Scarica Perchè la Chiesa (Giussani) e più Sintesi del corso in PDF di Teologia solo su Docsity! Perché la chiesa? Vol. Terzo del PerCorso - Di Luigi Giussani Riassunto 1° parte: CAP.2; 2° parte: CAP.1, 2; 3° parte: CAP.1, 2, 3; 4° parte: CAP. 1, 2, 3 PARTE I, CAPITOLO II – PRIMA PREMESSA: COME RAGGIUNGERE OGGI LA CERTEZZA SUL FATTO DI CRISTO Seguendo la mia costante preoccupazione metodologica, devo a questo punto formulare due premesse, ciascuna delle quali risponde a una domanda fondamentale. La prima si interroga su quale metodo ci possa permettere “di essere ragionevoli nell’aderire alla proposta cristiana”. Nella risposta a questa domanda si divide la cultura e si rivela l’atteggiamento dell’uomo verso la realtà tutta. Tre sono gli atteggiamenti culturali da cui emergono risposte diverse. L’atteggiamento culturale, va precisato, nella sua valenza radicale di visione di sé e del mondo, investe la modalità stessa di rapporto con tutto. 1. Un fatto nel passato Il primo atteggiamento dei tre preannunciati può essere riassunto così: Gesù Cristo è un fatto del passato, così come lo sono stati Napoleone e Giulio Cesare. Come può dunque un uomo ragionevole raggiungere l’esistenza di Napoleone e Giulio Cesare in modo da poterne dare un giudizio? La ragione umana raccoglie dapprima tutti i dati e le fonti del passato. In seguito, nel classificare dette fonti, terrà presente ciò che quel fatto ha lasciato nella storia. Si raggiunge infine un certo giudizio che sarà di certezza su alcuni fatti e di incertezza su altri. I risultati di questo metodo ai fini di raggiungere una maggiore sicurezza sull’attendibilità della pretesa di Cristo, suscitano un primo livello di perplessità. Il dato di fatto che emerge inventariando gli studi compiuti è che ci si trova di fronte a centinaia di interpretazioni diverse. Utilizzando il metodo che affronta il fatto di Gesù come un mero fatto del passato, ossia con un atteggiamento razionalistico, in realtà ci troveremmo a non poter dire niente di sicuro su un annuncio così straordinario. Ma da un punto di vista etico-morale siamo portati a chiederci: se quest’annuncio è così importante per l’uomo, come può essere ragionevole, cioè adeguato alla gravità del problema, rimanere nello smarrimento della ragione? Questo ci spalanca a capire il vero motivo dell’atteggiamento in questione. In realtà, l’atteggiamento razionalistico riduce il contenuto del messaggio cristiano prima di averlo preso in considerazione. Il messaggio cristiano è “Dio con noi”, ossia Dio si è reso presenza umana, carnale, dentro la storia. Affrontare tale messaggio con quello che abbiamo chiamato atteggiamento razionalistico equivarrebbe a svuotarne il contenuto, a dire: per verificare se veramente Gesù Cristo è Dio presente, il metodo è ributtarlo in una lontananza così com’era il divino prima che si facesse uomo, ributtarlo in un’assenza dal presente. L’atteggiamento razionalistico rimette la questione nei termini antecedenti il messaggio cristiano stesso. Il fatto che Dio si renda presenza umana è per noi mistero. E allora, di fronte all’annuncio cristiano, il metodo razionalista, per giudicare se questa ipotesi è vera, la elimina, perché ne svuota il contenuto specifico. Ributtando l’avvenimento di Cristo in una lontananza, usando il metodo di considerarlo fatto storico su cui accertare la veridicità della pretesa, si impedisce di prendere in considerazione in che cosa consista l’essenza di tale pretesa: Dio come presenza umana nel cammino dell’uomo. Bisogna inoltre notare che l’atteggiamento razionalista, concependo la ragione come misura unica del reale, esclude la possibilità di un fatto storico che non abbia le caratteristiche da essa predeterminate. Quindi appare veramente contrario alla novità, alla categoria della possibilità. Il reale non è quanto definiamo a priori debba essere. E se è il contenuto dell’annuncio cristiano che dobbiamo valutare, a esso è logico guardare bene in faccia, non a ciò che già pensiamo esso sia. Si potrà in seguito anche giudicare non veritiero, lo si prenda però almeno in considerazione per quello che è: Dio reso presenza, compagnia per gli uomini, che non lascerà più. 2. Una illuminazione interiore Affrontiamo ora il secondo atteggiamento: si tratta della posizione protestante, che è profondamente religiosa e, come tale, percepisce con chiarezza la sterminata distanza fra l’uomo e Dio: Dio il diverso, l’Altro, il Mistero. Il “perché ultimo” è riconosciuto come ben più grande dell’uomo, sorgente di una possibilità indefinibile dell’umana immaginazione. Questo atteggiamento è ben disposto, dunque, a comprendere che se a Dio tutto è possibile, anche sarà possibile l’annuncio cristiano (Dio reso presenza). Ma allora come oggi l’uomo potrà raggiungere la certezza di questa presenza? L’uomo vi è imponente: è lo spirito stesso di Dio che illumina il cuore dell’uomo e, per ispirazione, fa “sentire” la verità della persona di Gesù. Si tratta di un riconoscimento attraverso un’esperienza interiore. Tale atteggiamento culturale è quanto c’è di più comprensibile e facile anche per i cattolici. Di fronte a ciò che non si “sente” si è freddi e perplessi, di fronte a ciò che si “sente” si è sicuri e fiduciosi. Se si