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Pedagogia speciale: Dal disagio alla rinascita del sè, Sintesi del corso di Pedagogia

Esame Amenta libro: dal disagio alla rinascita del sè

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021
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Scarica Pedagogia speciale: Dal disagio alla rinascita del sè e più Sintesi del corso in PDF di Pedagogia solo su Docsity! Dal disagio alla rinascita del sé CAPITOLO 1 LO SVILUPPO DEL SÉ, TRA ESIGENZE INTERNE E DISPOSIZIONI ESTERNE Nell’evoluzione della specie umana è possibile distinguere perlomeno tre periodi fondamentali: il primo si caratterizza per lo sviluppo della corteccia cerebrale dell’homo sapiens, che comporta la maturazione di facoltà che si riveleranno fondamentali per la sopravvivenza; via via l’essere umano prende atto che la propria sopravvivenza risulta legata a quella del gruppo e che l’agire istintivo si rivela in contrasto con i bisogni e a partire dal secondo stadio, l’individuo si prodiga sempre di più per usare la volontà; il terzo stadio si caratterizza per lo sviluppo della consapevolezza della “mente” e del proprio sé. Fin dalle origini ciascuno ha necessità di stabilire un equilibrio ottimale tra l’espressione e l’attualizzazione del proprio sé, da una parte, e le limitazioni sociali dall’altra. A ciascuna fase di stabilità seguono momenti di squilibrio e di ricerca di nuovi equilibri. Per risolvere efficacemente i conflitti si possono segnalare: la capacità di definirsi come partner sociali, la consapevolezza di sé e dell’altro, l’empatia. 1.IL SE’ E LA SUA RAPPRESENTAZIONE Con le situazioni e con gli stimoli interni o esterni, ciascuno costruisce e ricostruisce il proprio sé e la sua rappresentazione che via via evolvono, si definiscono e si ridefiniscono. Si tratta di percorsi che si avviano fin dai primi giorni di vita, parallelamente allo sviluppo della consapevolezza del bambino di essere separato dalla madre. Riflettendo sul concetto di sé Allport evidenziava che la mente umana risulta in grado di osservare e di analizzare se stessa secondo modalità analoghe a quelle impiegate per esaminare il mondo esterno. Scilligo rileva che il sé costituisce l’insieme di rappresentazioni mentali riguardanti se stessi. Il concetto di sé può essere concepito come un sistema di conoscenze riguardanti se stessi, ovvero l’insieme mutevole di percezioni, di cognizioni e di teorie su se stessi, di credenze, di emozioni e di sentimenti. Ogni rappresentazione di sé costituisce la sintesi delle molteplici esperienze derivanti dal contatto col mondo esterno e interno, che rappresentano occasioni per esprimere e per attualizzare se stessi. È sulla base dei processi di interazione-confronto che ciascuno selezione, abbandona, scarta, modifica, elabora e rielabora il concetto di sé, nonché la rappresentazione degli altri, del mondo e della realtà. 2.CRESCITA E ATTUALIZZAZIONE DEL SE’ Nella rappresentazione del sé affonda le radici il progetto di vita, ovvero una specie di concetto ideale di sé comprendente un sistema di finalità, nonché di piani d’azione da realizzare. Un livello ottimale di separazione risulta fondamentale per consentire a ciascuno di proteggersi da eventuali interferenze esterne distruttive, ovvero da inviti più o meno diretti di assumere programmi alternativi come quelli proposti dagli altri. Nell’assumere una determinata condotta, l’individuo non si limita a reagire passivamente alle situazioni oggettive, al contrario si regola sulla base delle esperienze soggettive. Ciascuno in altre parole agisce in maniera attiva e costruttiva e, soltanto secondariamente, reagisce passivamente agli stimoli biochimici, situazionali. Il processo di crescita del sé può essere variamente interpretato: secondo una prima classe di orientamenti definiti intrapsichici, quanti prediligono tale ottica presuppongono la presenza di forze e di tendenze alla base dell’evoluzione del sé, sarebbero quest’ultime a determinare la scelta, la potenza, la direzione. Secondo un’interpretazione alternativa di tipo situazionista, ambientalista il sé può essere concepito come un insieme di costellazioni di risposte apprese, ovvero come una serie di sistemi di reazioni specifiche agli stimoli ambientali quantificabili, osservabili, misurabili. Secondo una terza concezione, il sé scaturisce dall’interazione tra persona e situazione, ovvero costituiscono l’esito dell’interazione tra due sottosistemi. La propensione verso lo sviluppo e l’attualizzazione del sé si possono concepire come predisposizioni naturali verso la crescita, il cambiamento, la progressiva maturazione. In particolare secondo Adler e i fautori della Psicologia individuale, alla base del bisogno di autorealizzazione si può scorgere la necessità di affermazione di sé, che comporterebbe la predisposizione verso il superamento delle mancanze e il raggiungimento di uno stato di armonia ottimale. Maslow sostiene che ciascun individuo tenda verso l’autorealizzazione ovvero verso lo sviluppo pieno, l’espressione e l’affermazione integrale del sé. Si tratterebbe di una predisposizione propria della persona umana, che si concreterebbe nel divenire ciò che è e ciò che è capace di diventare. Si tratterebbe di una sorta di sviluppo di ciò che già esiste nell’organismo, realizzabile identificando, rispettando e appagando i bisogni fondamentali. Nell’ottica considerata la personalità e le sue manifestazioni non derivano da singoli tratti o da strutture separate, ma dall’interdipendenza delle diverse “parti” costitutive del sé e dall’interazione tra esse e gli stimoli situazionali. 3.LA CRESCITA DEL SE’ Al fine di comprendere al meglio alcuni processi che contrassegnano 4.1Genesi dell’alienazione del sé (metafora dell’innesto) Una seconda immagine utile per rappresentare il rifiuto di sé può essere quella dell’innesto, impiegato in agricoltura per ottenere un nuovo essere, secondo i casi, più pregevole, più fecondo, più giovane. In particolare, si può considerare come un tentativo di “innesto”, l’invito rivolto al bambino adottato di tagliare con suo passato, impedendogli di vivere secondo la cultura di appartenenza, di risalire ai parenti naturali. Rappresenta un analogo tentativo di “innesto” esterno la sostituzione del suo nome originale con uno nuovo, più consono alla lingua, agli usi e ai costumi dei genitori adottivi. Il proposito di trasformarsi può provenire da una qualche prescrizione interna e pervasiva del tipo “non essere te stesso”. Può scaturirne un programma parziale, come nel caso in cui la propensione trasformista interessi alcune parti, ad esempio l’identità di genere, le proprie caratteristiche fisiche. Il senso di essere intrinsecamente difettosi, indegni, si correla facilmente alla vergogna, alla paura di essere umiliati e rifiutati dagli altri. Il soggetto che teme di essere inadeguato, può fantasticare che soltanto chi è superiore agli altri possa essere accettato, sviluppa un ideale di sé fittizio a cui cerca di conformarsi senza sosta. In alcuni casi, quando il senso di non possedere nemmeno le risorse necessarie per costruire una reputazione positiva, può prodigarsi per crearne una negativa; numerosi atti vandalici e di violenza inaudita e gratuita sono alimentati dal bisogno di emergere da un abisso di impotenza, di disperazione, dai graffiti metropolitani alla violenza dei tifosi, si tratta di condotte che celano pur sempre il bisogno legittimo di sentirsi importanti, considerati e riconosciuti. 4.2Alienazione e integrazione Nella trasformazione dei blocchi esterni in autoeliminazioni interne, determinante risulta il ruolo della compiacenza e della determinazione di assumere le aspettative, le idee, le risorse di qualcun altro. Ciascuno di volta in volta sceglie come rispondere alle specifiche situazioni, in particolare dopo averle interpretate e decodificate in maniera personale, ciascuno determina se e in che misura compiacere o ribellarsi alle aspettative. Qualora tale atteggiamento venisse assunto in maniera costante e pervasiva, potrebbero derivarne importanti manifestazioni dell’agire iperadattato e ipermaturo. Interessa evidenziare che, a livello intrapsichico, l’iperadattamento e l’atteggiamento ipermaturo muovono pur sempre dal considerare inadeguato il proprio sé o alcune importanti componenti. Il proposito di effettuare delle “sostituzioni” o delle “trasformazioni”, si può scorgere con una certa evidenza nel caso di seguito proposto. Arturo, ventiseienne chiede aiuto per via della confusione e dell’ansia da cui si sente divorato quando deve effettuare delle scelte. Rileva di non riuscire nemmeno a comprare degli abiti senza l’assistenza di qualcuno. Arturo sembra rivelare di non potersi fidare di sé e del proprio giudizio. Al contrario, ritiene di dover assumere quello di qualcun altro. Si tratta di un atteggiamento che si può interpretare come l’esito di alcuni processi che affondano le radici nella paura di sbagliare e di deludere le persone significative. Lo stile di vita che si fonda sulla svalutazione del sé difficilmente risulterà vincente o soddisfacente. L’individuo autentico vive nella realtà, prende atto di ciò che è, dei propri limiti, delle proprie potenzialità e delle proprie risorse. Invece di trasformarsi, di apparire pur di guadagnare amore, semplicemente accetta di essere se stesso. Di conseguenza raramente avrà paura di pensare, sentire e agire, l’autenticità rappresenta un presupposto fondamentale alla base della spontaneità e della naturalezza. OSSERVAZIONI CONCLUSIVE Il termine utile per descrivere il rapporto ottimale tra sé e l’altro, tra le esigenze individuali e le aspettative sociali, sia quello di integrazione, che definisce la capacità di entrare in accordo con la realtà e nello stesso tempo di trasformarla in modo attivo, costruttivo e creativo. L’integrazione sembra rappresentare la migliore alternativa sia rispetto alla conformità passiva, sia rispetto alla ribellione. CAPITOLO 2 COMPLESSITA’ E OPPORTUNITA’ NELLA REALIZZAZIONE DEL SÉ Non sempre i bisogni educativi dei ragazzi difficili, degli alunni a rischio ricevono le risposte sperate nei contesti educativi. Una prima ragione è certamente l’assenza di sintomatologia evidente di alcuni disagi. Una seconda ragione è dovuta al fatto che dinanzi alle situazioni educative complesse, la relazione educativa declina in una serie di dinamiche improduttive, riduttive e ripetitive. Uno schema di riferimento utile per individuare alcune categorie di bisogni inappagati è quello del copione di vita. Nel presente capitolo si cercherà di illustrare il costrutto di copione e di tratteggiare alcuni dei processi fondamentali che lo contrassegnano. 1.LIMITAZIONI DEL SE’ E COPIONE DI VITA Ogni cambiamento della propria personalità può essere realizzato dall’interno. Ognuno sceglie costantemente come agire, a partire dalla interpretazione che realizza degli stimoli, determina se e in che misura compiacere o ribellarsi agli stimoli, agli inviti, alle attese. Nel caso in cui assuma taluni inviti e aspettative esterne, può anche determinare di trasformarli in prescrizioni interne stabili, così possono essere utilizzate per inaugurare dei percorsi che implicano una specie di trasformazione del sé. 1.1Definizione di copione o piano di vita Il copione psicologico costituisce un piano di vita comprendente parti e percorsi variamente difensivi. È elaborato in buona misura nei primi anni di vita, come risposta personale agli eventi e agli stimoli esterni e interni. Berne lo definisce “come un tentativo di ripetere in forma derivata un dramma transferale, spesso suddiviso in atti, esattamente come i copioni teatrali. Affermando che: ogni individuo decide nella sua prima infanzia la propria vita e la propria morte e, quel programma che si porterà dentro ovunque vada. Si definisce copione un piano di vita che si basa su di una decisione presa durante l’infanzia. Le decisioni costitutive del copione rappresentano le migliori risposte che il soggetto sia riuscito a escogitare, rappresentano una sorta di compromesso tra i suoi bisogni, le sue idealità, le sue abilità, le sue risorse. Le situazioni dolorose da cui possono scaturire decisioni di copione sono molteplici e i piani elaborati per fronteggiarle non sempre risultano efficaci. Le decisioni basilari del copione sono diverse da quelle comunemente assunte per fronteggiare problemi immediati da circostanze concrete. Oltre a risultare strettamente connotate dalle capacità percettive e cognitive, implicano la cronicizzazione di specifici pattern, strategie e percorsi comportamentali, nella speranza di prevenire eventi futuri analoghi. La scelta del termine copione è legata anche al fatto che si rileva una serie di somiglianze con le sceneggiature teatrali. In entrambi i casi è possibile identificare un determinato cast di personaggi, dei dialoghi, degli atti. Berne classifica i copioni in tre categorie fondamentali a seconda che somiglino più a tragedie, a commedie o a spettacoli. Secondo Berne il mondo può essere concepito come una specie di palcoscenico su cui è possibile realizzare il copione, sia a livello privato, sia a livello pubblico. Ciascun copione prevede come si chiuderà la vita di una persona, ovvero per quali finalità si sarà spesa e cosa avrà cercato di realizzare durante l’esistenza. 1.2Considerazioni sulle descrizioni di copione Le descrizioni di copione offerte da Berne sono stata rivisitate, integrate e variamente criticate. Tra le proposte volte ad apportare integrazioni si può citare quella di Novellino che concepisce il copione come: quel piano di vita che è basato sulle decisioni che un individuo può prendere a ogni tappa del suo processo evolutivo, le quali, limitando la sua consapevolezza, inibiscono la spontaneità e che sono basate a loro volta su convinzioni rigide e distorte. Tra le posizioni critiche si può innanzitutto indicare quella di Cornell: la teoria del copione è diventata più limitante. L’incorporazione della teoria evolutiva dentro la teoria del copione è stata troppo spesso semplicistica e inaccurata, ponendo l’accento primariamente sulla psicopatologia piuttosto che sullo sviluppo psicologico. Si può richiamare il contributo di English che afferma: io applaudo il coraggio di Cornell che ha messo in discussione i principi restrittivi su cui è costruita l’attuale perché egli esiste e non per quello che fa. 2.2Distruttività, ripetitività e valenza difensiva del copione Coazione a ripetere Taluni studiosi assumono che, quando più le esperienze infantili siano state traumatiche e penose, tanto più è facile che abbiano il potere di riaffiorare, di riemergere. Il termine coazione a ripetere è impiegato per indicare la tendenza a compiere atti per un irresistibile bisogno interno, contro il quale nulla possono il ragionamento e la volontà Secondo una prima interpretazione la distruttività e la coazione a ripetere rappresenterebbero la diretta manifestazione dell’istinto di morte. È utile ricordare che Freud fu costretto a riesaminare le sue supposizioni in tema di distruttività in seguito allo scoppio della Prima guerra mondiale. L’aggressività e la violenza che la contraddistinsero contrastavano tremendamente con principio del piacere, in precedenza da lui identificato e concepito come il nucleo regolatore dell’agire umano. La dissonanza riscontrata indusse lo studioso a rivedere radicalmente le sue considerazioni, fino a pervenire alla drammatica conclusione che la stessa vita sia al servizio della morte. Le supposizioni cui perviene Freud risultano coerenti con la concezione antropologica pessimistica assunta, che considera l’uomo vittima degli impulsi e delle tendenze autodistruttive. Effetto Zeigarnik È opportuno richiamare brevemente la distinzione tra conoscenza dichiarativa e conoscenza procedurale, la prima dichiarativa riguarda il sapere “cosa” e comprende fatti, eventi, teorie. È conservata nella memoria a lungo termine; la conoscenza procedurale riguarda il sapere “come” fare qualcosa, rappresenta una forma di conoscenza più dinamica e più prossima alla realtà, rispetto a quella dichiarativa quando viene attivata ne deriva un riconoscimento di forme, una sequenza di azioni, che implica una trasformazione una modifica della realtà. Ne consegue la tendenza a evocare tali esperienze non tanto raccontandole, quanto rimettendole in scena. Le esperienze che tendono a essere rimesse in scena sono quelle rimaste aperte e irrisolte (effetto Zeigarnik). Il bambino vittima di un’esperienza negativa, traumatica come Hitler potrebbe ripromettersi di diventare forte potente rinnegando le proprietà tipiche del bambino, ovvero la vulnerabilità, la fragilità, l’ingenuità. Da decisioni del tipo indicato, che hanno contrassegnato il copione dei dittatori menzionati, consegue con facilità il proposito di mantenere il controllo ad ogni costo, anche eliminando fisicamente quanti potrebbero rappresentare qualche minaccia. La speranza è che nessuno potrà torcere loro nemmeno un capello. Diventa chiaro che il copione costituisce piani d’azione cronicizzati volti a prevenire o ad affrontare al meglio le difficoltà attese. Il fatto di ripetere e di rimettere in scena risulta funzionale all’intento di appagare i bisogni disattesi. Costituisce un modo di prepararsi, di addestrarsi al punto di rassicurare sé stessi di poter avere successo nei tentativi volti a fronteggiare le questioni originarie e future. 2.3Percorsi di copione tra fuga e attacco Le decisioni volte a fronteggiare una determinata esperienza traumatica sembrano variare lungo il continuum “fuga vs. aggressione-attacco”. L’emozione primaria che da vita all’attivazione delle condotte aggressive è la rabbia, che raramente si presenta allo stato puro, è accompagnata da altri sentimenti. Al riguardo Johns osserva che la rabbia costituisce pur sempre un sentimento di copertura della paura. A suo parere i sentimenti essenziali che costituiscono la matrice degli affetti umani sono due: paura e speranza, la prima riduce le possibilità decisionali, la seconda aumenta le opportunità di trovare ulteriori spazi per pensare, agire, sentire. Per quanto attiene alla relazione tra rabbia e paura, alcuni studiosi affermano che una persona giunga ad odiare chi teme, infatti secondo alcune ricerche condotte sugli animali dimostrano che un soggetto in gabbia, di fronte a un pericolo, solitamente tende a fuggire, ma quando questo non è possibile e non può liberarsi dalla minaccia è portato ad assalire prontamente e spietatamente l’avversario. In tal senso l’attacco, la distruttività si verifica quando l’animale non possa fuggire, e allora combatte. È intuitivo scorgere la paura abnorme dietro alla distruttività che caratterizza taluni copioni come Hitler. Ora sebbene paura e rabbia, fuga e attacco, risultino inestricabilmente connessi, la reazione difensiva manifesta risulta abnorme rispetto alla situazione oggettiva da fronteggiare. Per comprendere l’amplificazione è necessario incentrarsi sulla minaccia interna, ovvero su quella percepita, interpretata e vissuta dal protagonista, più che su quella osservabile. 