Scarica Profilo storico della letteratura latina. Dalle origini alla tarda età imperiale di Gian Biagio Conte e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura latina solo su Docsity! STORIA DELLA LETTERATURA LATINA PRIMA PARTE: ALTA E MEDIA REPUBBLICA Il contesto Gli studiosi attribuiscono la nascita dei primi insediamenti sul colle Palatino in prossimità del Tevere nell’VIII secolo. Fino al VI secolo la città fu caratterizzata dalla dominazione etrusca e inizia una prima fase di forte attività militare. Tra il V e il II secolo a.C. i romani si trovano a combattere contro le popolazioni italiche e nemici esterni come Pirro e Cartagine. Il successo ottenuto in queste tre guerre segna Roma come potenza egemone nel Mediterraneo e la società romana subisce trasformazioni: le lotte tra patrizi e plebei, che continueranno fino ai tentativi di riforma dei Gracchi, la guerra sociale con gli alleati della penisola, che porterà alla concessione della cittadinanza romana a tutti gli italici, lo scontro tra Mario e Silla e la dittatura di quest’ultimo. Contemporaneamente, i contatti sempre più fitti con l’Oriente permetteranno ai romani di accostarsi in modo sempre più intenso alla cultura greca, che avrà un ruolo decisivo. L’urgenza dei problemi politico-militari e l’importanza del dibattito culturale e del confronto con i modelli greci trovano più significativi riflessi nella produzione letteraria. I secoli tra la fase monarchica e quella repubblicana costituiscono quindi un periodo travagliato, ma ricchissimo di fermenti per Roma, che si avvia a dominare gran parte del mondo. Capitolo 1 La nascita della letteratura latina I romani collocano l’inizio della letteratura latina nel 240 a.C., anno in cui Livio Andronico aveva fatto rappresentare per la prima volta un testo scenico in lingua latina. Fin da subito ci fu un confronto con la letteratura greca, gloriosa, a cui i romani cercavano di contrapporne una propria individuando ad un certo punto in Ennio il sommo progenitore della poesia patria. Proprio lo stretto confronto con i modelli greci impose alla letteratura romana una precoce maturazione, si può dunque dire che la letteratura latina nasca già “adulta”, essendosi addestrata a processi quali l’imitazione, l’allusione e la caratterizzazione degli stili. Ebbero un ruolo importante per la diffusione dell’alfabetizzazione quelle opere scritte che non fanno parte della categoria della letteratura romana, come per esempio le iscrizioni. Queste (su bronzo o su pietra) non solo sono legate a momenti della vita quotidiana, ma anche a livello ufficiale per la registrazione di leggi, trattati, patti con altre città. Un’altra importante categoria è quella dei fasti. Inizialmente si trattava di un calendario ufficiale romano che ogni anno i pontefici stabilivano e divulgavano con la distinzione dei giorni in fasti e nefasti. Molto presto, però, iniziarono ad arricchirsi di altre informazioni, come per esempio le liste dei magistrati nominati anno per anno. Venne utilizzata anche la tabula dealbata, una tavola bianca in cui il pontefice esponeva pubblicamente avvenimenti significativi per la collettività come date di trattati, dichiarazioni di guerra, fatti prodigiosi o cataclismi naturali. Poi queste registrazioni presero il nome di annales pontificum e divennero una vera e propria memoria dello stato romano. I Carmina Il termine carmen è etimologicamente connesso alla parola cano, canto. I carmen sacrali e le leggi delle XII Tavole sono nati con la finalità pratica di dettare una regola e, la loro forma propria di leggi, preghiere, formule rituali, era oscura e straniata anche per i dotti romani di età classica, il cui messaggio doveva suggerire la solennità adeguata ad imporre comportamenti precisi e ad esprimere un ordine del mondo. La parola carmen si applica a diverse tipologie di elementi come le preghiere, i giuramenti, le profezie, i trattati ecc. Da questa diversità tematica si capisce che la definizione arcaica di questa parola riguardava la forma di un testo piuttosto che i suoi contenuti: esso univa infatti le caratteristiche tipiche della prosa arcaica a quelle proprie della poesia dello stesso periodo, che al contrario aveva una struttura metrica più debole. La tradizione dei carmina sarà una tradizione propriamente romana, sconosciuta alla letteratura greca. Le più antiche forme di carmina riguardano una produzione dal punto di vista religioso, le cui principali testimonianze consistono nel carmen Saliare e nel carmen Arvale. Il primo è il canto del collegio sacerdotale dei Salii che ogni anno, nel mese di maggio, recavano in processione gli ancilia, cioè dodici scudi sacri. Il linguaggio dei Salii era incomprensibile però per i romani; il secondo era istituito dal collegio di dodici sacerdoti, i Fratres Arvales, i quali ogni anno, sempre nel mese di maggio, facevano un inno di purificazione dei campi. Il carmen è inciso sul marmo degli Acta. I Fescennini versus, invece, sono le testimonianze più consistenti. Secondo gli antichi, l’etimologia si spiegherebbe in due modi: il primo con il termine “fescennia”, una cittadina dell’Etruria del sud, quindi si ipotizza un influsso etrusco; il secondo con “fascinum” cioè “malocchio” quindi un uso in funzione di allontanamento del malocchio. La sede più tipica dei fescennini erano le feste rurali. La questione del saturnio Le più antiche testimonianze romane usavano un verso chiamato saturnio, nome legato al dio Saturno. Pone interrogativi irrisolti relativi alla questione metrica, senza uno schema chiaro e la sua fluidità ha suscitato addirittura un dubbio che esso presupponga principi costitutivi diversi da quelli della metrica classica. Il teatro romano arcaico: forme e contesti Tra il 240 a.C e l’età dei Gracchi la cultura romana conosce una straordinaria fioritura di opere sceniche. Tutti i poeti scrivono per la scena, alternando i vari generi teatrali e le rappresentazioni impegnano la collettività: dalle autorità statali alla nobiltà, al popolo. Questo genere si diffonde a tal punto da superare la letteratura scritta e a tal punto che si sviluppano le prime polemiche letterarie, che vedono i poeti dichiarare le proprie posizioni e difenderle dagli attacchi di avversari. I generi letterari romani, in particolare la palliata e la cothurnata, sono tutti importati dalla Grecia, infatti è lì che sono ambientate, i personaggi sono greci così come lo sfondo degli avvenimenti della trama e il pubblico colto, era in grado di cogliere le finezze degli adattamenti e persino svolgere un paragone con gli originali. La palliata è di carattere comico e deriva dal nome “pallio”, una veste tipicamente greca, più corta della toga, che i personaggi dovevano indossare; La cothurnata è di carattere tragico e deriva dai coturni, cioè altissimi calzari degli attori tragici greci, che dovevano rendere i personaggi sulla scena più imponenti e visibili a tutti gli spettatori. Molto presto si sviluppano anche una tragedia e una commedia di ambientazione romana: la prima con il nome di praetexta (una veste bordata di porpora tipica del magistrato romano) e la seconda con il nome di togata (la toga era la veste della vita quotidiana romana). Non erano altro che rigenerazioni romane dei corrispondenti generi greci, con gli stessi canoni drammaturgici e con le medesime tecniche stilistiche. Le preteste sono ispirate alla storia di Roma, ma tutto il resto mantiene i caratteri tipici della tragedia greca. Bellum Poenicum. È la sua opera più importante. Si tratta di un poema epico scritto in saturni di 4.000/5.000 versi (ce ne rimangono solo 60 circa) riguardante la prima guerra cartaginese. Probabilmente, però, tratta in qualche modo la vicenda dell’arrivo di Enea nel Lazio. In questo racconto è notevole anche la presenza dell’intervento divino che assume una visione storica, sanzionando, attraverso conflitti, la fondazione di Roma. È possibile che Nevio trovasse modo di inserire tra i viaggi di Enea anche un incontro con Didone. Come già detto in precedenza, Nevio proveniva dalla Campania, zona e lingua di cultura ellenica, per cui conosceva molto bene la tradizione letteraria greca. Nella sezione mitica, ad esempio, vengono create nuove combinazioni sintattiche che vogliono rispondere all’espressività delle forme greche. Altre caratteristiche sono invece riportabili alla lingua poetica e sacrale latina, in particolare va notata l’estrema importanza delle allitterazioni, assonanze e le figure del suono in generale, che producono uno stile solenne, quasi monumentale. Una volta che i latini abbandoneranno il saturnio per l’utilizzo dell’esametro, Nevio verrà dimenticato, ma la sua epica influenzerà in modo significativo l’Eneide. Per quanto riguarda la produzione teatrale, pare che sia cospicua. Le sue due prime preteste furono Romulus e Clastidium: la prima trattava la storia di Roma; la seconda ha come tema una vicenda molto vicina nel tempo ed è una celebrazione della vittoria di Casteggio (Clastidium) nel 222 a.C. contro i galli del console Marco Claudio Marcello. Fra le tragedie mitologiche troviamo il Lycurgus, molto vicino a temi politici e sociali in quanto parla della diffusione del culto di Dioniso, sempre più dilagante, fino alla soppressione nel 186 a.C. Molto più importante fu la sua produzione comica, tra le sue opere abbiamo la Tarentilla (La ragazza di Taranto). Dai frammenti si ricava una colorita inventiva verbale e l’utilizzo della pratica della contaminazione, secondo la quale si combinano diversi modelli greci in una sola commedia. Il suo teatro, inoltre, era molto impegnato dal punto di vista politico, infatti conteneva attacchi personali a personaggi politici che molto presto lo portarono ad essere esiliato. Capitolo 3 Plauto Il nome del poeta è incerto. Gli antichi lo citano come Plautus e nelle edizioni moderne fino all’Ottocento è citato con il nome di Marcus Accius Plautus, ma i tria nomina (cioè prenome, nome, cognome) si usavano per chi era dotato di cittadinanza romana e anche questo non è sicuro. Il Palinsesto Ambrosiano porta alla luce una nuova questione sul nome: il titolo completo del nome è Titus Maccius Plautus; il nome Maccius è nome di un personaggio di farsa italica, quindi è possibile che il poeta avesse deciso di aggiungere quel nome, quasi per dotarsi di un nome di battaglia che alludesse al mondo della scena comica. Anche per quanto riguarda la sua vita abbiamo molte incertezze. Sicuramente sappiamo che è nato a Sàrsina, e quindi è il primo autore latino che non proviene da una cultura greca. Era un cittadino libero e sappiamo con certezza che morì nel 184 a.C.; la sua data di nascita, secondo Cicerone, si collocherebbe tra il 255 e il 250 a.C. Plauto ebbe un enorme successo, a tal punto che con lui iniziò un’attività quasi “editoriale” e furono condotte delle vere e proprie edizioni critiche: le commedie furono dotate di didascalie e di sigle, i versi furono impaginati in modo che ne fosse riconoscibile la natura metrica. La sua attività letteraria è compresa tra la seconda guerra punica e gli ultimi anni di vita del poeta. Intrecci e personaggi Le trame delle sue commedie sono riprese da esemplari greci, in particolare da Menandro. La traduzione rappresentava per Plauto un’operazione di piena e consapevole autonomia artistica. Plauto ha lavorato con notevole tenacia per assimilare sia i singoli modelli attici sia il loro codice formativo: convenzioni, modi di pensare, personaggi tipici, drammaturgia, espressività. Plauto è molto originale dal punto di vista della creatività linguistica e metrica, che si manifesta in neologismi, giochi di parole, maestria ritmica, ma anche nomi dei personaggi spesso parlanti e diversi da quelli del modello greco. La coerenza stilistica attraverso tutto il corpus plautino è un dato pronunciato e facilmente individuabile. I cantica. Queste caratteristiche del teatro plautino sono state riconfermate dalle nuove scoperte dei teatri menandrei. Tanto posato e lineare è il teatro plautino, quanto vivace e ricco di trovate stilistico-verbali quello plautino. Non è un caso quindi che il tratto più caratteristico della commedia plautina siano i cantica, parti in metri lirici vivaci scene cantate e accompagnate dalla musica. Era stato Nevio a introdurli, ma quelli plautini non sono solo intermezzi meditativi, momenti in cui personaggi di scena e la loro emozione esagerata e carica vengono espressi da forma metrica, ma si tratta piuttosto di momenti dell’azione che spesso coinvolgono più personaggi, producendo effetti di grande spettacolarità. Nonostante il suo stile mostri una grande originalità, è anche vero che le singole scene possono essere anche molto vicine ai loro corrispondenti modelli greci, così come gli intrecci. Queste commedie generalmente riguardano una lotta tra due antagonisti per il possesso di un bene, solitamente una donna o una somma di denaro per avere la donna. Il protagonista è un giovane innamorato di una fanciulla che non può avere per colpa di un lenone, che rifiuta dii cedere la ragazza se non gli verrà consegnato del denaro. Si tratta quindi di tipi, maschere ricorrenti che mancano di una forte caratterizzazione individuale. In Plauto manca la caratterizzazione introspettiva, cioè la mancanza di autenticità del personaggio, perché egli si interessa delle situazioni socio-antropologiche molto elementari: la rivalità che oppone padri e figli per il possesso della donna; l’insofferenza dei figli allo ius paterno; la stessa disponibilità delle donne. Per lo stesso motivo anche gli intrecci sono prevedibili e ripetibili, qualità che appare come una caratteristica ricercata dal poeta: la sorpresa non è un elemento significativo del teatro plautino. Se le trame appaiono inverosimili e meccaniche è perché quello spettacolo vuole rimanere distante dalla realtà in cui vivono gli spettatori. Lo spazio della commedia è una sorta di convenzionale mondo esotico, in cui possono avvenire cose che la normalità quotidiana a Roma non permetterebbe. Il pubblico deve intuire in quelle trame problemi propri, ma allo stesso tempo poterli vedere lontani e, a fare da mediatore a tutto ciò è il servo, altre volte la Fortuna: il servo astuto appare spesso una sorta di equivalente al poeta drammatico, come se il teatro plautino trovasse in questa figura uno spazio di rispecchiamento. Questo personaggio gioca con le parole, creando immagini e doppi sensi, mostrandosi come portavoce delle parole dell’autore. Lui è la figura centrale e il punto di attrazione per il pubblico e per gli altri personaggi. Produce la soluzione della crisi comica, cioè quello stato di tensione in cui si apriva la commedia. Lo scioglimento tipico della commedia è concepito per suscitare nel pubblico particolare piacere, ma nessuna riflessione di carattere morale. La fortuna del teatro plautino A partire dalla generazione di Petrarca una parte delle commedie plautine cominciano a conoscere una buona diffusione e successivamente, a partire dal 1429, torneranno a circolare anche le dodici commedie varroniane. La commedia umanistica vive di rifacimenti e libere trasformazioni dei modelli plautini: si sviluppa un teatro in latino e, nel Cinquecento, un teatro italiano che vuole liberamente inserirsi nel codice scenico di Plauto e della Palliata romana (teatro ariostesco e Mandragola di Machiavelli e Ruzante). In ambito scolastico la fortuna di Plauto fu largamente inferiore a quella di Terenzio, a causa delle difficoltà e delle anomalie di ordine linguistico, stilistico e metrico che rendevano il suo testo poco adatto all’insegnamento. IL CONTESTO: L’ETÁ DELLE CONQUISTE La battaglia culturale di Catone Nel corso del III e II sec. a.C. ci fu una lenta ellenizzazione a Roma, cioè lo spostamento in Italia di filosofi e intellettuali. A questo processo si oppone drasticamente Catone il Censore: lui non combatte contro la grecità, bensì contro quegli aspetti della cultura e del pensiero greco che gli sembrano mettere in discussione i principi basilari della tradizione romana e le istituzioni sui cui si basa il vigore dello Stato romano. Il suo atteggiamento è troppo intransigente, tant’è vero che è ormai lontano dalla mentalità delle classi colte. Lo stesso Ennio, scoperto da Catone, si allontana presto da lui per schierarsi con gli ellenizzati più accesi e impegnati nello svecchiamento della cultura tradizionale romana. Il cosiddetto “circolo degli Scipioni” La perfetta incarnazione di ideale di uomo politico a cui si oppone Catone è Scipione Emiliano. Attorno a lui si raccolgono intellettuali più aperti a temi della cultura greca: questa élite ha fatto parlare di un “circolo degli Scipioni”, al quale avrebbero partecipato Ennio, Lucilio e Terenzio. Probabilmente un vero e proprio circolo non è mai esistito, ci sarà stata solo una certa comunanza di interessi tra alcune figure dell’aristocrazia. Capitolo 4 Ennio Ennio nacque a Rudiae (una cittadina nella zona più meridionale dell’odierna Puglia) nel 239 a.C. Non era latino, ma proveniva da un’area di cultura italica fortemente grecizzata. Si formò probabilmente nella greca Taranto e si spostò a Roma nel 204 a.C. grazie a Catone, il quale all’epoca era questore in Sicilia e in Africa. I due si incontrano in Sardegna, luogo in cui Ennio militava come soldato di guarnigione. Il Censore fu spesso ostile alle posizioni culturali e politiche del poeta. A Roma diventa insegnante e scrive anche tragedie, andando ad occupare il ruolo lasciato da Livio Andronico e Nevio. Diventa protetto della famiglia di Marco Fulvio Nobiliore, che Ennio ha accompagnato in Grecia nella campagna del 189-187 a.C. Più tardi entrerà nel circolo degli Scipioni. Nelle sue opere c’è una forte presenza celebrativa, soprattutto nel poema Scipio in lode a Scipione Africano e Ambracia, una tragedia praetexta, per ricordare la vittoria di Fulvio Nobiliore. Attraverso il suo lavoro da poeta, ottenne un importante riconoscimento, ovvero la cittadinanza romana. L’età ellenistica aveva visto un formidabile sviluppo della poesia di “corte” ed Ennio, partecipando alla campagna come poeta al seguito e scrivendo una tragedia per l’impresa, ecco che ripeteva quel modello. Catone protesta contro questa iniziativa. Nell’ultima fase della sua vita scrive gli Annales, un vasto poema epico che gli darà onori e fama perpetua. Ennio muore a Roma nel 169 a.C. ricordiamo i “Niptra”, cioè “I lavacri”, che parlano del ritorno di Odisseo a Itaca e la morte dell’eroe per mano del figlio Telegono. Scrisse anche una praetexta intitolata Paulus che celebrava la vittoria di Lucio Emilio Paolo a Pidna nel 168 a.C. Fu anche pittore e fu ricordato per la sua visualità impressionante e spettacolare delle sue descrizioni. Lucio Accio nasce a Pesaro intorno al 170 a.C. e muore fra l’90-80 a.C. Viene dipinto come un vecchio orgoglioso e, a partire dal 120 a.C. è l’esponente più importante dell’associazione professionale dei poeti. Scrisse sia coturnate che preteste: ci restano quaranta titoli e frammenti per circa 700 versi. Tra le tragedie ricordiamo “La battaglia alle navi” e “L’allarme notturno”, entrambe ispirate ad episodi dell’Iliade. È particolarmente sensibile alle dinamiche di potere assoluto, come vediamo nella coturnata Atreus, incentrata sul conflitto di Pelope Atreo e Tieste). Scrisse anche un’altra pretesta intitolata Aeneadae, titolo che sottolinea la discendenza dei Romani da Enea. Rimane noto per la maestria, al limite del virtuosismo, con cui utilizza i mezzi stilistici della tradizione poetica. Accio si distinse per i suoi interessi eruditi che lo accostano a Ennio e alla sua figura di poeta-filologo. I Parerga sono un poema georgico sulle attività e occupazioni della campagna, ispirato alle Opere e i Giorni di Esiodo (probabilmente anche Virgilio con le Georgiche si ispirerà ad Esiodo). Capitolo 6 La storiografia a Roma La prima storiografia romana viene definita annalistica perché fortemente influenzata dalla struttura e dalle informazioni degli Annales Pontificum. Nonostante lo stile solenne e impersonale, gli annali dei pontefici non avevano un taglio realmente oggettivo e imparziale perché i pontefici venivano scelti tra i membri dei grandi casati aristocratici e cercavano dunque di disegnare una versione filonobiliare della storia e della politica romana. La caratteristica principale della prima produzione storiografica era l’adozione della lingua greca, che veniva incontro alle esigenze propagandistiche di Roma, che al tempo era in guerra contro Cartagine. Il primo a scrivere in greco fu Fabio Pittore, il quale aveva una minuziosa attenzione per i riti, le tradizioni religiose e le istituzioni giuridiche o sociali. Il primo, invece, a scrivere in latino e a prediligere questa forma è Catone il Censore. Catone il Censore Nacque a Tusculum (pressi dell’odierna Frascari) nel 234 a.C. da una famiglia di proprietari terrieri benestanti. Da giovani combatté nella guerra contro Annibale, percorse tutte le tappe del cursus honorum (carriera politica) fino ad essere eletto console nel 195. Censore nel 184, esercitò le proprie prerogative presentandosi come il campione delle antiche virtù romane contro la degenerazione dei costumi e il dilagare di atteggiamenti individualistici e protagonistici incoraggiati dal pensiero greco. Fu esponente del partito degli Scipioni, attraverso il quale e anche a causa della sua intransigenza morale ebbe moltissimi nemici e numerosi processi. Quando Atene inviò a Roma un’ambasceria di filosofi, Catone ne ottenne l’espulsione temendo che potessero insinuare nei romani dubbi sulla validità dei modelli etici tradizionali. Nell’ultima parte della sua vita si batté per chiudere definitivamente i conti con Cartagine, ma non riuscì a vederne la distruzione, avvenuta nel 146, perché morì nel 149. Le Origines. Si tratta di un’opera storica che fu concepita anche per diffondere i principi dell’azione politica di Catone e che rappresenta la prima opera storica in latino. Catone conferisce alla storiografia latina un vigoroso impegno politico, privilegiando la storia contemporanea, alla quale dedica tre libri su sette. Nelle Origines avevano largo spazio le preoccupazioni dell’autore per la corruzione dei costumi e delle battaglie che lui stesso aveva condotto contro il culto delle personalità. Per opporsi alle personalità che emergevano sulla scena politica, Catone elaborò una concezione originale della storia di Roma, che insisteva soprattutto sulla formazione dello Stato; la creazione della Repubblica era vista come l’opera collettiva del popolus Romanus stretto intorno alla classe dirigente senatoria. Diversamente dalla storiografia aristocratica, Catone non faceva nomi dei condottieri, né romani, né stranieri (anche Annibale non veniva chiamato per nome) perché in questo modo cercava di portare in