assume questo come criterio, ognuno è giudice/profeta di se stesso. Perciò se da un certo punto di vista l’atteggiamento protestante è l’opposto di quello razionalistico, dall’altro esiste come portatore di una certa identità tra i due atteggiamenti (non per nulla il razionalismo in campo cristiano è stato diffuso dal protestantesimo). Il denominatore comune, infatti, è un ultimo soggettivismo. Il soggettivismo protestante ha due riflessi interrogativi. Innanzitutto, come si può distinguere se ciò che l’uomo sente è il risultato dell’influsso dello Spirito o è l’idealizzazione dei suoi pensieri? Il secondo riflesso somiglia alla prima osservazione da noi fatta in merito all’atteggiamento razionalistico: come potrebbe mai essere che lo stesso Spirito, intendendo entrare in contatto con l’uomo per aiutarlo, abbia voluto usare un metodo moltiplicatore della confusione, di cui l’uomo purtroppo era già perfettamente capace anche da solo? La vera obiezione è che l’atteggiamento protestante non rispetta i dati dell’annuncio cristiano: un divino che si è fatto uomo e le cui parole colpivano l’anima. Le sue parole colpivano dentro, ma vanivano dal di fuori. Cioè: l’annuncio cristiano è un fatto integralmente umano secondo tutti i fattori della realtà umana, Affrontiamo ora il triplice fattore costitutivo del fatto cristiano, così come fenomenicamente appare sullo schermo della storia. Domandiamoci, cioè: un contemporaneo delle origini che dal di fuori avesse osservato l’emergere del fatto, quali elementi/caratteristiche avrebbe indicato per descriverlo? 1. Una realtà comunitaria sociologicamente identificabile Innanzitutto la Chiesa si pone nella storia come comunità. Questo è il primo rilievo che colpisce accostando la vicenda cristiana. Nel capitolo quarto degli Atti degli Apostoli si trova un’espressione che sinteticamente e in modo toccante descrive la natura comunitaria della prima cristianità: “La moltitudine di coloro che eran venuti alla fede aveva un cuor solo e un’anima sola”. Il primo fattore, dunque, con cui la Chiesa ha dimostrato di porsi come realtà è stato quello di essere un gruppo individuabile, fenomeno sociologicamente identificabile, un insieme di persone che si sono legate fra loro. A) Antica e nuova consapevolezza: la scelta di Dio Proviamo ora a raffrontare la coscienza che l’antichità di Giudea aveva di se stessa e la coscienza che questi giudei divenuti seguaci di Cristo avevano del loro gruppo. L’idea di appartenenza, di proprietà di Dio, che definiva l’autocoscienza del popolo ebraico si ritrova come contenuto della coscienza di quel gruppetto di persone, che inizialmente non dava certo l’idea di un popolo: potevano essere cinquanta sotto il portico di Salomone, che poi diventano cento, mille, ma tutti con la netta consapevolezza che, come il popolo ebraico si definiva per il suo essere proprietà di Dio, così loro erano proprietà di Dio, al punto che letteralmente si appropriavano delle parole della coscienza antica. Quel nascente gruppo portava in sé la coscienza di prolungare, anzi di comunicare realizzando, la verità di tutto quanto nell’Antico Testamento aveva formato la storia di Israele; di costruire insomma il vero e definitivo popolo di Dio nel mondo. Tutto questo ci aiuta a evidenziare il fatto che in nessuna epoca della storia come in questa a buon diritto si può parlare di rivoluzione culturale. Noi ne viviamo ormai le conseguenze, ma non prendiamo mai coscienza adeguata delle sue origini. La rivoluzione culturale più profonda, per ciò che riguarda la coscienza del popolo che i primi documenti cristiani esprimono, è che quel gruppo che si andava ingrandendo, pur riconoscendosi popolo e popolo di Dio nella tradizione dei loro padri, affermava di non essersi formato da un’origine etnica o da un’unità sociologica stabilitasi per avvenimenti storici: il popolo ebraico partecipava a una comunità etnica scelta da Dio, un’unità stabilitasi in una storia in cui Dio era intervenuto e che definiva dei confini. Per i cristiani, dal primissimo istante in cui è registrata la loro esistenza, è totalmente evacuato il carattere etnico della preferenza di Dio. Questo nuovo popolo è formato, infatti, da coloro che Dio mette insieme nell’accettazione della venuta del suo Figlio. Il fenomeno cristiano, perciò, si rifà a quella idea di “scelta di Dio” che aveva forgiato Israele e a sua volta ne è formato, ma senza alcun confine carnale, perché a scelta di Dio coincide con l’adesione alla fede in Cristo. B) Il valore culturale di un concetto nuovo di verità Il fenomeno nuovo che si andava verificando aveva una sorprendente corrispondenza con le sue radici: si tratta dell’immagine che la tradizione ebraico-semitica aveva della verità. Per il mondo occidentale qual è la metafora più facile da utilizzarsi per indicare la verità? La luce, la luminosità del vero, dove la certezza è basata sull’evidenza di ciò che vediamo. Nella tradizione biblica, però, l’allusione alla verità più frequentemente usata si ritrova in un’altra metafora: la “roccia”, la “rupe”. I semiti, originariamente nomadi, erano particolarmente sensibili a quel punto di riferimento che era la grande formazione rocciosa, stabile, rispetto alla sabbia e alla polvere che