2.4Reazioni abnormi, copione e fragilità del sé Le reazioni difensive risultano abnormi rispetto ai pericoli e alle minacce, in quanto le esperienze passate irrisolte possono, come una lente, attenuare, oscurare, amplificare, distorcere e ridefinire gli stimoli situazionali. Un esempio riguarda una signora di Roma, in seguito allo scoppio della guerra del Golfo in lacrime intima ai figli di andare a comprare tutto quello che possono prima dell’assalto ai supermercati da lei temuto. La reazione risulta ovviamente incongruente, se si considera che però quella madre potrebbe aver vissuto l’esperienza drammatica della Seconda guerra mondiale e sperimentato la conseguente difficoltà di trovare i beni di prima necessità, potrebbero diventare chiare la sua reazione e la sua paura. O ancora Antonella approfittando dei momenti in cui la sua insegnante di lettere sembra prestare attenzioni, inizia a parlare rapidamente senza sosta, rendendo impossibile ogni forma di partecipazione dell’interlocutrice nell’interazione. Quando però viene da quest’ultima interrotta scoppia immediatamente a piangere. È evidente che l’interruzione dell’insegnante, come una specie di elastico, riporta l’allieva in contatto con qualche esperienza familiare pregressa. Antonella non riusciva fin da bambina a parlare con il papà, che percepiva perennemente distratto e disinteressato. L’unica strategia utile da lei escogitata per farsi ascoltare era di parlare come un fiume inarrestabile, ovvero velocemente senza interruzioni, illudendosi di catturare così la sua attenzione. I sentimenti di Antonella sono influenzati dalle esperienze passate. Reazione abnorme Al fine di cogliere il rapporto tra senso di vulnerabilità e idea di essere intrinsecamente difettosi, facciamo riferimento a questo caso: Vito, 53 anni, dopo il divorzio dalla moglie inizia una convivenza con Rossella madre di Luca, un ragazzo di 16 anni. Il problema per il quale chiedono aiuto riguarda il disaccordo nel modo di interpretare e di rispondere al comportamento di Luca, al loro rientro a casa. Il ragazzo infatti continua imperterrito a chattare senza tener conto né del loro arrivo, né del loro saluto. Vito giudica Luca un gran maleducato, in una delle recenti interazioni giunge al punto di mettergli le mani addosso. Rossella dal canto suo, giudica sproporzionate le reazioni del compagno, concorda nel giudicare sbagliato il comportamento del ragazzo ma non vede alcun motivo per esagerare e, tantomeno per declinare alla violenza. Vito si offende, la sua reazione è abnorme rispetto al comportamento reale di Luca, ma è congruente con l’offesa interna avvertita. Rossella al contrario, coglie che il ragazzo non ha alcuna intenzione di provocare nessuno, conclude che quel comportamento non ha nulla di personale. Vito è particolarmente sensibile alle disattenzioni, si offende oltremodo e quindi la reazione risulta oggettivamente incongruente, ma coerente a livello psicologico. 3.COPIONE, CAMBIAMENTO, EDUCAZIONE Le definizioni offerte da berne evidenziano che il copione si fonda su determinate decisioni assunte dal bambino in età precoce, in seguito variamente cronicizzate e automatizzate. Per modificare il copione occorre agire sulle decisioni primordiali su cui si fondano, ovvero sulle determinazioni originariamente assunte. 3.1Intervento psicoterapeutico e intervento educativo La psicoterapia rappresenta una forma di aiuto intensiva che procede in maniera esplicita e diretta, alla modifica dei percorsi distruttivi partendo dalla riappropriazione dei permessi negati. Ci si propone in pratica di aiutare ciascuno ad assumere percorsi per soddisfare i propri bisogni legittimi, abbandonando quelli illusori, ambivalenti e disfunzionali. Nel caso dei contesti educativi, non si tratta di trasformare i docenti in psicologi o in psicoterapeuti, e gli studenti in pazienti, ma semplicemente di tradurre in pratica le difficile convivenza tra “insegnante” ed “educatore”, senza uscire dal proprio ambito e senza esorbitare dal proprio ruolo, il docente può fruire di modelli e di comportamento viscido e servizievole tipicamente assunto per ottenere approvazione o particolari favori. Una seconda espressione utile è quella di “desiderabilità sociale”, è usata per descrivere la condotta tipica di chi intende fare buona impressione o di costruire un’immagine positiva di sé: fornisce risposte non autentiche in sede di esame pur di fare bella figura, pur di apparire migliori rispetto a come si ritiene di essere. Taluni reagiscono come se fossero costantemente sotto esame, accentuando la propensione a esibire le qualità positive di sé. È possibile identificare due percorsi comportamentali tipici nell’agire degli educandi che si prodigano per costruire un’immagine positiva di sé. Il primo stile si caratterizza per il tentativo di eludere le eventuali reazioni negative dell’interlocutore, impressionandolo tramite qualità e successi personali. Nel secondo caso si può scorgere il tentativo di tutelarsi evitando le situazioni poco protettive, analizzando attentamente le reazioni dell’interlocutore, intercettando le sue aspettative e conformandosi ad esse. L’educando tende costantemente a sintonizzarsi sugli altri, li osserva, li scruta, li ascolta nell’intento di cogliere la pur minima reazione critica nei suoi confronti. Secondo Winnicott il sé origina da una condizione iniziale di frammentazione, e per fronteggiarla al meglio, il bambino avrebbe necessità di ottenere determinate risposte positive, rassicuranti e non frustranti. Il supporto attento, autentico e rispettoso incoraggerebbe lo sviluppo del vero sé. Il falso sé sarebbe correlato a una particolare alterazione dell’interazione madre-bambino fondata sulla richiesta di diventare accondiscendente e compiacente come condizione per essere accettato. 2.MANIFESTAZIONI E FORME DELL’AGIRE IPERADATTATO Ordini Ci si propone di focalizzare l’attenzione sui diversi modi di assecondare e di compiacere le aspettative altrui e delle persona significative, assumendo come quadro di riferimento il modello proposto nell’ambito dell’Analisi Transazionale, si possono identificare cinque modi tipici di compiacere in maniera smisurata: sbrigati, compiaci, sii forte, sforzati, sii perfetto. 2.1Ritrosia, inibizione e perfezionismo Uno dei modi in cui si manifesta l’iperadattamento è rintracciabile nell’agire tipico di chi assume un atteggiamento esageratamente educato, attento, controllato che può tradursi nella ritrosia, nell’inibizione, nel blocco. Alcuni allievi preferiscono rimanere in disparte mentre i compagni parlano, discutono, urlano, altri evitano di alzarsi dal posto, altri evitano di esprimere le proprie opinioni o di manifestare i loro vissuti. Cominciando a integrarsi nel gruppo via via gli educandi iniziano a comportarsi in maniera più spontanea, mentre altri continuano a mantenere gli atteggiamenti tipici delle fasi iniziali. Un esempio dello stile inibito e controllato: Luca 9 anni, frequenta la quinta classe della scuola primaria, presenta rendimento scolastico medio-alto e risulta relativamente integrato nel gruppo classe. Il suo stile si caratterizza per lo smisurato atteggiamento di bravo bambino, in particolare sta attento a evitare di disturbare, di parlare con i compagni e cerca più che può di rimanere seduto composto. Una delle maestre decide di liberarsi di alcuni alunni della sua classe, che presentano difficoltà di apprendimento. Pertanto, dopo aver fatto quanto dovuto dal punto di vista burocratico ed essersi accordata con il dirigente con i colleghi, convoca i genitori per proporre loro di scrivere i figli in altre classi. Uno dei bambini che la maestra intende mandare via è Giorgio, amico e compagno di banco di Luca. Per Luca la vicenda si rivela angosciante, sia per la perdita del compagno cui è particolarmente legato, sia perché teme che la medesima sorte possa toccare anche a lui. Pertanto, chiede alla maestra: manderai via anche me? Sorpresa l’insegnante risponde: no, stai tranquillo, tu mi servi. Luca ritorna a sedere sollevato. In realtà però da quel momento comincia ad avere problemi di concentrazione che pregiudicano il rendimento scolastico. Le parole della maestra vengono decodificate come inviti diretti a potenziare lo stile iperadattato. Un atteggiamento del tipo descritto presenta delle controindicazioni. La prima è che possa essere considerato appropriato e quindi da sostenere. La seconda è che possa essere con facilità notato e strumentalizzato dagli adulti significativi, analogamente a quanto accaduto nel caso riportato. È importante cogliere che dietro l’inibizione e il perfezionismo è ordinariamente presente la paura delle conseguenze che potrebbero derivare dal comportarsi in modo difforme rispetto a quanto immaginato dalle persone significative. A prima vista sembrerebbe trattarsi di persone più educate, più diligenti, in realtà hanno soltanto più paura. Anche da adulti alcuni persistono nel mantenere atteggiamenti incongrui ed esageratamente adattati, le esagerazioni e le amplificazioni sono legate all’esperienza passata. Blocco di opzioni/caso Guido Pur di evitare di sbagliare alcuni stabiliscono di non fare nulla e quindi trasformano l’inibizione in inazione: blocco di opzioni. Ad esempio: Guido 25 anni single lavora in proprio occupandosi di una piccola attività commerciale. Dichiara di essere insoddisfatto del lavoro che svolge e di sentirsi scontento per non aver potuto realizzare la professione che avrebbe gradito. Precisa che fin da bambino si dilettava a disegnare e a dipingere. Dopo la scuola media il padre lo iscrive in un istituto tecnico industriale anziché al liceo artistico. Il ragazzo sembra accondiscendere. Ma in realtà inizia a ribellarsi evitando di studiare, di farsi interrogare e quindi facendosi respingere. Viene respinto per ben due anni, e dopo averlo punito nuovamente il genitore lo iscrive in una scuola parificata pur di fargli conseguire il diploma di perito industriale. Il ragazzo persiste nell’atteggiamento ribelle continuando a non studiare fino al punto di abbandonare definitivamente la scuola. Attualmente Guido non ha una famiglia, non ha amici, non ha una relazione. Ritiene che uno dei suoi incubi sia l’indecisione cronica, rileva di sentirsi spesso agitato, di trascorrere le notti a pensare e ripensare, alzandosi rimettendosi a letto in maniera automatica. Com’è possibile ridursi come Guido? Guido ha subito per anni l’atteggiamento intollerante del padre. In lacrime racconta che, quando frequentava la prima classe della scuola primaria, il papà si arrabbiava in maniera spropositata in occasione di errori da lui commessi. Concretamente occorre prodigarsi per attenuare la pressione al rendimento, promuovendo climi relazionali costruttivi, meno formali e meno ansiogeni e insegnando che sbagliare è umano. Un intervento utile può essere di invitare gli allievi a riflettere su come utilizzare gli sbagli in maniera produttiva, ad esempio scorgendovi i risvolti positivi. Un secondo intervento valido consiste nel suggerire agli allievi di riflettere sulle importanti scoperte fatte grazie a degli errori. Un’ulteriore possibilità è di invitare ciascuno a esprimere e a verbalizzare quel che sente, ovvero la paura di sbagliare, di balbettare, di arrossire, di confondersi, chiedendo all’educando di esprimere quel che sente, si inaugura un nuovo percorso volto alla consapevolezza, all’accettazione e all’integrazione di quelle parti di sé denegate e negate perché ritenute improprie. Si immagini il caso dell’allievo che teme di inibirsi durante le interrogazioni, è facile che l’educatore intervenga consigliandogli di persistere nel fare quando verosimilmente sta già facendo, ovvero ripetere a voce alta, studiare di più, controllare la sua timidezza eccetera. Così facendo l’educatore rischierebbe di incoraggiare ulteriormente il perfezionismo e gli esiti conseguenti, ovvero la timidezza, l’inibizione e il blocco. Tra i segnali dell’atteggiamento diligente, perfezionista, attento e controllato, si possono indicare i seguenti: -rimanere seduto composto mentre gli altri giocano; -si mostra diligente; -diventa teso e rigido; -mostra imbarazzo e vergogna; -utilizza poco spazio nel foglio quando disegna; -impiega più tempo degli altri per concludere un lavoro; -riduce le dimensioni del carattere quando scrive; -cancella e ritocca frequentemente; -balbetta quando parla; -si dispera in occasione di errori; -chiede di rimandare le interrogazioni. 2.2Compiacenza e docilità Un secondo modo di conformarsi alle attese degli altri e degli adulti significativi è di dimenticando di esaminare cosa faccia di solito e cosa possa fare di diverso per costruire una relazione soddisfacente. Dinanzi a comportamenti contrassegnati dall’ambivalenza tra il dover fare e il non voler fare, che si traduce lo sforzo di tentare e di ritentare, l’educatore può intervenire facendo sì che vengano terminati. L’educatore può intervenire semplicemente invitando l’alunno a terminare quando ha iniziato. Ad esempio può invitarlo a completare le frasi lasciate incomplete. Può attivarsi per evitare che l’allievo inizi malvolentieri attività che non desidera pensando di compiacere qualche figura significativa. Alcuni comportamenti a rischio che caratterizzano lo stile docile- ribelle: -accoglie le richieste altrui, pur non avendo voglia; -si conforma alle aspettative altrui; -assume compiti e impegni non richiesti; -tende a caricarsi di impegni e poi parla male degli altri; -si isola ed evita di stare con gli altri; -lascia incomplete delle frasi quando parla e comunica; -arriva in ritardo; -evita di portare a termine quanto richiesto e quanto previsto. 2.4L’esibizione di forza energia e vigore Un altro modo di conformarsi alle aspettative delle figure significative consiste nel mostrarsi forti, vigorosi, energici, nonostante il dolore, la sofferenza, la malattia, si adempia ai propri impegni. Ovviamente in determinati momenti la capacità di essere forti risulta vantaggiosa, funzionale, utile. Può perfino costituire una virtù. Al contrario, viene esibita questa forza nell’intento di compiacere talune aspettative degli altri, pur di ottenere elogi e riconoscimenti, pur di essere accettati e evitare rifiuti. Si tratta di un atteggiamento che rappresenta una maschera per nascondere alcune parti di sé, da taluni ritenute improprie o poco gradite. Alcuni si negano il permesso di vivere e di esprimere la paura, anche nei casi in cui sia appropriata. Altri non si danno il permesso di provare la tenerezza, altri non possono permettersi di star male e di ricevere cure, perché ciò contrasterebbe col proposito di dover essere forti sempre e comunque. Dal punto di vista educativo è necessario effettuare degli interventi volti alla promozione e alla riappropriazione di quelle parti di sé attenuate. Al di là dell’allievo che esibisce forza si può ipotizzare una storia passata contrassegnata da vulnerabilità, fragilità, malattia e paura. Il docente potrebbe intervenire proponendo e inventando degli esercizi in cui dopo aver invitato gli alunni a sedere in coppie, potrebbe proporre loro di rispondere a turno a questioni del tipo: -mi faccio male cadendo. Cosa penso, cosa sento, cosa faccio? -ricevo una critica tagliente. Cosa faccio, cosa sento, cosa penso? L’insegnante potrebbe aiutarli a identificare i sentimenti più comuni manifesti e nascosti. In particolare quanti presentano delle difficoltà con un sentimento potrebbero essere invitati ad assumere ruoli di personaggi che si permettono di sentirlo, di usarlo, di esprimerlo, vengono così facilitati nel riappropriarsi di taluni sentimenti negati e questo può stimolare opportunatamente la promozione della alfabetizzazione affettiva. Alcuni comportamenti tipici della tendenza ad esibire forza e vigore in maniera persistente, possono essere: -nasconde alcuni tratti come tenerezza, paura, tristezza; -evita di chiedere aiuto; -si mostra forte ed energico; -evita di lamentarsi di piangere; -appare determinato e sicuro di sé; -si sforza di sorridere anche quando soffre. 2.5Fretta e sollecitudine Un’altra modalità per conformarsi alle aspettative delle persone significative consiste nel mostrarsi agili, veloci, celeri. Ora in alcuni casi risulta opportuno sbrigarsi, il dramma si realizza quando la fretta diventa una specie di obbligo. In particolare vi sono alcuni che parlano in fretta, mangiano in fretta, si impongono di fare le cose con rapidità. Ad esempio una signora preoccupata per il figlio che impiegherebbe troppo tempo per fare i compiti. Il problema nasce dal fatto che, essendosi prefissa di aiutarlo, lei rimarrebbe intrappolata accanto a lui pomeriggi interi. Il rendimento scolastico del bambino non sarebbe male. È evidente la pretesa che il bambino si trasformi diventando veloce, rapido, svelto. Si sente sempre più angosciato fino al punto di chiedere: mamma se non riesco a diventare veloce tu mi vorrai bene? e continua: la mia compagna mi ha detto che, se accendiamo una candelina, esprimiamo insieme il desiderio e poi la spegniamo, dopo guarisco!. Alla base è presente l’idea di essere difettosi e di doversi in qualche modo trasformare conformandosi a un modello ideale di bambino, di studente. Dal punto di vista educativo è necessario controllare se il linguaggio utilizzato, l’atteggiamento assunto, le espressioni usate tendono a incoraggiare la fretta. In secondo luogo, si può agire sulla capacità degli alunni di organizzare il proprio tempo. Alcuni indicatori della fretta, di cui si può tener conto in classe, possono essere: -interrompe l’interlocutore per completare le frasi al posto suo; -mangia velocemente e in fretta; -parla e comunica in fretta; -invita gli altri a sbrigarsi; -si mostra agitato, per paura di non arrivare a fare in tempo le cose; -si mostra agitato e continua a muoversi quando sta seduto. OSSERVAZIONI CONCLUSIVE Il fine dell’educazione è di aiutare ciascuno a liberarsi dai condizionamenti a conquistare la capacità di scegliere in maniera consapevole, libera, responsabile. L’atteggiamento smisuratamente adattato implica una serie di pattern comportamentali apparentemente utili, appropriati socialmente accettabili. Invero se interiorizzati e realizzati in maniera esagerata, oltre a risultare avvilenti, tali percorsi si rivelano illusori, distruttivi. CAPITOLO 4 RIFLESSIONI SULLA TENDENZA A UBBIDIRE IN MANIERA CRONICA E INVETERATA 1.LA DOCILITA’ NEI CRIMINI CONTRO L’UMANITA’ Eichmann tenente-colonnello, ha svolto un ruolo determinante nel Terzo Reich, occupandosi dei trasferimenti degli ebrei nei lager e nei campi di sterminio. Dopo quindici anni di latitanza viene arrestato e condotto a Gerusalemme per essere processato e condannato. Viene giustiziato per impiccagione. Durante il processo Eichmann tenta di difendersi affermando di essersi unicamente limitato a obbedire agli ordini che gli erano stati impartiti. Spiega che non si sarebbe sentito a posto se non avesse fatto quanto gli era stato ordinato. Il profilo che affiora è quello di un uomo comune, piccolo piccolo, che realizza atrocità come se nulla fosse, trasformandosi in un docile strumento di morte. Eichmann e altri personaggi hanno avuto un ruolo determinante nel compimento dell’olocausto: la tendenza a ubbidire senza riserve. 