luce le azioni di soldati semplici o ufficiali di rango inferiori che rappresentavano la virtù collettiva dello Stato. Le Origines mostravano notevole apertura di orizzonti: Catone si interessava vivamente alla storia delle popolazioni italiche e ai popoli stranieri e le loro usanze. Le altre opere e le orazioni. Il De agri cultura è un trattato, il testo di prosa latina più antico che ci sia giunto per intero. L’opera consiste in una serie di precetti esposti in forma schematica e che non lascia spazio alle riflessioni filosofiche sulla vita e il destino degli agricoltori. Vuole dare una precettistica generale da applicarsi al comportamento del proprietario terriero, il quale è rappresentato dal pater familias e deve dedicarsi all’agricoltura come all’attività più sicura e onesta, la più adatta a formare i buoni cittadini e soldati. L’attività agricola è ormai un’impresa su vasta scala: il proprietario dovrà avere grandi magazzini in cui tenere depositata la merce in attesa del rialzo dei prezzi, dovrà comprare il meno possibile e vendere il più possibile. Questi tratti salienti dell’etica catoniana saranno gli stessi che la riflessione tardorepubblicana indicherà come costitutivi del mos maiorum. Bisogna trarre dall’agricoltura tratti economici, anzi accrescere la produttività del lavoro schiavistico ad essa applicato. Lo stile dell’opera è scarno, ma colorito di espressioni di saggezza e formulazioni proverbiali. Il tono precettistico è presente anche nei Praecepta ad filium, prima enciclopedia latina dei saperi, cioè di medicina, retorica, arte militare di cui parleranno anche Varrone e Plinio il Vecchio. Poteva avere un tono pretenzioso anche il Carmen de moribus, scritto in una prosa che doveva essere scandita e ritmata: conteneva una raccolta di pensieri di argomento morale, anche in questo caso legati all’etica tradizionale romana. Lo stile oratorio, diversamente dai trattati, era vivace e ricco di movimento e le idee di Catone sulla retorica possono essere sintetizzate dalla frase “abbi ben chiaro il contenuto, le parole verranno da sole” (Precepta ad filium). Questo rifiuto di ogni elaborazione stilistica va interpretato alla luce della costante polemica contro la raffinata cultura retorica greca, a cui si sarebbe avvicinato soltanto in tarda età. Nelle sue orazioni Catone difende spesso il proprio operato, aveva un forte culto della propria personalità e nelle sue opere ci sono molti riferimenti alla propria condotta di vita, improntata sul lavoro. La fortuna di Catone. L’appellativo di Censore irrigidisce Catone nella sua formazione moralizzatrice. Cicerone lo idealizzò come figura che assommava a sé le virtù fondamentali della Roma del passato, mitigandone le più dure asprezze del carattere. Livio ne apprezzò le doti, ma non risparmiò le critiche al suo integralismo. Dopo il IV secolo la conoscenza delle sue opere va scomparendo. Capitolo 7 Un nuovo contesto culturale: il declino del teatro popolare e la nascita di un teatro d’élite Terenzio si trova al centro di quella che è l’età degli Scipioni. Il suo debutto teatrale si colloca dopo la battaglia di Pidna che costituì un momento cruciale nell’evoluzione della potenza romana e nei rapporti di Roma con l’oriente greco. La commedia era stata, con Plauto, un grande momento di intrattenimento popolare e non richiedeva sforzi di meditazione. Il teatro di Terenzio è particolarmente interessato ai significati: usa un genere fondamentalmente popolare per comunicare anche una sensibilità nuova, maturata nel campo ristretto di una élite sociale e culturale. Anche per questo riscontrò difficoltà con il pubblico. L’élite è colta, nutrita, di raffinata cultura greca e portata ad esprimersi in altri generi letterari. In effetti, il teatro di Terenzio mette in scena gli ideali di rinnovamento culturale dell’aristocrazia scipionica; l’autore è interessato soprattutto all’approfondimento psicologico dei personaggi e più che alla rappresentazione psicologica dell’individuo, Terenzio è interessato a quella del “tipo”: il giovane innamorato, il padre tradizionalista ecc. Anche se non dotati di forte personalità individuale, i personaggi terenziani sono anticonvenzionali: la suocera per niente bisbetica, la prostituta moralmente migliore di tanta gente perbene. Questo approfondimento psicologico, però, comportava una notevole riduzione della comicità. Terenzio, la vita e le opere Si dice che Terenzio sia nato nel 184 a.C, anno della morte di Plauto, ma questa informazione non è sicura perché in passato si sincronizzavano le nascite e le morti degli autori che venivano a succedersi. Originario di Cartagine, sarebbe giunto a Roma da un certo senatore Terenzio Lucano. La morte sarebbe avvenuta nel 159, durante un viaggio in Grecia intrapreso per scopi culturali, così come sarà poi d’abitudine per la formazione dei romani colti. La cronologia delle opere è attestata con precisione nelle didascalie anteposte nei manoscritti alle singole commedie (sei). Alcune di queste: Andria rappresentata nel 166. Lo stile e la lingua: una rivoluzione sottovoce La prima superficiale impressione nello stile di Terenzio è quello di una piatta uniformità. La parola bacio compare non più di due volte in sei commedie, si parla poco di corpi, di sesso, i personaggi non si scambiano parole crude e anche i bassi personaggi (es. schiavo) non portano sulla scena la loro carica linguistica. Acquistano spazio le parole astratte, quelle che rendono possibile e interessante l’analisi psicologica. Diversamente da come si possa pensare, lo stile medio e pacato di Terenzio si avvicina di più alla realtà rispetto a quello plautino. L’elemento che più distingue Terenzio nel quadro della commedia latina è la sua costante e controllata preoccupazione per il verosimile. Il suo parlato è piuttosto una lingua settoriale, quella delle classi urbane di buona educazione e cultura. Vi è una forte riduzione della varietà metrica rispetto a Plauto e ai suoi “numeri innumeri”: sono scarse le parti liriche, mentre molto contenuta è l’estensione dei cantica (parti cantate o con accompagnamento musicale) rispetto ai diverbia (parti recitative). I prologhi: poetica e rapporto con i modelli Terenzio è uno dei primi a ritagliarsi uno spazio dove precisare la propria poetica ed esporre i tratti peculiari della propria produzione teatrale. Lavorando sui modelli greci, riesce a esprimere sia la propria impostazione ideale che la propria vocazione letteraria. Le commedie di Menandro (suo ispiratore) erano state un modello importante anche per Plauto, che però era lontano dalla poetica menandrea. Nella palliata plautina il gioco scenico finisce facilmente per rispecchiare sé stesso mettendo in crisi l’effetto di realtà dell’intreccio scenico: è quello che abbiamo definito il metateatro plautino. Invece in Terenzio, lo sviluppo dell’azione non prevede mai esiti metateatrali e vengono anche eliminate quelle battute dei personaggi che si rivolgono liberamente al pubblico. Quindi, la palliata come Concilium deorum; attraverso una parodia dei concili divini, scena tipica dell’epica, Lucilio prendeva di mira un certo Lentulo Lupo: gli dei decidevano di farlo morire di indigestione. La parodia comportava anche implicazioni critico-letterarie. Nel momento in cui il poeta faceva in modo che gli dei si comportassero secondo il protocollo e le procedure del senato romano, la scena letteraria del Concilium deorum veniva mostrata come nient’altro che un motivo comune e convenzionale della poesia epica, ormai priva di credibilità. Il libro III conteneva la narrazione di un viaggio in Sicilia, tema molto ricorrente nelle satire. Il libro XVI pare che fosse dedicato alla donna amata. Già nelle satire di Lucilio doveva avvertirsi quel forte spirito moralistico che era destinato ad affermarsi come caratteristica dominante alla successiva tradizione satirica. La critica del poeta batte con vivo umorismo su diversi aspetti della vita quotidiana, rappresentati nella loro concretezza fisica e linguistica; compaiono spesso punti critici nei confronti dei costumi contemporanei. Quello che emerge dai suoi frammenti è il rifiuto di un unico livello di stile e l’elaborazione di un linguaggio elevato dell’epica, rivissuto come parodia, e dei linguaggi specialistici che finora restavano esclusi dalla poesia latina. In questo contesto si colloca persino la tendenza a simulare l’improvvisazione dei propri versi; la disarmonia dello stile di Lucilio è certamente una scelta meditata, rivolta a un preciso programma espressivo, che fonde vita e arte. Resterà un modello per tutti i satirici latini e, addirittura Orazio, lo consacrerà quale inventore della forma satirica, ma il suo tono di polemica personale, anche politica, Orazio sente Lucilio lontano da sé. Capitolo 9 Oratoria e politica Quando Silla rinuncia al potere, gli anni che vanno dal 133 al 79 a.C. sono carichi di grandi violenze e tensioni: il movimento dei Gracchi (tenta di imporre al senato una redistribuzione equa delle terre pubbliche, ma viene represso con le armi), la guerra di Roma contro gli italici, la guerra civile tra Mario e Silla. La repubblica entra così in una crisi che durerà fino all’ascesa di Augusto al principato. In questi anni acquistano importanza l’oratoria, le scuole di retorica, la trattatistica: l’eloquenza è un’arma potente, infatti nel 92 a.C. i due censori in carica, Licinio Crasso de Domizio Enobarbo, chiusero la scuola di retorica di Plozio Gallo. La scuola era pericolosa per la parte aristocratica: agli uditori non era richiesta la conoscenza del greco e le rette non erano elevate. Chiudendola, i censori ottenevano lo scopo di annientare un centro dal quale, in futuro, sarebbero potuti uscire capi popolari ben versati nell’arte della parola. Nell’opera Rhetoricca ad Hennium traspaiono le tendenze graccane e mariane; lo schematismo scolastico di origine greca è attenuato dall’inserimento di materiali tratti dalla cultura e dall’oratoria romane. Polemiche sulla lingua e sullo stile e studi filologici Durante il periodo di Cicerone iniziano a delinearsi due differenti stili: asiano e attico. L’eloquenza asiana fiorisce nelle scuole di Pergamo, in Asia Minore, al principio del III secolo a.C. Ricerca il pathos e la musicalità, affidandosi ad uno stile ridondante di metafore e vocaboli coloriti. Il maggior esponente a Roma è Ortensio Ortalo. La corrente atticista prendeva a modello la semplice sobrietà dell’oratore attico Lisia. Voleva una lingua semplice, e l’uso regolare dei costrutti sintattici. La prima è sostenitrice della teoria anomalista, cioè il linguaggio è libera creazione dell’uso; la seconda è analogista, cioè favorevole alla tesi che deve fondarsi su norme e sul rispetto di modelli riconosciuti. A Roma il più famoso dei teorici analogisti è Giulio Cesare. Nella seconda metà del II secolo a.C. si afferma a Roma anche la filologia: Lucio Elio Stilo Preconino si occupa di problemi di autenticità delle commedie plautine. La produzione storiografica La storiografia diventa un mezzo di analisi politica, a volte di contrapposizione feroce. Il fatto notevole rispetto alla storiografia arcaica è l’adozione di un metodo razionalistico, chiaramente influenzato dalla pratica dello storico greco Polibio. L’autore più interessante è Cornelio Sisenna, uomo politico di tendenze dichiaratamente aristocratiche e convinto fautore di Silla, scrisse Historiae che trattavano esclusivamente di vicende contemporanee, dedicando alla storia più antica solo una rapida introduzione. Sisenna è attento agli eventi politici, però è anche vero che i fatti narrati sono immersi in un’atmosfera romanzesca e favolosa, secondo il metodo della storiografia “tragica” che si rifaceva a Clitarco, uno degli storici di Alessandro Magno. Lo stile ricordava un asianesimo fiammeggiante, che Cicerone stesso sentirà eccessivo e quasi puerile. La commedia dopo Terenzio Fabula palliata e fabula togata Nell’età di Cesare e Cicerone, la palliata di Plauto e Terenzio comincia ad essere sentita come un genere antico e difficile. La stessa metrica dei cantica risulta difficile, quella delle parti recitate anarchica e irregolare. Dai frammenti risultano ancora usati certi metri lirici che già Terenzio non usava più, e che riportano indietro alla commedia di Plauto. Forse il realismo stava nella rappresentazione di un mondo di personaggi umili e meno tipizzato di quello plautino: non solo lo schiavo furbo e imbroglione, ma anche l’artigiano, la lavandaia, insomma un ambiente popolano e forse piccolo-borghese più credibile. Se nella palliata era possibile mettere in scena un servo più intelligente e più furbo del padrone, nella togata questo non era concesso: evidentemente un teatro che rappresentava senza mediazioni realtà romane non poteva permettersi di ridicolizzare eccessivamente il concreto ordine sociale. L’atellana e il mimo Ritorna l’atellana che acquista ora una sua indipendenza. I titoli rimasti conservano chiaramente l’impronta di un repertorio di maschere, come i moderni Arlecchino e Pantalone. I frammenti mostrano una tendenza all’oscenità e al linguaggio crudo più marcato rispetto alla palliata, che in genere si limita all’allusione piccante, invece di porre senza filtri la battuta o il termine volgare. Nell’età di Cesare, però, è il mimo a dominare la scena. Il termine greco mimos indica imitazione della vita reale. Copre una varietà di spettacoli diversi: poteva essere una serie di rappresentazioni slegate, di danze, intermezzi musicali. Pare che i mimi più popolari fossero quelli dei ludi Florales, quando nel cartellone degli spettacoli c’erano anche i numeri delle spogliarelliste. Altre volte era assai crudo: abbiamo notizia, per quel che riguarda l’età imperiale, di condannati a morte che venivano giustiziati sulla scena, per accrescere il realismo delle scene di violenza, o di mimi che rappresentavano scene di crocifissione, con abbondante uso di sangue finto. Gli attori non recitano più con la maschera e le parti femminili sono interpretate da donne. Lo spettacolo aveva spesso un finale brusco. Il mimografo a noi più noto è Publilio Siro e gli antichi lo celebrano per la sua vena riflessiva e sentenziosa. PARTE SECONDA: TARDA REPUBBLICA Il contesto: il periodo cesariano (78-44 a.C.) Queste due date fanno riferimento alla morte di Silla e a quella di Cesare. Questi anni vedono il culmine dell’attività di molti autori e sono anche quelli di formazione per i grandi poeti dell’età augustea. È un periodo ricco di grandi dibattiti teorici, politici e ideologici; di fioritura dell’oratoria politica e giudiziaria; del pensiero filosofico romano; della crescita dell’antiquaria, della linguistica, della biografia. In ombra rimase solo il teatro. Uno dei fenomeni più notevoli è l’elaborazione di un pensiero filosofico-politico, in latino, che si mette al fianco di quello greco e vuole ereditarne la capacità di sintesi e di interpretazione della realtà. La cultura romana interpreta e interroga i grandi testi del pensiero greco con immediato riferimento ai bisogni del presente, come il ruolo della religione, quale sia la migliore costituzione o il comportamento sociale degli uomini. L’intellettuale diventa una figura autonoma che aspira a forte indipendenza. Capitolo 1 Cicerone, la vita e l’attività oratoria Nasce nel 106 a.C. ad Arpino, compie ottimi studi di retorica e filosofia a Roma. Nell’89 presta servizio militare nella guerra contro gli alleati italici in rivolta e qualche anno dopo debutta come avvocato. Accetta di difendere Sesto Roscio, accusato di parricidio e, per paura di rappresaglie si allontana da Roma per viaggiare in Grecia e Asia Minore, dove si perfeziona nello studio della retorica. Rientra a Roma e inizia la carriera politica come questore in Sicilia: l’onestà della sua amministrazione spingerà i Siciliani a richiederlo come accusatore nella loro causa contro Verre, un corrotto propretore contro il quale Cicerone scrisse le Verrine. Queste orazioni mostrano uno stile già maturo e complesso, ed evidenziano la bravura dell’autore anche nella descrizione sarcastica e nel ritratto satirico degli avversari. Dopo la questura entra in senato e si avvicina ai populares, il partito contrario all’oligarchia aristocratica. Nasce l’orazione Pro lege Manilia, che difende la proposta del tribuno Manilio di affidare a Pompeo poteri eccezionali per combattere Mitridate, il re ribelle di Ponto. La rivolta di quella regione minacciava soprattutto i cavalieri, i quali avevano in appalto la riscossione delle imposte nelle province, ed erano necessari sia Pompeo, sia a Cicerone. Grazia alla sua fama, venne sostenuto anche dagli aristocratici, che lo proposero al consolato nel 63 contro la candidatura di Lucio Sergio Catilina. Di questo episodio rimane la testimonianza nelle quattro orazioni Catilinarie scritte da Cicerone per denunciare la cospirazione in atto e discutere la punizione dei congiurati in stato di arresto. A causa del primo triumvirato, cioè il patto privato stretto tra Cesare, Pompeo e Crasso per spartirsi il potere, Cicerone perderà il suo potere e deve recarsi in esilio nel 58 con l’accusa di aver condannato a morte senza processo i complici di Catilina. La concordia ordinum. Nella Pro Sestio, cioè un’orazione in difesa di un tribuno, riformula la propria teoria sulla concordia dei ceti abbienti, dilatando il concetto della concordia ordinum, in quello del consensum omnium bonorum, cioè la concordia attiva di tutte le persone agiate disposte a collaborare per riportare l’ordine. Si avvicina alla dittatura dei triumviri sperando che un personaggio forte potesse cessare le aspre lotte che agitavano quotidianamente Roma. Nella Pro Caelio attacca il tribuno popolare Clodio, responsabile del suo esilio. La Pro Milone. In seguito all’uccisione di Clodio nel 52, Cicerone difende nel suo capolavoro la Pro Milone, l’amico Milone, capo delle bande aristocratiche accusato di omicidio. In quest’opera vi rovescia l’accusa, elogiando il tirannicidio, l’omicidio che libera dal tiranno. Le orazioni cesariane. Scoppiata la guerra civile nel 49, Cicerone sostiene Pompeo. Dopo la sconfitta dei pompeiani a Farsalo, viene perdonato da Cesare e sotto il suo regime scrive le orazioni cesariane, in cui si impegna nella difesa di altri pompeiani che cercano clemenza. Nella Pro Marcello, per esempio, suggerisce addirittura a Cesare riforme e comportamenti istituzionali con l’intenzione di favorire la concordia e a rispettare le prerogative del Senato. I doveri della classe dirigente: il De officis Si tratta di un trattato composto nel 44 dedicato al figlio Marco, studente di filosofia ad Atene. L’opera è il risultato di una elaborazione contemporanea alla composizione delle Filippiche: Cicerone riflette sui fondamenti di una morale della vita quotidiana che permetta all’aristocrazia di riacquistare il controllo della società. La base filosofica è offerta dallo stoicismo di Panezio, la cui dottrina attribuiva un valore positivo agli istinti che non devono essere oppressi, bensì disciplinati; la loro sottomissione definisce il gentiluomo ciceroniano che ricerca l’approvazione degli altri con l’ordine, la coerenza, la giusta misura nelle parole e azioni. Sono mostrati anche i comportamenti da eseguire nella vita quotidiana e nell’abituale commercio con le persone, i gesti e le posture in cui il decorum si manifesta o si rinnega. Lo stile e le opere poetiche Come autore di opere filosofiche deve affronta il problema della resa in latino di molti termini greci. Il suo sforzo di evitare i grecismi porta alla nascita di molti neologismi poi entrati nell’uso. È importante anche la creazione di un tipo di periodo complesso e armonioso, fondato sul principio della concinnitas, cioè la corrispondenza delle parti. Cicerone elimina tutte quelle incoerenze che la prosa arcaica latina aveva ereditato dal linguaggio colloquiale e sceglie di rendere evidente l’articolazione e la connessione logica dei pensieri attraverso legami di dipendenza sintattica tra le proposizioni. Si caratterizza per una grande varietà di toni e di stili: ad ogni livello di stile corrisponde una collocazione delle parole adeguate, creando un’armonia. La disposizione verbale è sempre tale da realizzare un sistema di regole ritmiche adatte alla prosa, che trova particolare evidenza nelle clausole, cioè le parti finali dei periodi, per colpire l’ascoltatore. Diversamente dalla prosa, la sua produzione in versi fu giudicata molto negativamente sia dai contemporanei che dai posteri; tra le prime prove poetiche ci sono temi di erudizione mitologica, di critica letteraria e di sperimentazione metrica. Traduce i Fenomeni di Arato ottenendo un posto importante nella storia dello stile poetico. Scrive il De consulatu suo, diviso in tre libri, in cui si elogiava per aver salvato Roma dalla congiura Catilina. È considerato importante nello sviluppo delle tecniche versificatorie: raffina la costruzione dell’esametro, introducendo la tecnica dell’enjambement. L’epistolario. Il suo epistolario si compone di 16 libri Ad familiares, 16 libri Ad Atticum, 3 libri Ad Quintum fratrem e 2 libri Ad Marcum Brutum, per un totale di 900 lettere, pubblicate in seguito alla sua morte. Si tratta di rapidi biglietti in cui sono raccontati gli avvenimenti politici, e non solo. Alla diversità dei contenuti abbiamo anche una diversità di toni e di stile, che riflette questo carattere di epistolario reale, con un lessico costellato di parole pittoresche. Ha un’importante valenza storica perché permette di seguire giorno per giorno l’evolversi degli avvenimenti politici e contribuisce a rendere l’epoca in cui visse Cicerone una delle meglio note della storia antica. Capitolo 2 Cornelio Nepote Scrive il De viris illustribus (o Vitae), cioè una raccolta di sedici biografie divisi a seconda della professione. La biografia è per lui un mezzo di confronto tra la civiltà greca e quella romana: ogni categoria di vite doveva occupare una coppia di libri, uno per gli stranieri e uno per i romani. Fra gli scrittori latini egli è quello che rappresenta al meglio Annibale. Il suo progetto è il risultato di un’epoca in cui i romani erano più propensi ad apprezzare i valori di civiltà diverse e di interrogarsi sui caratteri originali della loro civiltà. La più originale e interessante delle Vitae è quella di Attico, proposto come modello ideale di amico e intellettuale che riesce ad evitare le contese civili e a sfruttare i propri mezzi per fare del bene. Marco Terenzio Varrone Nasce a Rieti nel 116 a.C. fu questore, tribuno della plebe e pretore e combatté nel 77 in Dalmazia e poi nella guerra civile con fu legato di Pompeo in Spagna; dopo la sconfitta degli eserciti raggiunse il quartier generale a Durazzo. Cesare lo perdona e gli offre l’incarico di organizzare