il vento muoveva. Nella storia della coscienza semitica, perciò, l’immagine della roccia è stata usata per chiarire che cosa il divino fosse per l’uomo: ciò su cui l’uomo può appoggiarsi, può costruire, può avere un senso. L’uso di questa metafora rivela come il metodo supremo per la conoscenza della verità, nella mentalità semitica, non sia tanto il vedere con i propri occhi, ma il riferirsi a qualcosa di sicuro come stabilità. In ebraico infatti la parola “amen” ha la stessa radice della parola “verità”, in quanto un’affermazione di sicurezza: questa sta, perciò è vero. La stabilità cui ci si riferisce non è erosa dal tempo, ma lo sfida nella certezza di una permanenza e si pone come vero. L’effimero è menzogna, la verità è permanenza. Qual è allora il metodo che emerge da questa metafora della roccia? San Tommaso diceva che l’uomo è molto più persuaso da ciò che ascolta che non da ciò che vede. L’uomo prova una più intensa convinzione nel sentirsi aderire alla parola di un altro che neanche nel vedere lui stesso. Nell’aderire a qualcuno che ascolta, infatti, l’uomo deve poggiare la totalità della sua persona sul tu di un altro. E mentre è molto facile per ognuno mettere in dubbio se stessi, è molto più difficile gettare ombra dei propri dubbi su una presenza stimata e amata. L’indicazione metodologica che definitivamente emerge dall’immagine della roccia come immagine di verità è la solidità del testimone. C) Il termine usato: ecclesia Dei Il termine ebraico con cui si indicava la realtà di Israele come popolo di Dio era qahal. Questo termine indicava un insieme di individui che esprimevano la loro unità raccogliendosi come in un’assemblea. Ora, quel gruppo che si raccoglieva dapprima sotto il portico di Salomone e che è andato poi via via allargandosi, in ambienti ormai ellenizzati chiamava la propria realtà che si radunava ekklesia. Il termine in greco significa letteralmente assemblea, riunione di persone ed era stato preso di peso dal lessico ellenistico che lo utilizzava per indicare ogni genere di aggregazione. La definizione dell’assemblea cristiana (ekklesia in greco, ecclesia in latino), comunque, come l’idea ebraica della qahal Jahvé, è determinata e completata con il genitivo Dei: ecclesia Dei , la comunità di Dio. Da un lato questo genitivo sta a indicare che l’assemblea ha Dio come contenuto di interesse, ma dall’altro che è Dio stesso a raccogliere la comunità. Così ecclesia Dei vuol dire i raccolti da Dio. Ciò che costituisce la comunità cristiana come Chiesa non è il numero, come non è il fatto puro e semplice di stare insieme, ma è il fatto di venire raccolti da Dio, un Dio che dà a ciascuno i doni e le responsabilità che vuole. La comunità non ha valore come tale se non per l’azione di Dio che “elegge” e rende uniti gli eletti. D) La Chiesa e le “chiese” Nei documenti cristiani il termine “ecclesia” viene usato sia al singolare che al plurale, ma si trova un passo in cui c’è un singolare diverso dagli altri, che non è semplicemente frutto di un elenco o di una somma. Si tratta dell’ultima permanenza di Paolo in Asia Minore, poco prima della sua partenza per Roma, dove poi sarebbe stato ucciso. Il passo riporta il saluto di Paolo ai capi delle comunità: “Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha posti come vescovi a pascere la Chiesa di Dio, che egli si è acquistata col suo sangue”. Il prezzo del sangue del Messia era il prezzo del riscatto di tutto popolo di Dio. È l’unico gesto di riscatto, è quindi un’unica Chiesa che emerge in tutti i luoghi dove si viene a trovare. Nel suo senso più compiuto, dunque, ecclesia Dei rappresenta il popolo di Dio nella sua totalità, proprio per l’inevitabilità di doversi riferire al gesto di Dio. In tal senso, come afferma Lubac, l’ecclesia “è convocatio prima di essere congregatio”. Non è per un’addizione alla comunità che si forma la chiesa totale; invece ogni comunità, per quanto piccola, traendo il suo valore dalla Chiesa totale, la rappresenta tutta. Ciò che la Chiesa è per gli uomini di tutto il mondo si identifica come il comunicarsi di Gesù Cristo al mondo. Dunque il valore che viene dato dai documenti della prima cristianità alle singole e diverse esperienze di comunità è il valore stesso della Chiesa totale, proprio in quanto esprimono la sua realtà profonda e unitaria, che il Signore fa emergere in esperienze diverse. 2. La comunità investita da una “Forza dall’alto” Abbiamo già accennato al fatto che i primi cristiani avevano coscienza di sé come dell’attuazione reale di ciò di cui il popolo di Israele era stato profezia. Questi elementi della consapevolezza cristiana primitiva si spiegano meglio, però, in relazione a un altro dato determinante. Dal punto di vista della coscienza che di sé aveva la gente che si riuniva, l’idea dominante era che la loro vita era stata mossa e trasformata da un’azione superna che veniva indicata come “dono dello Spirito”. Vediamo che cosa implica questo tipo di consapevolezza. A) La consapevolezza di un fatto che ha il potere di cambiare la personalità Dire di essere investiti da una Forza dall’alto equivale a significare una forza che sta alla radice dell’essere, un’energia con cui viene comunicato l’essere. È giusto perciò