2.L’UBBIDIENZA CIECA IN UN CELEBRE SUICIDIO DI MASSA Obbedienza inveterata Uno degli esempi più drammatici di obbedienza cieca si può intravedere in quando accaduto il 18 novembre 1978, nella giungla della Guyana in cui Jim Jones, leader di una setta religiosa americana ordinò ai fedeli di suicidarsi. Il proposito era di costruire una specie di paradiso terrestre realizzando un progetto comunitario basato su un mix di principi desunti dal cristianesimo e dallo stalinismo. Tuttavia, quando Jones istituisce il corpo armato di polizia, introduce i lavori forzati e la tortura per le più banali violazioni delle innumerevoli prescrizioni, il sogno di molti fedeli si frantuma irrimediabilmente. 913 Fedeli muoiono assumendo una bevanda a base di cianuro o vengono uccisi dalle guardie di Jones. 276 sono bambini e minori. Il fatto drammatico è che alcune mamme secondo alcune testimonianze abbiano avvelenato i loro figli. 1.2 Doppio legame e prescrizioni paradossali Gregory Bateson evidenzia nei suoi studi che nel tentativo di aiutare una persona, due sarebbero le opzioni possibili. La prima consisterebbe nell’invitarla ad agire in modo diverso e quindi a cambiare, e si tratterebbe di una modalità efficace solo in parte, poiché l’educando e il paziente non necessariamente sono in grado di controllare in modo volontario i sintomi e i comportamenti-problema. La seconda opzione consisterebbe nell’invitare l’interlocutore a comportarsi così come si sta già comportando o ad aumentare la frequenza o l’intensità del comportamento indesiderato. Secondo gli studiosi si innescherebbe un doppio legame analogo a quello che si può identificare in prescrizioni tipicamente paradossali del tipo “sii spontaneo”. La spontaneità infatti non può essere realizzata a comando o rispondendo all’invito di un’altra persona. Se la persona si impegna a realizzare un simile invito il comportamento sintomatico non è più spontaneo. Jackson riferendosi a un conflitto coniugale: lui chiudendosi passivamente in se stesso e lei brontolando e criticandolo, i loro litigi si riducono allo scambio di messaggi: io mi chiudo in me stesso perché tu brontoli e io brontolo perché tu ti chiudi in te stesso. Nell’analisi proposta viene in ogni caso evidenziata una particolare forma di condizionamento reciproco secondo cui un determinato comportamento di un partner stimolerebbe una precisa risposta dell’altro. questo può essere letto come il segnale della presenza di taluni analfabetismi che ostacolano la consapevolezza del potere personale e, perciò la capacità di ideare in maniera libera e la propria condotta. Dal punto di vista educativo ne deriva che risulta fondamentale identificare e fronteggiare gli analfabetismi interpretativi e relazionali presenti negli educandi e consentire loro di riappropriarsi del potere di escogitare anche in situazioni critiche e complesse, risposte personali, libere e responsabili, anziché automatiche, riduttive e reattive. 2.TECNICHE PARADOSSALI E INTEGRAZIONE DEL SE’ IN EDUCAZIONE Nell’intento di desumere riferimenti utili per imbastire interventi e pratiche educative efficaci, è necessario cogliere perché alcune tecniche assurde del tipo considerato funzionano e cosa le rende efficaci. L’idea di chi scrive è che dietro i più comuni interventi improduttivi si possa scorgere la svalutazione del permesso di essere sé stessi. Mentre le tecniche di intervento paradossali risultano efficaci, talora in modo straordinario, poiché gettano le premesse per l’avvio dell’integrazione del sé. Agiscono sul conflitto interno, stimolano l’educando a identificarsi con quelle parti del sé rimosse, denegate o disconosciute, invitandolo a riesumerle, a valorizzarle, a concedere loro il permesso di esistere. Di conseguenza ciascuno ha modo di riscoprire alcune emozioni negate. 2.1Identificazione del conflitto, tra alienazione e integrazione Insonnia Al fine di cogliere la conflittualità e di escogitare strategie valide per fronteggiarla, può risultare utile riflettere brevemente su alcune dinamiche che si possono scorgere nell’insonnia. L’esito del pattern attivato consiste nel restare svegli e nel costatare che nonostante l’impegno, non ci si addormenti. Si tratta di un circolo insidioso, improduttivo e riduttivo. Sforzarsi rigorosamente di dormire innesca con facilità uno dei percorsi privilegiati per rimanere svegli. Constata inoltre l’inutilità dell’auto-imposizione volontaria, alcuni determinano di ricorrere agli psicofarmaci pur di riuscire comunque a indurre il sonno. Ora imporsi volontariamente di dormire implica l’identificazione da parte del soggetto con una determinata parte del sé, ovvero quella che intende dormire e, dall’altra il disconoscimento, nonché il tentativo di alienare e di mettere a tacere quella che resiste e che non riesce ad addormentarsi. L’eventuale ricorso ai farmaci, volto a far sì che una parte domini sull’altra, non sembra del tutto utile o proficuo. Un’intenzione paradossale tipica potrebbe consistere nel proporsi di rimanere svegli, così facendo si avvierebbe un percorso alternativo volto a consentire di prendere atto e di identificarsi anche con quella parte di sé che non riesce ad addormentarsi. Il proposito paradossale può costituire il primo passo verso la promozione di un atteggiamento nuovo fondato sul rispetto, sulla considerazione, sull’ascolto di quella componente del sé insonne e quindi verso l’integrazione della propria individualità. Alcuni conflitti si possono scorgere anche nei contesti educativi, in particolare, dinanzi al caso dell’alunno che si sforzasse di studiare o di concentrarsi senza riuscirci, infatti Vittorio Alfieri pur di evitare distrazioni giunse al punto di farsi legare a una sedia. È intuitivo riconoscere la presenza del conflitto tra almeno due componenti del sé e farsi legare ad una sedia costituisce il tentativo improprio di privilegiare o di far “vincere” una parte sull’altra. L’educatore potrebbe con una certa facilità incorrere nel rischio di realizzare modalità improduttive, potrebbe intervenire schierandosi da una parte o dall’altra, ovvero tentando di privilegiare questa o quella parte del sé dell’educando. Ora è atteso che ciascuna direzione della crescita e del cambiamento debba essere definita in prima istanza dall’educando. Lo stesso educatore dovrebbe poter costituire un modello di riferimento valido per il ragazzo. Pertanto, oltre ad affrancarsi dalla tentazione di ricercare il cambiamento ad ogni costo, dovrebbe diventare consapevole di ciò che è e imparare ad accettarsi così com’è. 2.2Interpretazione e gestione delle resistenze Di solito quando si parla di resistenza, è quasi automatico immaginare una specie di barriera che impedisce il raggiungimento di determinate finalità verso cui il soggetto vorrebbe o dovrebbe muovere. Le mete immaginate possono essere ad esempio imparare a risolvere determinati problemi di aritmetica, arrivare puntuali a scuola. È facile che derivi l’idea che il cambiamento si realizzi identificandolo, abbattendolo, eliminandolo, si tratta di una logica che contrassegna la maggior parte degli interventi improduttivi. Ora si può assumere che un’alternativa valida consista nell’incoraggiare l’educando a prendere atto, a identificarsi e a esplorare la sua resistenza e non a denegarla o a rimuoverla. Si può trarre l’invito di consentirgli di esprimere quel che vive. In particolare assumendo il modello della Gestalt si può considerare che quella che resiste rappresenta pur sempre una parte della personalità e come tale preziosa, utile. Più precisamente secondo i fautori della Gestalt la personalità si può concepire come un sistema di forze e per quanto attiene specificatamente le resistenze, ne deriva che non abbia molto senso attaccarle, debellarle, superarle. Al contrario, occorre semplicemente integrarle, accogliendole e valorizzandole. In particolare dinanzi a una classe demotivata, assumendo una delle strategie tipicamente improduttive per fronteggiarla, come una punizione, l’annuncio della revoca di una gita scolastica, il docente di prodigherebbe per invitare gli studenti a rimuovere quelle parti del loro sé demotivate, giudicate inutili. In alternativa, egli può aiutare ciascuno a prendere atto della sua eventuale reticenza, ovvero a esplorarla e accoglierla. Così facendo, getterebbe le basi per consentire a ciascun educando di decidere in maniera deliberata e responsabile, anziché limitarsi a reagire. Avvierebbe un processo probabilmente inconsueto, ma volto alla promozione della integrazione del sé. Una volta che l’educatore si sarà adeguatamente preso cura di tutte le parti del sé degli allievi, nonché delle proprie, senza svalutazioni e tentativi di rimuovere quelle ritenute improprie, potrà escogitare opzioni utili e rispettose per lavorare in maniera efficace. CAPITOLO 6 SITUAZIONI EDUCATIVE COMPLESSE E OPZIONI PER IL RECUPERO DI SÉ Nei capitoli precedenti si è variamente evidenziata la necessità di considerare l’educando nella sua unicità e nella sua completezza. Si è anche rilevata l’importanza di monitorare e di prevenire talune aspettative. Di seguito ci si propone di mostrare concretamente come si possano utilizzare talune istanze per migliorare le prassi educative e per consentire all’educando di recuperare e di mantenere il permesso di essere sé stesso. Il docente può esplorare e tentare di comprendere le dinamiche in atto in un gruppo- classe. Appurate le eventuali difficoltà e accertati i bisogni presenti, può soltanto somministrare e fornire degli stimoli, formulare degli inviti, negoziare gli obiettivi. Richiamando il contributo di Berne il docente può mostrare o illustrare quante cose interessanti abbia da offrire. Invece di avviare interventi di tipo vessatorio, il docente può aiutare ciascun allievo a prendere atto, a esplorare e ad accogliere la sua demotivazione, il suo disinteresse. Si tratta del primo passo per consentirgli di scegliere se accettare o meno quanto proposto. Le tecniche efficaci passano attraverso l’accoglienza dell’educando nella sua totalità, da una parte e dall’altra la prosecuzione nella direzione dell’obiettivo prefissato dall’altra. 2.Fronteggiare l’aggressività e la violenza tra integrazione e rispetto di sé Focalizziamo l’attenzione su una problematica insidiosa che tormenta spesso educatori ed educandi: la prevenzione delle condotte impulsive, aggressive e violente. Occorre al riguardo constatare che non sempre gli interventi risultano soddisfacenti. Al contrario nonostante l’impegno degli educatori gli esiti risultano spesso addirittura paradossali. 2.1Un caso di aggressività consolidata Nell’intento di esplorare concretamente le dinamiche che accompagnano determinate manifestazioni distruttive, si ritiene utile partire dall’analisi di un caso. Ci si prefigge di comprendere come mai nonostante gli sforzi del protagonista il problema non sia stato risolto. Roberto, quarantenne, è sposato con Elena ed è padre di quattro figli. Chiede aiuto in quanto nonostante l’impegno non riesce a controllare le sue reazioni impulsive, aggressive e distruttive. Nello specifico durante i litigi con la moglie e con i figli, perde spesso la calma, giungendo a mettere loro le mani addosso. Riferisce che all’età di cinque anni, in seguito a un diverbio intercorso col padre, scaraventa un giocattolo per terra e rivolge alcune parolacce al genitore. Quest’ultimo reagisce assestandogli una raffica di percosse e lo invita ad uscire di casa. In quelle ore interminabili, Roberto ricorda di aver maturato la decisione di stare attento a non sbagliare, di controllarsi e di non arrabbiarsi più. Da quel giorno inizia ad assumere un atteggiamento da bambino modello, a scuola ottiene valutazioni positive. Al di fuori delle istituzioni educative di tanto in tanto Roberto perde le staffe e sbotta. Il problema si protrae fino all’età adulta, dopo l’ultimo litigio animato concluso con l’ennesimo schiaffo dato alla moglie, quest’ultima reagisce mandandolo via di casa. Roberto prepara il bagaglio ma dopo qualche giorno ritorna dalla moglie. La dinamica che si può scorgere nei litigi tra Roberto e la moglie sembra del tutto analoga a quella che si può intravedere nel bisticcio col padre. Il percorso sembra comprendere i seguenti tratti: a) perdere la pazienza, arrabbiarsi realizzando una qualche azione impulsiva, distruttiva; b) essere mandati via; c) pregare l’interlocutore di riammetterlo a casa; d) promettere di non farlo più. Per molti anni Roberto ha tentato di controllare in tutti i modi la sua rabbia, imponendosi di non sentirla e di non utilizzarla. Al fine di individuare cosa si possa fare per prevenire questi comportamenti il primo passo consiste nel cogliere cosa non funziona nei percorsi assunti. È fondamentale comprendere come mai, nonostante le buone intenzioni, l’impegno, Roberto non sia riuscito a risolvere il suo problema. 2.2Meccanismi improduttivi e opzioni utili per l’intervento Roberto tende a non sentire e non usare la rabbia. Come mai questo intervento non funziona? Cosa non va? Roberto agisce fondandosi sulla credenza distorta secondo cui, pur di guadagnare accettazione non possa adirarsi e quindi debba eliminare la rabbia. Si tratta di un atteggiamento che segnala lo sforzo di realizzare l’immagine di persona accettabile. Tale prototipo è stato verosimilmente elaborato dal bambino che Roberto era all’età di cinque anni. Evitare di esplodere e di sbottare implicava l’eliminazione della rabbia e la realizzazione dello stile opposto. Il percorso realizzato da Roberto ha il desiderio di essere accolto. Ritenendo che la sua rabbia non lo consenta e che risulti una parte impropria chiede di essere accettato non per quel che è nella sua totalità, ma per quel che è quasi al completo, ovvero senza la rabbia. Come in un circolo vizioso Roberto: teme di essere difettoso; si sforza di tumulare quelle parti di sé che giudica indegne; realizza comportamenti riprovevoli; li usa per confermare l’idea negativa che ha di sé; rafforza il proposito di “curarsi” attraverso la trasformazione. Nella relazioni Roberto tende ad assumere un atteggiamento passivo, lascia in pratica che sia l’interlocutore a stabilire i confini e le regole da osservare nell’interazione. Quando però registra che l’altro ha abusato smisuratamente della sua disponibilità, anche la sua reazione diventa disperata. Quelle parti di sé costantemente rimosse, insorgono e protestano. Il protagonista del caso tratteggiato ha necessità di imparare ad accettare sé stesso nella sua totalità, compresa la sua rabbia. Proporgli di non arrabbiarsi risulta paradossale. Al contrario occorre insegnargli ad arrabbiarsi e a riappropriarsi di quella parte del sé che ritiene pericolosa e impropria. La finalità educativa e/o terapeutica che ne consegue è di sostenere il passaggio da una posizione difensiva del tipo “sono così bravo che non mi arrabbio” a una di segno opposto “è utile e appropriato arrabbiarsi”. È necessario che quanti presentano difficoltà del tipo considerato, si riapproprino del permesso di sentire e di usare la rabbia autentica che è necessaria per gestire al meglio le questioni della vita. La negazione di tale permesso genera i sentimenti di Ricatto. Si può concludere osservando che un modo di prevenire la violenza consiste nell’educare a evitare di mettere da parte sé e i propri bisogni. Occorre promuovere la consapevolezza e l’utilizzo appropriato di tutti i sentimenti. Risulta paradossale persistere nell’educare chi attua condotte aggressive o violente a non sentire, poiché inavvertitamente incoraggerebbe il ricorso ulteriore a condotte passive e condiscendenti, che comporterebbe la conseguente frustrazione dei propri bisogni e conseguentemente rabbia , rancore e odio. Concretamente per consentire agli educandi di recuperare alcuni sentimenti rimossi può essere utile avvalersi di alcune schede di lavoro semi-strutturate, comprendenti esercitazioni e approfondimenti Effetto Pigmalione L'effetto Pigmalione, noto anche come effetto Rosenthal, deriva dagli studi classici sulla "profezia che si autorealizza" il cui assunto di base può essere così sintetizzato: se gli insegnanti credono che un bambino sia meno dotato lo tratteranno, anche inconsciamente, in modo diverso dagli altri; il bambino interiorizzerà il giudizio e si comporterà di conseguenza; si instaura così un circolo vizioso per cui il bambino tenderà a divenire nel tempo proprio come l'insegnante lo aveva immaginato. Va specificato che questo comportamento può essere attribuito al fatto che il bambino, in maniera inconscia, creda che il giudizio negativo del proprio insegnante svaluterà i suoi eventuali risultati; quindi appartenendo ad un contesto sociale dove viene valutato in base al suo rendimento, il fatto che ad un uguale risultato per lui corrisponda una valutazione differente, lo può portare a giudicare il suo lavoro dispersivo. Inoltre, il fatto che l'insegnante stesso dia più credito ad un alunno in particolare facilita il lavoro di quello specifico alunno, in quanto giustifica verso le altre persone (sia compagni che genitori) il suo impegno allo studio. Una discriminazione da parte dell'insegnante, quindi, potrebbe potenzialmente diffondersi a tutte le persone che ne sono a conoscenza. COMPETENZA AFFETTIVA E APPRENDIMENTO DALLA ALFABETIZZAZIONE