una biblioteca a Roma e nel 43 fu accusato di simpatizzare i cesaricidi. Morì nel periodo augusteo. Le Antiquitates. Composta da 41 libri, si tratta di un’illustrazione di quasi tutto il patrimonio mitico, rituale, istituzionale della civiltà latina. Ci è nota per frammenti, di solito tramite le citazioni dei cristiani, che fecero di Varrone la fonte privilegiata di informazioni sulla civiltà pagana. Distingueva tre modi di concepire le divinità: una teologia favolosa, comprendente i racconti mitici e le loro rielaborazioni poetiche; una teologia naturale, cioè l’insieme delle teorie dei filosofi sulla divinità; una teologia civile, che concepisce la divinità nel rispetto di un’esigenza politica, quindi è utile allo stato. Per Varrone la religione è una creazione degli uomini e il popolo deve rimanere fedele alla teologia favolosa, mentre quella naturale deve restare in possesso degli uomini. L’opera era un’immensa enciclopedia dove era fornita l’origine di usi, riti, pratiche e altri elementi della vita quotidiana, ma, a causa della sua ampiezza, l’opera fu presto stralciata e ridotta. Il De gente e il De vita populi Romani. Dai frammenti riusciamo a farci un’idea della concezione varroniana della storia romana, ma è più un interesse improntato verso le istituzioni, le tradizioni, le mentalità. In queste due opere sono mostrati gli apporti dai nel tempo della civiltà romana e l’evoluzione degli usi e costumi dalla monarchia all’età contemporanea. Si occupò anche del teatro arcaico, in particolare di Plauto e il problema delle commedie attribuite a questo autore. Compilò un catalogo in cui divise in tre gruppi le commedie tramandate sotto il nome di Plauto e per l’attribuzione si affidava alla sua sensibilità per la lingua e lo stile di Plauto. Il De lingua Latina. Si dedicò anche alla storia della lingua latina, partendo da problemi e metodologie della cultura ellenistica o della filosofia aristotelica. Si tratta di una trattazione sistematica della lingua e dell’etimologia, affrontando anche la morfologia, la sintassi e la stilistica. Diede forte rilievo anche all’assimilazione degli elementi stranieri nella formazione della lingua latina secondo un concetto cardine della sua ricerca antiquaria. Le etimologie varroniane si fondano sull’idea che i nomi delle cose contengano in sé una verità nascosta e che i segni linguistici non siano arbitrari. Le Saturae Menippeae. Si tratta di 150 libri ispirati dal filosofo greco Menippo di Gadara; le satire erano in prosimetro e i temi erano politici e di costume. I titoli sono in greco, come per esempio il Trikaranos, cioè una violenta aggressione al primo triumvirato. Altre satire avevano per titoli vivaci espressioni proverbiali e mescolavano parodie tragiche con raffinati giochi linguistici e trovate erudite. Il De re rustica. Scritti nel 37, divisi in tre libri e in forma dialogica, sono l’unica opera di Varrone che si è conservata completa. Il Libro I è dedicato alla moglie di Varrone, la quale ha comprato un podere e chiede al marito di aiutarla nella conduzione, tratta così dell’agricoltura; il Libro II è dedicato ad un allevatore di bestiame e tratta dell’allevamento; il Libro III è dedicato ad un vicino di campagna e tratta dell’allevamento di animali da cortile, api e pesci. Intervengono vari personaggi quali Varrone e Attico. Tratta di argomenti già presenti in Catone, come per esempio la produzione agricola. La villa varroniana riserva un certo spazio a produzioni lussuose e qui si incontrano utilità e piacere dell’agricoltura, una convergenza che esprime l’autoconsapevolezza di un ceto proprietario aperto alla dinamica economica e commerciale. Il vero proposito dell’opera è quello di dare una soddisfacente immagine di sé al signore di campagna, desideroso di vedere ben realizzato un dignitoso e comodo modello di vita piuttosto che di imparare tecniche necessarie alla lavorazione della terra e all’allevamento di animali. Capitolo 3 Cesare, la vita e le opere Nacque nel 100 a.C. da una famiglia di antichissima nobiltà. Essendo imparentato con Mario venne perseguitato dai sillani e fu costretto ad abbandonare la città per qualche tempo. Tornò dopo la morte di Silla: nel 68 fu questore, poi edile, pontefice massimo e pretore. Nel 60 stipulò il primo triumvirato con Pompeo e Crasso, l’accordo segreto in vista della spartizione del potere e l’anno successivo rivestì il consolato per la prima volta; allo scadere della carica gli fu affidato il proconsolato in Illiria e nella Gallia romanizzata. Ecco che intraprese l’opera di sottomissione di tutta la Gallia, con una conquista durata sette anni, durante la quale scrisse i Commentarii de bello Gallico, cioè sette libri nei quali annotava gli eventi della guerra intervallando ai resoconti militari varie osservazioni di carattere etnografico e geografico sui popoli e le regioni attraversate. Quando i suoi avversari a Roma cercarono di impedirgli di passare direttamente al proconsolato in Gallia ad un secondo consolato, Cesare varcò il Rubicone: questo avvenimento segna l’inizio della guerra civile tra Cesare e il senato romano guidato da Pompeo. L’esercito senatorio viene sconfitto a Farsalo, in Tessaglia nel 48. Anche per questo evento scrisse i Commentarii in tre libri e gli altri tre sono stati aggiunti da continuatori anonimi, che registrano avvenimenti della battaglia di Munda nel 45, dopo la quale Cesare diventa padrone assoluto di Roma, ricoprendo più volte dittatura e consolato. Viene assassinato il 15 marzo del 44, poco dopo la nomina a dittatore a vita. Il commentarius come genere storiografico. Il termine commentarius indicava un tipo di narrazione a metà fra la raccolta di materiali grezzi e la loro elaborazione nella forma artistica, tipica della vera e propria storiografia. Anche Cicerone compose vari commentarii, ma sottolineò che nessuno avrebbe osato a riscrivere quanto Cesare aveva già detto con semplicità. Il commentarius di Cesare andava avvicinandosi alla historia: lo dimostrano la drammatizzazione di certe scene collettive, in cui vengono evocati i sentimenti di entrambi gli eserciti, il ricorso al discorso diretto. Conferisce drammaticità al suo racconto, ma evitando effetti grossolani e plateali. Parla di sé stesso in terza persona, distaccando il protagonista dall’emozionalità dell’ego e lo pone come personaggio autonomo nel teatro della storia. Le campagne in Gallia nella narrazione di Cesare I sette libri del De bello Gallico comprendono il periodo dal 58 al 52, cioè gli anni della sottomissione della Gallia. Tratta della campagna contro gli elvezi, che con i loro movimenti migratori avevano offerto a Cesare il pretesto per iniziare la guerra; in seguito, racconta la rivolta delle tribù galliche e la campagna contro le popolazioni situate sulla costa atlantica; continua registrando le operazioni contro le infiltrazioni dei popoli germanici che avevano passato il Reno, per poi fornire un resoconto delle due spedizioni contro i britanni, accusati di fornire aiuti ai galli; narra la campagna contro le popolazioni della Gallia Belgica e, infine, descrive la fine della resistenza gallica con l’espugnazione di Alesia e la cattura di Vercingetorige, il re degli averni che aveva guidato il tentativo di insurrezione. Incerti sono i tempi della composizione: c’è chi dice che sia stata scritta tra il 52-51 e chi pensa che sia stato scritto durante il periodo di sottomissione. Questa seconda ipotesi appoggia le contraddizioni interne all’opera e ci fa capire la sensibile evoluzione stilistica riscontrabile. congiura, ma viene tradito e scappa → in senato, intanto, si dibatte sulla sorte dei congiurati arrestati e spiccano i discorsi di Cesare e Catone: il primo chiede una condanna mite, mentre il secondo una condanna a morte. Catilina cerca di rifugiarsi in Gallia, ma viene scoperto, costretto alla battaglia, dove muore. Dai discorsi che pronuncia affiorano i motivi della crisi dello stato romano: da una parte i potenti che monopolizzano cariche politiche e ricchezze, dall’altra una massa senza potere, coperta di debiti e priva di vere prospettive future. Catilina aveva intravisto la possibilità di coalizzare un blocco sociale contro il regime senatorio e tutta la rappresentazione dell’ambiente in cui maturò la congiura è dominata dalla componente moralistica, percepibile nel ritratto di Catilina; Sallustio conduce un’analisi della decadenza repubblicana: nell’ampio ex cursus che prende il nome di “archeologia” la causa del degrado consiste nella fine del metus hostilis, il timore verso i nemici esterni, cessato con la distruzione di Cartagine, che tenendo unite le forze dello stato aveva garantito la conservazione dei costumi antichi. In questo processo Sallustio attribuisce un ruolo di rilievo alla figura del dittatore Silla e delle sue proscrizioni. In un secondo ex cursus denuncia la degenerazione della vita politica romana nel periodo che va dalla dominazione di Silla alla guerra tra Cesare e Pompeo → da un lato i demagoghi fanno promesse alla plebe, dall’altra gli aristocratici combattono solo per consolidare e ampliare i propri privilegi. Sallustio vedeva in Cesare una possibilità per porre fine alla crisi, rinsaldando la concordia fra i ceti, restituendo dignità a un senato ampliato con uomini nuovi → purificazione della figura di Cesare, che si pronuncia in sanato contro la condanna a morte dei complici di Catilina appellandosi a considerazioni legalitarie. Significativa è anche la contrapposizione dei ritratti di Cesare e Catone, due personaggi avversi (nella sua riflessione), ma anche complementari, entrambi positivi per lo stato romano. Il Bellum lugurthinum: Sallustio e l’opposizione antinobiliare. Quest’opera mette in luce le responsabilità della classe dirigente aristocratica, la cui insolenza venne per la prima volta nella guerra contro Giugurta (111-105 a.C.). Giugurta era un cadetto della nobiltà africana e, dopo essersi impadronito del regno di Numidia, aveva corrotto con il denaro gli esponenti dell’aristocrazia romana, inviati in Africa per sconfiggerlo. Il suo luogotenente Mario, dopo i successi di Metello, viene eletto console nel 107, ricevendo l’incarico di portare a termine la guerra in Africa e modifica l’esercito arruolando i capite censi, cioè proletari non soggetti a tassazione perché privi di averi. La guerra si conclude quando Bocco, re di Mauritania, tradisce Giugurta e lo consegna ai romani. Nella sua opera Sallustio introduce un ex cursus, che indica nel regime dei partiti la causa prima della dilacerazione e della rovina della repubblica: in particolare, il suo bersaglio è la nobiltà → traspare la preoccupazione di non condannare la politica dei Gracchi completamente, ma solo gli eccessi. Nella sua opera, però, Sallustio non parla dell’ala aristocratica favorevole a un impegno attivo nella guerra, la parte più legata al mondo degli affari e più incline alla politica di imperialismo espansionistico. Le linee direttive della politica dei populares sono esemplificate nel discorso di Memmio, che protesta contro la politica inconcludente del senato, e di Mario che convince la plebe ad arruolarsi in massa. Memmio invita il popolo alla riscossa contro l’arroganza dei pauci, ovvero l’oligarchia dominante, ed elenca i mali del regime aristocratico: il tradimento degli interessi della repubblica, la dilapidazione del denaro pubblico, la monopolizzazione delle ricchezze e delle cariche. Il motivo centrale del discorso di Mario è fornito dall’affermazione di una nuova aristocrazia, quella della virtus fondata sui talenti naturali di ciascuno e sul tenace impegno a svilupparli → si richiama ai valori antichi che hanno portato alla grandezza di Roma. Il giudizio complessivo di Sallustio su Mario è comunque ambiguo: Sallustio non sembra approvare l’arruolamento dei capite censi e vede nel proletariato militare un inquinamento di quella virtus che Mario esalta nel suo discorso. Per quel che riguarda il ritratto di Giugurta, Sallustio non nasconde una perplessa ammirazione per l’energia che possiede, segno di virtus. Il personaggio è rappresentato in evoluzione perché la sua natura non è contaminata dall’inizio, ma lo diviene a partire dall’assedio di Numanzia, nel quale combatte sotto l’ordine di Scipione Emiliano. Le Historiae e la crisi della res publica. Le Historiae iniziavano nel 78 a.C., ma non sappiamo quando finirono. Si tratta di un’opera (per noi perduta, ma nota fino al V secolo) diversa dalle precedenti, di forma annalistica e che influenzò molto la cultura augustea. Si tratta di quattro discorsi e di due lettere, una di Pompeo e una di Mitiridate VI, sovrano orientale, il quale afferma che le guerre romane sono dovute alla sete di ricchezze che possiedono i romani. Abbiamo anche frammenti di carattere etnografico e geografico; nel proemio Sallustio riconosce nell’esaurirsi della paura del nemico, accaduto con la fine delle guerre puniche, l’inizio della decadenza romana: solo la paura per Cartagine poteva mantenere la coesione della società romana. Le Historiae sono dominate dalla paura per la corruzione dei costumi e, dopo l’uccisione di Cesare, lo storico non ha più una parte dove schierarsi e non spera nemmeno più in un salvatore per Roma. Lo stile di Sallustio Nasce un nuovo stile storico → elaborò uno stile basato sull’inconcinnitas (il contrario della ricerca ciceroniana) sull’uso frequente di antitesi e asimmetrie, producendo un effetto di gravitas maestosa. Un altro elemento importante è l’arcaismo → non solo la scelta di parole desuete, ma anche la ricerca di una concatenazione delle frasi di tipo paratattico: i pensieri vengono giustapposti come blocchi autonomi di una costruzione, vi è un gusto per l’accumulo di parole quasi ridondanti, creando un’allitterazione. L’esigenza di sobrietà imponeva la rinuncia ad una serie di effetti drammatici, ma questa apparente limitazione approda ad una drammaticità intensa proprio perché più controllata. Anche i personaggi, Giugurta e Catilina, sono personaggi tragici. Le Epistulae e l’Invectiva. Le sue opere ottennero un successo immediato e rilevante. I suoi manoscritti ci conservano una Invectiva in Ciceronem, che anche Quintiliano considerava autentica, anche se si pensa sia di età augustea. Ugualmente spurie sono le due Epistulae ad Caesarem trasmesse anonimamente in un codice contenente lettere e discorsi tratti dalle opere sallustiane → lo stile è quasi più sallustiano di quello di Sallustio e il contenuto è prevedibile: irrisione violenta di Cicerone e suggerimenti a Cesare affinché restituisca la pace. Capitolo 5 Lucrezio, la vita e le opere Sulla sua biografia non abbiamo notizie certe. Probabilmente è nato intorno al 96 a.C. ed è morto suicida nel 43 a.C., dopo aver scritto alcuni libri nei momenti di lucidità lasciatigli da una pazzia dovuta ad un filtro d’amore. Probabilmente di origine campana, non si sa niente della sua classe sociale di provenienza. L’unica opera lucreziana che abbiamo è il De rerum natura, cioè sei libri in esametri incompiuta. L’epicureismo romano, il poema didascalico Era un seguace dell’epicureismo, una filosofia fondata nel III secolo a.C. da Epicureo, il quale insegnava che gli dei esistono, ma senza intervenire nelle vicende umane, che sommo bene è il piacere al quale si arriva attraverso l’atarassia, cioè l’indifferenza alle passioni. Queste concezioni molto rischiose sia per l’organizzazione romana dei culti, sia per il fondamento della repubblica, trovano seguaci tra gli aristocratici, spesso impauriti dalla lotta fra i partiti inclini a ritirarsi in una vita appartata. Lucrezio sceglie di scrivere un poema epico-didascalico, che riprende i modelli greci antichi. Questa scelta sorprende anche in ragione della condanna, espresso dallo stesso Epicuro, dalla poesia, ritenuta fonte di inganni e ostacolo alla comprensione razionale dell’universo. Lucrezio pensò ad una tradizione poetica solenne per il desiderio di parlare anche agli strati più alti della società e vide nella dolcezza della poesia un antidoto al sapore amaro di una dottrina ardua, potenzialmente capace di impaurire i lettori. Il titolo del poema De rerum natura traduce quello dell’opera di Epicuro Sulla natura, di cui restano solo i frammenti. I sei libri dell’opera sono articolati in tre gruppi di due: la prima e l’ultima coppia trattano della fisica e del cosmo, la seconda dell’antropologia e della psicologia. Dopo l’inno a Venere, personificazione della forza generatrice umana, inizia l’esposizione dei principi fondamentali: gli atomi si muovono nel vuoto e urtandosi danno origine alle aggregazioni dei corpi e dei mondi. Nascita e morte sono costituite da questo processo di aggregazione e disgregazione e il moto degli atomi è rettilineo, ma interviene una inclinazione che rende ragione delle aggregazioni e della libertà del volere umano. L’anima muore con il corpo e la vita dopo la morte, insieme alle punizioni dell’aldilà sono favole. Il continuo movimento degli atomi, che produce l’invecchiamento, fa sì che dai corpi si stacchino i simulacra, aggregati di atomi e da qui nascono la conoscenza e le passioni d’amore. Anche il nostro mondo è mortale e Lucrezio introduce una digressione sull’origine dell’umanità, per poi spiegare la natura dei diversi fenomeni fisici, come i fulmini, che non vanno attribuiti alla volontà divina. Inoltre, narra della peste di Atene del 430, ultima parte dell’opera. Con quest’opera ambisce a spiegare ogni aspetto importante della vita del mondo e dell’uomo, e a convincere il lettore della validità della dottrina epicurea. Lucrezio poeta-vate Il lettore-discepolo viene continuamente esortato affinché segua il percorso educativo che l’autore gli propone. Il suo messaggio, basato sulla spiegazione dei fenomeni, vuole distruggere ogni superstizione, fondata sullo stupore per ciò che non si capisce razionalmente e il lettore deve reagire a questi insegnamenti, divenendo consapevole dello spettacolo della natura e ad emozionarsi → il lettore è chiamato a trasformarsi in eroe: la necessità di una forma di eroismo della mente è il principio che informa la didattica epicurea; infatti, Epicuro viene rappresentato come un eroe, come colui che ha saputo liberare l’umanità dalle superstizioni. Lucrezio stesso presenta il proprio impegno con un entusiasmo quasi divino, che dovrà essere presente anche nel suo allievo. Lo stile di Lucrezio non è solo quello emozionante del sublime, ma uso anche lo stile aggressivo e violento della diatriba, una forma di insegnamento filosofico → nel finale del libro III a prendere la parola è la Natura stessa, indignata che l’uomo mostri così tanto attaccamento alla vita, e si lancia in un violento discorso contro l’assurdo vivere degli uomini, dominato dall’angoscia; Lucrezio mette in ridicolo la passione amorosa. Invita il lettore a riflettere sulla crudeltà della religio tradizionale, quella che aveva imposto al re Agamennone di sacrificare la figlia Ifigenia perché fosse assicurata alla flotta greca la partenza per Troia. Il culto degli dei porta a delle assurdità e lo stesso animale che si sacrifica per gli dei risente delle conseguenze negative della religio → se gli uomini sapessero che dopo la morte non c’è nulla, allora smetterebbero di essere succubi della superstizione religiosa ed è il timore della morte a dover essere eliminato; allo stesso modo è necessario liberarsi da idee come il concetto di provvidenza, incompatibile con il meccanicismo epicureo. Il corso della storia Lucrezio dedica un’ampia parte dell’opera alla storia del mondo, originato da una casuale aggregazione di atomi e distruzione del mondo, per poi parlare dell’origine della vita sulla terra e eterno patto di santa amicizia, ma il continuo tradimento produce in lui un doloroso dissidio fra la componente sensuale e quella affettiva. Un’altra testimonianza di questo sentimento è il carme 85 odi et amo Odio ed amo “Come lo faccia, forse chiedi. Non so, ma sento che accade e mi tormento.” I carmina docta. Nuova poetica ispirata a brillantezza di spirito e raffinatezza formale, rivela la sua ascendenza alessandrina/callimachea, soprattutto nel carme 95 in cui annuncia la pubblicazione del poemetto Zmyrna. La nuova epica dei poemetti neoterici, l’epilio, il poemetto breve permette al poeta di sfoggiare la sua preziosa dottrina. Quest’ultima, insieme all’impegno stilistico, sono evidenti nei carmi dotti, in cui Catullo sperimenta anche nuove forme compositive, dando prova di raffinata sapienza strutturale. Il carme 64 è un epilio e narra il mito delle nozze di Peleo e Tetide, ma nella vicenda principale contiene un’altra storia, ovvero quella dell’abbandono di Arianna a Nasso da parte di Teseo. L’intreccio delle due vicende d’amore, la prima positiva e la seconda negativa, istituisce fra di esse una serie di relazioni che hanno il loro nucleo nel tema della fides. Il tema è una proiezione e simbolo delle aspirazioni morali del poeta. Anche il carme 63 è un epilio e si ispira alla vicenda del giovane Attis che si mutila della sua viralità per farsi sacerdote di Cibele, per poi pentirsene. Non è scritto in esametri, ma in galliambi, un metro lirico alessandrino usato per esprimere la frenesia orgiastica del culto di Cibele. Nel ciclo dei carmina docta Catullo si cimenta anche in un altro genere letterario di derivazione greca → l’epitalamio, cioè il canto nuziale. A questo genere appartengono i carmi 61 e 62: mentre il primo fu scritto in occasione delle nozze di due nobili romani, il carme 62 non è composto per un’occasione reale e rivela una più marcata impronta letteraria e una maggiore adesione ai caratteri formali del genere. È presente anche un omaggio a Callimaco → carme 66, traduzione in versi latini di un’elegia nota come Chioma di Berenice, in cui celebrava la cortigiana escogitazione di Conone, che aveva identificato una nuova costellazione da lui scoperta con il ricciolo offerto come ex voto della regina Berenice per il ritorno del marito dalla guerra, e successivamente scomparso. Nel tradurre la vicenda del catasterismo, introduce temi centrali della sua ideologia. A questo carme è strettamente legato il carme 65, ovvero un biglietto in distici elegiaci dell’amico Ortensio Ortalo per accompagnare la traduzione di Callimaco: Catullo giustifica l’invio della traduzione con la disperazione per la morte del fratello. Molto complesso è il carme 68 → riassume i temi principali della poesia di Catullo, come l’amicizia e l’amore, l’attività poetica e il suo rapporto con Roma, il dolore per la morte del fratello. Lo stile La lingua di Catullo è una combinazione di linguaggio letterario e colloquiale: il lessico della lingua parlata è assorbito e filtrato da un gusto aristocratico che li raffina e li impreziosisce. Utilizza un’ampia gamma di modalità espressive → i