affermare che il contenuto dell’autocoscienza nuova di quella gente, che si sentiva determinata da un’energia proveniente dall’alto, coincideva con la forma di una nuova personalità. Da che cosa è plasmata una personalità? Dalla coscienza di sé e dall’impeto creativo, dalla fecondità. Così per l’uomo investito dal dono dello Spirito si verifica un mutamento di volto, espressione di un’ontologia nuova. Un cambiamento che in seguito, nella storia della Chiesa, verrà tradotto teologicamente con le parole “grazia soprannaturale”. Dobbiamo notare dalle testimonianze di quei primi gruppetti di cristiani che quest’azione dello Spirito, sentita come potenza e dono, non è per personalità eminenti della comunità o per coloro che particolarmente vi giocano un ruolo: è per tutti colo che credono e sono battezzati. B) Un inizio di cambiamento sperimentabile Il cristiano è chiamato a sperimentare e a dimostrare l’alba di un mondo nuovo. I cristiani con il dono dello Spirito hanno la possibilità di incominciare a sperimentare la realtà in modo nuovo, ricco di verità, carico d’amore. Ed è proprio la realtà quotidiana a trasformarsi, sono i normali connotati dell’esistenza umana a essere mutati. Il dono dello Spirito ha come esito di rendere palese il fatto che si è immersi in quel nuovo flusso d’energia provocato da Gesù. La testimonianza dei primi cristiani ci avverte che non si può affermare un valore ideale senza desiderarlo, né desiderarlo senza cercare di applicarlo e che perciò, a lungo andare, chi sa riconoscersi peccatore non può che essere sulla strada della realizzazione del proprio essere uomo vero, uomo di Cristo. PARTE III, CAPITOLO I – IL FATTORE UMANO Apriamo ora una breve analisi dei due fattori che abbiamo annunciato – l’umano e il divino che attraverso il primo si comunica -, soffermandoci in primo luogo su ciò che caratterizza il metodo cristiano, vale a dire il veicolo della comunicazione di Dio, lo strumento scelto: il fattore umano. La pretesa più specifica della Chiesa, infatti, non è semplicemente di essere veicolo del divino, ma di esserlo attraverso l’umano. 1. Attraverso l’umano L’umanità è piena di limiti, consapevole della propria incapacità, ma è destinata a rendere evidente la sublimità di una potenza, l’invincibilità di una presenza, che senza ombra di dubbio dev’essere riconosciuta come qualcosa che non viene da noi, ma che usa di noi e ha cominciato irresistibilmente a cambiare il mondo. L’uomo vive quindi in un paradosso: la contemporaneità di una debolezza e di una forza; un paradosso i cui elementi contrastanti sono ineliminabili. I primi che hanno diffuso il cristianesimo nel mondo avevano dunque chiara la coscienza sia che il divino risplendeva nel mondo tramite quel che dicevano e facevano sia che le loro parole erano sprovvedute, i loro gesti fragili, le loro personalità inadeguate, la loro condizione umana meschina. E ciò non li rendeva rassegnati, ma fieramente in corsa, costantemente protesi al dono della salvezza. Occorre rendersi conto che quanto fin qui abbiamo formulato implica accettare che l’umano faccia parte imprescindibilmente della definizione della Chiesa. Se la Chiesa è una realtà umana, vi si possono trovare uomini indegni, genitori incapaci, figli ribelli. Ma se qualcuno vuole verificare l’annunziata presenza del divino in questa miseria umana, non può arrestarsi alla sbalordita constatazione della miseria per arrivare a dire: il divino non può essere qui. Dovrà adottare un altro criterio: nessuna miseria potrà annullare la paradossalità dello strumento scelto da Dio. 2. Implicazioni A) Inevitabilità dei particolari temperamenti e mentalità Se il divino sceglie l’umano come modo di comunicazione di sé, l’uomo che accoglie tale metodo diventa e rimane tale, cioè strumento del divino, mantenendo il proprio temperamento particolare. L’uomo può avere due temperamenti opposti: uno malinconico e l’altro solare ed entusiasta. Il cristiano “fa fuoco con la legna che ha”, come recita un detto popolare, vale a dire che se la legna del suo temperamento è di buona fibra, il fuoco sarà vivace e scoppiettante; se invece la sua legna è sfilacciata e senza nerbo, ne potranno derivare fumo e disagio. Se Dio ha voluto usare gli uomini come strumenti di comunicazione di sé, essi come strumenti vanno giudicati, e sta a ognuno desiderare abbastanza l’oro del messaggio. Se uno desidera l’oro, non si scandalizza di trovarlo nel magma, deve sporcarsi e faticare per estrarlo. Se uno non vuole sporcarsi, non è poi così interessato all’oro, è interessato piuttosto a conservare pulite le mani. Quindi pur giudicando negativo il temperamento di alcuni uomini nel tentativo di comunicare l’essenza di Dio, io cristiano devo accogliere il loro temperamento e sporcarmi le mani per arrivare alla verità, al messaggio che tentano di comunicarmi. Se dunque la Chiesa si definisce come il divino che si comunica attraverso l’umano, tale aspetto umano nella singola persona si esprimerà attraverso il temperamento e la mentalità della persona stessa. B) Attraverso la libertà L’uomo è cristiano con tutta la sua particolare libertà. Il che vuol dire che l’ideale cristiano sarà attuato nella misura in cui la libertà del cristiano lo vuole; perciò