AFFETTIVA ALLA PEDAGOGIA SPECIALE CAPITOLO 1 L’ALFABETIZZAZIONE AFFETTIVA COME PROBLEMA EDUCATIVO Lo studio dell’affettività umana può offrire del materiale utile alla pedagogia per l’elaborazione di modelli educativi più completi ed efficaci al fine di aiutare la persona ad essere più consapevole, più coerente con se stessa e quindi più libera. La dinamica di questa sostituzione è stata descritta da Berne ed approfondita da altri autori che hanno particolarmente evidenziato il “potere” della persona nelle sue prime decisioni e il suo potere anche nelle successive “ridecisioni” per cambiare la propria vita. Secondo gli studi degli autori, il bambino, fin dalla primissima età, viene incoraggiato o scoraggiato ad utilizzare determinati sentimenti ed impara così il loro “uso”. Vi sono famiglie in cui ai bambini non è consentito piangere o essere tristi; altre in cui ogni espressione di rabbia viene severamente punita; in altre famiglie l’allegria, la gioia, il riso fragoroso non sono tollerati perché contrastano con il clima di tragedia e di sofferenza permanente dei genitori. Alcuni bambini si adattano alle richieste, altri si ribellano e si comportano in maniera opposta. Il bambino che non può esprimere la rabbia può così “imparare” ad esprimere la paura; il bambino che non ha il permesso di esprimere la gioia potrà imparare ad esprimere la tristezza. Il sentimento, infatti, non rappresenta solo la manifestazione esterna in un modo di sentire ma tende anche ad ottenere un risultato dagli altri. Il bambino che ha provato ad arrabbiarsi quando i bambini lo lasciano solo, e non ha ottenuto alcun risultato, potrà sperimentare che ha maggior fortuna quando dichiara di aver paura della solitudine. E se ottiene più successo esprimendo questo sentimento sarà incoraggiato ad esprimere paura al posto della rabbia. Gli analisti che hanno studiato i sentimenti, in rapporto ai comportamenti, hanno distinto i sentimenti naturali da quelli sostitutivi o “ricatto”. I criteri per distinguere un sentimento naturale da un sentimento ricatto sono due: la congruenza nei confronti della situazione e la direzione verso cui viene spinta l’azione ad opera di quel sentimento. La Congruenza è facilmente identificabile, è la risposta affettiva più appropriata alla situazione del momento: il dolore di fronte alla morte di un amico, la gioia di fronte ad una bella notizia lieta e così via. Questi sono per così dire naturali perché rappresentano un modo universale di vivere affettivamente le situazioni. Possiamo al contrario rilevare una deviazione innaturale di uno o più sentimenti che può essere considerata una vera e propria “distorsione” del modo di sentire. La distorsione può avvenire in due modi: esagerando il sentimento naturale, oppure orientandolo in direzione opposta. Ad esempio, la persona che, dopo aver subito un tamponamento sente una rabbia così violenta e distruttiva da aggredire a coltellate il suo investitore, fa concludere che quel sentimento è un vero e proprio “ricatto”. Un altro esempio è la trasformazione della paura in rabbia, come succede a certe madri che, quando un loro figlio cade e si fa male, esprimono la loro paura con la rabbia. Secondo James i sentimenti fondamentali sono 4: paura, rabbia, gioia e tristezza. Le emozioni fondamentali sono 5: felicità, tristezza, rabbia, paura e disgusto. Secondo questo autore i sentimenti originali che fanno da matrice a tutta la gamma dei sentimenti umani sono riconducibili a due: la paura e la speranza. I sentimenti, tuttavia, nella vita degli esseri umani, raramente si presentano allo stato puro e in forma isolata. In alcuni casi i sentimenti che convivono con altri sentimenti di segno opposto sono rimossi in maniera radicale. Un approccio efficace alla soluzione di questi nodi affettivi è stato offerto dalla terapia della “Gestalt” che punta ad individuare ed a sciogliete i sentimenti che si sono tra loro fusi. Sul piano tecnico, si può aiutare la persona a separare questi primitivi sentimenti invitandola a “far parlare” quella parte di sé che vive un sentimento di amore, e poi la parte di sé che vive il sentimento di odio facendo in modo che, la persona ascolti delle frasi del tutto inedite coltivate dentro di sé e giudicate estranee. Una volta che sono stati scoperti ed espressi, la persona viene aiutata a riconoscere come propri i sentimenti segreti, i desideri proibiti ed a trovare un possibile accordo tra quanto è accettabile e quando è inaccettabile. 7. POLARIZZAZIONE DI SENTIMENTI E IDENTITA’ PERSONALE. Un altro importante dinamismo da considerare nell’accentuazione di sentimenti è legato all’immagine che la persona costruisce di sé stessa alla sua identità. La persona che investito tutte le sue energie per diventare una persona forte e decisa, tenderà ad utilizzare e sviluppare tutti quei caratteri affettivi che sono coerenti con questa immagine: sicurezza, audacia, rabbia ecc. Identificarsi in una sola polarità affettiva significa autoeliminarsi, impedirsi di utilizzare altre potenzialità risorse personali che finiscono così con il rimanere nascoste. 8. SENTIMENTI, COMPORTAMENTI E RESPONSABILITA’. Una prima distinzione fondamentale che vale la pena di introdurre riguarda la differenza fra sentire ed esprimere, identificare i propri sentimenti ed agire. Questa separazione fra sensazione e decisione consente di garantire alla condotta umana indipendenza e autonomia dai sentimenti. Vi sono persone che possono giungere a neutralizzare il proprio modo di sentire per essere “libere” di agire con la sola ragione; siamo di fronte all’atarassia. La soppressione dell’affettività, il ricorso all’atarassia può portare ad un reale abbassamento dei sentimenti e a una dominanza della razionalità. La persona “sente” meno, pertanto soffre meno: ha reazioni più prevedibili e meno rischiose, non subisce gli “alti e bassi” dell’emotività. Un simile risultato non è tuttavia sempre facile da raggiungere perché, i sentimenti rimossi, tendono a riemergere in qualche modo. ma vi è un altro pericolo: la persona che ha disattivato i propri sentimenti, finisce per diventare “dipendente” dai sentimenti delle altre persone, che se continuerà a negarlo, il fenomeno è noto come “relazione simbiotica”. Un’altra tentazione può consistere nell’eliminare alcuni sentimenti: i più rischiosi. L’eliminazione di alcuni segnali particolarmente fastidiosi, potrebbe risultare allettante, semplificante, ma a ben vedere la decisione presa è solo apparentemente facilitata: non si eliminano i guasti eliminando le spie che li segnalano. A questo punto la decisione che potrà prendere sarà completa ed esauriente. La decisione razionale, presa in assenza della dovuta considerazione dei sentimenti, può anche risultare la stessa, ma sarà più debole e soggetta a ricadute. 9. LA SCALA DEI SENTIMENTI. Johns propone una “scala dei sentimenti”, un percorso educativo che consente alla persona di riappropriarsi dei propri sentimenti, di uscire da una situazione di repressione conservando su di essi un controllo cognitivo. Il 1 gradino di questa scala consiste nel venire in contatto con i propri sentimenti. il 2 gradino consiste nell’individuare tale sentimento. Il 3 gradino consiste nel far affiorare il sentimento. Il 4 gradino consiste nella responsabilità di decidere come comportarsi in presenza di questa chiara sensazione. L’autore prevede tre possibili decisioni: verbalizzare, esprimere, reprimere il sentimento. Il vero obiettivo è di mettere la persona in grado di sentire e di prendere una libera decisione in presenza dei propri sentimenti. CAPITOLO 2 AFFETTIVITA’ E PERCORSI COMPORTAMENTALI SIGNIFICATIVI In questo capitolo vengono presentati ed analizzati alcuni percorsi comportamentali su casi concreti, attraverso dialoghi condotti con persone reali e realmente incontrate. L’affettività viene così vista in azione. I percorsi rilevati non sono che “esempi” e non hanno il valore di “leggi” della vita affettiva. I casi sono relativi a problematiche diverse e focalizzano sentimenti diversi. La loro analisi ha come punto di riferimento l’Analisi Transazionale. 1.FUSIONE DI SENTIMENTI E SOMATIZZAZIONE: UNA RISPOSTA CREATIVA DI SOPRAVVIVENZA. Somatizzazione Il sintomo fastidioso. Lina è una donna di 39 anni sposata con due figli. Accusa un sintomo fastidioso: arrossisce di fronte a chiunque quando si trova in compagnia del marito. I sentimenti sottostanti. Il colloquio è volto a chiarire i sentimenti di Lina nei confronti del marito. Quelli che emergono sono: la rabbia, la paura di essere abbandonata, la tenerezza. Si tratta di sentimenti che è difficile conciliare e far convivere, sembra impossibile utilizzarli per un comportamento coerente e sembra ingiusto metterne uno a tacere in quanto alimentano il rapporto fra Lina e il marito. La fusione dei sentimenti. L’immagine che la situazione esprime è quella di una “fusione” dei sentimenti: è come se l’impossibilità di conservarli autonomi suggerisse all’interessata di unificarli. La persona scivola continuamente dalla impotenza alla onnipotenza senza trovare una posizione intermedia di “potenza” personale. La perdita di una posizione significherebbe perdita anche della seconda. Abbandonare l’impotenza significherebbe non avere più speranza di diventare onnipotenti. Il dubbio alimenta contemporaneamente il sentimento di massima onnipotenza e di massima impotenza, che consente contemporaneamente di sperimentare il minimo di senso di colpa e il minimo di distruzione dell’altro. L’oscillazione fra impotenza e onnipotenza finisce con l’impedire alla persona di giungere ad una realistica posizione di potenza. In Mario la sua richiesta verbale è di chiarire il dubbio, mentre l’intenzione palese è di conservarlo, è quello che Berne ha chiamato il gioco del “Si, ma…”, dove il giocatore bisognoso di aiuto riesce a tenere in scacco tutti i suoi soccorritori ed i suoi salvatori trovando sempre un motivo per dimostrare non valido il consiglio dato e inutile l’aiuto. Si tratta di un sistema ingegno che, anche se doloroso, riesce a conservare le uniche due posizioni conosciute: impotenza e onnipotenza. Tutto questo ha un prezzo la sofferenza. Il superamento di questa sofferenza richiede il recupero e l’esercizio di un vero potere affettivo e decisionale, una sorta di intermezzo tra impotenza e onnipotenza, una forza nuova. All’utilizzazione della propria potenza affettiva si giunge dopo essersi separati dagli altri e dopo essersi ripresi la responsabilità di sentire e di agire. La persona che si sente adeguata, potente non ha più bisogno di far ricorso all’altro per continuare a sentirsi tale e potrà esprimere i propri pensieri, sentimenti, giudizi abbandonando l’idea magica che gli altri possono esaltarla o distruggerla. 3. SENTIMENTO DI COLPA E PAURA DEL RISCHIO: DALL’IMPOTENZA ALLA ONNIPOTENZA PER EVITARE LA RESPONSABILITA’ Laura è una donna di 26 anni che soffre la rabbia che prova nei confronti dei genitori, i quali la criticano e la fanno sentire in colpa, non le perdonano di aver abortito. I sentimenti dominanti sono: un sentimento di rabbia caratterizzato da onnipotenza per la certezza di essere dalla parte della ragione, e un sentimento di colpa caratterizzato dalla impotenza nel fare qualcosa. Onnipotenza e impotenza sono in continua alternanza. Quando non resiste a tanta sofferenza attacca i genitori, più attacca ed esprime rabbia verso i genitori, più il senso di colpa tende a diminuire, è come se la rabbia riuscisse a coprire un sottostante sentimento di colpa. In questo percorso che si alterna fra impotenza e onnipotenza senza giungere mai ad una posizione di potenza, un elemento che viene trascurato: la responsabilità. Non solo la responsabilità di giungere ad una decisione, ma anche la responsabilità di vivere le conseguenze affettive. È un percorso che preferisce conservare la responsabilità delle proprie decisioni, ma lasciare agli altri la responsabilità degli effetti. Questo percorso sembra davvero ingegnoso perché garantisce alla persona che lo adotta di poter decidere senza portare il peso degli effetti negativi, in questo modo possono aumentare le scelte e le decisioni, si può scegliere quello che si vuole. Il lato debole di questo percorso consiste nella mutilazione che la persona porta al suo potere, nella sofferenza e disperazione che inevitabilmente seguono. La persona non ha potere nel suo modo di sentire poiché nella sua rappresentazione della realtà sono gli altri che le provocano sofferenza e colpa, la persona soffre senza poter far niente per se stessa, vive una colpa che non sente come propria, non può amare le persone che vorrebbe amare, poiché li ritiene responsabili della propria sofferenza. Solo la riappropriazione della propria sofferenza, la riappropriazione della responsabilità dei propri sentimenti le consentirà di mettersi alla guida della sua esistenza separandosi dai giudizi degli altri. Responsabilità e potere sono in stretto rapporto e possono costituire il punto di intervento più significativo per interrompere il magico ma anche doloroso percorso che dalla impotenza porta all’onnipotenza. 4. DALLA PAURA BLOCCANTE ALLA RABBIA ESPLOSIVA: OBIETTIVO DA RAGGIUNGERE E RIFIUTO DI SÉ Antonia è una studentessa iscritta al Corso di Laurea in medicina e il suo problema consiste nel continuo rinvio degli esami. Il colloquio tende ad indagare su quanto è accaduto durante l’ultimo esame che ha sostenuto. Dal racconto di Antonia è possibile ricostruire alcune tappe. La prima tappa è contrassegnata dalla paura: paura di non farcela, di non sapere abbastanza, porta al rinvio e fa registrare una prima perdita di tempo. Alla paura subentra la rabbia orientata verso sé stessa. A questo punto è come se la paura cessasse di aver senso perché Antonia non ha più niente da perdere. Nessuna critica è più pensate di quella che lei ha già inflitto a sé stessa per cui ora può avventurarsi verso qualunque situazione pericolosa. È a questo punto che Antonia decide di presentarsi agli esami. L’autostima è ridotta al minimo, è come se dovesse toccare il fondo della disperazione, è come se dovesse sperimentare una sensazione spiacevole di sé per potersi permettere di raccogliere il frutto. I punti salienti del percorso sono dunque: la paura, il disprezzo di sé, l’azione esplosiva decisa sotto la pressione della disperazione. Siamo ancora di fronte ad impotenza-onnipotenza. L’impotenza ingigantisce la paura fino a rendere impossibile ogni decisione, la paura è ormai al massimo livello, insopportabile e va debellata. Ed ecco che Antonia trova un0idea originale, se Antonia “si fa schifo” non più avere paura di perdere, non può più temere avversari e può altresì sfidare qualunque critica. In questa posizione di “nulla-tenente”, non ha più senso aver paura: la paura viene disattivata. L’esame viene affrontato con impeto e violenza. Superata la prova, subentra il normale pensiero di un successivo esame con il suo tasso di paura oscillante che costituisce il primo tratto del già noto percorso. Sembra di trovarsi di fronte al passaggio da una posizione di impotenza ad una posizione di onnipotenza: dall’impotenza causata dalla paura, alla onnipotenza esplosiva di una rabbia diffusa che porta comunque alla meta. 5. L’ABBANDONO INSOPPORTABILE: IL BISOGNO ESISTENZIALE DELL’ALTRO COME RISULTATO DELLA SVALUTAZIONE DI SÉ Stefania è un avvocato di 40 anni, il suo dramma è l’improvviso abbandono del marito, il suo matrimonio aveva già presentato in passato momenti difficili ma tutto era sempre ritornato alla normalità. L’aspetto che più sorprende in Stefania è la lucidità nella descrizione del suo problema e la disperazione profonda. Si tratta di una disperazione non espressa, ma descritta: non dorme, trascura l’alimentazione, non pensa che a “quello”. L’abbandono, la separazione fra persone che si sono volute bene è sempre un dramma, ma in alcuni casi la sofferenza appare “fuori misura”. Questo è il segnale di uno scompenso fra la percezione di sé e la percezione dell’altro. In particolare si può immediatamente rilevare una accentuata svalutazione di sé accompagnata da una sopravvalutazione dell’altro. Chiedo a Stefania quali caratteristica apprezzava del marito: mi dava sicurezza, mi gratificava, mi faceva sentire amata. Ella percepisce il marito come il proprietario della sua sicurezza, come il responsabile di quella sua identità di persona amabile e intelligente. Questa percezione giustifica pienamente la crisi che sta vivendo. Più la persona si sottovaluta, più è costretta a ricorrere all’altro. Chiedo a Stefania quali qualità si riconosce, la sua risposta è “non mi riconosco niente di buono”. Stefania sente di non valere, di non essere importante, di non meritare affetto. Per evitare la sofferenza ha deciso di ridurre al minimo il volume nel suo modo di sentire ed esprimere i sentimenti, si impedisce di sentire e nega così una parte importante di sé, non per prova sembra duplice: da un lato il fastidio della rabbia, dall’altro l’incapacità ad esprimerla. Antonia vuole uscire dalla sua situazione di disagio. I risultati di questo suo impegno di notano: affronta con decisione le situazioni lavorative, dice quello che sente, ma nonostante tutto questo, c’è qualcosa che non va. Si tratta di una sensazione fastidiosa e costante, ella ricorda un vecchio episodio vissuto all’età di 6 anni, “frequentavo la scuola elementare ed avevo come compagna di banco la figlia del bottegaio che veniva a scuola con una cioccolata per mangiarla durante la ricreazione. Il desiderio di poter avere anch’io una cioccolata come la sua era molto grande, ma a me non era consentito. Un giorno riuscii a procurarmi dei soldi e andai in quella bottega, mentre ritiravo la mia cioccolata sentii la voce della mia compagna chiedere al padre una cioccolata ancora più grande. In quel momento fui accecata dalla rabbia. La mia rabbia era incontenibile, ma non dissi nulla rimasi come pietrificata. La rabbia: un problema di copertura. La rabbia di quel momento veniva sperimentata da Antonia ogni volta che qualcosa non andava: una rabbia che ella non aveva il coraggio di esprimere. Siamo di fronte ad un sentimento sentito come potentemente e tragicamente distruttivo: e proprio il danno che avrebbe potuto provocare la induceva a non esprimerlo. E ormai la sua vita era contrassegnata da questa rabbia inespressa, da questo desiderio di salvare gli altri mettendosi da parte. Il momento più drammatico dell’episodio ha dunque origine da una competizione, da un confronto: ancora una volta la compagna è in vantaggio, Antonia si considera