carmina docta, rispetto a quelli brevi, utilizzano un lessico che punta a dare un carattere più spiccatamente letterario. PARTE TERZA: L’ETÁ DI AUGUSTO Il contesto: dal 43 a.C. al 17 d.C.: caratteri di un periodo Dalla grande paura alla pace augustea L’età augustea comprende il periodo che va dalla morte di Cesare (44 a.C.) alla morte di Augusto. Il periodo tra il 44 a.C. e la battaglia di Azio nel 31 a.C. vede come protagonisti gli eserciti di Ottaviano e Antonio, che portarono la ferocia delle guerre civili anche nelle province. Il tema ricorrente delle opere di quel periodo è la grande paura → poeti come Virgilio e Orazio, fin da giovani, furono tra le vittime della crisi: il primo avrebbe perso i suoi terreni, per poi recuperarli solo successivamente; il secondo combatte nella battaglia di Filippi nel 42, per poi diventare negli anni successivi un reduce senza posizione definita. Trovarono protezione con Ottaviano, il quale promette ordine e ricostruzione nazionale, che troveranno una piena realizzazione dopo la battaglia di Azio. Da quel momento nasce e prende forma una poetica che noi chiamiamo ideologia augustea, una cooperazione politico-culturale fondata sulla partecipazione attiva degli intellettuali. Il nuovo eroe epico è Enea, il quale celerà nel suo animo i gravi tormenti di chi è chiamato a fondare la città del futuro, attraverso la guerra e lacerato dai sensi di colpa. Il ricordo delle guerre civili sarà cancellato dalla propaganda augustea: secondo la Res gestae Divi Augusti, ovvero il testamento politico in cui Augusto darà l’interpretazione ufficiale dei fatti, il giovane Ottaviano ha vendicato l’uccisione del padre adottivo (a Filippi nel 42), per poi combattere contro Cleopatra. Sul piano letterario sceglie le giovani promesse e le incoraggia a comporre opere: la poesia romana si sente pronta a competere con i grandi autori della Grecia classica e ad ogni testo poetico si sceglie modelli illustri, alcuni con l’intenzione di sostituirsi a loro → l’intenzione di Virgilio è quella di creare a Roma un’opera importante quanto quella di Omero. Il confronto con i greci comportava anche uno sforzo di allargamento dei temi.Lo sviluppo della dimensione privata è un altro elemento importante nel periodo che va da repubblica a principato → ci spiega il perché del genere elegiaco, poesia che presuppone un modello di vita estraneo ai doveri e alla partecipazione politica. È anche vero però che non esiste un immediato e necessario conflitto tra ideologia ufficiale e ideologia elegiaca, ma c’è una certa divisione dei ruoli. Il poeta può rivolgersi ad Augusto con gratitudine; grazie a chi si occupa delle cose serie, l’Amore può finalmente essere una cosa seria, cioè un elemento a cui il poeta può interessarsi. L’ultima fase del regno di Augusto è tempestosa e anche il clima letterario è diverso → dopo Virgilio la poesia sembra dividersi: o è celebrativa o è apolitica e disimpegnata. Il principale poeta di quest’ultima fase è Ovidio: egli fornisce dignità letteraria a una cultura modernizzante, libera da moralismi e ritorni alle origini. Lo sfondo politico e i circoli poetici Mecenate è il vero centro di attrazione di tutta la generazione poetica augustea. Nato ad Arezzo, era aristocratico e borghese: di nobilissima famiglia etrusca, non occupò mai vere e proprie cariche ufficiali, evitando di integrarsi nel sistema politico di Agusto. Il suo circolo promuove una letteratura nazionale che mantiene un forte impegno ideale. Capitolo 1 Virgilio, la vita e le opere Nasce vicino a Mantova nel 70 a.C. da una famiglia di piccoli proprietari terrieri, per poi formarsi a Napoli e a Roma. Compone le Bucoliche, una raccolta di dieci componimenti pastorali la cui datazione è legata ad un episodio della biografia del poeta non del tutto chiaro → i contadini mantovani sono stati espropriati delle loro terre nel 41 a.C., quando Ottaviano e Antonio ordinarono la confisca di terreni destinati ai soldati che avevano combattuto a Filippi l’anno prima. Dopo la pubblicazione di questa opera, entra nella cerchia degli intimi di Mecenate e Ottaviano e nelle sue opere scompare la figura di Asinio Pollone. Nel periodo che va fino alla battaglia di Azio lavora alle Georgiche, un poema diviso in quattro libri di esametri sulla campagna, il ritorno alla terra e ai valori tradizionali collegati a quel mondo. È stato concluso intorno al 29, quando Virgilio può leggerlo ad Ottaviano che era di ritorno dalla campagna orientale contro Antonio e Cleopatra. Da questo momento si concentra sull’Eneide, il poema che celebra la pace portata da Roma al mondo, ma muore a Brindisi nel 19 a.C. → giudicata incompiuta, chiederà ad Augusto di distruggerla, ma lui affida la revisione e la pubblicazione a Vario Rufo portando l’opera ad un successo immediato. Le Bucoliche. Bucolica “canti dei bovari” è una parola di origine greca che appartiene ad un genere letterario in cui vi è la rievocazione di uno sfondo rustico in cui i pastori sono messi in scena come attori e creatori di poesia. L’opera è ispirata agli Idilli di Teocrito (III sec. a.C., Alessandria d’Egitto) ed è il primo libro interamente dedicato a questo genere letterario → la sua originalità è rivendicata da Virgilio all’inizio della VI egloga, con un atteggiamento tipicamente callimacheo, in contrapposizione alle grandi imprese poetiche dell’epopea. Vi è uno studio ricercato del poeta siracusano, dei suoi imperatori greci del II-I secolo e dei suoi commentatori. Interiorizzazione del genere bucolico → assimila i codici fino a realizzare nell’opera una trama di rapporti talmente complessa col suo modello da essergli realmente alla pari. Le Bucoliche sono il primo tentativo della letteratura augustea, di cui riescono già a interpretare l’esigenza di fondo, rifare i resti greci trattandoli come classici. Le ecloghe → la I egloga è un dialogo fra due pastori: Melibeo e Titiro; il primo è costretto ad abbandonare i campi che le confische gli hanno sottratto, mentre Titiro può restare grazie all’aiuto di una giovane di natura divina. La II contiene il lamento d’amore del pastore Coridone che si strugge per il giovane Alessi. La III è una tenzone poetica fra due pastori svolta a botta e risposta. La IV è il canto profetico per la nascita di un fanciullo che vedrà la nuova età dell’oro. La V è un lamento per Dafni, eroe pastorale morto per amore e quindi assunto tra gli dei. La VI è preceduta da una dichiarazione di poetica che introduce la seconda metà del libro; all’interno di essa il vecchio Sileno, catturato da due giovani, canta l’origine del mondo e una serie di miti. Nella VII Melibeo racconta la gara di Tirsi e Coridone. L’VIII è dedicata ad Asinio Pollione ed è una gara di canto divisa in due storie d’amore infelice: il lamento di Damone e le pratiche magiche di una donna innamorata. La IX è simile alla prima, con richiami della campagna mantovana. Nella X Virgilio cerca di confortare le sofferenze d’amore del suo amico Cornelio Gallo, che ha lasciato Roma per rifugiarsi in Arcadia. Fra i singoli carmi sussistono parallelismi → le ecloghe di argomento simili sono concepite a coppie poste a distanza. In omaggio al principio della poikilia, cioè la varietà, la raccolta di Teocrito si allargava a un repertorio ampio di temi, ambienti e situazioni → Virgilio sfrutta poco questi elementi perché le Bucoliche sono concentrare sullo stilizzato mondo dei pastori e orientano in senso più specifico la parola “idillio”, cioè “breve componimento”: i toni dei paesaggi sono meno intensi e gli stessi pastori sono figure delicate → con quest’opera si diffonde il mito dell’Arcadia. Questa operazione riduce i confini del genere idillico, i temi che possono essere affrontati da questa poesia tenue e il tutto viene visto attraverso la visione primitiva dei pastori; la storia e la città sono viste come entità spaventose e incomprensibili. L’atmosfera è malinconica e triste → il dramma dei pastori esuli nelle egloghe I e IX contiene un nucleo di esperienza personale. L’egloga IV ha dato origine a un enigma sull’identità del puer, destinato a riportare l’età dell’oro sul mondo in crisi → l’egloga si inserisce nell’età di crisi fra Filippi e Azio; Virgilio ha attinto a fonti non poetiche in cui si mescolano influssi filosofici e presenza di dottrine messianiche. I più ritengono che la figura di questo giovane salvatore debba avere un referente prossimo e concreto: l’egloga è datato al consolato di Assinio Pollione nel 40 a.C. e l’ipotesi migliore è che il bambino dell’egloga fosse atteso in quell’anno, ma non sia mai nato → quindi probabilmente era riferito ad un figlio maschio mai nato tra Antonio e la sorella di Ottaviano. La VI è l’opera più vicina alla poetica alessandrina: il canto del Sileno è un omaggio al poeta Cornelio Gallo, il quale ritorna nell’egloga X come poeta d’amore. È rappresentato come Roma: Alba sarebbe stata fondata da Ascanio/Iulo, figlio di Enea. Da lui discendeva la gente Giulia, la famiglia di Cesare, e per adozione di Ottaviano Augusto. Riassunto: 1) Una tempesta, voluta da Giunone, costringe Enea, con l'aiuto di Venere (sua madre) ad approdare vicino a Cartagine e a chiedere ospitalità alla regina Didone; 2) Enea racconta la sua fuga da Troia con il padre Anchise, il figlio e i simulacri degli dei Penati, ma la moglie Creusa muore; 3) Enea prosegue il racconto del viaggio tra l'Egeo e il Mediterraneo e racconta la morte di Anchise; 4) Enea lascia di nascosto Cartagine, ingannando Didone dopo averle promesso di sposarla, e la regina si uccide dopo averlo maledetto; 5) Enea e i suoi compagni approdano in Sicilia e celebrano i giochi funebri in onore di Anchise; 6) (CANTO MOLTO IMPORTANTE) Enea arriva a Cuma in Campania e incontra la Sibilla che gli permette di scendere nel regno dei morti (Averno) dove incontra l'ombra di Didone, quella di alcuni suoi amici troiani r soprattutto l'ombra di Anchise che gli predice il suo futuro, quello di molti eroi romani, arrivando a predire l'impero di Augusto; 7) Enea arriva nel Lazio e strige amicizia col re Latino, ma ancora per intervento di Giunone, si crea una grave discordia tra Enea, la moglie di Latino, Amata, e Turno, re dei Rutuli a causa di Lavinia, figlia di Latino e promessa sposa a Turno, Il tutto porta ad una guerra tra i troiani e una coalizione di popoli latini guidati da Turno; 8) Enea riesce ad allearsi con un piccolo popolo, gli Arcadi, che già erano in lotta contro Mezenzio, alleato di Turno. Inoltre, Enea si allea anche con il potente popolo degli Etruschi. Intanto gli dei gli fanno dono di una corazza che porta incisa la storia di Roma; 9) Turno, mentre Enea sta creando queste alleanze, sconfigge in alcune battaglie i Troiani. Episodio di Eurialo e Niso (che sarà ripreso dall'Ariosto nell' Orlando nell'episodio di Cloridano e Medoro); 10) Mentre Enea torna a combattere, Turno uccide il suo amico Pallante, figlio del re degli Arcadi, e indossa il suo balteo (la cintura al fianco dove si appendeva la spada) Enea a sua volta uccide Mezenzio; 11) Enea piange la morte di Pallante ma cerca di ottenere la pace, Turno la nega e la guerra continua. Durante questa battaglia muore Camilla, la regina delle Amazzoni, alleate dei Latini; 12) La guerra riprende mentre Giunone e Giove litigano sulle sorti della guerra che sembrano volgersi a favore di Turno e della lega latina, ma poi Giunone e Giove fanno pace e tutto si risolve con un duello tra Enea e Turno. Enea vince e vorrebbe risparmiare io re dei Rutuli, ma, quando vede che porta addosso il balteo di Pallante, lo uccide. I vari popoli si riconciliano, Enea sposerà Lavinia. La guerra è stata rappresentata da Virgilio come uno scontro tra i troiani, coalizzati con etruschi e una piccola popolazione greca, contro i lati insieme a numerosi popoli italici. In questo modo Virgilio muove tutte le grandi forze da cui nascerà l’Italia del suo tempo → nessun popolo è escluso da un qualche contributo positivo alla genesi di Roma e per questo l’Eneide è un’opera di denso significato storico-politico, ma non un poema storico. Taglio dei contenuti è dettato da una soluzione drammaturgica che ricorda Omero. Inoltre, l’opera non traccia un quadro completo della biografia di Enea. Il nuovo stile epico Virgilio plasma il suo esametro come strumento di una narrazione lunga e continua per evitare gli eccessi restrittivi dei suoi predecessori → la frase di libera dalla schiavitù nei confronti del metro. La tradizione del genere epico richiedeva un linguaggio elevato, staccato dalla lingua d’uso → termini arcaici e solenni + stile di Virgilio è fatto di parole non marcatamente poetiche e la novità stava nei nuovi collegamenti che Virgilio imponeva a queste parole. La sperimentazione sintattica lavora su un lessico che sa mantenersi semplice e diretto → le parole subiscono una forzatura di significato. Gli epiteti tendono a coinvolgere il lettore nella situazione e la narrazione suggerisce più di quello che dice esplicitamente e il lettore è chiamato a collaborare → aumento di soggettività, che rischierebbe di disgregare la struttura del poema se non venisse in più modi controllato. Virgilio esplicita la sua discendenza diretta da Omero, ma la forma interna contrasta con la sembianza omerica: l’intento è di imitare all’apparenza Omero ma solo per trasformarlo e superarlo. L’ideologia del poema e le ragioni dei vinti Il poeta è portavoce del progetto di Enea e focalizza il suo racconto su Enea, il portatore di questa missione fatale → Virgilio si assume l’eredità dell’epos storico romano: il suo poema è un’epica nazionale, in cui una collettività deve rispecchiarsi e sentirsi unita. I personaggi sono in contrasto tra loro, la narrazione si adatta a contemplarne le ragioni in conflitto e i sentimenti dei personaggi sono costantemente in primo piano → es. Didone: la guerra con Cartagine non nasce da una differenza, ma da un eccessivo e tragico amore fra simili e Didone è vinta dal destino. Capitolo 2 Orazio, la vita e le opere Nacque nel 65 a.C. a Venosa, una colonia militare romana al confine fra Apulia e Lucania. Si trasferì a Roma, dove frequentò la scuola del grammatico Orbilio, per poi recarsi in Grecia intorno al 55 a.C. per perfezionarsi → viene coinvolto nella lotta, seguita all’assassinio di Cesare, tra repubblicani e cesaricidi. Ottiene da Bruto il grado di tribuno e il comando di una legione, ma la sconfitta di Filippi interrompe la sua carriera militare. Torna a Roma come scrivano di un magistrato e in questo periodo inizia la sua attività poetica: comincia gli Epodi (30 a.C. ca) e intorno al 38, dopo essere stato introdotto nel circolo di Mecenate, si dedica ai due libri di Satire. Dal 30 al 23 lavora ai primi tre libri delle Odi, soggiornando spesso fuori Roma, nella piccola tenuta in Sabina donatagli nel 33 da Mecenate. Aveva rapporti molto stretti con Augusto. In questo periodo pubblica un libro di Epistole (20 a.C.) e pochi anni dopo aggiunge il secondo. Nel 17 scrisse il Carmen saeculre, un inno commissionatogli da Augusto per i ludi saeculares, che celebravano l’inizio di una nuova era. Muore nell’8 a.C. Gli Epodi. L’epodo è il verso più corto che segue un verso più lungo → Orazio li chiama iambi, riferendosi alla poesia giambica greca. Questa produzione è legata alla fase giovanile della sua attività poetica e alle condizioni di vita disagiate del periodo successivo a Filippi → infatti sono presenti toni carichi e linguaggio poetico violento. Orazio rivendica il merito di aver per primo trasferito in poesia latina i metri, piuttosto che gli argomenti, di Archiloco il poeta greco del VII sec. a.C. cui si richiama la poesia giambica. Archiloco dava voce agli odi e ai rancori, alle passioni civili e alle tristezze di un aristocratico greco del VII sec. a.C.; Orazio scriveva nella Roma dei triumviri e sarebbe stato presto nella cerchia di Ottaviano; inoltre era figlio di un liberto → la sua aggressività non può che rivolgersi contro bersagli minori → nell’epodo 10 scrive un carme di buon viaggio a rovescio perché augura a Mevio di fare un naufragio. Orazio lascia in sordina il proprio carattere personale dell’invettiva → la violenza delle minacce e delle maledizioni suona un po’ a vuoto e talvolta può sembrare giocosa. Forse Orazio riteneva opportuno usare lo spirito archilocheo per esprimere ansie e passioni, paure e indignazioni di tutta una generazione e i suoi ultimi testi ci mostrano il clima di diffuso sconforto e instabilità a Roma. Negli Epodi è presente una molteplicità di temi → per esempio troviamo gli epodi erotici, cioè poesie d’amore che svolgono motivi e situazioni della lirica erotica ellenistica, riproducendo anche il linguaggio e l’intonazione patetica Le Satire. Si tratta di due libri molto diversi per tema e andamento. Genere satirico pone al centro dell’attenzione il poeta → voce satirica con cui Orazio parla più volentieri di sé, delle proprie disavventure e dà un tono particolare ai ragionamenti che si vengono svolgendo. Orazio indica Lucilio come inventore del genere satirico e cita Ennio solo come modello di una poesia sublime → Lucilio ci dimostra una notevole trascuratezza formale, anche per l’utilizzo del sermo vulgaris; invece, le satire oraziane sono attente a mantenere il livello di una conversazione colta e il loro stile tende a variare, adeguandosi ai soggetti. Inoltre, il dialogo coinvolge gli interlocutori, anticipa le obiezioni, introduce scene drammatiche e, invece di aggredire (come faceva Lucilio), Orazio analizza i vizi mediante l’osservazione critica e la rappresentazione comica delle persone. Questa ricerca morale permette di individuare una strada per pochi attraverso le storture di una società in crisi → in questo senso la satira oraziana è collegata al circolo di poeti, letterati e uomini politici che si raccoglievano intorno a Mecenate. Il poeta attribuisce agli insegnamenti l’invito ad imparare dal vicino, da chi si incontra per strada, secondo una morale che affonda le sue radici nell’educazione, nel buon senso tradizionale → gli obiettivi fondamentali, che si trovano nella proemiale satira 1,1, sono l’autarkeia, cioè l’autosufficienza interiore e la metriotes, cioè la moderazione. L’aspirazione all’autosufficienza è nel patrimonio di quasi tutte le scuole, impegnate a proteggere l’individuo dai contraccolpi della fortuna. L’epicureismo ha il peso maggiore nelle Satire: l’empirismo e il realismo della morale oraziana non potevano non entrare in conflitto con il rigorismo e l’astrattezza degli stoici. Il II libro riduce la componente rappresentativo-autobiografica. Risulta prevalente la forma del dialogo e il ruolo centrale è ceduto all’interlocutore. La coincidenza fra il poeta e la voce satirica aveva assicurato un punto di riferimento alla ricerca morale del I libro, ma ora che il poeta si ritira, tutti gli interlocutori sono depositari di una loro verità, anche se non tutte le verità sono equivalenti e parecchi discorsi si confutano da soli in una volontaria ironia. Orazio sembra negare alla satira la possibilità di una ricerca morale che individui empiricamente un sistema di condotta soddisfacente e l’equilibrio tra l’autarkeia e la metriotes sembra perduto: il poeta non rappresenta la propria capacità di vivere fra la gente senza perdere la propria identità morale, ma permette ai suoi interlocutori di denunciare le debolezze e le incoerenze delle sue scelte. L’unico rifugio è la villa sabina, dove non deve continuamente fare i conti con le contraddizioni della vita di Roma. Le Odi. La poesia è per il poeta un momento intimo, un’espansione dell’io, ma è anche vero che si deve sempre rivolgere a qualcuno e non immaginarsi solo → attraverso l’impostazione dialogica. Riprende la lirica greca arcaica, infatti diverse odi di Orazio partono con una citazione, però progressivamente il poeta si distacca dal modello, che viene quasi dimenticato: per esempio l’ode a Taliarco ricorda un frammento di Alceo: ad esso, come in Alceo è connesso un invito a bere. I versi di Alceo erano espressione degli amori e degli odi di un aristocratico di Lesbo, impegnato in prima persona con aspre lotte politiche della sua città, infatti la sua è una lirica che implica semplicità di temi e di linguaggio; in Orazio invece è vivo l’interesse per la res publica → l’aspetto privato della sua poesia non era superabile dalla ricerca della felicità interiore. La lirica oraziana è scritta per la lettura, descrive situazioni spesso immaginate o stilizzate e aspira a un grado elevato di raffinatezza e di sofisticazione letteraria. La sua lirica prescinde dall’esperienza ellenistica, da cui deriva un vasto repertorio di temi, immagini, situazioni e al mondo ellenistico attinge elementi centrali della sua cultura, della sua ideologia e della sua sensibilità di poeta. questo aspetto conservando tratti oggettivi che generalizzano la storia personale in una visione più ampia, e darà spazio ad elementi assorbiti da altri generi letterari. L’elegia tende ad inquadrare le singole esperienze in forme e situazioni tipiche, secondo moduli ricorrenti. L’amore è per il poeta l’esperienza unica che riempie l’esistenza e le dà senso; la vita del poeta si configura al servizio della “padrona” capricciosa e infedele e la relazione con lei è fatta di rare gioie e molte sofferenze → le amarezze e le continua delusioni lo portano a proiettare la propria vicenda nel mondo puro del mito. Il poeta pratica una vita di degradazione: ripudia i suoi doveri civili, contrapponendo alla durezza della guerra, le mollezze dell’amore. Così come per Catullo, la relazione d’amore tende a configurarsi come un legame coniugale vincolato dalla fides, salvaguardato dalla pudicitia, diffidente della luxuria e delle raffinatezze cittadine. La poesia, che nasce dall’esperienza diretta del poeta-amante, deve assolvere una funzione pratica, servire come mezzo di corteggiamento, cooperare a sedurre l’amata col miraggio della fama e di una gloria immortale. Sempre da Catullo l’elegia eredita il senso della sua rivolta morale, il gusto dell’otium, della vita estranea all’impegno civile e politico. Tibullo, la vita e le opere Nato tra il 55-50 a.C. nel Lazio rurale, sarebbe morto intorno al 19 a.C. ca. Di famiglia agiata, apparteneva al ceto equestre e fu amico e protettore di Messella Corvino, un politico repubblicano che Tibullo seguì in alcune campagne militari. Sotto il nome di Tibullo ci è giunta una raccolta di elegie in tre libri, il Corpus Tibullianum, che unisce componimenti autentici a testi dichiaratamente di altri autori → probabilmente questi testi derivano dal circolo di Messalla. Il canzoniere di Tibullo è dominato dalla presenza della donna amata, Delia, il cui nome era uno pseudonimo; la donna era descritta come volubile, capricciosa, amante del lusso e la sua relazione con il