l’individuo potrà portare l’ideale e nel medesimo tempo contraddirlo nel vivere. Il messaggio cristiano è legato alla serietà e capacità morale dell’uomo. Se dunque per definizione il messaggio divino che la Chiesa ci propone dovrà passare attraverso l’umano, cioè attraverso un limite, è per ciò stesso assodato che mai la libertà umana realizzerà integralmente l’ideale; sempre il veicolo umano nella Chiesa si presenterà inadeguato a ciò che pretende di portare nel mondo È interessante osservare l’impostazione cristiana della vita dal punto di vista della libertà. Se un uomo dice infatti qualcosa di giusto e non lo mette in pratica, noi che lo notiamo siamo messi con le spalle al muro, di fronte alla nostra ultima responsabilità. • ANALISI DI UN’OBIEZIONE Come giudicherei la Chiesa, inducendo il mio giudizio dal comportamento degli uomini? Se la Chiesa dice di sé: io sono una realtà fatta, che veicola qualcosa di eccezionale, il divino che salva il mondo; se la Chiesa dunque definisce così se stessa, non la si può giudicare nel suo valore profondo elencando i delitti e le ristrettezze degli uomini che ne fanno parte. Al contrario se nella definizione di Chiesa entra l’umano come veicolo scelto dal divino per manifestarsi, in tale definizione potenzialmente entrano anche quei delitti. Questo non significa che li si debba accettare con rassegnazione, ma si deve capire che le angustie e le nefandezze non costituiscono materiale di giudizio sulla verità della Chiesa. Dal punto di vista dell’atteggiamento morale, il dovere della persona di fronte ai difetti degli uomini della Chiesa non è di ritirarsi, né per debolezza propria (quasi a dire: “Sì, il cristianesimo sarebbe una buona cosa, ma io non sono capace”) né per scandalo altrui, ma è quello di intervenire col proprio sforzo per ridurre col più intenso impegno il proprio difetto e per limitare con la propria saggezza il difetto altrui. • LO SVELAMENTO DELLA RICERCA DEL VERO La Chiesa è stata salvata nei secoli da chi, perseguendo il vero, non si è scandalizzato dei limiti, dell’angustia delle circostanze, dell’incomprensibilità apparente delle vicende umane, e si è lanciato ad affermare ciò che amava, a ricercare il tesoro nascosto nel fango. Dimostrando così al mondo che il loro sguardo e il loro cuore badavano al tesoro e non al fango. Farsi ostacolare dall’errore proprio o altrui è la grande mistificazione: una reazione pienamente umana, valorosa, sarebbe proprio quella di tosto voler fare. L’impegno personale, che non esclude l’atteggiamento critico, ma a esso non si ferma, è un problema di moralità elementare. Il fatto cristiano nella sua paradossale realtà e potenza fa emergere quale sia il vero desiderio dell’uomo. Se qualcuno aspira al contenuto giusto, non si arresta alla modalità con cui esso si presenta. • ATTRAVERSO L’AMBIENTE E IL MOMENTO STORICO-CULTURALE L’uomo è condizionato dal momento storico-culturale in cui si snoda la sua vicenda terrena e dall’ambiente in cui è iscritto. Così la struttura della Chiesa come strumento umano mostra sempre sensibilmente il tipo mentale e culturale dell’epoca in cui opera. Ma a differenza di altre strutture l’accentuazione di un fattore, giusto o sbagliato che sia, non potrà mai eludere la presenza della verità nella sua integrità. Anzitutto una minima sensibilità storica impone di collocare le affermazioni che si prendono in esame nel contesto del tempo in cui sono state pronunciate e di considerare tutte le circostanze che le hanno motivate. Concludiamo questa nostra riflessione ribadendo che ciascuno dei condizionamenti ai quali abbiamo accennato – temperamento, mentalità, fattori ambientali e storico-naturali – costituisce un elemento per quella incarnazione divina che la Chiesa sostiene essere definitoria della natura del suo essere e del contenuto del suo messaggio. Il divino cioè usa veramente l’umano come suo strumento, e usa anche i suoi fattori contingenti come strumenti di salvezza e del riproporsi del rapporto vero tra l’uomo e il suo destino. CAPITOLO II – UNA MISSIONE DELLA CHIESA VERSO L’UOMO TERRENO La presenza della Chiesa nella storia e nella società da quale funzionalità è definita proprio nei riguardi della storia e della società come tali? Qual è la funzione che essa pretende di avere sul corso degli eventi storici? La funzionalità della Chiesa sulla scena del mondo è già implicita nella sua consapevolezza di essere prolungamento di Cristo: è cioè la funzionalità stessa di Gesù. La funzione di Gesù nella storia è l’educazione al senso religioso dell’uomo, dove per senso religioso intendiamo la posizione esatta come coscienza e atteggiamento pratico dell’uomo di fronte al suo destino. 1. L’ultima parola sull’uomo e la storia confessione dei propri peccati, con il riconoscimento di una libertà che non si è mantenuta nel retto atteggiamento. La religiosità rende saggi di fronte all’enigmatica figura del male che attende gli uomini alla fine di ogni tratto di strada. 