una perdente. In questa dinamica di avvenimenti vi sono due elementi: il primo riguarda il modo con cui questa bambina si procura la rabbia; il secondo riguarda la cancellazione di ogni altro sentimento. La rabbia accecante cancella ogni altra cosa, questo è il vero “furto”, la vera deprivazione, il vero vuoto che si nasconde sotto la grande rabbia. Quel giorno poteva essere un giorno di festa e Antonia poteva assaporare una cioccolata tanto attesa, poteva scoprire che la sua intelligenza era davvero un buon antidoto alla carenza delle sue risorse economiche, quel momento poteva pure diventare una occasione per festeggiare con la compagna. Tutto questo guadagno è stato fagocitato dalla rabbia competitiva, dal confronto perdente. La rabbia dunque non è il sentimento “vero”, è un sentimento sostitutivo di quella gioia trionfante e condivisa che avrebbe potuto sgorgare dai fatti. Questo è servito ad Antonia per capire e per decidere ora un suo diverso modo di affrontare la realtà, gli avvenimenti e le persone, senza lasciarsi distrarre da una “dipendenza affettiva” nei confronti dei sentimenti degli altri: soprattutto se invidiosi. Si tratta per lei di gustare finalmente quella meritata cioccolata di allora con tutto ciò che questo può oggi significare in termini di accettazione di sé, anche in presenza di persona invidiose e bisognose di dimostrare continuamente la loro superiorità. CAPITOLO 3 IL DOLORE PROCURATO E LA PREOCCUPAZIONE RICATTO 1.IL DOLORE PROCURATO Il dolore, fra i sentimenti, è il più noto e il più spiacevole, quello che vorremmo evitare. Il dolore che qui ci interessa analizzare è quello “psicologico”: lo star male dentro. Il dramma dall’esistenza nasce quando la persona vive, soffre e subisce il dolore senza distinguere il dolore oggettivo dal dolore procurato, il dolore inevitabile da quello “artificiale”. Sul piano dell’educazione affettiva può essere utile analizzare e distinguere le varie forme di sofferenza fino a smascherare il dolore procurato per poter aiutare la persona che soffre a identificarlo, a controllarlo e per quando possibile ad evitarlo. Gran parte del dolore umano è procurato. Fonti e percorsi della sofferenza: il dialogo interno. Una prima sorgente del dolore procurato sembra da ricercare nel “dialogo interno” in cui due parti della persona entrano in relazione per attivare un conflitto interminabile dai toni spietati e feroci. Quella parte della persona che interpreta i valori, gli ideali può esprimere frasi tremende e provocare ferite dolorose a quella parte della persona che interpreta i sentimenti, i bisogni, i desideri con il risultato di scuotere profondamente tutta la persona, ma ciascuno può individuare con precisione sia le situazioni critiche, sia le frasi con cui si procura questa sofferenza. Sapere quando ci si avvicina al pericolo può già essere un modo per prevenire o attenuare il dolore. L’incapacità a trovare risposta: i diversi analfabetismi. Una fonte sicura di sofferenza può essere identificata nei diversi analfabetismi: comportamentali, affettivi, cognitivi. La persona può soffrire se si trova senza risposta negli avvenimenti o nei rapporti personali. Essa può trovarsi incapace di risposte, può non sapere cosa volere, che cosa desiderare, che cosa sentire. In questi casi la persona avverte una sua incapacità che limita i suoi rapporti con le persone e con la realtà. Per far fronte a questa forma di sofferenza si dovrà procedere alla ricostruzione o alla riattivazione di questi aspetti carenti. La percezione focalizzata sui dati negativi. Una fonte permanente di sofferenza deriva dal modo di percepire i dati della realtà: in particolare alla considerazione dei soli dati negativi. Questa percezione focalizzata può avere come oggetto la persona stessa: in questo caso la persona coglierà di sé stessa elementi esclusivamente negativi. Un altro modo per procurarsi dolore consiste nella percezione negativa degli altri. Gli avvenimenti dolorosi non accettati: il caso sempre “aperto”. Una particolare forma di sofferenza deriva dall’avvenimento doloroso non accettato: è come se il caso fosse destinato a rimanere sempre aperto. La persona spreca le sue energie a respingere l’avvenimento nella speranza di potersene liberare, ma più cerca di liberarsene , più l’avvenimento si lega ad essa con pensieri e sentimenti. In questo modo la sofferenza aumenta anziché diminuire. In questo caso la decisione essenziale che può essere presa è quella di riconoscere i fatti: prendere atto della loro esistenza. E questo il primo passo per separarsi da essi. Il dolore che sembra provenire dagli altri. La fonte più importante del dolore provocato sembra identificarsi con gli “altri” al punto che, si ha l’impressione che, se non esistessero gli altri, non ci sarebbe dolore. Gli altri sono visti come una fonte diretta di sofferenza quando esprimono critiche taglienti, quando adottano comportamenti che riteniamo intollerabili, quando esprimono critiche negative. Il dire “non me ne importa niente di quello che dici” non corrisponde a verità emotiva: è anzi un falso psicologico. La persona realmente disinteressata non esibisce il proprio disinteresse: si limita a non prestare attenzione, a non prendere in considerazione quanto ritiene privo di interesse. Una seconda fonte di sofferenza può essere identificata in alcuni comportamenti degli altri. Gli insegnanti sono infastiditi quando i loro allievi continuano a sbadigliare, i genitori non tollerano che i figli disobbediscano ecc. I sentimenti degli altri che non riusciamo a sopportare rappresentano un ulteriore fonte di sofferenza “non posso vedere mia madre soffrire”, “non posso sentire mio figlio piangere”. 2.LA PREOCCUPAZIONE RICATTO La preoccupazione entro certi limiti rappresenta una sensazione utile perché, anche se spiacevole, può risultare funzionale all’attivazione di comportamenti positivi. Più in generale potremmo dire che la preoccupazione acquista un senso ed un valore quando segue le regole del sentimento naturale: quando è congruente rispetto agli avvenimenti. La preoccupazione, tuttavia, è un sentimento soggetto a degenerazione: su di esso, infatti, si innesta con facilità una gamma molto ampia di sentimenti contrastanti. È così che la preoccupazione solo raramente si presenta come un sentimento allo stato puro: più frequentemente si presenta come un vero e proprio “impasto” di emozioni contrastanti quali la paura e l’affetto, la frustrazione e la speranza. L’equivoco della preoccupazione. L’equivoco più ricorrente in fatto di preoccupazioni riguarda la convinzione della sua origine. “Sono preoccupato perché ti voglio bene”, la preoccupazione è indubbiamente garantita dall’esistenza di un legame affettivo che viene attribuito a persone o cose per le quali si vivono momenti di ansia e di attesa. L’identificazione della preoccupazione come esclusiva espressione di affetto è un auto-inganno. L’inganno consiste nel ritenere gli altri e le situazioni la causa della propria sofferenza. Identificare la preoccupazione con l’affetto porta dunque a continui atti di accusa e a sentimenti di incomprensione. Vale dunque la pena di identificar e “reali” destinatari delle “preoccupazioni” e di analizzare i diversi modi attraverso cui la preoccupazione si esprime. Preoccupazione per sé e preoccupazione per l’altro. La persona può essere preoccupata per sé o per qualcosa che le riguarda direttamente: la propria salute, i propri affari. In questo caso la persona si sente “unica” protagonista della propria rimangono a lungo e limitano gravemente anche la vita futura. Chi ha imparato a sentire l’amore attraverso la preoccupazione dei propri genitori continuerà a cercare di essere amato attraverso questa modalità: facendo cioè in modo che essi si preoccupino per lui. Mettersi nei guai o farsi del male perché qualcun altro di preoccupi è una modalità tipica per raggiungere questo obiettivo. CAPITOLO 4 AFFETTIVITA’, COMPORTAMENTI DIPENDENTI E PREVENZIONE PRIMARIA 1.COMPORTAMENTI DIPENDENTI AUTODISTRUTTIVI: FORME DI PREVENZIONE PRIMARIA DELLE TOSSICODIPENDENZE L’azione di prevenzione viene considerata come la forma più efficace di intervento sui fenomeni ad alto rischio. Per quanto riguarda le tossicodipendenze, il lavoro di prevenzione sembra essere considerato di particolare importanza. L’azione di prevenzione evoca un immediato senso di rassicurazione perché sembra cogliere alla radice il fenomeno modificando lo stesso terreno da cui trae origine, rendendo così impossibile il suo diffondersi; ma la sua concreta realizzazione si presenta invece di grande complessità e difficoltà. La prima difficoltà consiste nell’individuare la causa del fenomeno della tossicodipendenza, non esistono cause specifiche direttamente responsabili del fenomeno, non sembra nemmeno esistere una particolare struttura di personalità responsabile. Di fronte all’impossibilità di una prevenzione mirata, l’ipotesi più ricorrente è quella di far ricorso a un’educazione generale, ad un rafforzamento globale della personalità in modo da permettere alla persona di affrontare tutti i rischi dell’esistenza, compresi quelli della tossicodipendenza. 2.RICERCA DI NUOVE IPOTESI Prima di cadere nella tentazione del semplice agire o nell’illusione che la sola mobilitazione di tanti risolva il problema, vale la pena ricercare altre ipotesi per verificare se vi possa essere qualche possibilità di dare al termine prevenzione una connotazione operativa concreta e identificabile. L’ipotesi che vorrei introdurre è quella di porre l’attenzione verso i comportamenti autodistruttivi, in vista degli interventi da adottare. Se analizziamo, infatti, la condotta del tossicodipendente possiamo identificare due aspetti ricorrenti: la dipendenza da una presunta fonte di felicità e la mancanza di preoccupazione per gli effetti negativi della condotta autodistruttiva adottata. Analizzando questi comportamenti, potremmo identificare un più ampio spazio di intervento e utilizzare un ampio margine di possibilità per la modificazione del percorso dei tossicodipendenti, prima che essi giungano a tragica conclusione. 3.GLI AMBITI DELLA RICERCA Un’utile ricerca sulla prevenzione primaria sembra poter avere due obiettivi fondamentali: individuare i comportamenti dipendenti autodistruttivi che si manifestano nel bambino fin dai primi anni di vita; e individuare degli interventi specifici per affrontare in termini educativi tali comportamenti. La ricerca richiede quindi competenze interdisciplinari: da un laro una competenza psicologica e clinica, dall’altro una competenza pedagogico-educativa. 4.LA DIPENDENZA DAGLI OGGETTI Fra le forma apparentemente più innocue di dipendenza possiamo subito registrare la dipendenza dagli “oggetti”. Il fascino di possedere, di avere, è tipico della prima infanzia. La persistente attenzione per le cose, il ricorso sproporzionato ai “regali”, contribuisce a prolungare questa dipendenza dagli oggetti e può frenare l’attenzione per la ricerca del divertimento libero. Questo non significa abolire i giochi o i regali, si tratta solo di rendere unica questa fonte di attrazione e di alternare la dipendenza dall’oggetto con la costruzione dell’oggetto. La dipendenza continua da oggetti esterni fa richiedere oggetti sempre più stimolanti e sembra condannare la persona ad una sistematica insoddisfazione. Un primo intervento utile può consistere nel far sperimentare, accanto alla soddisfazione per il consumo dell’oggetto, la soddisfazione per la sua invenzione e costruzione. Il soggetto può uscire da una posizione di passività, di attesa dipendente e scoprire le proprie personali risorse nel “fare”: può sperimentare la sua fantasia, la sua creatività, la sua intelligenza ecc. 5.LA DIPENDENZA DALLA MALATTIA E LE SUE VARIABILI Il bambino che si sente costantemente trascurato, che sperimenta di non essere importante, di non valere quanto gli altri membri della famiglia, può scoprire che la sua posizione cambia quando viene colto da una malattia. La sua malattia sembra avere il potere di cambiare radicalmente il comportamento dei familiari. Ogni richiesta del bambino ammalato viene ascoltata e soddisfatta, giungono regali e coccole. La guarigione sembra ristabilire la precedente grigia normalità. Quando simili esperienze vengono ripetute è possibile che si faccia strada nel bambino la convinzione che la malattia è un’occasione favolosa: non solo da non perdere, ma da provocare. La dipendenza dalla malattia inoltre, può essere utilizzata come richiesta di attenzione. Nell’osservare i comportamenti del bambino in famiglia, si possono tener presente 3 diversi modi di dipendere dalla malattia: - lo sfruttamento della malattia come alibi per non fare o come ricatto per ottenere affetto e attenzione; - l’esibizione delle proprie incapacità per ottenere rassicurazione e aiuto: si caratterizza per l’uso attivo della propria debolezza, per l’esibizione della propria fragilità, in vista di quei medesimi guadagni; - farsi del male per punire qualcuno: ammalarsi per provocare preoccupazione, per punire gli altri, assume il sapore della vendetta. 6.DIPENDENZA DALLA MALATTIA E INTERVENTI EDUCATIVI Gli interventi educativi per prevenire e modificare i comportamenti dipendenti sopra identificati sono facilmente ipotizzabili una volta riconosciuti i bisogni che li hanno favoriti, i percorsi comportamentali che sono stati utilizzati e gli aspetti di personalità assenti e non utilizzati dal soggetto. Nello sfruttamento della malattia per ottenere affetto e riconoscimento la risposta e la soddisfazione di questi bisogni da parte dei genitori possono costituire un intervento di grande efficacia. Una seconda serie di attenzioni può riguardare il modo di “reagire” degli adulti alla malattia dei bambini. Controllare l’ansia e la preoccupazione, evitare l’enfasi, gli eccessi di cure e soprattutto di sovvertire la gerarchia dei valori e delle regole familiari, sono validi criteri preventivi da tener presente. Per quando riguarda l’esibizione delle qualità negative in vista possibili guadagni, l’intervento educativo centrale consisterà nell’aiutare i ragazzi ad identificare ed esprimere le proprie risorse personali. Quanto al farsi male con l’intento di punire gli altri, l’intervento educativo più appropriato consisterà nell’offrire al soggetto la possibilità di esprimere i propri sentimenti in forma diretta nei confronti di tutti coloro verso i quali egli prova rabbia. 7.LA DIPENDENZA DALL’AZIONE: IDENTITA’ NEL FARE Altra tipica forma di dipendenza riguarda il fare. Si possono identificare almeno 3 forme di dipendenza all’azione: - Agire per dimostrare agli altri la propria identità: è un comportamento “sano”; può diventare rischioso quando diventa il solo modo di rapportarsi agli altri e quando, da parte degli adulti, diventa il solo modo per riconoscere il bambino. Il bambino, ogni volta che fa qualcosa, sente il bisogno di presentarlo con l’intento di dire “guarda cosa ho fatto!” l’intenzione sottintesa è “dunque guarda chi sono”. Esplodere di meraviglia solo quando il bambino produce qualcosa di importante o reagire violentemente quando sbaglia, significa enfatizzare la sua azione, valorizzando quello che fa a scapito di quello che è. - Agire per liberarsi degli altri: è un’altra forma di dipendenza dall’azione. Si tratta di lasciare nel soggetto l’illusione della libertà. Il “no”, come il “si”, nei primi anni di vita ha un’importante funzione identificatoria e da questi comportamenti il bambino scopre il suo confine, il suo potere, la sua capacità di affrontare le situazioni e gli altri. I problemi possono nascere quando dal rifiuto si trae un senso di potenza e di libertà: “so chi sono e che cosa fare nella vita”. Il modo con cui l’adulto risponde ai “no” del bambino è di grande importanza per l’opinione che il bambino matura su questa espressione. Una reazione sproporzionata, interpretata come una disobbedienza grave, come una mancanza di rispetto all’autorità dei genitori può provocare nei sul suo conto; ma ha anche imparato a conoscere i suoi limiti e le sue risorse osservando i suoi successi e insuccessi, sperimentando le sue abilità e i suoi fallimenti. L’immagine di “bambino” che ogni soggetto si è costruito si trova a convivere con un’altra immagine che comincia gradualmente a strutturarsi: quella di “allievo”, di persona che “apprende”. L’ingresso nella scuola rappresenta per il bambino un’occasione di verifica della propria immagine di sé. Il bambino sopravvalutato in famiglia, definito un “genio” dalla benevolenza dei familiari, può all’improvviso scoprire una sua deludente situazione di “parità” con gli altri membri della classe. L’esperienza scolastica rappresenta per il ragazzo uno sconvolgimento totale. Questo momento è di particolare importanza per lo sviluppo, perché il bambino è chiamato ad assumere una posizione, vive nuove emozioni, è chiamato ad esprimersi e a difendersi, ad affermarsi e ad adattarsi in un contesto del tutto nuovo, con figure protettive del tutto diverse, in un tempo che non sembra più appartenere alla sua giornata e alla sua vita, ma alla scuola con le sue regole. In questa complessa esperienza il maggior rischio è la contrapposizione fra essere bambino libero e autonomo, e scolaro diligente e obbediente. La contrapposizione di queste due immagini può portare a vivere la dolorosa e falsa situazione di sdoppiamento, oppure può portare ad una scelta. La scelta di essere bambino e di indossare solo a tempo determinato l’abito da scolaro, porta ad un pericoloso impoverimento dei processi di apprendimento, ad una svalutazione dell’esperienza scolastica e all’insuccesso. L’intervento educativo risulta utile se riesce a prevenire la situazione di dicotomia e se riesce pertanto ad evitare al soggetto di dover fare una scelta. 3.BAMBINO E SCOLARO: UNA POSSIBILE CONVIVENZA Gli interventi educativi possono facilitare la convivenza fra bambino e scolaro. In particolare, il linguaggio con cui l’insegnante si rivolge ai ragazzi può garantire la saldatura affettiva fra esperienza esistenziale ed esperienza scolastica. L’insegnante può progettare interventi a “doppia” entrata: diretti sia alla persona del ragazzo, sia alle sue azioni di scolaro. È importante anche che l’insegnante elabori una “pedagogia dell’errore” per sdrammatizzare il suo effetto, introducendo il gioco dell’errore che consisteva nel far scoprire a tutti l’errore commesso da qualche scolaro. Il dramma così si trasformava in gioco e l’emarginazione deprimente si trasformava in occasione di stimolo e di socializzazione. 