poeta è tormentata, sempre insediata dai rischi del tradimento. Nel II libro compare Nemesi, “Vendetta”, una figura dai tratti più aspri, cortigiana avida che ha scalzato Delia dal cuore del poeta. Il mito della pace agreste Tibullo è noto come poeta agreste → già nell’elegia di apertura del I libro dichiara la sua scelta di vita di pauper agreste, cioè contadino dai beni modesti, ma capace di vivere l’amore con intensità e di fare poesia. È presente anche la vita cittadina, che fa da sfondo agli amori ed intrighi. Tendenza tipica della poesia elegiaca è quella di costruirsi uno spazio di evasione, rifugio dalle amarezze di un’esistenza tormentata e la tensione trova sfogo nel mito. In Tibullo il mito è assente e la sua funzione è svolta dal mondo agreste → bisogno del rifugio, di uno spazio intimo e tranquillo; a tutto ciò è riconducibile l’altro elemento importante nella sua poesia, ovvero la pace → antimilitarismo. Tibullo poeta doctus Il suo stile rivela lo sforzo di una scrittura attentissima, la cui semplicità è lo sforzo di una scrittura attentissima; il ritmo presenta una cadenza regolare, che spesso acquista quasi la risonanza di una rima quando il suono che chiude la seconda metà del pentametro riecheggia la chiusa dalla prima. Purezza lessicale, fluida movenza dei pensieri, toni tenui e delicati, sorriso lievemente ironico. Corpus Tibullianum Lìgdamo I primi sei componimenti del III libro del Corpus Tibullianum, indirizzati alla donna Neèera, sono opera del poeta che si denomina Ligdamo (pseudonimo). Sappiamo che non si tratta di Tibullo perché l’anno di nascita di Ligdamo è del 43 a.C. → probabilmente Ovidio, ma lo stile e la lingua non sono quelli di Ovidio. Probabilmente poeta della cerchia di Messalla → i componimenti ruotano attorno alla separazione della donna amara ed elaborano motivi ricorrenti della poesia elegiaca. Il Panegirico di Messalla e gli altri componimenti È presente anche un lungo carme di 211 esametri e un gruppo di 13 componimenti, che costituiscono il IV libro. Il carme “Panegirico di Messalla” è un elogio a Messalla Corvino, celebrandone le virtù, probabilmente scritto da un poeta del circolo. Il panegirico è esaltazione di un personaggio. Gli altri tredici componimenti sono attribuiti soprattutto a Tibullo i primi cinque sull’amore di Sulpicia per Cerinto e gli ultimi due. Gli altri rappresentano brevi biglietti d’amore di Sulpicia per Cerinto. Properzio, la vita e le opere Nacque probabilmente ad Assisi fra il 49-48 a.C. da una famiglia benestante, di rango equestre, che dopo le guerre del 41-40 subì molte confische di terre. Properzio si trasferì a Roma entrando nella cerchia di Mecenate intorno al 28 a.C., quando aveva pubblicato il Monobiblos (libro singolo), primo libro di poesie d’amore → il poeta si dice innamorato di Cinzia, pseudonimo di Hostia e anche lei donna che porta l’uomo al tormento. Negli anni successivi sono stati pubblicati il secondo e terzo libro → Cinzia domina ancora il campo, ma la sua relazione con il poeta è segnata da una separazione. Compaiono anche le tracce del rapporto con Mecenate: nella decima elegia il poeta celebra i trionfi militari di Augusto. Nel IV libro torna la figura di Cinzia e si dedica a raccontare miti e riti della tradizione romana italica. Nel nome di Cinzia: il primo canzoniere Properzio si presenta come prigioniero, da un anno, della passione per lei e perciò destinato a una vita dissipata. Cinzia è donna elegante, ricca di cultura, che vive da contigiana negli ambienti mondani → legarsi a questa donna significherebbe compromettersi socialmente e per Properzio questo è un vanto, si compiace della sua sofferenza. L’amore diventa il centro e il valore assoluto della sua vita e Cinzia ne dà un senso. In nome di questa dedizione all’amore, Properzio porta all’estremo il mos maiorum di Catullo → questa accettazione di un destino diverso assume il carattere di una scelta di vita quasi filosofica. Il tipo di amore che Properzio prova, non è l’amore libertino, ma sogna per sé e per Cinzia i grandi amori del mito, le passioni eterne, fin oltre la morte. Ovviamente la realtà è ben diversa dall’immaginazione e il poeta è prigioniero, è sedotto dall’eleganza della donna e al tempo stesso cerca in lei semplicità e fedeltà. Da questa insoddisfazione nasce il bisogno di evasione. Il canzoniere maggiore e il distacco Dopo il successo ottenuto dal primo libellus, Mecenate prova ad orientare Properzio verso nuove forme poetiche → scrisse una nuova raccolta (libro II e III) pubblicata tra il 25 e il 22 a.C. Il II libro si apre con un elegante ma fermo rifiuto del poeta che si dichiara inadatto ad affrontare il poema epico-storico. Eppure, in questo secondo libro l’atteggiamento di Properzio è più complesso, meno lineare: da un lato si intuisce il disagio di una vita nequitia, dall’altro si fa più sofferto il rapporto con Cinzia e maggiore il bisogno di idealizzare la figura. Tale processo raggiunge uno stadio più avanzato nel III libro, dove si nota la presenza di temi meno strettamente legati all’amore + presenza di autoironia sempre più marcata. Il libro si chiude con il definitivo addio a Cinzia. L’elegia civile Gli eventi esterni, la pressione di Mecenate e forse di Augusto stesso e la crisi dell’elegia, spingono Properzio ad un diverso tipo di poesia. Egli non rinnega la poetica alessandrina, non si piega alla poesia epico-storica, ma sviluppa fino in fondo il processo già in atto nel III libro. Sul modello della raccolta di elegie di Callimaco in cui esponeva le origini mitiche e le tradizioni, Properzio studierà l’origine dei nomi e dei culti di Roma → nascita IV libro di elegie. La Roma arcaica, il mondo del mito, sono interpretati secondo il gusto callimacheo, insieme a grazie ed ironia. L’amore e Cinzia non sono assenti: la figura della donna compare per rievocare l’amore di un tempo e a ribadirne l’eternità. Vi è anche una rivalutazione dell’eros coniugale, l’esaltazione degli affetti familiari e delle virtù domestiche. La densità dello stile Il suo stile si caratterizza per la densità metaforica, sperimentazione costante di nuove possibilità espressive. L’eredità callimachea si manifesta nella iunctura della struttura sintattica, complessa, tesa e sforzata fino all’oscurità. Nella sua scrittura ci sono molte lacune, trasposizioni ed è difficile fissare i confini tra un’elegia e la successiva → poesia caratterizzata da ex abrupto, cioè quel procedere per movimenti improvvisi, immagini senza esplicitare i collegamenti, ma seguire logica interna. Capitolo 4 Ovidio, la vita e le opere Nasce a Sulmona nel 43 a.C. da un’agiata famiglia equestre. Frequenta a Roma le migliori scuole di retorica e completa gli studi con un soggiorno in Grecia, per poi tornare a Roma ed entrare nel circolo di Messalla. Dopo il 20 pubblica due opere a sfondo amoroso, in distici elegiaci: gli Amores, raccolta di elegie in cinque libri e la prima serie delle Heroides, ovvero le lettere delle eroine → componimenti epistolari scritte da figure femminili del mito ai loro amanti. Fra il 12 a.C. e l’8 compose la tragedia Medea (perduta) e successivamente tra l’1 a.C. e 1 d.C. pubblica i primi due libri dell’Ars Amatoria, poemetto in distici elegiaci, contenente insegnamenti sull’amore; scrisse poi i Remedia Amoris, ironico controcanto della precedente, in cui insegna come liberarsi dall’amore. Fra il 2 e l’8 d.C. pubblica i 15 libri delle Metamorfosi, poema epico in esametri, che seguendo il motivo delle trasformazioni, passa in rassegna buona parte del patrimonio epico; poco dopo scrisse i Fasti, in distici elegiaci, in cui si descrivono usi e tradizioni romane legate al calendario, ma si interrompe al mese di Giugno → Ovidio, nell’8 d.C. viene condannato da Augusto in esilio sul Mar Nero, nella città di Tomi. Le cause non sono state chiarite del tutto (Ovidio accenna menzionando crimina, carmen et error): probabilmente dietro per accuse di immoralità della sua poesia si volesse parlare di un suo coinvolgimento nello scandalo dell’adulterio della nipote di Augusto, Giulia Minore. In questo periodo scrisse in cinque libri dei Tristia e i quattro delle Epistulae ex Ponto. Morirà a Tomi nel 17 d.C. Poesia e vita reale in Ovidio Resta estraneo alla stagione delle guerre civili, perciò si fa interprete di forme di vita più rilassati, senza contrapporti al regime e alle sue direttive ideologiche, elaborando un tipo di poesia che corrisponde in maniera sensibile al gusto e allo stile di vita raffinato e del suo tempo. Ovidio, a differenza di Tibullo e Properzio, si cimenta in tutti i generi della letteratura, manifestando in questa sperimentazione di varie forme poetiche una diversa concezione tra vita e letteratura. Da questa posizione derivano alcuni atteggiamenti provocatori: l’avventura amorosa di cui si dice protagonista, così come la leggenda mitica, lo interessano come fatti letterari. La concezione della poesia che Ovidio manifesta si caratterizza come antinaturalistica, innovatrice rispetto alla Ovidio vuole essere il Callimaco romano → in questa nuova veste si impegna in dotte e accurate ricerche di svariate fonti antiquarie come Varrone, Livio e altri, attingendo una messe di dottrina antiquaria, religiosa, giuridica, che trova impiego nell’illustrazione di credenze, riti, usanze. Sullo sfondo del carattere antiquario, inserisce materiale mitico di origine greca, con accenni alle vicende contemporanee per far spazio alle vicende erotiche o ai toni giocosi, ironici. L’esilio segna un momento importante per la carriera di Ovidio, che ora è costretto a comporre poesia per sé stesso → ritorna all’elegia, ma non è di tipo amoroso, piuttosto lamentosa e funebre, segnando un ritorno alle funzioni originarie che nella funzione greca si attribuivano al genere. Tratta la sua condizione di esule, la lontananza e cerca di trovare conforto nella scrittura. In questo periodo scrisse l’Ibis, un poemetto in distici elegiaci dove si difende dagli attacchi di un suo detrattore → il poemetto deriva da un omonimo componimento perduto di Callimaco, diretto contro Apollonio Rodio, utilizzando lo stesso impianto compositivo e il carattere erudito. Capitolo 5 Livio, la vita e le opere Nacque a Padova nel 59 a.C.; a Roma entrò in relazione con Augusto, ma senza partecipare alla vita pubblica. Si interessa alla filosofia, per poi dedicarsi tra il 27 e 25 a.C. agli Ab urbe condita libri, cioè 142 libri, di cui ci restano i primi 10, e quelli da 21 a 45, oltre ad alcuni frammenti, come quello sulla morte di Cicerone. La narrazione iniziava dalle origini mitiche di Roma, per arrivare fino al 9 a.C. anno della morte del figliastro di Augusto Druso in Germania, anche se il progetto originario prevedeva forse anche il racconto degli anni fino alla morte di Augusto per un totale di 150 libri. Il piano dell’opera di Livio e il suo metodo storiografico Nei libri Ab Urbe condita ritornava alla scrittura annalistica, rifiutando l’impianto monografico delle prime opere di Sallustio → la narrazione di ogni impresa si estendeva nell’arco di un anno, al compiersi del quale veniva sospesa per raccontare altri avvenimenti contemporanei. L’opera è divisa in decadi, cioè gruppi di dieci libri, i quali sono stati pubblicati in periodi diversi, premettendo dichiarazioni introduttive ad alcuni dei libri con i quali si apriva un nuovo ciclo. Livio ampliava la sua narrazione mano a mano che si avvicinava all’epoca contemporanea: su 142 libri, 85 (per noi perduti) contenevano la storia a partire dall’età graccana → questa dilatazione corrispondeva alle aspettative dei lettori, maggiormente interessati alle vicende più recenti e alla crisi politico-sociale. Le fonti utilizzate sono numerose: per la prima decade, contenente la storia più antica di Roma, c’erano a disposizione gli annalisti (es. Valerio Anziate); le decadi successive, cioè l’espansione di Roma in Oriente, affianca agli annalisti romani lo storico greco Polibio, da cui riprese la visione unitaria del mondo mediterraneo; sporadico pare essere stato l’uso delle Origines di Catone. Mostra una scarsa attenzione a colmare le lacune della tradizione storiografica uno storico fa un lavoro di confronto, invece lui va avanti sulla stessa linea, va dritto su un’idea senza verificare le altre fonti. A Livio è rimproverata la sua condizione di storico letterato, che lavoro di seconda mano sulla narrazione di scritti precedenti e quindi la mancanza di una concreta pratica politica. L’atteggiamento nei confronti del regime Livio pone al centro dei suoi interessi le vicende del popolo romano, un atteggiamento che porta Livio a non rispettare l’oggettività storica per giustificare l’imperialismo romano. Sappiamo da Tacito che Livio copriva di lodi Pompeo e ostentava rispetto verso altri avversari di Cesare, fra i quali Bruto e Cassio. La simpatia per ideali filorepubblicani non destava fastidi in età augustea: Augusto dopo la riforma costituzionale del 27, era più desideroso di presentarsi come restauratore della repubblica, che come erede di Cesare e quindi tollerava il culto dei martiri della res publica. Probabilmente ci fu un accordo di temi fra il regime e lo storico. Per quel che riguarda, per esempio, il tema della libertà, Livio si mostra moderato: esalta la libertà se si tratta, ad esempio, dei greci. Ma nell’affrontare la cacciata dei Tarquini, il suo giudizio si fa più attento e circospetto: la libertà deve essere concessa al popolo a tempo debito. Un altro fatto di convergenza con il principe era costituito dalla politica augustea di restaurazione degli antichi valori morali e religiosi; il consenso di Livio al regime non si traduce in un’adesione incondizionata, ma nella prefatio al primo libro dichiara di cercare una sorta di consolazione, una fuga dai mali del presente. Storico di regime e sosteneva la grandezza imperiale di Augusto. Lo stile della narrazione liviana Nel gusto stilistico si oppose nettamente alla tendenza di Sallustio e si avvicina allo stile di Cicerone. Livio possiede uno stile ampio e fluido, senza artifici e senza restrizioni. Sa conferire nel proprio stile anche un’ammirevole duttilità e varietà: se nella prima decade è più vicino al gusto arcaizzante, nelle parti successive sono predominanti i canoni del nuovo classicismo. Diversamente da Sallustio, Livio lascia largo spazio alla drammatizzazione del racconto. La passione moralistica della concezione della storia deve aver risentito della tradizione storiografica ellenistica: la historia diventa esposizione drammatica della storia e può dunque farsi vera e propria attività retorica → il suo scopo è quello di apparire testimone immerso nei drammi che racconta e dà una serie di notazioni parziali da cui sarebbe difficile garantire l’esattezza; scrivere la storia è far vivere gli uomini che la fanno: se l’autore giudica i suoi personaggi, essi si giudicano l’un lato. Il suo modello storiografico è quello teorizzato da Cicerone nel secondo libro del De oratore → si tratta di uno stile che costruisce un discorso eloquente, fatto da periodi dalla sintassi ampia e scorrevole. Esplicita era l’avversione di Livio per Sallustio, brusca, ellittica fino a diventare oscura e carica di tutta la passione di chi vuole giudicare i fatti. Storiografia di opposizione e storiografia del consenso Asinio Pollione → nato a Teate nel 76 a.C. era stato un potente personaggio politico cesariano e poi seguace di Antonio dopo la morte di Cesare, coprendo il consolato nel 40. Prima di Azio si ritirò dalla vita politica e morì nel 4 d. Viene menzionato dagli antichi per il suo stile duro, caratterizzato da atticismo severo. Sappiamo che la sua opera storica Historiae era divisa in diciassette libri e copriva soltanto il periodo che andava dalla data del primo triumvirato alla battaglia di Filippi. Sono rimasti solo scarsi frammenti, il che rende difficile ricostruire la tendenza della sua storiografia. Sono rimasti anche i velenosi giudizi critici su altri scrittori a lui contemporanei: a Livio rimproverò la Patavinitas, a Sallustio l’eccessivo ricorso agli arcaismi, a Cesare la mancanza di obiettività e a Cicerone lo stile ridondante. Velleio Patercolo → scrisse Historiae ad Marcun Vinicium (console nel 30 d.C.) in due libri, che iniziavano dai tempi più remoti per arrivare fino all’età contemporanea; si tratta di un commosso panegirico delle capacità militari e della sagacia politica di Tiberio, diversamente da come lo descriverà Tacito. Velleio aveva combattuto con Tiberio nelle campagne contro i germani, al comando della cavalleria e rappresenta la posizione lealista della classe militare nei confronti della dinastia regnante. Nella sua opera vi è molta attenzione alla storia culturale e alle modificazioni del costume: informa della penetrazione della cultura greca a Roma, sull’evoluzione dei gusti del pubblico e anche dell’aspetto architettonico delle città. Valerio Massimo → scrisse i Factorum et dictorum memorabilium, nove libri pubblicati intorno al 31-32 che sostengono il regime tiberiano. Più che un’opera storica, è una raccolta di exempla, un prontuario di vizi e virtù destinato alle scuole di retorica. Gli exempla sono suddivisi per capitoli e ogni capitolo è ripartito in sezioni dedicate a romani e stranieri. Curzio Rufo → compose le Historie Alexandei Magni in dieci libri, di cui i primi due perduti e gli altri lacunosi. La datazione della sua opera non è certa, si pensa che abbia scritto sotto il regno di Claudio, poco dopo la morte di Caligola. Il mito di Alessandro Magni fu vivace nella Roma d’età imperiale perché egli era un esempio molto diffuso nelle scuole di retorica e non solo: da tempo la cultura ellenistica lo aveva descritto come eroe. Rufo scrive in uno stile ritmico e pieno di colore, scorrevole come le opere liviane; il suo fine è quello di interessare il lettore e colpirne la fantasia, così il personaggio di Alessandro appare come un misto di crudeltà e di generosità, di virtù e corruzione. Capitolo 6 Erudizione e studi grammaticali in età augustea In età augustea c’è stata una grande diffusione della cultura: i nuovi classici entrano presto nelle scuole e la difficoltà dello stile e la incompiutezza di alcune opere, richiede maggiori commenti e spiegazioni. Vengono fondare tre biblioteche pubbliche e il maggior grammatico del tempo è Valerio Flacco, precettore dei nipoti di Augusto e di cui sono andate perdute le opere: si occupò di questioni erudite, tradizioni dei costumi romani e dei tempi antichi. La sua opera principale, il De verborum significatu, era un glossario alfabetico di termini difficili o desueti. Di questo testo abbiamo solo riduzioni operate da Festo (III sec) e Paolo Diacono (età longobardo-carolingia). Le discipline tecniche Nella cultura latina la prosa scientifica vera e propria era ostacolata dalla retorica e dalla forte tradizione del poema didascalico. Nonostante ciò, la prima età imperiale conosce una discreta fioritura della letteratura scientifica → De architectura. Trattato in prosa scritto da Vitruvio, il quale, architetto e ufficiale del genio sotto Cesare, aveva ottenuto da Augusto una pensione allo scopo di raccogliere la sua esperienza in materia di costruzioni. L’opera, divisa in dieci libri e composta tra il 27 e il 23 a.C., compare appunto negli anni in cui Augusto promuove un programma di rinnovamento dell’edilizia pubblica ed è anche ricca di disegni, che sono andati perduti. Nell’introduzione generale era presentato un ritratto del perfetto architetto, che deve possedere cultura vasta: acustica per la costruzione dei teatri, ottica per l’illuminazione degli edifici e non gli deve mancare la filosofia. Enciclopedia di Celso. → vissuto nell’età di Tiberio, Celso scrisse un manuale enciclopedico dando sistemazione all’agricoltura, medicina, giurisprudenza, oratoria ecc. mette insieme discipline pratiche e teoriche e della sua opera rimangono solo gli otto libri relativi alla medicina. Lo stile è chiaro. De rustica. → di età neroniana è dovuto a Lucio Giunio Moderato Columella (spagnolo) e tratta dell’agricoltura, dell’allevamento, del modo di conservare le provviste; il decimo libro è dedicato ai giardini e scritto in esametri, collegandosi alle Georgiche di Virgilio. L’opera si apre col riconoscimento di una vasta crisi che opprime l’agricoltura italica → cause: disinteresse dei proprietari, inadeguato sfruttamento dei latifondi, mancata preparazione scientifica. Assumono importanza anche gli scritti di geografia → era stata disegnata una gigantesca carta del mondo conosciuto a cura di Agrippa, il genero di Augusto, comandante dell’esercito. Sotto Caligola sarà attivo Pomponio Mela, il primo geografo che scrive un trattato “Chorographia”, cioè descrizione dei luoghi. Adotta uno stile denso e particolare, ricco di figure di stile, che risento dell’imitazione di Sallustio. Prende come spunto di riferimento il mondo mediterraneo a partire dallo stretto di Gibilterra, ma manca di cifre e dati perché è piuttosto mosso da interessi etnografici. raccolte letterarie in prose. Lavorando su questi modelli Fedro rese sistematico quest’uso e creò una regolare forma poetica. Tipico di questo genere è l’uso di animali come maschere, personaggi umanizzati e dotati di una psicologia fissa e ricorrente; è quasi costante la presenza di una morale e le sue morali presentano un tratto originale: il tono amareggiato sembra riportare il punto di vista delle classi subalterne della società romana. È quasi del tutto assente il realismo descrittivo e linguistico. Sono presenti anche spunti legati alla realtà → ricava aneddoti dalla storia e nei prologhi dei singoli libri, manifesta notevole consapevolezza letteraria; difende il suo tipo di poesia, ne esalta le virtù e sottolinea la sua indipendenza dal modello esopico. Sembra anche si sia trovato nei guai per sue certe prese di posizione: dal prologo al libro III si ricava che sarebbe stato perseguitato da Seiano, il braccio destro di Tiberio. Non manca di accenni polemici verso la società e giunge a rivendicare alla sua opera un certo carattere satirico. Le sue favole, divertenti e istruttive, preservano un genere popolaresco. Capitolo 2 Seneca, la vita e le opere Nacque a Cordova, in Spagna, da una ricca famiglia equestre nel 4 a.C. ca. Figlio di Seneca il Vecchio, si stabilirono a Roma, dove ricevette una buona educazione retorica e filosofica in vista della carriera politica. Iniziò la sua carriera di oratore e avvocato; accusato di coinvolgimento di uno scandalo di corte, nel 41 d.C. venne condannato alla relegazione in Corsica dell’imperatore Claudio → in questo periodo di esilio compone le due Consolazioni. Richiamato a Roma nel 49 dall’imperatrice Agrippina, diventerà poi tutore del figlio Nerone, accompagnandone l’ascesa al trono nel 54 e reggendo lo Stato per alcuni