9. La tensione morale del cristiano Allora ci si potrebbe domandare: visto che per risolvere bene i problemi occorre l’atteggiamento religioso richiamato dalla Chiesa e visto che tale atteggiamento non sarà mai fino in fondo vissuto dalla nostra libertà, come si può fare? Ognuno nella misura in cui ama la propria umanità e vive l’orizzonte di una coscienza cristiana, si deve continuamente sforzare di affrontare i problemi umani dal punto di vista di una religiosità autentica. È quindi un impegno senza limiti o tregue. Per la Chiesa il soggetto umano è posto di fronte ai problemi di un atteggiamento adeguato alla sua umanità e al suo destino. E in ciò egli è chiamato ad applicare la sua libertà. Nella coscienza che il suo cammino è tentativo e correggibile, e che la sua libertà è fragile e bisognosa di perdono, e che con questo è sempre in ripresa. CAPITOLO III – IL DIVINO NELLA CHIESA L’umano è la modalità con cui Dio si comunica, perciò il contenuto di quanto attraverso quel fattore ci giunge è più che umano, è divino. 1. Il comunicarsi della verità: comunità, tradizione, magistero L’uomo non raggiunge la conoscenza di qualcosa se non ne comprende il significato, se non ne coglie cioè la capacità di rapporto con il resto. La condizione per conoscere qualunque realtà è di avere chiarezza e certezza sul significato dell’esistenza stessa. Dio, tramite la Chiesa, aiuta l’uomo a raggiungere un’obiettiva chiarezza e sicurezza nel percepire i significati ultimi della propria esistenza. La Chiesa si propone come capace di rendere chiaro e quotidiano ciò che la mente umana al suo vertice raggiunge solo con molto lavoro, molto tempo, e non senza errori. La comunicazione del divino come comunicazione di verità non risponde a un’istanza astrattamente filosofica, ma ha a che fare con il modo di concepire e sentire la propria vita, il proprio nesso con la realtà. L’annuncio che l’essere da cui tutto dipende, in cui tutto finisce e di cui tutto è fatto, è l’uno assoluto e nello stesso tempo comunione; spiega come null’altro il modulo della convivenza, del rapporto tra l’io e il tu. Nessuna analisi compiuta con la sola ragione riesce a spiegare questa paradossalità dell’uno e del molteplice. L’uomo non dice mai con tanta intensità la parola “io”, non percepisce con la stessa passione l’unità della propria identità come quella dell’altro, quando dice “tu” o “noi”. Domandiamoci ora: questa comunicazione di verità divina sui significati ultimi della vita, come avviene nella Chiesa? A) Il magistero ordinario È immanendo, vivendo dentro la comunità ecclesiale che, quasi per un’osmosi continua, tali verità penetrano giorno per giorno attraverso la membrana della nostra consapevolezza. Si arriva così a quella certezza di verità di cui l’uomo ha bisogno per affrontare la vita. Il primo modo di quella comunicazione vera che Cristo è venuto a portare nel mondo avviene per la stessa fedeltà alla vita della comunità ecclesiale. Tradizionalmente questo modo si indica con l’espressione magistero ordinario. Il cristiano arriva alle verità divine proposte dalla Chiesa per una via ordinaria, che è la vita stessa della comunità. Se il magistero ordinario è la garanzia del declinarsi della comunità in quanto vive, lo strumento più grande della comunicazione del vero nella vita della Chiesa è la sua stessa continuità. B) Il magistero straordinario La seconda modalità con cui le verità della fede vengono comunicate nella Chiesa è offerta da una posizione straordinaria, che si identifica in ultima analisi col papa quando intenda affermare qualcosa secondo la totalità della sua autorità. • Quando nella Chiesa viene proclamato un dogma, non è mai frutto di una repentina convinzione o di una sconsiderata reazione. È piuttosto qualcosa di simile a ciò che accade a ognuno di noi quando per tanto tempo si è portato dentro determinate impressioni o persuasioni e a un certo punto, con l’occasione di un incontro o di un avvenimento particolarmente significativo, ne prende coscienza chiara e le esprime. Perché la vita di Cristo nella storia della Chiesa è una vita che cresce: la formulazione dogmatica coincide con questo salto qualitativo nella coscienza della Chiesa e quindi, in essa, della persone. • Nella Chiesa non tutto è dogma, perché potrebbe non essere necessaria quella solenne esplicitazione cui accennavamo poc’anzi; secondariamente perché non tutto può essere già emerso alla coscienza del popolo cristiano così da diventare chiara consapevolezza: altrimenti la storia non avrebbe più senso. La parola dogma non ha affatto quel senso dittatoriale che tanti commentatori le attribuiscono, indica semplicemente il formularsi di una presa di coscienza della verità di cui la Chiesa è depositaria. • La Chiesa, dunque, segue una traiettoria dell’autocoscienza che matura con l’andare del tempo, esattamente come accade all’uomo. 2. Il comunicarsi di una realtà divina Passiamo ora a quel che è il cuore del messaggio cristiano: vivere nella Chiesa, cioè vivere la presenza di Cristo, comunica una realtà divina. A) La grazia soprannaturale o santificante Non ci troviamo solo di fronte a una comunicazione di verità, ma a un comunicarsi della realtà divina stessa, alla partecipazione dell’umano alla vita di Dio, la cui densità ontologica è appena evocata dall’espressione “figli di Dio”. Si tratta di una comunicazione che tocca l’uomo e lo muta. Il termine che la tradizione cristiana utilizza per indicare la realizzazione di quel nuovo essere è “grazia soprannaturale/santificante”. Questa parola “grazia” è indicativa dell’assoluta gratuità del valore che definisce e ne segna il valore divino, perché solo il comunicarsi del divino è assolutamente gratuito. Per quanto riguarda la seconda qualificazione della parola “grazia”, “santificante” possiamo dire che l’idea di santo nella nostra tradizione religiosa indica colui che aderisce a Dio. Ora, per i cristiani, quella grazie è santificante perché è Dio che ha iniziato con se stesso è prolunga nella storia un’umanità nuova, un’umanità definitiva secondo il suo disegno. B) Attraverso segni efficaci: i sacramenti Questa grazia soprannaturale, questo salto di qualità ontologica, in che modo viene comunicata nell’ontologia nostra? Questa nuova realtà si comunica, nell’immanenza della persona alla vita dell’autentica comunità ecclesiale, attraverso gesti chiamati “sacramenti”. Il termine “sacramento” nella pratica cristiana da un lato indica la dinamica della comunicazione della realtà divina nella persona di Cristo; dall’altro evoca un sacro patto di fedeltà, qualcosa che al cristiano non può non restare impresso come collegabile a quell’alleanza che Dio ha voluto stringere con l’uomo. Così il sacramento è il primo aspetto di questo comunicarsi del divino dentro lo sperimentale umano. In questo senso la Chiesa stessa dice di sé di essere sacramento, luogo in cui la presenza della forza divina, della persona di Cristo che vince il mondo, si vede e si vedrà sempre. La Chiesa è sacramento di quella Presenza. I sacramenti ci mettono in contatto con una realtà più profonda di quanto cade sotto la nostra possibilità di osservazione, sono segno comunicativo della realtà divina, segno in cui sta e opera la presenza di Cristo. C’è un primo gesto fondamentale per cui nella vita della Chiesa un uomo è reso immanente al mistero di Cristo: è il Battesimo, il gesto con cui Cristo afferra l’uomo e lo porta dentro di sé. Altri sacramenti sono l’Eucaristia, la Confessione, la Cresima, l’Unzione, il Matrimonio, l’Ordine (il sacramento che conferisce il sacerdozio). Il sacramento è dunque l’esperienza del rapporto con Cristo dentro un gesto concreto, fisico. C) Nella partecipazione libera dell’individuo Il sacramento indica la struttura ideale dell’uomo, esprime l’uomo nuovo; tale trasformazione non avviene meccanicamente, bensì attraverso la libertà dell’uomo: si verifica solo se l’uomo vive quel gesto consapevolmente, accogliendo e ospitando il suo significato e lasciandosene investire. La partecipazione dell’uomo al sacramento dev’essere compiuta come persona libera, come coscienza piena. D) Risposta a un’obiezione Trattando della libertà come condizione della grazia, mi aspetto sempre un’obiezione: se si insiste tanto sulla libertà come fattore necessario affinché il mistero di Cristo agisca, perché viene impartito il apparentemente distanti. Il cristiano è chiamato a non esserne scossi, ma ad affermare l’altro con instancabile anelito di valorizzazione, è chiamato a sapersene arricchire. È questa la radice che in quell’unità di coscienza matura diventa unità di comprensione e inclusività, diventa atteggiamento e principio di cultura, nella quale è possibile fare esperienza della novità. C) Unità come impostazione di vita La vita riceve valore in ogni minimo dettaglio dalla grazia che Dio fa all’uomo di essere collaboratore alla sua presenza nella azione salvifica della sua comunità. Così ogni gesto acquista una dimensione comunitaria: l’azione è il fenomeno della personalità, il movente è quel nesso profondo con la presenza di Cristo nel mondo. La comunità diventa così sorgente dell’affermazione della personalità. Ogni gesto ha così valore eterno, in quanto gesto responsabile per il destino del mondo, in quanto espressione dell’individuo che diventa fattore decisivo per il senso dell’universo. Il concetto cristiano di lavoro è vista come espansione del mistero della salvezza in ogni momento e attività, nel contesto della propria personale funzione e situazione. Il lavoro è il tentativo dell’uomo di investire di sé e del suo progetto il tempo e lo spazio. Per il cristianesimo il lavoro umano è il lento inizio di un dominio dell’uomo sulle cose, di un governo cui egli aspira realizzando l’immagine di Dio. 2. Santità La santità cristiana è agli antipodi del concetto di santità proprio a tutte le religioni, dove essa è intesa come una separazione dal quotidiano normale. Nella concezione cristiana non c’è nulla di pro-fanum, che stia davanti o fuori del tempio, perché tutta la realtà è il grande tempio di Dio: nulla è profano e tutto è “sacro”, perché tutto è funzione di Cristo. Il santo è l’uomo vero, perché aderisce a Dio e quindi all’ideale per cui è stato costruito il suo cuore. Santo è l’uomo che realizza più integralmente la propria personalità, ciò che deve essere. La parola santità coincide in senso totale con la vera personalità: se uno realizza se stesso, compie l’idea per cui è stato creato. Perciò nella concezione della Chiesa il peccato è ciò che ostacola la realizzazione della personalità del singolo uomo. La santità, questo segno della vita divina donata alla Chiesa, si può sorprendere attraverso tre caratteristiche che la qualificano: il