4.DIALOGO EDUCATIVO FRA LOGICA E AFFETTIVITA’ L’attenzione su di sé e l’attenzione sull’altro. Un primo criterio fondamentale per stabilire un rapporto con un bambino è quello di incentrare l’attenzione su di sé e di rimanere in contatto con i propri sentimenti. Avere consapevolezza dei propri sentimenti significa rendersi conto di che cosa sta succedendo dentro di noi per scegliere quale comportamento attivare. Quando un insegnante rimprovera violentemente un alunno che continua a sbagliare, se rivolge l’attenzione a sé stesso, può accorgersi che la sua risposta non è legata direttamente all’errore del suo alunno: è piuttosto legata ad un suo sentimento di paura, di fallimento o del giudizio che gli altri possano dargli. Nel dialogo il bambino non è dunque il solo problema, ma vi è anche il problema dell’adulto, solo se restano separati, i problemi possono venire risolti. Il rapporto rispettoso e accettante. La condizione generale per un rapporto educativo positivo è che l’educatore sua contemporaneamente consapevole di sé e del proprio interlocutore: consapevole di ciò che sta accadendo nella propria sfera affettiva e consapevole del bisogno reale del proprio interlocutore. La consapevolezza e il rispetto di entrambi gli interlocutori facilita la positività del dialogo. Altra condizione per dialogare è la capacità di ascolto: ascoltare per capire; sentirsi capiti è una delle condizioni migliori per stare bene con gli altri e portare il dialogo verso l’intimità. L’ascolto può registrare anche momenti di silenzio, e il silenzio può esprimere un legame più forte delle parole quando si caratterizza come momento di comprensione e solidarietà. Il dialogo più articolato è quello che utilizza la logica e la ragione degli interlocutori attraverso cui le situazioni vengono capite, padroneggiate e modificate; ma vi è un dialogo “affettivo” che precede e accompagna il dialogo logico. Il dialogo educativo viene generalmente avviato con una nascosta intenzione di “cambiare” il proprio interlocutore: questa intenzione minaccia l’andamento del dialogo perché l’interlocutore si sente criticato e comincia così a difendersi. Il vero cambiamento si ha invece quando la persona comincia ad accettarsi e si sente accettata. A questo punto, l’energia sprecata per difendersi, viene utilizzata per cambiare e per adottare nuovi comportamenti. È il momento in cui la persona cambia per se stessa, e non per piacere a qualcuno. Il dialogo che si svolge fra persone che si accettano, stimano, è un dialogo ricco ed educativo che aiuta a diventare quello che si è, scoprendo la ricchezza e la diversità. 5.LE OPZIONI NELLA PERCEZIONE DELL’ERRORE: PERCORSI BLOCCATI E PERCORSI CREATIVI NELLA PRATICA EDUCATIVA Nella pratica educativa vi sono momenti in cui l’operatore può avere la sensazione che qualcosa non funzioni: risultati programmati non vengono raggiunti e al loro posto si registrano esiti indesiderati. Nei casi più gravi l’educatore si accorge di essere bloccato, siamo di fronte ad un “blobbo delle opzioni”, questo viene espresso con frasi del tipo “abbiamo provato in tutti modi, ma tutto è stato inutile”. È un momento in cui l’educatore sente la tentazione di abbandonare il campo perché sembra non avere più opzioni. Il blocco delle opzioni e l’idea meccanica di cambiamento. Il comportamento che si incontra con maggiore frequenza sul cammino che conduce al blocco delle opzioni porta a realizzare il cambiamento in forma “meccanica”: si tratta di una convinzione secondo cui cambiare assume il significato di fare l’esatto contrario di quanto si è fatto fino ad ora, nell’illusione-certezza che questo cambiamento porterà sicuramente a risultati positivi, che sistematicamente non vengono raggiunti. La percezione “affettiva” dell’errore e la condanna globale del proprio operato. L’educatore turbato per l’insuccesso di un proprio allievo e dalla consapevolezza di un proprio errore, può rimanere vittima di una percezione “affettiva” della situazione e affrettarsi a concludere di aver “sbagliato tutto”. Questo affrettato giudizio emotivo sollecita un cambiamento urgente più che un’analisi dettagliata degli interventi effettuati. È così che il cambiamento acquista un significato doppiamente negativo, sia perché porta a valutare negativamente ogni azione del passato, annullando anche molti aspetti positivi, sia perché introduce cambiamenti non rapportati ai fini che si vogliono raggiungere, ma semplicemente ritenuti validi perché contrari ad interventi considerati soddisfacenti. Blocco delle opzioni: le tappe significative. Il percorso che porta al blocco delle opzioni può essere ricostruito attraverso la sequenza delle sue tappe. La prima tappa è caratterizzata “dall’identificazione del fallimento degli alunni come fallimento dell’insegnante”: un’identificazione non verificata, ma immediata. La seconda tappa riguarda la “percezione dell’errore” che fa si che l’insegnante veda solo errori ed esprima una condanna globalmente negativa del proprio operato o dell’operato del proprio allievo. La terza tappa si realizza attraverso l’urgente bisogno di cambiamento: un’urgenza che elimina il momento della verifica per identificare che cose e come cambiare negli interventi adottati fino a quel momento. A questo punto l’operatore introduce comportamenti e interventi opposti a quelli adottati fino ad allora. La tappa successiva è contrassegnata dalla constatazione di un ulteriore insuccesso e porta alla tappa finale: il “blocco delle opzioni” in cui l’insegnante viene a trovarsi con la convinzione di avere ormai sperimentato tutti i modi e tutti gli interventi ipotizzabili. Questa tappa è contrassegnata dalla disperazione, senso di impotenza e desiderio di fuga. Percorso libero ed elaborazione delle opzioni. Il percorso bloccato può essere evitato. La situazione ottimale per intraprendere un percorso libero e creativo rimane quella iniziale in cui l’operatore si interroga sui possibili errori commessi. momentaneamente al suo silenzio e rivolgere alla classe una domanda tipo: “chi di voi è stato recentemente deriso?”. Può accadere che nessuno risponda per paura di correre qualche rischio, specie se ci si sente in colpa per aver riso del compagno. In questo caso l’insegnante può parlare di sé dicendo: “io ho fatto questa esperienza e vi garantisco che è molto spiacevole”. Il messaggio che l’insegnante manda alla classe è molto più convincente di qualsiasi predica perché è un dato di realtà. Il ragazzo interpellato piange. Può accadere che il ragazzo interpellato dall’insegnante sul sentimento che prova, scoppi in lacrime. Quel pianto è in parte giustificato dagli avvenimenti esterni, in parte è esagerato e ripetitivo. Tutto questo va tenuto presente per non incorrere nella trappola della consolazione che, porterebbe solo a rafforzare tale comportamento. Il pianto va dunque riconosciuto ma non valorizzato. Un modo per fare ciò può essere quello di consentire che il ragazzo continui a piangere e di avviare il dialogo con gli altri compagni; il ragazzo poi potrà cominciare a parlare. A questo punto, l’insegnante può cogliere l’occasione per affrontare con la classe il problema del pianto come risposta alla derisione ed aiutare tutti a trovare delle alternative a questo comportamento, senza svalutare il pianto come risposta naturale. Gli interventi con la classe. L’insegnante ha tuttavia altre scelte e può intervenire rivolgendosi alla classe o ai diretti responsabili. L’avvio dell’intervento può essere dato dalla proposta dell’insegnante di riflettere su quanto è appena accaduto. Una successiva domanda può essere: “vorrei sapere chi di voi ha riso”. Il tono con cui si pronunciano queste parole stabilisce se si tratta di una domanda accusatoria, oppure di una richiesta. A questa domanda è molto probabile che nessuno risponda. L’intervento può proseguire rivolgendo l’attenzione al ragazzo deriso: “i tuoi compagni tacciono, tu vuoi dire loro qualcosa?”, anche l’eventuale silenzio del ragazzo deriso può risultare uno stimolo efficace per pensare. Dopo questa parentesi il lavoro scolastico può quindi continuare. Abbiamo ipotizzato anche che, vi sia chi dichiara di aver riso, in questo caso l’insegnante può avviare un dialogo con questi ragazzi e porre loro alcune domande. Risposte di svalutazione del problema. La gamma delle situazioni che si possono verificare è infinita. Ci sono tuttavia due possibili risposta svalutanti che vanno considerate: la prima riguarda la svalutazione del problema da parte del ragazzo che viene deriso; la seconda riguarda la svalutazione dell’importanza del problema da parte di chi ha riso. Nel primo caso il ragazzo deriso tenderà ad allearsi con i compagni ed a ridere insieme a loro: è questa la strada che porta il ragazzo ad accettare di ridere di sé pur di sentirsi parte del gruppo. Nel secondo caso, i ragazzi che hanno riso del loro compagno possono difendersi o giustificarsi dicendo che loro amano scherzare, ridere e divertirsi, possono sostenere che questo e il loro stile per stare insieme, che tutti i giovani si comportano così. Queste affermazioni possono avviare un dialogo all’interno della classe che può portare a chiarire la differenza fra comicità e derisione, fra ridere e deridere, fra il ridere partecipato e il ridere che seleziona facendo vittime. Conclusioni. La gamma degli interventi educativi possibile, di fronte all’episodio ipotizzato, è pressoché infinita. Gli stessi esempi non hanno la pretesa di essere “esemplari”: il loro merito è quello di aiutare a trovarne altri, di provocare una riflessone e una ricerca che, da un lato tenga presente il fine educativo da raggiungere, e dall’altro tenga conto dello stile personale di conduzione dell’intervento. Ciascuno ha infatti un proprio modo di esprimersi e di dialogare. Gli interventi educativi pensati e personalizzati potranno così diventare originali, efficaci, competenti e creativi. CAPITOLO 6 INDICAZIONI CONCLUSIVE E PROSPETTIVE OPERATIVE La ricognizione di questioni legate alla vita affettiva ha evidenziato l’importanza dell’affettività nel comportamento umano. Nel trarre alcune indicazioni conclusive sembra allora utile soffermarsi sia sui rischi che si possono correre entrando in quest’area della personalità, sia sui criteri generali di riferimento necessari per elaborare interventi educativi efficaci. 1.AFFETTIVITA’ SENZA ENTUSIASMI. L’affettività suscita entusiasmo. Esso è il primo rischio dell’affettività. L’ammirazione esagerata, l’attrazione fuori misura, costituiscono sempre motivo di pericolo. Sul piano più propriamente educativo l’entusiasmo e l’interesse sulla vita affettiva del soggetto con cui si è in relazione porta a interventi unilaterali e parziali che possono provocare scompensi sia nella persona che nella relazione. A questo riguardo può essere utile identificare alcuni fra gli interventi più frequenti. Gli elogi facili. La rassegna di questioni relative alla vita affettiva può portare a rilevare l’utilità degli elogi e soprattutto la necessità della valorizzazione degli aspetti positivi del ragazzo, anche per evitare il pericolo delle svalutazioni e delle critiche. Critiche, svalutazioni e rifiuti costanti, costituiscono errori certi; ma è anche vero che la relazione educativa non è positiva solo se si mantiene distante da questi errori. Intanto possiamo osservare l’effetto che può avere l’adozione permanente degli elogi. L’elogio può avere due forti controindicazioni: la prima è legata al messaggio che manda, alla richiesta che esprime; la seconda è la dipendenza che crea. La prima controindicazione si ha soprattutto quando gli elogi sono espressi per un’azione o per un comportamento: lo studio, l’ordine ecc. Gli elogi che rafforzano un aspetto della vita del ragazzo, possono lasciare in ombra aspetti della personalità del ragazzo. Il messaggio che accompagna l’elogio può essere tradotto da chi lo riceve: “io sono importante fino a che sono ordinato, studioso ecc…”. Questi elogi possono svalutare l’importanza dell’”essere” persona al punto da indurlo a disperarsi quando le sue azioni non sono perfette. Il secondo rischio riguarda la creazione di un bisogno sempre insoddisfatto e, quindi, l’insorgere di una possibile dipendenza dall’apprezzamento degli altri. In queste condizioni la persona, pur educata con le migliori intenzioni, rischia di rimanere immatura sul piano affettivo con una limitante dipendenza proprio da quelle azioni che le sono stata riconosciute come degne di stima. L’elogio non è dunque uno strumento educativo dal successo assicurato: in mano al “principiante” è perfino pericoloso. La critica proibita. La critica ha in sé una forza d’urto superiore agli elogi. Sul piano dell’educazione affettiva, ogni gesto può essere utile e, insieme, dannoso: il problema è solo il dosaggio e di fedeltà alla realtà. La critica rappresenta un comportamento ineliminabile da ogni sistema educativo. Evitare la critica è un tipico comportamento dell’educatore principiante che da un lato può essere preso dall’entusiasmo per il massimo rispetto del ragazzo, dall’altro può essere colto dalla preoccupazione per la sua reazione. La critica può assumere la connotazione del giudizio oppure può assumere la forma del confronto. Nel primo caso si configura come una valutazione negativa proveniente da una persona autorevole; il confronto invece è sempre l’espressione di un pensiero che può esprimere disaccordo, ma che si caratterizza per la posizione da cui viene espresso: una posizione paritaria in cui i punti di vista vengono accostati. I danni educativi dunque, non consistono tanto nell’adozione di questo intervento, quanto piuttosto nel sentimento che alimenta. La critica è facilmente mossa da paura, rabbia o atteggiamenti punitivi o vendicativi. I sentimenti espressi attraverso la critica costituiscono il vero problema. Rispetto dovuto e precedenze indebite. Il ragazzo a cui viene riconosciuto continuamente il diritto di precedenza, vive in un mondo irreale, rimane chiuso nel suo egocentrismo ed avrà difficoltà ad inserirsi in un mondo senza privilegi. 2.UNA NUOVA SPONTANEITA’ “COMPETENTE” Non bisogna soltanto acquisire nuove conoscenze nell’educazione affettiva; bisogna anche essere consapevoli di ciò che si acquisisce. La nuova integrazione di affettività e razionalità rappresenta dunque il punto più elevato dell’alfabetizzazione affettiva. I segni più concreti potranno essere riconosciuti da un più elevato livello di accettazione di sé e di accettazione degli altri: da un riconoscimento libero, non difensivo, che permette di “vivere” in una posizione espressiva anziché in una posizione di sospetto e di difesa. Il passaggio dalla competenza alla spontaneità competente poi, richiede un apprendimento e un allenamento. 3.LA “SEPARAZIONE” DEI SENTIMENTI. La separazione dei sentimenti e la distinzione dei propri sentimenti dai sentimenti degli altri non è il risultato di un allontanamento difensivo quanto piuttosto entusiasmante: quella che ha preceduto il lavoro duro, il compito difficile. Sulla scia di questi pensieri si giunge facilmente a conquistare due erronee convinzioni: “divertirsi è facile” e “il divertimento può aspettare”; queste convinzioni non sono solo prive di verità, in quanto divertirsi se è facile per il bambino, diventa un’esperienza fra le più difficili per l’adolescente. Le difficoltà nel riuscire cominciano quando la persona diventa esigente e pretende un divertimento adeguato. Gli adulti in cerca di divertimento, non hanno vita più facile: l’ansia per i preparativi, l’ansia per il rispetto dei tempi per potersi divertire di più, tendono a scoraggiare l’idea stessa di divertimento ed inducono a pensare al lavoro come al luogo in cui si potrà finalmente riposare da tanta fatica “divertente”. È a questo punto che la persona “seria”, tutto lavoro e dovere, comincia a risentire di alcuni effetti: desiderio continuo di esprimere critiche su tutto, stati depressivi, stanchezza inspiegabile, senso di solitudine, di inutilità, di futilità, la voglia di vivere diminuisce, il significato delle azioni si fa sempre più incerto. La persona si trova di fronte ad un’area di azioni e di comportamenti inaccessibile, non c’è più niente che la diverte perché non sa riattivare la capacità di divertirsi, quella che forse un tempo era la grande risorsa, per sentirsi ivi, per stare bene con gli altri. Quando al presente si accendono queste “spie” il divertimento diventa un compito, un “dovere”. Ed è a questo punto che ci si può accorgere di non aver mai “imparato” a divertirsi realmente; ed è forse a questo punto che si può scoprire come sia importante “insegnare” ai ragazzi a divertirsi: a rispettarsi concedendo a loro stessi ciò di cui hanno diritto: vivere la gioia dei sentimenti, mettere ordine alla propria giornata affinché tutto abbia un senso e un valore. Prima di essere azione, organizzazione, comportamento, “divertirsi” è infatti uno stato della mente deciso, costruito per continuare a vivere, in ogni stagione della vita, quella condizione felice che non può rimanere puro ricordo. 