anni. In questo periodo scrisse i tre libri del De clementia, una sorta di guida per il regnante indirizzata a Nerone; molto velocemente Nerone inizia a degenerare, uccidendo Agrippina nel 59, così nel 62 Seneca si ritira gradualmente dalla scena. In questo periodo scrisse molte opere cine il De beneficis, il De Otio, De providentia. Gli altri scritti sono tutti raccolti nei dodici libri dei Dialogi, ovvero trattati di singole dissertazioni su specifici temi morali, in cui a volte compaiono brevi obiezioni di un interlocutore. Scrisse anche nove tragedie, di cui sappiamo molto poco. I Dialogi e la saggezza stoica Le opere dei Dialogi costituiscono trattazioni autonome di aspetti o problemi particolari dell’etica stoica. De ira → tre libri; fenomenologia delle passioni umane, ne analizzano i meccanismi di origine e i modi per dominarle. L’opera è indirizzata al fratello Novato al quale dedicherà anche il De vita beata → affronta il problema della felicità e del ruolo che svolgono gli agi e le ricchezze nel suo perseguimento. Sembra voler fronteggiare le accuse di incoerenza che gli venivano mosse fra i principi filosofici professati e la concreta condotta di vita che lo aveva apportato ad accumulare patrimonio enorme. Trilogia dedicata all’amico Sereno → De constantia sapientis, De tranquillitate animi, De otio. Il primo è un dialogo che esalta l’imperturbabilità del saggio stoico; il secondo affronta il problema nella riflessione filosofica senecana, ovvero la partecipazione del saggio alla vita politica. Cerca una mediazione tra i due estremi dell’otium contemplativo e dell’impegno proprio del civis romano, suggerendo un comportamento rapportato alle condizioni politiche; l’ultima opera affronta la scelta della vita appartata, una scelta resa necessaria da una situazione politica compromessa. Risale tra il 49 e il 52 il De brevitate vitae che tratta il problema del tempo, della sua fugacità e dell’apparente brevità di una vita che ci appare così perché non sappiamo afferrarne l’essenza, disperdendola in tante occasioni futili. Agli ultimi anni dovrebbe appartenere il De providentia che affronta il problema della contraddizione fra il progetto provvidenziale, che secondo la dottrina stoica presiede alle vicende umane e la constatazione di una sorte che sembra premiare i malvagi e punire gli onesti. Secondo Seneca tutto ciò avviene perchè gli dei vogliono mettere alla prova i buoni ed esercitarne la virtù. Le tre consolationes → il genere si costituisce su un repertorio di temi morali, attorno ai quali ruota gran parte della riflessione filosofica senecana. La Consolatio ad Marciam è indirizzata alla figlia dello storico Cremuzio Cordo per consolarla della morte del figlio. Nelle altre due si riflette la condizione di esule dell’autore: Ad Helviam matrem conforta la madre sulle condizioni del figlio esule, esaltando gli aspetti positivi; Ad Polybium è stata scritta per consolare il liberto di Claudio della perdita di un fratello, quasi come se volesse adulare indirettamente l’imperatore per poter tornare a Roma. Filosofia e potere Dedica gran parte della sua vita a temi pubblici: quale sia il comportamento del buon principe oppure fino a che punto il possesso e la ricchezza sono conciliabili con l’ideale astinenza del filosofo. Lo stoicismo ammette la partecipazione del sapiente agli affari dello Stato, ma a condizione che questa non ne turbi la serenità interiore → dovrà lavorare per il benessere della sua comunità, almeno finchè i contrasti non diventino troppo tumultuosi e rischino di provocare turbamento. In questo caso, il filosofo dovrà continuare a fornire un modello, se non partecipando alla vita pubblica, almeno con l’esempio e la parola. De beneficis → sette libri dedicati a Ebuzio Liberale, trattano degli atti di beneficenza e filantropia e del legame di riconoscenza che questi atti istituiscono tra benefattore e beneficato, dei doveri della gratitudine, delle conseguenze che colpiscono gli ingrati. L’opera sembra trasferire sul piano della moralità individuale il progetto di una società individuale e concorde. L’appello, rivolto alle classi privilegiate nell’intento di instaurare rapporti sociali più umani, si configura con la proposta alternativa al fallimento di questo progetto. De clementia → rivolto all’imperatore, Seneca ritiene che il potere unico fosse il più conforme alla concezione stoica di un ordine cosmico governato dalla ragione universale, per rappresentare l’ideale di universo cosmopolita. Il problema è quello di avere un buon sovrano, il quale, in mancanza di forme di controllo esterno, sarà trattenuto dal governare in modo tirannico attraverso la sua coscienza. I suoi rapporti con i sudditi non saranno ispirati dal terrore, ma dalla clemenza, ottenendo così consenso e dedizione e stabilità dello Stato. Il ritiro dalla vita pubblica lo porta a dedicarsi esclusivamente alla meditazione e alla contemplazione. In questa fase scrisse: Le Naturales questiones → sette libri dedicati a Lucilio delle Epistulae. Sono trattati i fenomeni naturali e celesti e rappresenta una sorta di supporto fisico all’impianto filosofico senecano, anche se non c’è un’effettiva integrazione fra indagine scientifica e ricerca morale. La pratica quotidiana della filosofia: le Epistulae ad Lucilium È la più celebre in assoluto. È costituita da una raccolta di lettere di maggiore o minore estensione indirizzate all’amico Lucilio, personaggio di origini modeste, procuratore in Sicilia, poeta e scrittore. Non si sa se sia un epistolario reale o fittizio e non si sa se siano state effettivamente inviate o inserite nella raccolta al momento della pubblicazione. L’opera è incompleta e si può datare intorno al 62-63. Usa la complessa scenografia tipica della scrittura epistolare: si tratta di un colloquio tra amici, che si scambiano impressioni e opinioni per migliorarsi. Seneca si dice ancora pieno di colpe da sanare, per essendo più avanti dell’amico → le lettere sono come il controllo che il maestro esercita sul discepolo: Lucilio comunica le proprie difficoltà e chiede consiglio. L’opera ha la forma di un dialogo, solo verso la fine assume le sembianze di un trattato e sa rendere con vivacità l’effetto di una discussione che va continuamente avanti, in cui il maestro non dimentica mai l’interlocutore, presente in domane e anche obiezioni. Il modello dell’opera è Epicuro ma solo per quel che riguarda la forma. Le lettere erano per Epicuro l’unico modo di continuare a seguire e consigliare amici e discepoli; allo stesso modo Seneca insiste sul fatto che lo scambio epistolare permette di istituire una conversazione e una sorta di intimità quotidiana, fornendo un esempio di vita più efficace rispetto all’insegnamento dottrinale. Le lettere raccontano spesso aneddoti, incontri, che il filosofo commenta per trarne insegnamento, trasformandoli anche in riflessioni universali. In questo modo torna su alcuni dei temi importanti della sua riflessione: il problema della libertà, della natura di Dio, della sua giustizia, del tempo → propone l’ideale di una vita indirizzata al raccoglimento e alla meditazione, al perfezionamento interiore grazie un’attenta riflessione sulle debolezze e i vizi propri e altrui. La considerazione della condizione umana lo porta a esprimere una condanna verso il trattamento rivolto agli schiavi, con sentimenti di pietà che hanno fatto pensare alla carità cristiana. Tratta anche del valore supremo: un otium è ricerca del bene, nella convinzione che le conquiste dello spirito possano giovare non solo agli amici impegnati nella ricerca della sapientia, ma anche agli altri e che lettere possano esercitare il loro beneficio influsso sulla posterità. La conquista della libertà interiore è l’estremo obiettivo che il saggio si pone: nella morte egli scorge il simbolo della propria indipendenza dal mondo. Lo stile drammatico delle opere filosofiche Seneca spezza i periodi in frasi brevi, rifiutando la compattezza del periodo ciceroniano → nelle frasi di Seneca domina la paratassi: le frasi non dipendono l’una dall’altra per legami sintattici, ma i collegamenti sono concetti espressi dal discorso, svolto attraverso antitesi e ripetizioni. L’intento è quello di riprodurre uno stile colloquiale, imitando la conversazione. Fa uso di parallelismi, opposizioni, ripetizioni e produce l’effetto di sfaccettare un’idea secondo le angolazioni possibili fornendone una formulazione sempre più pregnante e concisa. Si serve di questo stile per esplorare l’animo umano e le sue contraddizioni, ma anche per parlare al cuore degli uomini. Le tragedie e l’Apokolokyntosis. Sono nove le tragedie ritenute autentiche, tutte coturnate. Non abbiamo informazioni su una loro possibile rappresentazione, probabilmente erano state scritte per essere lette al pubblico, il modo solito in cui nei circoli vengono diffuse le opere in quel periodo. ?? I modelli sono le tragedie greche del periodo classico, per lo più Sofocle ed Euripide, ma probabilmente erano anche le tragedie latine repubblicane, che imitavano i testi classici. La tecnica dell’azione scenica però fa pensare al dramma ellenistico. Lo stile risente di influssi che provengono da modelli latini, come Virgilio, Orazio e soprattutto Ovidio, dai quali mutua le forme metriche → il metro dei recitativi, il senario, è invece più vicino allo schema rigido del trimetro giambico greco. Le tracce della tragedia latina arcaica si avvertono nel gusto del pathos esasperato. Le sue tragedie sono le uniche ad esserci pervenute in forma non frammentaria. In età giulio- claudia la tragedia appare la forma letteraria per esprimere l’opposizione al regime, visto che le trame mitologiche contengono quasi sempre il tema della tirannide. Le vicende si configurano come conflitti di forze contrastanti, come ragione e passione e riprende temi dalle opere filosofiche. Alle diverse vicende tragiche fa da sfondo una realtà cupa e atroce e su questo scenario si scatena la lotta delle forze maligne, che non solo investe la psiche umana, ma il mondo intero, conferendo al conflitto tra bene e male una dimensione cosmica. Oltre alle nove tragedie, ne abbiamo un’altra intitolata Octavia: è rappresentata la sorte di Ottavia, prima moglie di Nerone, da lui ripudiata una volta innamorato di Poppe, e fatta uccidere. Si tratta dunque di una praetexra, ma la sua autenticità è negata perché Seneca compare nel dramma e Capitolo 4 Petronio, la vita e le opere Tacito, negli Annales, ci parla di Petronio → lo indica come cortigiano di Nerone e da questi ritenuto il giudice per eccellenza della raffinatezza. Petronio era stato servitore dello Stato, proconsole in Bitinia e poi console; nel 66, spinto al suicidio da Nerone, mette in scena una morte paradossale → il suo suicidio sembra volutamente concepito come parodia di quello teatrale tipico di alcuni oppositori del regime: incidendosi le vene, passò le ultime ore a banchetto, occupandosi di poesia. D’altra parte, accanto a queste manifestazioni, volle mostrarsi anche serio e responsabile: si preoccupò dei suoi servi e scelse di denunciare apertamente i crimini dell’imperatore. Molti indizi dal testo concordano con l’ipotesi di una datazione dell’opera all’età di Nerone. L’intreccio → Encolpio, il suo giovane amante Gitone e Ascilto offendono il dio Priapo e da quesro momento iniziano le loro disavventure. compreso il fatto di essere aggrediti dai sacerdoti del dio. Encolpio e Ascilto sostano in una locanda con Gitone e poi si allontanano. A questo punto si svolge la scena più importante del romanzo, vale a dire la cena di Trimalchione. Si tratta di un liberto che si è arricchito in modo più o meno onesto: Il banchetto viene descritto da Petronio nei minimi particolari, accompagnato da musiche e canti e i convitati sono numerosissimi e chiassosi, tra musiche e canti. Intanto Trimalchione si esibisce in un lungo discorso sulla brevità della vita, dimostrando una certa cultura mentre i convitati si esibiscono una serie di battute volgari e commenti di grande ignoranza Durante il banchetto Trimalchione pronuncia anche il suo testamento. Il banchetto è interrotto dall'arrivo dei vigili del fuoco (che a Roma avevano anche la funzione di vigili urbani) per l'eccessivo rumore provocato anche dal suono dei corsi. Nel trambusto Encolpio e Ascilto lasciano il banchetto e tornato nella locanda dove ritrovano Gitone A questo punto il racconto diventa nuovamente frammentario, ci sono scene di gelosia tra Emcolpio e Ascilto a causa di Gitone e Encolpio lascia i due.Lo troviamo da solo a riflettere sulla sua vita, quando, visitando una pinacoteca incontra un vecchio poeta piuttosto malmesso, Eumolpo, a cui racconta la storia della guerra di Troia.Encolpio e il vecchio tornano alla locanda dove trovano Gitone, che aveva lasciato Ascilto, il quale, a sua volta, arriva anche lui nella locanda. Nuovo furibondo litigio a cui partecipano anche gli avventori del locale e a questo punto Ascilto scompare definitivamente dalla scena. Encolpio, Eumolpo e Gitone si imbarcano per raggiungere l'Egitto ma sulla nave trovano Lica, un amante di Encolpio, che vuole vendicarsi su di lui perchè lo ha tradito con Gitone e Trifena, una ex amante di Gitone, che vorrebbe riprenderselo. Encolpio e Gitone, sebbene si travestano da schiavi fuggitivi, vengono riconosciuti e le cose si metterebbero male per loro se il saggio Eumolpo non riuscisse a calmare la situazione. A questo punto una tempesta si abbatte sulla nave e Lica e Trifone muoiono. I tre riescono fortunosamente a salvare la pelle e arrivano sulla spiaggia di Crotone, la città però è ridotta alla fame e i tre vivono di espedienti. Di Encolpio si invaghisce una bella matrona, Circe, ma Priapo gli ha tolto il dono della verilità per cui viene insultato e aggredito dalle ancelle di Circe. Riesce a scappare e grazie all'intervento di Mercurio, un dio superiore a Priapo, recupera la sua virilità. A questo punto il romanzo si interrompe, riprende con Encolpio che fa testamento e poi si interrompe definitivamente. La parodia come chiave di interpretazione del Satyricon Il principio di fondo di quest’opera è la parodia letteraria. Nella complessa trama delle associazioni parodiche che il lettore doveva riconoscere, il primo livello è quello dell’antiromanzo: l’opera rovescia tutte le convenzioni più significative di quello che definiamo romanzo antico. Nessuno dei termini moderni usati per definire la narrativa d’invenzione ha una tradizione classica e gli antichi applicano a queste opere termini molto generici. Per questa classe di testi non abbiamo trattazioni e i titoli sono generici → sospettiamo che di narrativa si facesse un grande consumo, ma pochi si occuparono della diffusione del fenomeno. I critici moderni chiamo romanzi un gruppo di opere che rientrano in due tipologie: a) due testi latini → il Satyricon di Petronio e le Metamorfosi di Apuleio; b) una serie di testi greci, databili fa I e IV secolo d.C. Questa serie di opere greche è unita da una notevole omogeneità e permanenza dei tratti distintivi e la trama è invariabile: una coppia di innamorati viene separata dalle avversità che i due devono superare prima di riunirsi e coronare il loro amore. Il tono è quasi sempre serio, i protagonisti sono figure patetiche che suscitano simpatia; lo scenario è variabile e spazia nei Paesi del Mediterraneo grecizzato. L’amore è trattato con pudicizia, come una passione seria ed esclusiva: molta suspense della storia sta nei modi avventurosi con cui l’eroina serba fino in fondo la sua castità per il giovane che ama. Anche il Satyricon racconta le peripezie di una coppia di amanti, ma l’amore è trattato diversamente: non c’è spazio per la castità e nessun personaggio è serio e credibili portavoce di valori morali. Il protagonista è sballato tra peripezie sessuali di ogni tipo e il suo partener è maschile → il rapporto omosessuale di Encolpio e Gitone sarebbe la parodia dell’amore casto greco. Il romanzo di Petronio finge di appartenere ad una classe popolare di consumo (16 libri), ma da sempre la letteratura bassa ha come modello quella impegnativa e sublime e ne fa proprio il vocabolario dei gesti retorici vistosi. È nella consapevolezza di questo carattere che il Satyricon trova il registro della parodia. Nei romanzi greci i viaggi di ritorno si rifanno all’Odissea e, nel Satyricon, le peripezie di Encolpio diventano un’odissea di pitocchi, che allude alle disavventure di Ulisse → l’allusione a Omero non è una chiave interpretativa → le disavventure di Encolpio potrebbero risalire a una maledizione divina. Inoltre, nel Satyricon, chi dice io non è l’autore, ma un narratore inaffidabile. Petronio lascia che il protagonista-narratore viva gli eventi della sua quotidiana esistenza in una sorta di esaltazione eroica, che lo porta ad assimilare la realtà dei modelli della letteratura sublime. Ogni genere letterario propone un suo modo di interpretare il ondo: nel Satyricon i modelli evocati si scontrano contro la sceneggiatura romanzesca che l’autore ha scelto per lo svolgimento dell’azione. Petronio struttura la storia di Encolpio come una parodia continua della narrativa greca idealizzata → il rapporto ironico col romanzo greco genera la forma del racconto, calando il personaggio narratore in una serie di peripezie tipiche delle storie d’amore e d’avventura. Strumento del rovesciamento ironico è Encolpio, l’antimodello dell’eroe del romanzo idealizzato → è vittima delle sue illusioni di consumatore scolastico dei testi letterari sublimi. La forma del romanzo La prosa narrativa è spesso interrotta da inserti poetici: alcune di queste parti vengono affidate alla voce dei personaggi, soprattutto Eumolpo. Questi inserti sono motivati e hanno come uditorio i personaggi del romanzo, ma molte altre sono strutturate come interventi del narratore, che commenta → i commenti hanno una funzione ironica perché il commento poetico non corrisponde (per stile, contenuto o altro) alla situazione a cui dovrebbe inquadrarsi. Il punto di riferimento più vicino per l’alternanza di prosa e poesia sembra quello della tradizione della satira menippea, rappresentato dall’Apokolokyntosis di Seneca. Una caratteristica interessante della satira menippea parrebbe il continuo scontro di toni seri e giocosi, di risonanze letterarie e di crude volgarità. Rimangono alcune differenze nette tra Petronio e la menippea senecana, quest’ultima una narrazione quasi impossibile da paragonare al Satyricon. Il Satyricon deve dunque molto alla narrativa per la trama e la struttura del racconto, e qualcosa deve alla tradizione menippea per la tessitura formale dei veri e prosa. Ma il dato più importante è la carica realistica → Petronio ha un vivo interesse per la mentalità delle varie classi sociali e ci porta in luoghi tipici e fondamentali del mondo romano. Ma è anche vero che il realismo è debole e ambiguo → la trama è inverosimile. I priapea. Si accosta a Petronio, per affinità tematica, la raccolta di circa ottanta componimenti di lunghezza e metro variabili. I testi danno luogo ad un’opera unitaria, essendo connessi attraverso la figura del dio Priapo, protettore di orti e giardini → a questa divinità, legata alla fecondità, si riconnette il genere priapeo, caratterizzato da tono scherzoso e tematica sessuale. Praticato anche da Catullo e Marziale. Capitolo 5 La satira di Persio e Giovenale Entrambi dichiarano di ricollegarsi alla poesia satirica di Lucilio e Orazio, ma la trasformano → le satire di Lucilio e Orazio assumevano come verosimile riferimento la cerchia degli amici, mentre quelle di Persio e Giovenale sono dirette a un pubblico generico; la forma del discorso non è più quella della conversazione costruttiva, con l’intento di far sorridere guardando i difetti umani e non c’è più una sorta di complicità tra autore e ascoltatore, perché a quest’ultimo è negata ogni vicinanza e ogni possibile identificazione. La forma dell’invettiva prende il posto del sorriso autoironico e il poeta, mentre corregge gli uomini, fa sue quelle forme di moralismo arcigno che la satira oraziana aveva rifiutato. Questo movimento nasce in reazione al classicismo di età augustea e fiorisce nel I secolo d.C. Inoltre, prima che alla lettura individuale, la satira di Persio e Giovenale è destinata all’esecuzione orale, alla recitazione in pubblico e punta a far colpo sull’uditorio. Persio, la vita e le opere Nacque a Volterra nel 34 d.C. da una famiglia ricca e nobile, ma rimase presto orfano, per cui fu mandato a Roma per proseguire la sua formazione → ebbe ruolo fondamentale Anneo Cornuto; fu in rapporti anche con Cesio Basso. Morì nel 62. Il grammatico Valerio Probo ci dice che Persio scrisse poco e non pubblicò nulla in vita e a curarne l’edizione sarebbe stato Cesio Basso. Dopo un componimento-prologo di 14 coliambi che polemizza contro le mode letterarie del tempo, seguono sei componimenti satirici in esametri dattilici. Contenuti → la satira I illustra i vezzi deplorevoli della poesia contemporanea e la degenerazione morale che le si accompagna, cui il poeta contrappone lo sdegno e la protesta dei suoi versi, rivolti a uomini liberi. La II attacca la religiosità formale e di chi non conosce onestà di sentimenti e chiede agli dei solo la soddisfazione della propria brama di denaro; la III è indirizzata ad un giovin signore che conduce vita ignava e dissipata, per invitarlo ad intraprendere il cammino della liberazione morale. La IV illustra la necessità di praticare il nosce te ispsum per chi abbia ambizioni di carriera politica: come simbolo delle due posizioni sono presentati Socrate e Alcibiade. La V è rivolta al maestro Cornuto, svolge il tema della libertà secondo la dottrina stoica. La VI rivolta a Basso deplora il vizio dell’avarizia, indicando come modello il saggio stoico che usa con moderazione i propri beni. usurpare ogni diritto sul regno. Polinice, bandito dalla città, si rifugia ad Argo e organizza una spedizione: sette grandi eroi marciano contro Tebe con le loro schiere. A causa della morte di quasi tutti, Creonte sarà il nuovo re, cognato di Edipo. Eteocle e Polinice si uccidono a vicenda in un duello, ma la loro lotto continuerà sul rogo funebre. I dodici libri sono divisi in due esadi: la prima mostra tratti odissiaci e la seconda è una storia di guerra. Sul piano ideologico la posizione di Stazio è chiaramente virgiliana, in opposizione a Lucano, ma la scelta della guerra lo avvicina a quest’ultimo → le divinità appaiono come svuotate o appiattite e le forze divine più vitali sono personificazioni di idee astratte. Inoltre, schiacciate dalle leggi del cosmo e dalla predestinazione, le figure umane sono a loro volta appiattite. Concede molto poco spazio alle sfumature psicologiche. Sebbene la trama sia un po’ debole, il vero punto di forza è lo stile: l’opera