliare e la varietà culturale e biologica della famiglia, significa dover rinunciare alla restaurazione di un ordine tradizionale preglobale e al disporsi al dover accettare la nostra condizione: siamo multiculturali, la differenza non è fuori, ma dentro a ciascuno di noi. Allora la differenza non è semplicemente l’incontro con l’Altro o con l’inatteso. La differenza colta a livello famigliare è quella che genera il più inquietante degli allarmi e pregiudizi sociali: il fondamentalismo culturale. Il fondamentalista è colui che chiude gli occhi per poter negare ciò che già esiste (negazione della realtà). La presenza di famiglie omogenitoriali o delle coppie omosessuali o delle “famiglie multietniche” rappresentano i casi più critici. La sintesi del pensiero reazionario postglobale, sovranista in politica, razzista sul piano affettivo e violento sul piano cognitivo erano degli slogan, tra cui: “non esistono negri italiani”. Nello slogan vi è pura e semplice cancellazione, quindi eliminare a priori nella stessa possibilità di esistere. Quello slogan grida “tu non esisti”. Il pensiero fondamentalista postglobale, reazionario di fronte alle differenze che lo interpellano non sente ragioni né ricerca evidenze, ma solo ulteriori occasioni per potersi semplicemente rivelare e manifestare. Eppure, per l’educazione in prospettiva interculturale vi è solo una via di uscita dai pregiudizi: il dialogo e la relazione. 5.3 I contesti sociali: i servizi educativi 0-6, la scuola, le agenzie formative del territorio Un polo della dimensione sociale è la gamma dei contesti sociali in cui si svolgono le relazioni interpersonali e le dinamiche della vita comunitaria. In questo campo le agenzie educative sono di grande importanza e hanno il ruolo di frontiera. Capiremo il carattere che il discorso interculturale acquista all’interno di tali luoghi di formazione. In particolare, si fa riferimento: - Ai servizi per la prima infanzia e alla scuola dell’infanzia; - Alla scuola e alle agenzie formative formali; - Ai contesti educativi non formali dove si erogano servizi alle persone. La prospettiva interculturale nei servizi e nella scuola dell’infanzia. Parliamo di “realtà fattuale” come quella caratteristica della realtà di non poter essere negata. Ci si può rifiutare di vedere qualcosa, ma non per questo scompare o non esiste. Questo si traduce poi nell’incapacità di capire ciò che non si vuole vedere. Chi parla di multiculturalismo nei termini di emergenza è colpevole di incomprensione o di rifiuto. Definire una società multiculturale non deve significare isolare un suo tratto, ma coglierne un elemento portante che contribuisce a darle forma e renderla ciò che di fatto è. I volti dei bambini di oggi sono la promessa di una società ad alto tasso di differenza etnica e culturale, in cui non occorrerà descrivere il senso di questa condizione perché l’incontro continuo L’elemento senza tempo della narrazione sta nel fatto che ogni storia in quanto tale, indipendentemente dal suo contenuto e la dimensione su cui esso acquista significato, ha sempre la medesima struttura (trama). Ogni storia ha la trama perché ogni storia è tale da essere raccontata (inizio, svolgimento e conclusione). Riletta al pensiero riflessivo, l’esistenza stessa può assumere la forma di una narrazione. La narrazione autobiografica crea un contesto per la vita raccontata e già vissuta: un contesto che invita l’altro ad esserne parte. La libertà da parte del narratore di organizzare, presentare e costruire la propria autobiografia è la condizione essenziale della metodologia di ricerca. Dal rispetto di ciò dipende la validità dell’intervista e del lavoro di ricerca che essa permette di sviluppare. Abbiamo, quindi, visto 4 punti principali che riassumo l’importanza della narrazione per la vita: § Relazione con sé; § Relazione con l’altro; § Costruzione dei significati attribuiti alla vita; § Condivisione di una comune visione del mondo. 6.2 …a patto che vi sia qualcuno disposto ad ascoltarla: storie di vita e intercultura Se il linguaggio rappresenta il logos comunicativo allora è proprio il linguaggio che permette di agire sul pensiero. Se dunque l’obiettivo principale sul piano pedagogico è quello di facilitare una riforma complessiva del pensiero, allora diventa fondamentale il lavoro educativo e formativo svolto attraverso il linguaggio. Durante la narrazione il logos comunicativo attraverso il linguaggio si riferisce a quei contenuti di pensiero che esprimono il senso della stessa identità del soggetto narrante, che solo nell’atto dell’esser verbalizzati acquistano valore esistenziale. Il linguaggio è lo strumento per conquistare l’altro. Le metodologie narrative spostano la posizione del ricercatore e lo trasformano da un osservatore che analizza oggettivamente, in un ascoltatore che di fronte a un soggetto vivo e parlante si pone l’obiettivo di comprenderlo per capirlo. La metodologia narrativa non ha un oggetto di ricerca, bensì un “soggetto” di ricerca: un essere umano con il suo carico di vita. Il rischio delle scienze umane è quello di studiare il proprio soggetto come se fosse un oggetto. Attraverso le metodologie narrative ciò che il ricercatore spera di ottenere è la possibilità di comprendere ciò che vede senza aver la possibilità di viverlo in prima persona (chi non è mai stato bersaglio di pregiudizio razzista