6.DALLA COMPETENZA AFFETTIVA ALLA PEDAGOGIA SPECIALE Le realtà “affettive” con altre manifestazioni della persona umana, possiamo constatare come esse non subiscano interruzioni, separazioni, distacchi definitivi. Possiamo renderci conto di come l’alfabetizzazione affettiva non sia “separata” da nessun intervento educativo, né sia in alternativa a nessun processo di formazione e di crescita: rappresenta invece un momento che copre un’area “funzionale” di particolare interesse. Si tratta allora di una specificità e non di una diversità rispetto all’attività educativa generale, resa più delicata dalla sua complessità e dal simultaneo coinvolgimento di chi insegna, oltre che di chi apprende, al punto da provocare un duplice ma contemporaneo apprendimento: nel docente e nell’allievo. Possiamo accorgerci di stare gradualmente passando dalle questioni della pedagogia generale ai problemi della pedagogia speciale: una “pedagogia” non a se stante, ma “integrata”, più vicina ai problemi della realtà. La pedagogia speciale offre risposte a domande più esigenti: ed è proprio la competenza maturata nella situazione educativa reale a provocare la elaborazione di una pedagogia capace di cogliere il problema che si scosta dalla norma. La capacità di cogliere e approfondire le problematiche affettive completa dunque quella competenza educativa che mette in condizione l’educatore di affrontare le questioni speciali, i drammi individuali. Da questo punto di vista possiamo auspicare che la specialità diventi una “qualità” della pedagogia in quanto tale, una connotazione che consenta a questa disciplina di prevedere e di affrontare le “diversità” con quella che impropriamente viene definita la “norma”. L’alfabetizzazione affettiva sembra tuttavia esprimere un’esigenza ed una richiesta del tutto sua, all’intervento educativo: che venga effettuato con una nuova competenza e, soprattutto con una nuova “misura”. Una misura tutta da costruire e da calibrare in ogni situazione reale. GESTIRE IL DISAGIO A SCUOLA Di Giombattista Amenta CAPITOLO 1: IL DISAGIO NEI CONTESTI EDUCATIVI Il termine disagio ha cominciato ad affermarsi intorno alla fine degli anni ’70. Il concetto si presenta inizialmente povero di contenuti specifici ed impiegato per esprimere la perdita di rilevanza delle problematiche giovanili e la consapevolezza del fallimento del grande disegno sociale e politico concepito dalle generazioni sessantottesche e post sessantottesche. Successivamente l’attenzione viene focalizzata sui vissuti che accompagnano il disagio durante i momenti di crescita verso l’età adulta. Parallelamente alla crisi dei concetti di devianza e di marginalità che si erano impoveriti, quello di disagio viene preferito sempre più perché considerato meno connotato ideologicamente e più adatto ad essere applicato ad una ampia maggioranza di individui. Va precisato che molti disagi risultano “trasversali” ed altri, che si individuano soltanto in età giovanile, scaturiscono da percorsi avviati molti anni prima e gettano le loro radici in momenti decisamente antecedenti. 1. DEFINIZIONE DI DISAGIO Il disagio è inteso come esperienza strettamente personale e soggettiva da cui possono derivare dei segni osservabili e rilevabili dall’osservatore e dall’interlocutore. Etimologicamente il termine è costituito dal prefisso “dis”, che indica negazione e dalla parola “agio” che significa giacere presso. Il termine designa la condizione di chi vive ai margini , si sente escluso, isolato, lontano dagli altri e da se stesso. Nei dizionari socio-pscio-pedagogici, il termine risulta usato come sinonimo di disadattamento e di devianza, e nelle scienze psicologiche è usato per indicare uno stato soggettivo e generico di sofferenza psichica. Nell’ultimo decennio, l’uso del termine ha visto una diffusione crescente come categoria descrittiva della condizione giovanile. Secondo le descrizioni più usate della psicopedagogia italiana, il disagio è inteso: 1. come sintomo dell’incapacità e dell0impossibilità del soggetto di trovare soluzionisoddisfacenti e coerenti alla propria identità rispetto a ciò che è percepito come possibile e ciò che è percepito come radicalmente negato dalla società 2. come incapacità di tollerare e di gestire la complessità e di sostenere il peso dellaprecarietà, della flessibilità e dell’eccessiva aleatorietà che caratterizzano la società attuale a livelli di valori e di possibilità da parte dei soggetti dotati di identità fragile. 3. come sintomo di una domanda non patologica dei problemi psicologici ed affettivi, delledifficoltà familiari e relazionali, delle difficoltà scolastiche, del malessere esistenziale legato alla costruzione dell’identità. 4. come espressione della difficoltà di assolvere ai compiti evolutivi richiesti dal contestosociale per conseguire l’identità e le abilità necessarie per gestire le relazioni quotidiane. 5. come risultato della difficoltà a gestire la complessità e a far fronte alle contraddizionilegate ai processi di socializzazione e di maturazione verso l’età adulta. La parola disagio è usata per comprendere significati e sfumature variegate e si riconduce ad una base oggettiva che si identifica con l’ammontare delle inadempienze, dei rinvii, degli inganni di cui i giovani sono stati oggetto privilegiato negli ultimi anni; comprende un vissuto soggettivo che implica un ampio ventaglio di elementi: percezioni, sentimenti, valutazione, bisogni e domande che contengono in ogni caso una sofferenza sommersa. Le definizioni proposte prediligono un approccio descrittivo più che interpretativo del disagio e si individuano alcuni elementi chiavi: il disagio indica comportamenti e atteggiamenti non patologici, indica un malessere diffuso legato a difficoltà e l’educatore una relazione analoga a quella originaria vissuta col padre o con la madre. È importante che l’educatore eviti di assumere atteggiamenti e comportamenti difensivi. 2.3 DISAGIO SINTOMATICO E ASINTOMATICO Un aspetto che caratterizza molti disagi attuali è dato dall’ambiguità. Si può distinguere un disagio sintomatico da uno sommerso. ASINTOMATICO: segnalato con sintomi di vario tipo (tossicodipendenza, alcolismo) SOMMERSO: è sintomatico e meno studiato. Molti disagi si configurano come situazione di apparente normalità: i sintomi sono sfumati, scarsamente vistosi, poco clamorosi. Si moltiplicano anche i fenomeni delinquenziali e di violenza in età precoce, sintomi di disagi asintomatici. Questi richiedono all’educatore una capacità di lettura e di abilità diagnostica molto raffinata per rilevare ed interpretare sintomi travestiti che si mescolano a situazioni apparentemente normali. È necessario partire dalla capacità di decodificare i segnali esterni del disagio non limitandosi alle manifestazioni palesi, oggettive. 3. SUPPOSIZIONI E PROPOSTE INTERPRETATIVE Dinanzi allo stesso disagio di possono individuare cause diverse ed una causa pul determinare effetti differenti e non sempre prevedibili in quanto i fattori correlati sono molteplici e talvolta ignoti. 3.1 PREMESSE, ANTECEDENTI E LUOGHI DEL DISAGIO ANTECEDENTI= premesse che possono aver iniziato dei percorsi che hanno portato al disagio. 3.1.1 RUOLO DELLE DIFFICOLTÁ E DEGLI SVANTAGGI Lo svantaggio fisico è una delle premesse principali di disagio obiettivo. Alcuni studiosi fanno risalire il disagio agli svantaggi connessi alla condizione socio-economica e culturale del soggetto e della sua famiglia, evidenti nell’appartenenza di classe, i livelli di consumo, le opportunità di istruzione, accesso ai sevizi. La marginalità sociale e la povertà sono due fenomeni strettamente connessi al disagio e in certi casi alla violenza. 3.1.2 INCIDENTI NELLA CARRIERA SCOLASTICA La scuola presenta un alto tasso di abbandono precoce correlato al rischio e al disagio. Si distinguono diverse forme: selezione palese, selezione e abbandono scolastico. SELEZIONE PALESE: riguarda quei soggetti ai quali si prelude il passaggio alla classe successiva come ad esempio: bocciatura, provvedimenti disciplinari volti a allontanare l’allievo dalla scuola. SELEZIONE OCCULTA: si permette all’allievo il regolare perseguimento negli studi e l’ammissione alle classi successive. L’abbandono scolastico riguarda quegli allievi che apertamente lasciano la scuola senza arrivare a conseguire il titolo di studio p senza concludere l’anno scolastico. I momenti in cui si manifestano con maggiore clamore le problematiche legate all’abbandono è l’intervallo che va dalla scuola secondaria di primo grado all’ingresso nella secondaria di secondo grado. La scuola deve attrezzarsi adeguatamente per poter rispondere ai bisogni speciali, al disagio, alle difficoltà della popolazione scolastica. I soggetti del disagio rischiano di venire frustrati dal confronto con i compagni. La reazione conseguente degli allievi va dal passivo conformismo all’opposizione alle attese della scuola e degli adulti. Quando le agenzie educative non risultano in grado di accogliere il disagio dell’individuo e del rispondervi efficacemente, alcuni si rivolgono alla strada come luogo di fuga. La strada è un luogo in cui ci si rivolge per avere risposte al proprio disagio, un luogo meno esigente rispetto alla scuola o alla famiglia. Viene considerata come una famiglia adottiva a cui si chiede sostegno, cura, protezione appagamento di quei bisogni cui né famiglia né scuola sono stati in grado di dare risposta. 3.1.3 LE FRUSTRAZIONI NELLA VITA RELAZIONALE Parecchi antecedenti del disagio originano da difficoltà relazionali in particolare di quelle familiari (presenza di conflitti, separazioni, divorzi) da cui derivano frustrazione e stress per i membri del sistema. Nelle famiglia incomplete o in cui i genitori sono assenti, le problematiche riguardano l’abbandono, violenza, abuso, trascuratezza fisica e affettiva che danneggiano i minori. 3.2 IL DISAGIO FRA DISADATTAMENTO E IPERADATTAMENTO. I soggetti del disagio sintomatico e sommerso sono accomunati dalla medesima difficoltà a integrarsi in quanto le competenze richieste dalla società sono complesse. Essi, sono tenuti ad assumere orientamenti e logiche diverse, a seconda dei sottosistemi a cui intendono appartenere ( famiglia, scuola, lavoro) Il disagio in tal senso nasce dalla carenza nella capacità adattiva alle logiche e ai criteri che caratterizzano i vari sottosistemi. La questione è stata approfondita dalla psicopedagogia che ha visto pone l’accendo sui deficit del soggetto ed ai processi transazionali tra individuo e strutture sociali. Dagli anni ’50 ad oggi, si è passati da un approccio che vede il comportamento come funzione della personalità del soggetto, ad un approccio che considera il comportamento, risultante dall’interazione tra personalità e ambiente. Piaget: parla di adattamento inteso come equilibrio dinamico tra assimilazione ed accomodamento. VEDI DAL DISAGIO ALLA RINASCITA DEL SÉ: adattamento, disadattamento, conformità, analisi transazionale. 3.3 DISAGIO, VIOLENZA, ABBANDONO “Cultura della Morte”: (es. aborto) esistono alcuni fattori che ruotano attorno alla perdita del senso di sacralità e di inviolabilità della vita umana. Si parla della cultura dell’abbandono, che vivono rapporti superficiali con i genitori perché affidati ad altri. I bambini sono invitati ad assumere precocemente i ruoli tipici degli adulti e a smettere di essere bambini; indifferenza per il bambino come persona; abusi; violenza; sono il risultato di disagi e l’unica strada da percorrere è la fuga. Ciò comporta una società regolata dal binomio generatività-stagnazione: GENERATIVITÁ: atteggiamento volto a creare, prendersi cura e guidare i figli e le nuove generazioni. Quando la generatività risulta carente si possono affermare forme di STAGNAZIONE e di impoverimento personale. 3.4 DISAGIO E FRUSTRAZIONE DEI BISOGNI. Esistono diversi tipi di approccio che hanno studiato il disagio: negli anni '50-'60, l'approccio clinico privilegiava una lettura intrapsichica nello studio del disagio, si sono recuperate le interpretazioni che consideravano, oltre ai dinamismi interni della personalità, anche il contesto sociale e ambientale. L'esperienze soggettiva di patimento come esito dell'insoddisfazione e della privazione è considerata una delle maggiori costanti che accompagnano il disagio che sottende sempre a presenza di bisogni insoddisfatti. I protagonisti, vivono una situazione di tensione, di bisogno, di necessità, che incontra limitazioni, dinieghi da parte del mondo e del sociale piuttosto che accoglienza, ascolto, risposta positiva. A seconda dei bisogni frustrati o insoddisfatti si possono distinguere diversi tipi di disagio: quando ci si riferisce alle nuove opportunità, il disagio è derivante dalla frustrazione dei bisogni di tipo primario e agli spetti qualitativi essenziali legati alla vita. 1.STILE INTOLLERANTE: una prima reazione comune dinanzi ad un allievo che sfida il docente o che insiste nel suo comportamento disturbante è quello possiamo definire impaziente, autocratico. L'insegnante potrebbe reagire esplodendo furiosamente, ma questo atteggiamento intollerante si avvale di una varietà di interventi coerenti con la sua posizione critica, il rimprovero, la sospensione. L'atteggiamento intransigente e dispotico può avere dei vantaggi solo a breve termine. 2. STILE POLEMICO E LITIGIOSO: Il docente potrebbe attaccare direttamente l'allievo cercando di deriderlo agli occhi agli occhi dei compagni, si tratta di un atteggiamento rischioso perchè può facilmente innescare dinamiche distruttive a spirale crescente perchè è facile che l'allievo risponda con lo stesso tono cercando di deridere a sua volta l'insegnate. 3.STILE TIMOROSO: L'insegnate tollera in silenzio il comportamento dell'allievo, si tratta di una reazione non molto proficua e che facilmente viene letta dagli alunni come un permesso a persistere nel comportamento distruttivo. Questo stile non è proficuo per l'insegnate e tanto meno risulta efficace per l'allievo. Uno delle conseguenze di questo otile è che il docente potrebbe cominciare a usare le interazioni con gli studenti come occasione per confermare l'idea che il mondo è ostile, cattivo e che gli altri cono ingrati. Nell'atteggiamento di martire, timido, l'idea di docente che trapela è quella di una persona debole che difficilmente reagirà, di conseguenza permette agli allievi di continuare ad abusare a piacimento. 4.STILE CALCOLATORE: si tratta di uno stile tipico di chi gestisce le interazioni educative ricorrendo ad un atteggiamento estremamente logico, razionale, il docente apparirà calmo, impassibile, padronanza di sè come una specie di computer. L'attenzione del docente è impegnata alla scelte delle parole giuste, a non sbagliare, a non lasciar sentire a sè stesso e agli altri i sentimenti di quel moment, a controllare e inibire le reazioni. Il docente cerca di discutere con l'allievo sforzandosi di farlo ragionare sul suo comportamento e sugli effetti che sortisce sugli altri. 2\3. INTERVENTI COMUNEMENTE IMPIEGATI PER GESTIRE IL DISAGIO Gli interventi comunemente usati per gestire il disagio sono: ignorare, sopportare in silenzio, critica, predica, rimprovero, punizione, sospensione. Questi interventi sono definiti IMPRODUTIVI perchè presentano alcune caratteristiche specifiche: la Ripetitività: comportamento del docente è simile a quello dell'allievo. Ad esempio in una conferenza a cui partecipano i docenti viene richiesto di fare silenzio. Quando il preside inizia a parlare, i docenti, a sua volta, incominciano a parlare tra di loro fino a far diventare la situazione insostenibile. Il preside attraverso il rimprovero richiama il silenzio, ma dopo qualche minuto i ripete la situazione di prima. Questo dovrebbe far riflettere i docenti quando questa modalità si ripete in classe. Autoperpetuazione: consiste nelle pressioni eccessive, di maltrattamento dei confronti dell'alunno per farlo reagire. Va considerato che le pressioni dei genitori generano reazioni comportamentali che aggravano le reazioni comportamentali che si intendeva modificare: es. allievo timido viene incalzato perchè diventi spigliato, l'alunno critico viene ripreso perchè ansioso. L'uso di interventi duri attiva l'effetto boomerang. LA FOCALIZZAZIONE SUI SINTOMI DEL DISAGIO Le strategie improduttive si incentrano sull'aspetto esterno, un rischio è quello di considerare e di trattare la manifestazione del disagio come se fosse il disagio stesso ed intervenire, di conseguenza, per cancellare, per eliminare: l'illusione è che una volta rimosso il sintomo la questione sia risolta. Non va dimenticato che alcuni disagi peggiorano considerevolmente quando non vengono gestiti nei tempi e nei modi opportuni. L'APPELLO AL CONTROLLO VOLONTARIO Un'altra caratteristica degli interventi improduttivi, impiegati in classe, riguarda l'appello al controllo e all'autocontrollo da parte dell'allievo. L'aspettativa sottesa in molti interventi comuni adottati in classe è che l'allievo capisca, si renda conto: ci si aspetta che il ragazzo più grande capisca e sia più giudizioso. Fintanto che non sia chiaro sia all'allievo che agli educatori cosa vi sia dietro quel comportamento disfunzionale, risulta difficile cambiarlo usare il controllo volontario. In certi casi, è come invitare chi soffre d'insonnia a impegnarsi volontariamente per dormire. In questo caso l'allievo sperimenterà l'adulto come una sorta di giudice incontentabile che si limita a dispensare ordini, regole, sentenze, umiliazione e biasimo. IL CONDIZIONAMENTO NEGLI INTERVENTI IMPRODUTTIVI Gli interventi improduttivi sono caratterizzati dall'aspettativa che l'allievo si adatti compiacendo. Ciò implica un apprendimento di tipo strumentale, che si fonda sulle leggi del condizionamento operante. Il prototipo di Skinner relativo al ratto bianco collocato in una gabbia, è di questo tipo. Il ratto premendo la leva veniva erogato del cibo. Skinner studiava la variazione della risposta in termini di frequenza e di pressione esercita sulla leva ( variabile dipendente), in relazione alla somministrazione del cibo ( rinforzo). Il soggetto emette una risposta in vista della soddisfazione di un bisogno o di evitare un dolore. Attraverso le strategie esaminate si cerca di fare questo: ci si aspetta che l'allievo faccia o non faccia una certa cosa per evitare conseguenze negative, oppure avere vantaggi e benefici se ad esempio l'allievo si comporta bene. I tipi di condizionamento possibile sono: TIPO RICOMPENSA E RICOMPENSA SECONDARIA occorre tener conto che durante il periodo scolastico il concetto di sè dell'allievo dipende dai risultati scolastici e dal giudizio dei compagni e dei docenti. TIPO FUGA allontanare il ragazzo dall'aula o rimproverarlo, implica una forma di condizionamento che possiamo definire tipo fuga. La motivazione ad adattarsi, in questo caso, è quella di evitare una situazione spiacevole che frustra un bisogno naturale. TIPO PREVENZIONE Alcuni educatori sono convinti che il modo migliore per gestire il disagio degli alunni sia quello di incutere in loro timore, ricordando che avranno conseguenze negative se continuano a comportarsi male. In questo caso l'educatore è invitato a verificare e a individuare la presenza di bisogni sotterranei manifestati in modo ambivalente. E SE L'ALLIEVO RICERCASSE LE CAREZZE NEGATIVE? Uno stimolo negativo risulta preferibile all’assenza di stimoli. Paradossalmente un alunno sistematicamente ripreso e punito potrebbe continuare a comportarsi inavvertitamente in modo da ottenere proprio quel tipo di carezza negativa, visto che non riesce ad averne di positive. Di conseguenza, il tentativo di bloccare un comportamento disfunzionale verrebbe ad essere alimentato e sostenuto proprio dall’intervento che vorrebbe eliminarlo. 