si rivolge ad un lettore colto, che conosce la storia alla perfezione, ma deve essere colpito dalla scelta linguistica. Achilleide → poema incompiuto, si ferma al secondo libro. La parte restante contiene le vicende di Achille a Sciro, dove la madre Teti lo ha nascosto perché i greci non lo conducano a Troia. Il tono è più disteso e idillico del poema precedente, ricco di riprese di temi elegiaci e ravvivato da un’ironia che fa pensare ad Ovidio. Valerio Flacco, la vita e le opere Vita ignota, scrisse Argonautica, poema epico rimasto incompiuto all’ottavo libro, che narra una serie di vicende corrispondente ai tre quarti del racconto sviluppato dal greco Apollonio Rodio in un’opera dall’omonimo titolo. Il I libro spiega i motivi della spedizione di Giasone alla ricerca del vello d’oro; i libri II-V narrano del viaggio avventuroso e contrastato fino alla Colchide; i libri VI-VIII raccontano gli intrighi e le lotte alla corte del re Eeta e l’amore tra Giasone e Medea, figlia del re; la conquista del vello e l’inizio del ritorno. Mira ad una scrittura autonoma della vicenda → ma nei punti in cui Valerio segue da vicino il testo greco, la sua rielaborazione appare guidata alla ricerca dell’effetto: accentuazione del pathos, concentrazione del modello, gusto per la brevità d’espressione. Fallisce nella creazione di scene narrative e articolate: difetti di chiarezza e linearità e mancata specificazione delle coordinate spazio-temporali. Il tema è mitologico e, mentre Apollonio aveva fatto di Giasone un eroe problematico e chiaroscurale, Valerio riporta il suo protagonista a una scala di elevatezza epica. Per dare al poema una seconda parte “iliadica”, come nell’Eneide, Valerio spinge a introdurre il racconto di una guerra fra Eeta e il fratello Perse. La narrazione esaspera la propensione virgiliana allo stile soggettivo e ciò comporta una psicologizzazione del racconto, fino alla soppressione di particolari della narrazione di eventi → il poeta presuppone che il lettore sia a conoscenza degli avvenimenti e talvolta che abbia presente il riferimento ad Apollonio. Non mancano rimandi alla situazione politica contemporanea: il suicidio dei genitori di Giasone è tratteggiato come la morte di oppositori al governo imperiale; il tema della guerra civile affiora nell’episodio di attacco a Cizico; la spedizione del vello d’oro è paragonata alla campagna in Britannia di Vespasiano e al fiorire dei traffici navali sotto gli imperatori flavi. Silio Italico Importante uomo politico, console nel 68. Ritiratosi a vita privata, dedica gli ultimi anni al poema storico i Punica e malato di un male incurabile, si lasciò morire di fame. Il suo amore per Virgilio lo indusse a raccogliere i cimeli del poeta e ad acquistare il luogo del sepolcro. I Punica sono il più lungo epos storico latino giunto fino a noi, diviso in 17 libri racconta la seconda guerra punica, dalla spedizione di Annibale in Spagna fino al trionfo di Scipione dopo Zama. L’argomento era stato trattato da Nevio ed Ennio ed è anche evidente l’uso dell’opera di Tito Livio. L’impulso fondamentale venne dall’Eneide → la guerra di Annibale discende dalla maledizione di Didone contro Enea e i suoi discendenti; Giunone è ancora nemica dei troiani, ora romani, e protegge Cartagine. Arricchisce l’azione di interventi divini sino ad un livello di inverosomiglianza intollerabile. Sul piano dello stile ha una scrittura scorrevole, ma monotona, marcata dall’imitazione dello stile virgiliano. Capitolo 7 Plinio il Vecchio, la vita e le opere Nacque a Como nel 23 d.C. Da giovane militò nell’esercito in Germania, dove conobbe Pompionio Secondo, di cui scriverà una Vita (perduta) e il futuro imperatore Tito. In seguito a questa esperienza scrisse Bella Germaniae, che non è ci è pervenuta. Dopo la morte di Claudio e l’avvento a Nerone, si ritira a vita privata → scrive Studiosus, cioè un trattato in sei libri che doveva essere un manuale di retorica per studenti; il Dubius Sermo su oscillazioni e problemi dell’uso linguistico. Sotto Vespasiano torna all’attività pubblica e compone i libri A fine Aufidi Bassi, perduta → si ricollega all’opera di Aufidio Basso, vissuto al tempo di Caligola e si propone di coprire gli anni tra 50-70 (fine impero di Claudio e ascesa potere di Vespasiano) → si capisce la sua tendenza pro- Flavia. La sua unica opera conservata è la Naturalis Historia, conclusa verso il 77-78. Il 24 agosto 79 entra in eruzione il Vesuvio → Plinio è al comando della flotta di stanza a Miseno e si dirige sul luogo per organizzare i soccorsi, ma si spinge troppo vicino e viene soffocato dai gas del vulcano → abbiamo alcune informazioni per quel che riguarda la sua morte grazie al nipote Plinio il Giovane in due lettere e viene considerato come un promartire della scienza sperimentale, ma è anche vero che la concezione della scienza ha ben poco di sperimentale. L’enciclopedismo: la Naturalis historia La curiosità scientifica si afferma anche sottoforma di intrattenimento o consumo culturale → è il periodo dei paradossografi, raccolte di mirabilia “cose stupefacenti”, cioè testi di successo→ i paradossografi si presentano come viaggiatori, che hanno raccolto materiale di prima mano con aneddoti, favole, notizie antropologiche. Questo tipo di letteratura esprime molto bene il limite della cultura scientifica romana: accoglie vivaci interessi pratici, ma non contiene nessun principio sistematico. L’opera di Plinio si configura come un’enciclopedia, repertorio di tutto il sapere acquisito. Plinio leggeva di continuo, schedava e prendeva appunti e ci offre la registrazione esatta dei dati raccolti: 34 mila notizie, 2 mila volumi letti di 100 autori diversi e 170 dossier di appunti e schede preparatorie → in questo modo nasce la Naturalis Historia, divisa in 37 libri: I indice generale e bibliografia; II cosmologia e geografia fisica; III-VI Geografia; VII Antropologia; VIII-XI Zoologia; XII- XIX Botanica; XX-XXXII Medicina; XXXIII-XXXVII Metallurgia e mineralogia. Il suo scopo è quello di giovare all’umanità e la stessa mentalità enciclopedica sembra invitare ad un accomodante eclettismo: una scelta filosofica troppo marcata avrebbe finito per ridurre troppo la quantità dei materiali da registrare e classificare nella Naturalis Historia. La concezione stoica dell’universo permette a Plinio di passare indisturbato da un punto all’altro dei fenomeni, come per esempio il funzionamento biologico dell’organismo e il suo significato religioso e culturale; allo stesso tempo utilizza gli strumenti del moralismo romano per analizzare il mondo degli uomini e le loro virtù. Stilisticamente è da considerare come il peggior scrittore latino: l’ampiezza dell’opera non ha garantito una linearità stilistica; la tradizione enciclopedica non comportava romana non comportava lo sforzo di bello scrivere. Varrone è di gran lunga superiore a Plinio, ma il suo stile appare sciatto e inelegante. Seneca il Vecchio, la vita e le opere Fu tra i maggiori intellettuali dell’epoca augustea: storico e appassionato di retorica, la sua fama si deve alla (parziale) sopravvivenza dell’Oratorum et rhetorum sententiae divisiones colores, scritto più comunemente conosciuto come comprendente sette Suasoriae e dieci libri di Controversiae. La decadenza della retorica Con i suoi Oratorum et rhetorum sententiae divisiones colores, Seneca il Vecchio testimonia lo stadio a cui la retorica era giunta dopo la fine della Repubblica. Riflessioni sulla decadenza della retorica saranno affrontate anche da Quintiliano e Tacito, ed è interessante notare come Seneca il Vecchio e Tacito, nel suo Dialogus de oratoribus, arrivino alle medesime conclusioni (mentre Quintiliano attribuirà la decadenza dell’oratoria proprio a Seneca figlio!): la morte del genere retorico, così come era conosciuto in epoca repubblicana, può essere imputata solo al cambio di forma di governo. Venuto meno lo spazio politico del cittadino, diretta conseguenza fu la scomparsa anche del genere oratorio politico. Il genere retorico, dunque, con l’avvento del principato, era diventato ormai solo materia di spettacolo (grande fortuna avevano all’epoca le declamationes pubbliche) o semplice esercizio scolastico: esercitazioni, infatti, erano sia le suasoriae che le controversiae. Le suasoriae e le controversiae La suasoria apparteneva al genere deliberativo (in greco si potrebbe definire “epidittico”), e consisteva nella simulazione di un’orazione che avesse l’obiettivo di convincere (suadere) un personaggio famoso della storia o del mito a fare o non fare un’azione. La controversia, invece, rientrava nel genere giudiziario, e risultava essere la riproduzione di un dibattimento, da posizioni opposte, di una causa, sulla base del diritto romano o greco. Seneca il Vecchio, come si è detto, riportava nell’Oratorum et rhetorum sententiae divisiones colores esempi di suasoriae e controversiae: l’opera, dedicata ai figli (tra i quali, quindi, anche Seneca filosofo) e composta negli ultimi anni del principato di Tiberio, rappresentava il frutto dei ricordi della scuola di retorica, a cui Seneca il Vecchio resterà sempre legato, pur non avendo mai esercitato il mestiere di oratore (per questo l’appellativo “Retore” non è del tutto esatto). Le Historiae ab initio bellorum civilium Seneca il Vecchio era celebre in età antica anche per aver scritto un’opera storica: le Historiae ab initio bellorum civilium, cioè “Storie dall’inizio delle guerre civili”. Il titolo era tutt’altro che ornamentale, ma appunto fortemente programmatico, in quanto Seneca il Vecchio, con esso, esprimeva la sua intenzione di indagare le cause della fine della Repubblica e del passaggio al Principato attraverso l’analisi delle guerre civili. La novità delle Historiae di Seneca il Vecchio consisteva nel fatto che egli non associava l’inizio delle guerre civili al periodo di Mario e Silla, ma faceva risalire le radici della crisi repubblicana sin dall’epoca graccana, come ritengono anche oggi gli storici moderni: è la seditio Gracchana, per l’autore, il primo germe della decadenza della Repubblica. La Censura nel primo principato: Asinio Pollione e Seneca il Vecchio Trattare del periodo delle guerre civili, specialmente in senso critico, era tra l’altro un bel rischio. Pare infatti che Seneca il Vecchio, come molti degli intellettuali che vissero a cavallo tra Repubblica e Principato, avesse alle sue spalle fonti ben poco allineate col nuovo potere augusteo. Lo storico, infatti, rifiutò la vulgata “ufficiale” delle opere storiche (i Commentarii) di Augusto e Cesare, e adottò come fonte le Historiae di Asinio Pollione, che pure ricevette i rimproveri di Orazio per aver osato scrivere qualcosa di troppo. disponibilità di testi e biblioteche creano un gusto arcaizzante. È il momento della rinascita della cultura greca, il cui frutto è detto della “seconda sofistica”, una moda che ha per tendenza letterati brillanti, frequentemente in viaggio e scrivono di temi differenti: religione, morale, politico. Fra gli imperatori, letterato è Adriano, grande portatore della cultura greca → scrisse piccoli componimenti alla maniera dei catulliani e fonda a Roma l’Athenaeum, un’accademia dove terranno lezione letterati di gran nome; inoltre fa eseguire moltissime copie di opere d’arte greche. L’organizzazione del futuro In tutto l’impero, molto esteso, si diffondono nuovi culti, spesso sconvolgenti per il tradizionale modo di pensare romano. La mentalità religiosa tende ad orientalizzarsi, sotto l’effetto di nuovi culti venuti dall’Egitto, Persia e Palestina: il culto di Iside, Mitra e il cristianesimo. Le filosofie tradizionali perdono la loro forza e si aprono alle nuove credenze religiose → soprattutto lo stoicismo finirà per essere assorbito dal cristianesimo. Gli imperatori stessi sono considerati come dei. Capitolo 10 Plinio il Giovane, la vita e le opere Nasce a Como nel 61 d.C. e sarà adottato dallo zio materno, Plinio il Vecchio. Dopo gli studi di retorica con Quintiliano, a Roma percorse i gradi della carriera pubblica, diventando console nel 100. In occasione di questa nomina, grazie all’indicazione di Traiano, pronunciò in senato un discorso di ringraziamento, chiamato dai codici Panegyricus → dal greco “panegirici”, cioè i discorsi tenuti nella solennità panelleniche. Il titolo si attaglia all’encomio del princeps svolto nella circostanza da Plinio. Fu con Tacito fra gli accusatori nel processo contro Mario Prisco, ex governatore d’Asia. Nominato nel 111 legato imperiale in Bitinia, morirà poco dopo. Oltre al Panegirico, si conservano anche i dieci libri delle Epistulae, lettere spedite a vari destinatari e pubblicate a cura dell’autore. Plinio e Traiano Il Panegyricus contiene la gratiarum actio, in cui Plinio esalta le virtù, celebrandone i meriti per aver restituito libertà di parola e di pensiero. Plinio si sforza anche di delineare un modello di comportamento per i principi futuri, ispirato alla continuazione della concordia fra imperatore e ceto aristocratico. Nonostante il tono ottimistico, il Panegyricus lascia affiorare qualche preoccupazione che i principi malvagi possano nuovamente salire al potere e che il senato possa tornare a soffrire come sotto Domiziano. Sembra, inoltre, rivendicare una funzione pedagogica nei confronti del principe → attraverso molti elogi traspare il tentativo di esercitare una forma di controllo sul detentore del potere assoluto. I reali rapporti tra lui e Traiano emergono dallo scambio epistolare al tempo del governatorato in Bitinia e conservato nel libro X delle Epistuale. Plinio si comporta come un funzionario scrupoloso e leale, ma anche indeciso e che informa l’imperatore di ogni problema. Dalle risposte di Traiano trapela un lieve senso di fastidio ed è rimasto famoso l’atteggiamento di relativa tolleranza assunto dall’imperatore a proposito della questione dei cristiani: egli dà istruzione a Plinio di non procedere se non in caso di denunce anonime, e di sospendere il procedimento se l’imputato testimonia di non essere (più) cristiano. Plinio e la società del suo tempo Le lettere sono dedicare ciascuna ad un singolo tema, sempre trattato con cura attenta dell’eleganza letteraria → è questa differenza principale che separa l’epistolario pliniano da quello di Cicerone, in cui l’urgenza della comunicazione comportava una scarsa comprensibilità → nonostante ciò Cicerone è un modello per l’architettura armonica del periodo, gli schemi ritmici ricorrenti. Le lettere di Plinio sono una serie di brevi saggi di cronaca sulla vita mondana intellettuale e civile. L’autore si rivolge con estrema cerimoniosità ai suoi interlocutori, che intrattiene sulle sue attività, informandoli delle sue preoccupazioni; elogia personaggi diversi e informa su pettegolezzi del momento. Si rivela frequentatore delle sale dove si tenevano recitationes e declamationes, che egli contribuiva ad organizzare. Soprattutto elogia la propria attività poetica e. diversamente dal suo maestro Quintiliano o il suo amico Tacito, non è preoccupato della crisi della cultura: avverte più che altro una certa decadenza nel gusto degli ascoltatori. La letteratura di cui si diletta è frivola, destinata all’intrattenimento e a un consumo effimero durante le cene degli aristocratici o nelle sale pubbliche- I toni sempre smorzati o accomodanti, il senso della misura contribuirono al suo successo e lo resero un modello presso gli scrittori antichi. Questa fortuna continuò nel Medioevo e toccò il suo culmine nel Rinascimento. Capitolo 11 Tacito, la vita e le opere Nacque intorno al 55 d.C. a Terni o nella Gallia Narbonense/Cisalpina, da una famiglia di ceto elevato. Studiò a Roma e nel 78 sposò la figlia di Giulio Agricola, celebrato nell’opera biografica De vita et moribus Iulii Agricolae del 98. Grazie ad Agricola iniziò una carriera politica che lo portò alla pretura nell’88 e poi ad un prestigioso incarico in Gallia o Germania → scrisse il trattato etnografico De origine et situ Germanorum, pubblicato sempre nel 98. Nel 97, a Roma, fu sotto Nerva console supplente e in conseguenza di questo avrà il proconsolato d’Asia nel 112 o nel 113. Poco dopo il 100 abbiamo il Dialogus de oratoribus, sul tema della decadenza dell’oratoria e agli ultimi quindici anni di vita risale la composizione delle due opere maggiori le Historiae e gli Annales. Muore verso il 107. Le cause della decadenza dell’oratoria Varie caratteristiche, soprattutto di stile, isolano il Dialogus de oratoribus dal resto della tradizione tacitiana, tanto da dubitare della sua autenticità → il periodare dell’opera ricorda il modello neociceroniano cui aspirava l’insegnamento della scuola di Quintiliano e la inconcinnitas delle opere storiografiche di Tacito → molti pensano che il Dialogus faccia parte del periodo giovanile dell’autore, ancora legato alla scuola di Quintiliano. Tuttavia, è più probabile che la classicità dello stile sia causato dal fatto che l’opera appartiene al genere retorico (modello di Cicerone). L’opera, ambientata nel 75/77 si riallaccia alla tradizione dei dialoghi ciceroniani come il De Oratore. Riferisce una discussione che si immagina avvenuta in casa di Curiazio Materno, retore e tragediografo, fra lo stesso Curiazio, Marco Apro, Messalla e Giulio Secondo, e alla quale Tacito dice di aver assistito in gioventù. Il dibattito si sposta sulla decadenza dell’oratoria con l’arrivo di Messalla, che la attribuisce al deterioramento dell’educazione. Il dialogo si conclude con un discorso di Materno, portavoce di Tacito, il quale lega l’oratoria alla libertà o all’anarchia, che regnava al tempo della repubblica. La sua pratica diventa anacronistica e impossibile nella società tranquilla dell’impero. L’attribuzione attribuita a Materno è alla base del pensiero di Tacito: necessità dell’impero come forza in grado di salvare lo Stato dal caos delle guerre civili → ciò non significa che accetti il principato. Agricola e la sterilità dell’opposizione Verso gli inizi del regime di Traiano, Tacito pubblicò il suo primo opuscolo storico, che tramanda ai posteri la memoria di suo suocero Giulio Agricola, principale artefice della conquista di gran parte della Britannia sotto il regno di Domiziano e leale funzionario imperiale. Con un tono encomiastico, l’Agricola narra della conquista dell’isola, lasciando spazio a digressioni geografiche ed etnografiche, che derivano dagli appunti di Agricola, ma anche dalle notizie contenute nei Commentarii di Cesare. La Britannia è il campo in cui si dispiega la virtus di Agricola e, nell’elogiare il suo carattere, Tacito mette in rilievo come egli avesse saputo servire lo Stato con fedeltà, onestà e competenza. Anche nella morte, caduto in disgrazia presso l’imperatore, mostra la sua diversità: egli muore silenziosamente, senza cercare la gloria di un martirio ostentato. Il senso profondo di questo atteggiamento costruttivo è condensato nella formulazione di 42,6 dove Tacito afferma che si può essere grandi uomini anche sotto cattivi imperatori. L’Agricola è un’intersezione fra diversi generi letterari: si tratta di un panegirico sviluppato in biografia, di una laudatio funebris, ampliata e integrata con elementi storici ed etnografici. Nell’esordio e nei discorsi è notevole l’influenza di Cicerone, mentre nelle parti narrative si avverte la presenza di Sallustio e Livio. Virtù dei barbari e corruzione dei romani Gli interessi etnografici sono al centro della Germania, l’unica testimonianza rimasta di una letteratura etnografica romana. Le notizie derivano probabilmente da fonti scritte, soprattutto da Plinio il Vecchio, che aveva prestato servizio nelle armate del Reno. Sembra aver seguito con dedeltà la sua fonte e migliorarne lo stile, anche se rimangono alcune discrepanze. Attraverso quest’opera voleva, probabilmente, esaltare una civiltà ingenua e primordiale, non ancora corrotta dai vizi di una civiltà decadente → la Germania sembra percorsa da una vena di implicita contrapposizione dei barbari, ricchi di energie sane e fresche, ai romani → forse Tacito voleva sottolinearne la loro pericolosità. La debolezza e la frivolezza della società romana dovevano allarmare l’autore: i germani potevano rappresentare una minaccia per un sistema politico basato sulla corruzione. Ci sono anche dei collegamenti con eventi reali, come la presenza di Traiano sul Reno. Le opere maggiori Le due maggiori opere storiche di Tacito, le Historiae e gli Annales, hanno un andamento annalistico (seguono una scansione cronologica anno per anno) e si propongono ome monografie, il cui tema è lo studio del potere, di come il principato, dopo le guerre civili, si fosse reso necessario perchè la pace restasse stabile. Tacito studia i meccanismi oscuri della conservazione e della distruzione del potere: Roma diventa una metafora triste sulla natura malvagia dell’uomo. Le Historiae → originariamente divisi in dodici libri. I primi cinque libri abbracciano un arco di tempo che va dal 1° gennaio 69 d.C., l’anno dei quattro imperatori, alla rivolta giudaica del 70. Ma l’intera opera doveva arrivare fino al 96, anno della morte di Domiziano. La parte rimasta comprende una serie di rivolte e guerre civili: il regno di Galba, la sua uccisione e l’ascesa di Otone, la lotta di quest’ultimo con Vitelio e il suo suicidio, l’acclamazione a imperatore di Vespasiano. Il V libro contiene un ex cursus sulla Giudea, ribellatasi ai romani. Gli Annales → si sono conservati i libri I-IV, un frammento del V e parte del VI, comprendenti il racconto degli avvenimenti della morte di Augusto, Tiberio; i libri dall’IX al XVI, col racconto dei regni di Claudio e Nerone, fino al 66. L’opera continuava probabilmente l’opera di Livio. Le due opere cominciarono a circolare in un’edizione unica in trenta libri, invertendo l’ordine di composizione per formare una narrazione continua dalla morte di Augusto a quella di Domiziano. Tra le due opere ci sono differenze di atteggiamento e di stile, anche se l’impostazione generale rimane simile. Tacito è uno storico nel senso che la sua opera si attiene ai canoni della storiografia antica, ma è anche un artista drammatico perché c’è una forte presenza di coloritura poetica. La componente tragica non ha il compito di suscitare emozioni, ma di sondare nelle pieghe dell’animo i personaggi per portare alla luce le ambiguità e i chiaroscuri che essi presentano → Tacito vede le cause della corruzione nella natura dell’uomo, per lui le cause dei disastri e delle rovine di Roma sono nell’inadeguatezza degli uomini di fronte agli eventi. Mette in luce i grandi turbamenti delle masse o del singolo, chiamato a decidere per tutti. A volte i suoi personaggi sono figure processione d’onore della dea in cui un sacerdote indosserà una corona di rose. Da qui iniziano le varie fasi dell’iniziazione di Lucio