miracolo, l’equilibrio, l’intensità. • IL MIRACOLO – lo si può definire come un avvenimento, quindi un fatto sperimentabile, attraverso cui Dio costringe l’uomo a badare a Lui, ai valori di cui vuole renderlo partecipe, attraverso cui Dio richiama l’uomo perché questi si accorga della sua realtà. Quanto più un uomo è consapevole e vivido nella sensibilità del suo nesso con l’Altro che continuamente lo crea, tanto più tutto tende a diventare miracolo per lui. Vi sono poi momenti particolari in cui Dio straordinariamente richiama il singolo ad attendere alla sua presenza, a togliersi dalla distrazione. È questo un miracolo nel senso più determinato: come un accento particolare degli avvenimenti che richiama inesorabilmente a Dio. Può essere un’improvvisa buona notizia, o un dolore imprevisto; una vita o una morte, una bocciatura o una promozione. Per cogliere un miracolo, tanto più nel suo senso più ristretto e proprio, là dove Dio interviene sulla sua creazione con un fatto oggettivamente inspiegabile, occorre avere una precedente, almeno implicita, simpatia per Dio. • L’EQUILIBRIO – Questo, che può essere assunto come tratto distintivo della presenza della santità nella Chiesa, è una ricchezza, è quella sovrabbondanza a cui Gesù si riferisce come ciò che viene dato da Dio a colui che assume la misericordia del Padre come criterio di vita. Vivere il mistero della comunione con Dio in Cristo fa imparare a vedere tutte le cose riferite a un valore unico per cui tutti i giudizi e le decisioni incominciano a partire da una misura unica. L’origine dell’equilibrio della santità cristiana è dunque la straripante ricchezza dell’Essere che, per così dire, si impossessa dell’umanità e che all’umanità è donata per venire liberamente accolta come unico criterio di vita. • L’INTENSITA’ – Nella storia della Chiesa è giunta da ogni da ogni continente e nella più sconcertante varietà di circostanze la testimonianza della santità. Questa intensità è documentabile nella chiesa cattolica in senso quantitativo e qualitativo, in modo incommensurabile e imparagonabile rispetto a qualsiasi altro luogo di esperienza religiosa. 3. Cattolicità Katholicos, in greco classico, era usato dai filosofi per indicare una proposizione universale: l’universale è un singolare, e non dev’essere confuso con una somma. La Chiesa non è cattolica perché attualmente è diffusa su tutta la faccia della terra e conta un gran numero di aderenti; essa era già cattolica il mattino della Pentecoste, quando tutti i suoi membri erano contenuti in una piccola sala. Essenzialmente la cattolicità non è questione di geografia o di cifre: è una dimensione essenziale della Chiesa ed esprime fondamentalmente la sua pertinenza all’umano in tutte le variabili delle sue espressioni. È un’espressione varia e differenziata, che non si qualifica come esteriore dimostrazione di grandezza o di conquista, bensì come risposta a un imperativo interiore del cuore creato. 4. Apostolicità Come la cattolicità riguarda l’universalità intrinseca della Chiesa fino a documentarsi nella sua dimensione spaziale, l’apostolicità è la caratteristica della Chiesa che indica la sua capacità di affrontare in modo organicamente unitario il tempo. È la dimensione storica: la Chiesa afferma la sua autorità unica a essere depositaria di una tradizione di valori e realtà che deriva dagli apostoli. Come Cristo ha voluto legare la sua opera e la sua presenza nel mondo agli apostoli, così la Chiesa è legata ai successori degli apostoli, papa e vescovi. Mi preme ricordare come la categoria dell’unità sia l’orizzonte in cui si situano le altre categorie elencate: la santità, ossia l’energia realizzatrice dell’unità dell’io all’interno dell’unica Chiesa; la cattolicità, cioè l’universalità per cui ogni valore rifluisce in un unico orizzonte di completa esperienza dell’umano; l’apostolicità, che colloca all’interno della vicenda umana l’origine di una nuova storia, unitaria nella sua capacità di permanente esperienza di accoglimento dell’Assoluto nel tempo. CAPITOLO III – SE’ DI SPERANZA FONTANA VIVACE Il cristianesimo è l’annuncio dell’avvenimento di Cristo, di Dio che è entrato nel mondo come uomo. Ma non si può parlare della Chiesa senza guardare alla donna da cui essa è nata e continuamente nasce, Maria, Madre di Cristo. La Madonna è stata eletta perché fosse e creasse la prima dimora, il primo tempio di Dio nel mondo. È stata scelta perché fosse la prima casa di Dio, il primo contesto in cui tutto era di Dio, del Dio che veniva a vivere tra noi. Per questo Maria è la madre dei viventi e la felicità per tutti gli uomini passa e passerà attraverso la sua carne e, prima ancora, il suo cuore. La grandezza dell’uomo è nella fede, nel riconoscere la grande Presenza dentro una realtà umana. Poiché ha detto di sì alla modalità con cui il Mistero conduceva le cose, la vita della Madonna è una luce di aurora per tutti noi e per tutti gli uomini fino alla fine. Madre generosa, ella genera per noi la grande Presenza di Cristo. Siamo consolati, perdonati e arricchiti da quella Presenza che rinasce dalla carne della Madonna. Per questo a lei chiediamo ogni giorno di renderci partecipi della sua libertà, della sua disponibilità, della sua via.