4.DECODIFICARE E GESTIRE IL DISAGIO Per comprendere e gestire il disagio e i comportamenti problematici è quella di formulare una lettura in chiave comunicativa. Va insegnato all’allievo di comunicare il suo messaggio secondo una modalità alternativa socialmente costruttiva e appropriata. Alcune linee guida per comprendere gli interventi sul disagio sono: Esigenze e bisogni: intervenire sul disagio intervenendo con una lettura in termini di bisogni sottesi. L’educatore è invitato a verificare e individuare la presenza di bisogni sottesi manifestati in modo ambivalente Utilizzo del modello con educandi: uno dei prerequisiti fondamentali è che nel momento in cui un soggetto non riesce a soddisfare i bisogni attraverso le vie ordinarie è facile che ricorrerà a dei percorsi straordinari: il bambino che non riceve le dovute attenzioni può mettersi a piangere senza motivo per i genitori e ricevere consolazione oppure sculacciate se interagisce con educatori che non tollerano il lamento dell’altro. Il disturbo dell’allievo ha una sua legittimità, invece le modalità con cui viene espresso può risultare poco funzionale. Un secondo elemento riguarda la possibile lettura secondo un doppio livello: superficiale e nascosto, sociale e psicologico. Ad esempio, nel caso del ragazzo che non vuole togliersi gli occhiali da sole in classe, incominciando un litigio con il docente, il livello superficiale riguarda l’ostentazione fuori luogo di un comportamento che non viene approvato in classe; a livello profondo è presente il bisogno di essere riconosciuto. Dopo che il ragazzo si sentimenti negativi il docente potrebbe cominciare ad ASCOLTARE per comprendere meglio la situazione e per scoprire nuove opzioni. L’intervento educativo conseguente dovrà promuovere la consapevolezza del bambino circa quello che fa e circa fi effetti che tende a produrre. Il secondo luogo dovrà consentirgli di apprendere modalità alternative di esprimere i suoi sentimenti o i suoi bisogni. In particolare se il suo comportamento p ambivalente in quanto da una parte vorrebbe entrare a far parte del gruppo, dall’altra agisce in modo da farsi emarginare sempre di più, il suo agire conferma l’ipotesi che nessuno voglia stare con lui. Il bambino potrebbe essere aiutato a prendere atto di quello che fa e imparare, ad esempio, a chiedere in maniera diretta, assertiva, non distruttiva. L’ascolto di sé e l’utilizzo dei sentimenti risulta di grande valenza educativa nel rapporto interpersonale tra gli allievi e l’insegnante può assumere il ruolo di facilitatore. Capitolo 3: Opposizione, rifuto e conflitto educativo 1. MODALITÁ COMUNI PER GESTIRE LA RESISTENZA DELL’EDUCANDO Due modalità usate dagli educatori per far fronte all’opposizione dell’educando sono: MODALITÁ VESSATORIE: uno degli stili più usati dagli educatori, dinanzi al bambino che rifiuta di accondiscendere alla richiesta di fare una certa cosa, è quella vessatoria. Ad esempio il laboratorio di educazione affettiva prevede che i bambini si siedano a terra in cerchio, un bambino si rifiuta e la maestra lo rimprovera. L’atteggiamento aspro, brusco, secco da parte dell’educatore non aiuta ad accettare la frustrazione legata al divieto, anzi va ad aggiungersi ad essa. Lo stile vessatorio, persecutore, perentorio, alimenta facilmente dinamiche distruttive a spirale crescenze: inizialmente i tono sono delicati, via via il clima degenera e facilmente diventa teso, ostile e a volte violento. MODALITÁ MANIPOLATORIE: nel realizzare importanti obiettivi, pur di eludere la resistenza o il rifiuto dell’altro, non è facile in certe occasioni resistere alla tentazione di ricorrere all’inganno. Ad esempio, Carlo tende a vivere in maniera catastrofica le separazioni al punto che, quando una ragazza che lui corteggia desidera allontanarsi da lui, comincia a manifestare insofferenza, si butta per terra, urla, piange. Uno degli elementi che colpisce nel passato di Carlo è il tipo di interazione con le figure significative caratterizzato dall’uso dell’inganno per proteggerlo da esperienze traumatiche, con rabbia Carlo racconta che all’età di 6 anni fu accompagnato dalla madre e da una zia dal dentista per un’estrazione, ma senza che lui ne sapesse nulla, era stato rassicurato che il dentista si sarebbe limitato a dare un’occhiata, ma Carlo si trovò nel bel mezzo di una trappola da cui non potè ribellarsi, la sua rabbia viva e persistente, è quella di non essersi sentito rispettato, maturando l’idea che gli altri sono falsi e che l’unico modo per evitare di essere imbrogliati si quello di non fidarsi. 2. IL CONFLITTO EDUCATIVO Esistono diverse definizioni di conflitto e gli psicologi, a partire da LEWIN , ne hanno individuati e descritti diversi tipi: CONFLITTO INTRAPSICHICO: concepito come un insieme di forze, di istanze, di polarità, che spesso si scontrano. CONFLITTO INTERPERSONALE: può avere origine intrapsichica o relazionale. Esso ha origine interna quando uno degli interlocutori mette in scena dinamiche che originano da problematiche irrisolte di cui non è consapevole. Tra i meccanismi di difesa più importanti,la proiezione, insieme alla repressione e alla rimozione, detiene un ruolo dominante. Questo conflitto ha origine quando il disaccordi riguarda un problema reale e non risulta da proiezione e tanto meno da comportamenti scenici. Esso viene considerato “sano”, da un punto di vista psichico, se si fonda sulla consapevolezza, sull’integrazione di sé nonché su un adeguato senso di differenziazione tra sé e gli altri. Il conflitto sano è auspicabile nei rapporti interpersonali perché contribuisce a migliorare le relazioni. CONFLITTO EDUCATIVO: nasce nel rapporto tra educando ed educatore. L’educazione implica il riferimento al livello normativo: finalità, obiettivo, prescrizione, regole, valori. L’azione educativa da una parte limita l’azione dell’educando, dall’altra è limitata dalla sua personalità, originalità, diversità, dallo sforzo del soggetto di diventare ciò che p e che vuole essere, dal bisogno di autenticità e di essere se stessi. L’iniziativa dell’educatore viene vissuta, di conseguenza, come una sorta di limite e di diniego del diritto di essere se stessi da parte dell’educando. La necessità che ne deriva è di cercare un equilibrio tra l’iniziativa dell’educatore e la risposta da parte dell’educando. La questione riguarda i contenuti, i tempi, le modalità, gli stili, le tecniche, le strategie educative e interpersonali impiegate. Si tratta di stabilire a che punto e in che misura l’azione educativa non soffochi, anzi sviluppi la personalità del soggetto. Il dilemma autorità- libertà, ovvero tra azione dell’educatore ed iniziativa dell’educando può essere ridefinito e riassunto in due modi: stimolare la crescita dell’educando dal suo interno assecondandone gusti, desideri, valori, obblighi; aiutarlo a realizzare un dover essere da cui derivano valori, obblighi, regole. Se l’azione educativa viene concepita come la piattaforma in cui si realizza l’interdipendenza dei fattori personali e di quelli sociali, ne consegue che in ogni rapporto educativo esistono delle polarità, cioè tendenze che nascono dall’educatore ed altre che provengono dall’educando. L’interazine educativa si realizza in modo costruttivo se si fonda su una sorta di equilibrio tra aspettative personali e sociali: i Fattori personali, sono costituiti dagli interessi, dalle esigenze e dai bisogni; i Fattori sociali, riguardano le aspettative legate alle situazioni, quelle derivanti dal ruolo, quelle legate agli standard sociali che derivano dal sistema di valori e dagli obiettivi di una determinata società. Si possono individuare tre stili: NOMOTEICO: tende ad attribuire il peso maggiore alle aspettative sociali e concepisce l’educazione come trasmissione di conoscenze, di valori, di standard sociali. IDEOGRAFICO: rispetta le aspettative le esigenze ed i bisogni del singolo educando, consentendogli di scegliere quanto per lui risulta significativo. TRADIZIONALE: realizza una sorta di equilibri tra aspettative sociali e aspettative personali. Anche in didattica si possono individuare tre percorsi per risolvere il dilemma: METODO ASCENDENTE: parte dalla descrizione accurata della situazione della popolazione scolastica e cerca di innestarvi finalità e obiettivi. METODO DISCENDENTE: rovescia la prospettiva perché parte dall’individuazione delle finalità e degli obiettivi desunte dalle aree disciplinari. METODO INTEGRATIVO: parte dal concetto di bisogno e si articola in 4 momenti: identificazione di un largo spettro di possibili obiettivi, ordinamento degli obiettivi secondo un ordine di importanza, valutazione della discrepanza tra obiettivi e situazione segli allievi, determinazione dell’ordine di precedenza nell’attuazione degli interventi formativi. 3. LA RICERCA DI OPZIONI EFFICACI La logica dell’ “opposto” e del “più di prima”: La protezione contro il cambiamento della temperatura, ad esempio, ed il mutamento desiderato si ottengono applicando l’elemento opposto rispetto a quello che ha determinato lo scostamento da una norma ( es. fa freddo, si deve alzare la temperatura). Nel caso in cui l’intervento correttivo dovesse risultare insufficiente, è ragionevole applicare “più di prima” le misure normalizzatrici (es. più caldo, più coperte). Si tratta di una logica comunemente applicata in molte situazioni quotidiane. Quando i problemi sono di natura psichica, relazionale, educativa, è facile che il principio non si riveli del tutto efficace. La logica dell’opposto e del più di prima si può individuare in parecchie strategie cui ricorrono gli educatori dinanzi al bambino che rifiuta di mangiare o è iperattivo: l’aumento di comportamenti giudicati scorretti rischia di indurre, nell’educatore una sorta di “accanimento terapeutico”, caratterizzato da atteggiamenti e interventi sempre più rigidi. CASO ALESSIA In quinta classe di scuola primaria una bambina trova un giorno diverse oscenità sul suo diario, l'insegnante minaccia l'intera classe assicurando che nessuno avrebbe più festeggiato le feste in classe, e che non avrebbe fatto nessuna attività, se non fosse venuto fuori al più presto l'autore di tale accaduto. Alessia, autrice delle scritte ascolta in silenzio, ma l'insegnate dopo alcuni giorni capisce che è stata lei e dopo averla convocata separatamente, con atteggiamento incalzante, ottiene dalla bambina la confessione e la promessa che non lo avrebbe più fatto. L'insegnate è soddisfatta ma incuriosita chiede perchè mai abbia agito in quel modo. Alessia rispose che fin dal primo anno la compagna non aveva perso occasione per farle dei dispetti, emarginarla ed escluderla dai giochi. É importante capire in questa situazione come l'insegnante deve reagire: la maestra ha svolto un ruolo investigativo, avviando degli interventi volti a scoprire l'autore del reato per poi farlo confessare e pentire; intanto, occorre precisare a quale obiettivo educativo si intende puntare, educare, in questo caso vuol dire per prima cosa comprendere come mai l'allievo si mette ad imbrattare il diario, i libri; il fatto che abbia subito dei dispetti e che voleva fargliela pagare in modo nascosto, rivela che non può permettersi di sentire, di vivere e di usare apertamente la sua rabbia verso la compagna. La bambina, infatti è stata educata a non sentire, a nascondere e a non usare la sua rabbia perchè secondo i suoi genitori è poco rispettoso Anche il clima poliziesco creato in classe non consente di perseguire alcun obiettivo educativo, ma rischia di rivelarsi antieducativo in quanto promuove l'analfabetismo; infatti, è fondamentale dal punto di vista educativo insegnare ai bambini che va bene sentire e vivere la rabbia e che non c'è motivo di nascondersi o ricorrere a percorsi sotterranei. L'insegnamento può intervenire sull'intera classe, può avviare dei percorsi strutturali volti a promuovere l'alfabetizzazione affettiva in tutti i bambini: può proporre una recita in cui i bambini che hanno difficoltà con un sentimento potrebbero essere invitati ad assumere ruoli appartenenti che si danno il permesso di sentire, usare, vivere quel sentimento: sceglieranno un animale con cui si identificavano, poi furono suddivisi in piccoli gruppi ed invitati a mettere in scena un mimo. Al riparo di un personaggio i bambini sono facilitati nel darsi il permesso di sentire ed usare i sentimenti negati e questo costituisce una delle premesse fondamentali per lo sviluppo della competenza affettiva. AGITAZIONE ECCESSIVA DINANZI AL COMPITO: Una bambina dopo aver notato che l'insegnante aveva fatto un errore scrivendo alla lavagna, comincia ad agitarsi, ad alzare la voce, ripetendo più volte che in nessun modo l'insegnate possa sbagliare. Per meglio comprendere questa reazione vale la pena prendere a prestito dall'analisi transazionale il costrutto dell'IO GENITORIALE e del suo processo di sviluppo. Un esempio utile: durante una visita ad un amico, la figlia si avvicina con il telecomando in mano e non un vocabolario di parole molto povero perchè piccola, tuttavia la bambina attirò l'attenzione e dopo aver mostrato il telecomando al papà, con la mano libera si diede le pacche sulla mano che teneva il telecomando. É intuitivo ipotizzare che quel comportamento della bambina, dalla pacca al non si fa, stava mostrando il processo di interiorizzazione delle aspettative dei comportamenti e degli atteggiamenti del genitore: la bambina ha sviluppato una parte interna detta GENITORE CRITICO, fino al punto di non consentire che lei o altri possano sbagliare. Lo stile educativo adottato dei genitori è orientato all'evitamento dell'errore ad ogni costo. In casi come questo l'educazione riguarda il "rapporto con gli errori", la didattica dell'errore, si mostra particolarmente attenta alla valenza positiva dell'errore, lo sbaglio facilmente è considerato un evento negativo grave e da evitare e i bambini fin da piccoli imparano ad accompagnarlo con sentimenti quali la paura, vergogna, che qualche volta si trasforma in angoscia paralizzante. É comune il rischio, tra educatori ed insegnanti, di utilizzare il gioco psicologico il " magnifico professore": l'insegnate si mostra infallibile e quando sbaglia si difende cercando di nasconderlo per timore di perdere credito tra gli allievi. PARKINSON, che ha dato un contributo notevole alla didattica dell'errore, definisce giustificazionismo la tendenza a difendere ad ogni costo l'immagine di infallibilità per evitare umiliazioni. Dato che è impossibile non sbagliare, il problema non si risolve insegnando ai bambini ad evitare di commettere errori quanto insegnando che si cresce sui propri errori e soprattutto insegnare che tipo di atteggiamento tenere una volta che si è sbagliato. . Occorre passare da una didattica che penalizzi l'errore ad una nuova didattica dell'errore che considera l'errore un’occasione per apprendere. In questo modo si consentirà all'allievo di liberarsi dalla paura di sbagliare e di riappropriarsi del permesso di fare le cose in modo libero e creativo. Le parole non sempre risultano efficaci, è fondamentale che l'insegnate si presenti come modello e mostri come porsi rispetto all'errore. LA RABBIA E L'IRRITAZIONE INTOLLERANTE. Giuseppe è descritto come un bambino vivace che ama scherzare, ridere al punto di non riuscire a fermarsi e a controllarsi neanche dinanzi agli inviti dell'insegnare. Questo provoca nel docente rabbia e confusione, nei confronti del bambino, fino a diventare pian piano abnorme e perfino pericolosa. Gli interventi consistono nella convocazione dei genitori, nella richiesta dell'intervento da parte dell'equipe psicopedagogica (quando è presente nelle scuole). L'aumento della rabbia è dovuto alla mania di controllo eccessiva che blocca ogni manifestazione affettiva fin dal suo nascere. Gli educatori scivolano facilmente in atteggiamento autoritari, trascorrono troppo tempo a cercare di imporre la disciplina invece di dedicarlo all'insegnamento. Per affrontare il disagio occorre riacquistare un atteggiamento empatico nei confronti del bambino in modo da capire il perché dei suoi atteggiamenti, occorre che anche gli allievi capiscano i sentimenti del docente nel momento in cui si manifestano comportamenti disturbanti e rinstaurare il clima della classe. Probabilmente se l'insegnante si desse il permesso di rilassarsi, potrebbe accogliere la battuta del bambino e ridere insieme a lui e dopo un po’ potrebbe invitare tutti a tornare a lavoro. É la mania di controllo eccessivo che blocca ogni manifestazione affettivo dell'insegnate che provoca rabbia IL TORMENTO INUTILE CASO DELLA BAMBINA ALLA RECITA COSTRETTA Esempio: l'insegnate prova sensi di colpa perché ha forzato una bambina molto introversa ad esibirsi in una recita. La bambina si è inibita a tal punto da non riuscire a recitare perché ha vissuto un'esperienza sgradevole. Punti salienti dell'insegnante: - si sente responsabile, - poteva fermare la scena e consentire alla bambina di ritirarsi -poteva inventare una battuta umoristica, rassicurare la bambina chiedendole se volesse continuare - colpevolizzandosi rischia di procurarsi un disagio inutile. COMPORTAMENTO IPERPROTETTIVO E LE SUE INCOGNITE CANEVARO, sosteneva che di fronte a un qualsiasi ostacolo, il bambino deve applicare tutto sé stesso. Un atteggiamento comune davanti a persone con handicap si esprime con eccessiva protezione, ad esempio organizzando le condizioni di vita dei portatori di handicap in modo tale che non si presentino le occasioni perché il soggetto debba ricorrere nelle difficoltà. Una seconda manifestazione dell'atteggiamento iperprotettivo riguarda chi si attiva oltre misura e in maniera esagerata per aiutare chi soffre (alcuni genitori preferiscono per evitare umiliazioni che il soggetto compia determinate esperienze). Il rischio è quello di agire al posto dell'altro che può costituire sia una gentilezza ma anche una prigionia continua. Questi atteggiamenti interferiscono con il bisogno del soggetto si "alzarsi sulle proprie gambe" ed alimenta la passività e la conseguente dipendenza. Risulta l'esatto contrario di quello che dovrebbe fare l'educatore: promuovere l'autonomia, l'indipendenza, la consapevolezza dei propri limiti e delle proprie possibilità, l'autosostegno. IL SALVATORE L'atteggiamento iperprotettivo va messo in considerazione con quello che l'analisi transizionale definisce di "salvatore". KARPMAN, nel Triangolo drammatico, contempla tre ruoli: Persecutore, Salvatore. Vittima. Il Salvatore: una sua caratteristica è di prodigarsi più del dovuto, di fare delle cose spesso non richieste, non necessarie e a volte nemmeno gradite I discenti vengono visti, dal docente che interpreta questo ruolo, come dei poveretti, bisognosi di aiuto, deboli, vulnerabili. Diventa un salvatore il docente iperprotettivo, quello particolarmente largo nei voti o nel giudizio, quello che per timore di ferire l'allievo