come potrebbe riuscire a comprendere l’effetto sul piano esistenziale, psicologico e sentimentale?). Il ricercatore ha a sua disposizione 3 elementi da dover combinare in una metodologia di indagine scientifica di tipo narrativo: o Un soggetto; o Una disponibilità relazionale, che lo spinge ad avvicinarsi a quel testimone con rispetto e prudenza; o Una competenza comunicativa profonda, che si esprime in un sentimento di vicinanza empatica. Quando l’oggetto della ricerca è un soggetto allora la ricerca si carica di valenze e contenuti etici. Nel campo della ricerca pedagogica interculturale, il racconto di vita che il ricercatore chiede di narrare è denso di temi sensibili. I punti principali sono: • La ricerca con metodologie di tipo narrativo restituisce voce a chi non ne ha; • Restituendo voce, questa contribuisce alla realizzazione di un momento di presa di coscienza che può attivare il processo di identificazione soggettiva; • Attivando il processo di autoidentificazione, si contribuisce ce all’emancipazione del soggetto; • Poi la ricerca può contribuire a creare condizioni propizie ad avviare esperienze di empowerment e di resilienza; • Si può realizzare appieno il senso di una relazione di cura; • L’esito dell’incontro intersoggettivo che si realizza durante lo svolgimento della ricerca è quello della comprensione; • Starà al ricercatore, al temine della sua ricerca, trovare le parole per nominare quel non detto, trasformare il senso avvertito in significato comunicabile. 6.3 L’intervista narrativa: indicazioni metodologiche L’intervista narrativa o autobiografica risulta essere un approccio ormai consolidato nel campo delle scienze umane. La ricerca attraverso il metodo autobiografico permette di portare a visibilità ciò che davvero è decisivo per la comprensione di una storia di vita. Mette il soggetto nelle condizioni di portare a coerenza la propria immagine di sé. L’intervista narrativa ha per oggetto il racconto di una storia di vita, offerto direttamente dal suo protagonista. Questa tipologia di intervista si può svolgere in due modalità differenti: - Intervista libera. Consiste nel racconto autobiografico rilasciato da una persona a partire da uno stimolo aperto (una domanda che inquadra il tema della narrazione). L’intervistatore si trattiene da porre domande dirette. Lo scopo è raccogliere una narrazione di cui è l’intervistato a scegliere gli elementi significativi e l’ordine con cui organizzarli; - Intervista semistrutturata. Prevede l’utilizzo da parte del ricercatore di una griglia di domande-stimolo tematiche, predisposta in anticipo, che avrà lo scopo di indirizzare la narrazione dell’intervistato verso i nuclei tematici considerati significativi per la ricerca. La griglia serve come possibile traccia per evitare la divagazione dell’intervistato, ma è molto flessibile e variabile. In entrambi i casi si svolge in forma orale e in compresenza. È indispensabile l’utilizzo di uno strumento di registrazione (meglio videocamera), quindi bisogna ottenere il consenso del soggetto ad essere registrato. L’intervista non ha una durata standard (è l’intervistato a stabilire il tempo). È consigliabile fare più sessioni. In termini molto generici una sessione di intervista potrebbe durare dai 60 a 90 minuti. Entrambe le intervista prevedono uno svolgimento scandito in 3 fasi successive: • Pianificazione. Momento di attenta riflessione sulle ragioni di questa scelta metodologica. Occorre chiarire le motivazioni che rendono opportuno il ricorso alle interviste narrative. Si deve poi capire qual è la domanda di ricerca e in base a questo i soggetti da intervistare; • Effettuazione. Prima di una sessione di intervista c’è un contatto preliminare con il soggetto, in cui si presentano le finalità dell’intervista (può avvenire anche per mail o telefono). Poi si organizza un colloquio preparatorio di persona. Poi c’è l’effettuazione dell’intervista. Anche la scelta del luogo è importante: deve essere comodo e familiare per l’intervistato e idoneo al lavoro dell’intervistatore. La strumentazione deve essere testata e preparata in anticipo. • Trascrizione. È la trasposizione in un file testuale di quanto presente nell’audio della registrazione. Una riproduzione fedele di quello che è stato registrato. Nessun intervento è ammesso da parte del ricercatore. • Analisi. Prende forma su quanto è stato trascritto. A seconda dell’intervista si avrà un testo con caratteristiche specifiche diverse. Il testo viene, prima di tutto, sottoposto a indicizzazione (organizzazione in base ai gruppi tematici). La prospettiva che si riesce a raccogliere è quella dei vissuti, dell’esperienza soggettiva. Permette di comporre narrazioni del mondo a partire da vite singole. Per comprenderli a fondo, occorre una prospettiva da dentro, una prospettiva vissuta. Le ragioni dell’intercultura 1. Bisogno di utopia che la pedagogia intimamente richiede a chi si impegna nella ricerca e nella pratica educativa; 2. Esigenza di situare il punto di vista, prima di potersi esprimere su qualsivoglia aspetto della realtà o del sapere; 3. Sforzo costante di rimessa in dubbio dei presupposti culturali apparentemente consolidati fino a sembrare scontati, che invece sono costruiti, cosa che può avvenire passando per la destrutturazione delle parole che condensano più significato di quello che esprimono esplicitamente.