che diventa devoto di Osiride ed esercita a Roma la professione di avvocato. Il testo pone diverse questioni → la prima riguarda il genere dell’opera, che si suole definire romanzo. In realtà, il romanzo sembra mancare di una fisionomia definita e appare come un’intersezione tra vari generi; in più difficoltà di tracciare un vero quadro del genere romanzo. Occorre considerare anche un altro elemento, cioè il rapporto con le fabulae Milesiae, cui l’autore riconduce la sostanza dell’opera. Il naufragio pressoché totale della traduzione che Cornelio Sisenna fece delle fabulae di Aristide di Mileto rende oscure le origini di questo genere di narrativa a Roma, con l’unica certezza del carattere erotico e licenzioso di queste novelle → la storia dell’asino-uomo sembra essere stata una fabula Milesia. Probabilmente si deve ad Apuleio l’aggiunta dell’elemento magico, presente anche nel testo greco, ma meno rilevante. Inserisce nel racconto una serie di racconti a carattere magico, i cui personaggi (Socrate, Aristomene e Telifrone) rappresentano tipiche figure di mercanti o di studenti scioperati → la loro vita appare frustrata, ribaltata nell’urto con lo spietato mondo della magia. Fonti → un racconto in lingua greca a noi pervenuto nel corpus delle opere di Luciano di Samòsota sviluppa lo stesso intreccio delle Metamorfosi con il titolo Lucio o l’asino; il dotto bizantino Fozio dice di aver letto racconti di trasformazione nell’opera di Lucio di Patre, probabilmente fonte di Luciano. Lucio di Patre probabilmente non è mai esistito e rimane aperta la questione sulle parti presenti solo nel testo di Apuleio, in quale misura esse vadano attribuite all’intervento apuleiano. Alcuni gli concedono la novella di Amore e Psiche, altri quasi tutte le vicende assenti nel Lucio → il finale sicuramente è di Apuleio e questa idea si basa sul fatto che il protagonista, un giovane che si configura greco per tutto il romanzo, diventa nell’ultimo libro Madaurensis, cioè di Madaura. Il Lucio ha come scopo il puro intrattenimento, mentre le Metamorfosi presentano anche una serietà moralistica, svolta dalla curiositas di Lucio che conduce il personaggio alla rovinosa trasformazione. Emblematica è la favola di Amore e Psiche che assume valore fondamentale come figurazione e simbolo del destino di Lucio → la trama è quella di una fiaba: Psiche, figlia minore di un re, per la sua bellezza straordinaria suscita l’invidia di Venere, che ne fa preda di un mostro. Viene portata invece in un bellissimo palazzo, dove incontra il suo sposo, di cui ignora l’identità e di cui le è sempre vietata la vista. Istigata dalla due sorelle invidiose, Psiche trasgredisce il divieto e spia Amore mentre dorme → Psiche si sottomette ad una espiazione, attraverso varie prove (anche discesa negli inferi) e la novella si conclude con le nozze e l’apoteosi di Psiche. Questa favola attiva una linea tematica religiosa, che non solo prefigura l’epifania di Iside, ma si sovrappone anche alla linea tematica dell’avventura. Tutto il romanzo si struttura come un itinerario attraverso un mondo fatto di segni e di simboli letterari, verso una liberazione che si situa nella luce e nella moralità. Lingua e stile Condivide la predilezione dei suoi contemporanei per la parola obsoleta e per gli autori arcaici, ma facendola rientrare in una più generale ricerca di letterarietà. La sua lingua richiama continuamente l’attenzione del lettore sulla forma espressiva e sul contenuto del messaggio → le parole sono evocative. La sua prosa è espressiva; nel suo aprirsi a nuovi ritmi e costruzioni, però, lascia presagire la non lontana stagione della prosa mediolatina. Capitolo 14 Filologia, retorica e critica letteraria Nella tradizione della letteratura latina la filologia è legata alla natura stessa dell’operazione letteraria, in quanto i poeti romani cominciano come traduttori e rifacitori di testi poetici che devono capire e interpretare. Le caratteristiche della filologia romana del II secolo a.C. ci rivelano influssi sia di tipo alessandrino, che pergameno → il lavoro dei filologi di quel tempo era assai differenziato: ricerche di cronologia, problemi di autenticità, arrangiamento formale dei testi del passato, studi linguistici e grammaticali. Inoltre, si redigono dei canoni, cioè graduatorie di poeti ordinate per generi. Poco sappiamo delle attività editoriali come quelle che stavano rendendo famosa la filologia di Alessandria, cioè la preparazione dei testi rivisti, corredati di segni convenzionali che servivano ad indicare gli interventi critici da operare sul testo; mancavano anche le biblioteche statali, erano presenti solo ad Alessandria e Pergamo. A Roma, invece, il patrimonio librario restò a lungo privato, almeno fino al 39 a.C. quando Asinio Pollione fece istituire la prima biblioteca di Stato. Inoltre, fino all’età augustea i maestri sono figure subalterne e non sono cittadini romani. I maestri del I sec. a.C. sono figure isolate, al centro di circoli e cenacoli privati. La filologia dell’età augustea è segnata dall’imporsi di nuovi classici di Cicerone, Virgilio, Orazio → queste figure diventano subito oggetto di studio e analisi per i filologi: Igino, liberto di Augusto, compose almeno cinque libri pieni di osservazioni su problemi virgiliani, come questioni di contenuto, ricerche antiquarie, difficoltà di interpretazione. Frontone Verso la fine del I secolo a.C. e l’inizio del II si afferma un nuovo movimento che si rivolge alla cura per gli autori del passato → capofila di questo gusto arcaizzante è Frontone: nacque in Africa attorno al 100, ebbe una notevole carriera politica e morì intorno al 170. Sono andate perdute le orazioni pubbliche, ma abbiamo invece il carteggio con i due discepoli imperiali, scoperto da Angelo Mai nel 1815 in un palinsesto milanese. La nostra conoscenza di Frontone è falsata: privi dei suoi prodotti migliori, ci dobbiamo accontentare di uno scambio epistolare e, di conseguenza, ai nostri occhi la sua figura viene ridimensionata. Sappiamo però che va alla continua ricerca di effetti di suono, giochi di parole, eleganze formali, in un dominio totale della forma rispetto agli esigui contenuti. Aulo Gellio Scrisse le Noctes Atticae, 20 libri che si presentano come una raccolta di appunti presi a veglia durante un inverno trascorso nei pressi di Atene. Gli argomenti riguardano temi di viaria erudizione, con una netta prevalenza delle discussioni linguistiche e letterarie. La tradizione a cui fa riferimento è quello delle raccolte miscellanee di erudizione. Ha un estremo interesse per tutta la latinità arcaica, specie per i comici dell’età plautina ed è appassionato ricercatore di tradizione in antiquarie e di particolarità linguistiche. È uno scrittore piacevole ed elegante e molto chiaro nell’esposizione. Capitolo 15 La poesia nel II secolo d.C. Il II secolo si presenta ricco di vivacità: la crisi economica, morale e culturale di Roma precipiterà nel secolo seguente e sarà questa rottura a introdurre la fase del tardo impero romano. Dall’epistolario di Plinio il Giovane, la poesia emerge come un raffinato hobby delle classi elevate più che come una vocazione profonda. In questo periodo abbiamo solo autori minori, di cui abbiamo solo scarsi frammenti → gli storici costruiscono per la poesia del II secolo una scuola, ovvero il gruppo dei poetae novelli: la chiave di riferimento è la scuola neoterica del I secolo a.C. con Catullo, Valerio Catone, Cinna e Calvi. La novità dei novelli si alimenta di recuperi regressivi, rivolti a ciò che è arcaico, obsoleto e fuori moda. L’etichetta di poetae novelli è riferita dal grande metricista Terenziano Mauro ad alcuni poeti di cui abbiamo poverissimi resti. La personalità più interessante all’interno di questo quadro è la figura di Adriano, imperatore romano → la sua polita di integrazione universale abbracciava Roma, le province, la Grecia e l’Oriente; aveva una profonda cultura greca, letteraria e artistica e incoraggiava all’erudizione e componeva in entrambe le lingue. La poesia nel III sec. d.C.: gli ultimi prodotti della poetica dei novelli Si tratta di un’epoca non molto feconda per la poesia. Molte composizioni sono state conservate nell’Anthologia Latina, una vasta raccolta di carmi messa insieme in Africa nel VI secoli, che contiene scritti di poeti africani della tarda antichità. L’antologia rimanda ad ambienti scolastici e ha il merito di tramandarci opere e autori che altrimenti sarebbero andati irrimediabilmente perduti. Il pezzo più famoso è il Perviligium Veneris, anonimo e alcuni lo assegnano all’età degli Antonini per coincidenze di stile. In questa veglia di Venere i temi popolari ed erudizione letteraria si mescolano in un insieme di grande fascino e delicatezza. Strofe di diversa lunghezza, separate da un ritornello, descrivono le celebrazioni di Venere per festeggiare la primavera. Riprende nel metro una forma di poesia popolare, usata nelle acclamazioni che i soldati usavano per gridare i trionfi dei loro generali vincitori; si possono riconoscere nelle sintassi alcuni tratti della lingua popolare. PARTE QUINTA: LA TARDA ETÁ IMPERIALE Il contesto: dai Severi a Diocleziano (193-305) I grandi mutamenti sociali Siamo in un momento drammatico per Roma a causa delle guerre civili e di fronte ai grossi cambiamenti interni che rimettevano in discussione i cardini dell’ordinamento statale. Nei primi anni del III secolo, la dinastia dei Severi, promosse una rigorosa politica di accentramento, che si accompagnava ad un processo di democratizzazione della società, soprattutto nelle province: si prestava attenzione ai ceti poveri, mentre i rappresentati del potere centrale controllavano che i ricchi e i potenti non prevaricassero i diritti degli umili e pagassero con regolarità i tributi al fisco. Con la fine di questa dinastia, nel 235, si apre il periodo più tormentato, caratterizzato da un numero elevato di imperatori che rimangono in carica per pochissimo tempo. Intanto le frontiere sono sottoposte a continue pressioni e in questa situazione l’esercito acquista un’importanza determinante per la sopravvivenza dello Stato, tanto che la scelta dell’imperatore è controllata dalle truppe e si cominciano a reclutare anche i barbari. Ai problemi militari erano connessi quelli economici: le campagne si spopolavano, le città sottoposte a saccheggi e l’insicurezza delle vie di comunicazione causò una riduzione dei commerci. A questo quadro negativo, si aggiunsero catastrofi naturali, con un conseguente calo della popolazione. L’affermarsi del cristianesimo Questo clima di angoscia favorisce il diffondersi di nuove sette. Nel giro di pochi mesi il cristianesimo prevale sugli altri culti, diventando religione ufficiale dell’impero. Per tutto il secolo i rapporti fra le comunità cristiane e le istituzioni furono ambigui e complessi: a periodi di tolleranza, se ne alternavano altre in cui i martirii erano all’ordine del giorno. Se le vittime cristiane furono relativamente poche in Italia, la situazione fu drammatica in Africa, dove i vertici della Chiesa Il contesto: da Costantino al Sacco di Roma (306-410) L’ascesa al trono di Costantino torna a imporre stabilità all’impero. In Occidente la vita tende a spostarsi nelle campagne: sono i grandi latifondi a garantire ai poveri una vita più sicura, meglio fornita dei mezzi di necessaria sussistenza. La Chiesa coopera con l’autorità amministrativa e la sostituisce quando questa è assente → la figura del vescovo cresce e le principali sedi vescovili vengono occupate da rappresentanti delle grandi famiglie aristocratiche. Con la fine del secolo, con Teodosio, il cristianesimo diventa l’unica religione di stato. Nel frattempo, i barbari aumentano la pressione alle frontiere → dopo la morte di Teodosio risulta difficile fermare la penetrazione germanica, che però avviene in modo più o meno pacifico, perché accettano di sottomettersi a Roma. Nell’esercito e nell’amministrazione sono fedelissimi funzionari, ma nel 406 il fronte del Reno cede ad una violenta invasione di alani e vandali: dall’Italia del nord muovono i visigoti di Alarico, che nel 410 mettono a sacco la capitale dell’impero. È un momento terribile e molte persone, ma persone come Agostino traggono dalla caduta della città i motivi di un sostanziali ripensamento fra religione e politica. Capitolo 2 Ammiano Marcellino, la vita e le opere Era lo storico più importante del periodo tardo. Nato ad Antiochia intorno al 330-335 apparteneva ad una famiglia benestante di lingua e cultura greca. Era un ufficiale dell’esercito e partecipò a diverse campagne contro i Parti. Si trasferì a Roma, dove cominciò a scrivere la sua opera storiografica, ma non riuscì ad integrarsi completamente. L’opera Rereum gestarum libri XXXI, partiva dal regno di Nerva (96) e giungeva fino alla morte dell’imperatore Valente, avvenuta nella battaglia di Adrianopoli del 378 → noi abbiamo solo i libri dal XIV alla fine, che trattano gli avvenimenti dal 353 al 378 e le vicende dell’imperatore Giuliano, il quale aveva abiurato la religione cristiana, sono le parti più importanti; a Giuliano, Ammiano rivolge un’attenzione maggiore. Ammiano vuole presentarsi come prosecutore dell’opera di Tacito → l’influsso si nota nella scelta di un ordine cronologico, diversamente da Svetonio e dall’ambizione ad essere imparziale (critica Giuliano); possiede anche un atteggiamento pessimistico, la convinzione che lo stato sia allo sfacelo e il sarcasmo nei confronti di un’aristocrazia priva di potere effettivo. Il suo stile è enfatico, caratterizzato da un eccessivo uso degli artefici della retorica, dovuto dalla limitata conoscenza del latino. In alcune descrizioni affiora il gusto per il macabro e il meraviglioso, l’orrido e il sensuale. Ausonio, la vita e le opere Nacque a Burdìgala, odierna Bordeaux, in Aquitania. Fu cristiano, ma senza provare vergogna per la sua erudizione pagana → nel IV secolo la divisione tra pagani e cristiani è ancora poco netta e le due religioni convivono piuttosto bene. Professore di grammatica e retorica, rivela un gusto accademico del tutto sordo verso i problemi reali che minano alla solidità dell’impero. Nelle sue opere è presente il gusto per i giochi metrici e il virtuosistico sperimentalismo di tante composizioni: ad esempio il Cento nuptialis, centone virgiliano che utilizza i versi di Virgilio tagliati e accostati in modo da mutarne il significato originario, attribuendo anche un significato osceno; evidente è l’eleganza compositiva e formale, il gusto per l’erudizione. Va ricordata la Commemoratio professorum Burdigalennsium, cioè una serie di ricordi di professori di provincia, dei quali l’autore immagina di comporre gli epitaffi: tante vite in fondo tutte uguali ma che offrono un interessantissimo spaccato di storia sociale. Tra le altre opere ricordiamo i Parentalia, cioè carmi che il poeta dedica ai propri defunti; la Bissula cioè espressioni di affetto per una schiava germanica liberata e istruita nella cultura di Roma; la Mosella, un epilio dedicato a questo fiume con ampie descrizioni di paesaggi. Vanno ricordati anche i 114 epigrammi e le 25 epistole metriche ad amici. Ebbe un grande successo con i contemporanei, ma il successo svanì col tempo. Claudiano, la vita e le opere Nato ad Alessandria d’Egitto, attivo alla corte d’Occidente pochi anni dopo Ausonio e morto attorno al 404. Della sua prima produzione, in greco, restano alcuni frammenti sulla Gigantomachia. Venuto in Italia, diventa il poeta al seguito e il protetto del generale germanico Stilicone. La maggior parte delle sue opere è scritta in lingua latina: diversamente da Ausonio, la sua poesia appare più informata e consapevole dei problemi. Ricordiamo il ciclo dei tre poemi epico-storici dedicati alle imprese di Stilicone: il De bello Gothico, il De bello Gildonico e la Laus Stilichonis. Il recupero dell’epica di argomento storico contemporaneo e la sua fusione con i caratteri della poesia encomiastica corrispondevano all’esigenza di cercare successo presso il pubblico. In lode indiretta di Stilicone è ancora l’Elogio di Serena, la moglie del generale che Claudiano considerava sua benefattrice. Per l’imperatore Onorio scrisse tre panegirici, dove l’elogio dell’imperatore si unisce all’esaltazione della grandezza di Roma, e il De nuptiis Honorii et Mariae, un epitalamio per le nozze dell’imperatore con la figlia di Stilicone. Scrisse due poemi di ispirazione mitologica: la Gigantomachia e il De raptu Proserpinae, che narra il mito di Proserpina, rapita da Ade. Il ritmo della narrazione è lento, prevalgono le digressioni, i discorsi diretti e le descrizioni. Scrisse inoltre vari componimenti d’occasione per influenti personaggi, alcune lettere in versi e alcuni idilli ed epigrammi tra il 395 e il 404. Capitolo 3 Arnobio e Lattanzio Dopo l’editto di Costantino gli imperatori cominciano non solo a favorire i cristiani, ma a partecipare alle dispute teologiche, interessandosi ai problemi della fede e della Chiesa. Gli autori cristiani passano da un atteggiamento difensivo ad uno aggressivo: il paganesimo non è più temibile. Questi caratteri sono evidenti nella produzione apologetica di Arnobio, maestro di scuola a Sicca Veneria, vicino a Cartagine. Scrisse gli Adversus nationes, cioè sette libri che si distinguono per l’aggressività della polemica antipagana scritti dopo le persecuzioni di Diocleziano e poco prima dell’editto di Costantino. È in convertito e le sue cognizioni di teologia sembrano spesso vaghe e confuse → si dice che scrivesse l’opera per convincere un vescovo che lo accusava di non possedere una salda dottrina cristiana. Le sue dottrine sono anomale, mentre il suo bagaglio letterario appare meglio fornito. Più addentro alla dottrina cristiana è il suo discepolo, Lattanzio. Tra le opere più importanti ricordiamo il De opficio Dei mortibus persecutorum (ricorda le drammatiche morti di quanti hanno perseguitato i cristiani) e le Divine Institutiones (sette libri) opera che ambisce ad essere una sistemazione complessiva della dottrina cristiana, sul modello di varie Institutiones composte nella tarda antichità. Lattanzio è un pacato razionalista, filologo e tende a presentare il cristianesimo come il frutto naturale della sapientia classica. Capitolo 4 Ambrogio, la vita e le opere Nacque intorno al 339-340 a Treviri, in Germania, dove risiedeva il padre che era prefetto del pretorio per la Gallia. Recatosi a Roma, frequentò le scuole migliori e cominciò la propria carriera pubblica; poco più che trentenne fu inviato a Milano come consularis Liguriae et Aemilia, ovvero governato dell’Italia Settentrionale. Alla morte dell’ariano vescovo di Milano Ausenzio (374), per scongiurare uno scontro tra ariani e ortodossi, viene nominato vescovo della città e restò in carica fino alla morte (397) divenendo la vera autorità della Chiesa d’Occidente. Risale ad Ambrogio quel fenomeno che portò la Chiesa ad intervenire nelle vicende del mondo, in particolare si assiste a una delimitazione dell’autorità decisionale dell’imperatore, il quale è soggetto alla Chiesa per tutte le iniziative politiche che hanno rilievo sul piano morale. Ambrogio si contrappose a Simmaco con due durissime lettere che dissuasero l’imperatore dal prestare ascolto alle richieste dei pagani. Per quel che riguarda la letteratura latina, gli Inni sono ritenuti la sua opera migliore e quelli autentici sono quattro: Aeterne rerum conditor, Iam surgit hora tertia, Deus creator omnium, Veni redemptor gentium, testimoniati da Agostino. La storia di queste composizioni è raccontata da Ambrogio: quando nel 386 l’imperatrice Giustina decise di destinare la chiesa Porziana al culto della componente ariana, Ambrogio si recò ad occuparla e per intrattenere gli occupanti in quelle giornate, pensò di cantare questi testi. Importante è anche l’epistolario che alterna lettere private a lettere ufficiali; ricordiamo anche il De officiis ministrorum dedicato alla definizione dei doveri degli ecclesiastici, sul modello del De officiis ciceroniano. Scrisse anche un commento ai sei giorni della creazione come sono narrati nel libro della Genesi, cioè l’Hexameron → sei libri in cui l’autore mostra l’ingenuo stupore dell’uomo che vede la natura del creato per la prima volta insieme ad una raffinata esposizione descrittiva che usa al meglio le figure retoriche tradizionali. Girolamo, la vita e le opere Nacque a Stridone, in Dalmazia, intorno al 357 e venne a Roma nel 354; viaggiò in Oriente, dove apprese il greco e fu ordinato sacerdote. A Roma venne scelto dal papa Damaso come suo segretario, ma alla sua morte il suo prestigio declinò: criticato per gli eccessi del proprio rigore ascetico, abbandonò Roma nel 385 per l’Oriente. Trascorse l’ultimo periodo di vita in Palestina dove morì in uno dei numerosi conventi da lui fondati, nel 420 circa. Abbiamo scritti agiografici, di polemica religiosa, commenti dell’Antico e Nuovo Testamento e un epistolario che tocca diversi argomenti → celebre è la lettera 22, che racconta della sua abiura del classicismo e della promessa di non leggere più autori latini in seguito ad un sogno fatto in Terrasanta, in cui gli sarebbe comparso il giudice divino per rimproverarlo; la promessa non fu mantenuta. La sua opera principale è la Vulgata, cioè la traduzione in latino della Bibbia → durante il periodo romano allestì la traduzione dei Vangeli e una versione dei Salmi, effettuata dalla versione dei Settanta, che traduceva a sua volta l’originale ebraico. Si convinse presto della necessità di lavorare direttamente sull’ebraico, senza passare per i testi greci e in quindici anni (391-406) l’opera fu completata → finalmente l’Occidente aveva una traduzione unitaria, ma il testo non ottenne subito successo: resistenze dei fedeli verso la nuova traduzione, così come l’ostilità di Agostino che vedeva nello svincolamento dal testo dei Settanta un fattore di allontanamento tra la Chiesa d’Occidente e quella d’Oriente. Ci tramanda notizie importanti per la conoscenza dei poeti antichi: tradusse la Cronaca di Eusebio, integrandola con notizie relative al mondo latino, anche attinte dal perduto De poetis di Svetonio. Da Svetonio trae il titolo l’opera De viris illustribus, che contiene una serie di biografie di scrittori cristiani → le biografie sono personali. Girolamo possiede uno stile vivace e vigoroso, suggestivo e variegato. Agostino, la vita e le Confessiones Nasce nel 354 a Tagaste, una città della Numidia. Studiò a Cartagine, dove ebbe un figlio illegittimo e a 19 anni, la lettura dell’Hortensius di Cicerone gli causò una profonda crisi spirituale. Nel 384 venne chiamato a Roma a svolgere la professione di insegnante e su raccomandazione di Simmaco ottenne la cattedra di retorica a Milano, dove si convertì definitivamente al cristianesimo.