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Propedeutica al Latino Universitario, Sintesi del corso di Lingua Latina

La propedeutica latina riassunta nei suoi svolgimenti essenziali e fondamentali senza ridondanze e ripetizioni, piuttosto a livello nozionistico basilare.

Tipologia: Sintesi del corso

2017/2018

Caricato il 02/07/2018

marianna-longano
marianna-longano 🇮🇹

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Scarica Propedeutica al Latino Universitario e più Sintesi del corso in PDF di Lingua Latina solo su Docsity! Propedeutica al latino universitario Capitolo 1 Diacronia e sincronia La lingua si può considerare da due punti di vista, uno sincronico e uno diacronico: 1. La diacronia studia la lingua attraverso il tempo come una serie di rapporti successivi: è uno studio dinamico delle fasi della lingua, e soddisfa l’esigenza della storicità. 2. La sincronia studia la lingua a prescindere dal tempo, come un complesso di rapporti simultanei: è uno studio statico di un preciso stato di lingua, che sodisfa l’esigenza della sistematicità. Nel primo Ottocento, la grammatica storica e comparata (metodo storico-comparativo) scoprì che dalla comparazione tra le forme corrispondenti delle lingue si risaliva ad una forma unica e originaria, che si sarebbe poi differenziata nel tempo. La validità delle equazioni linguistiche era garantita dalle leggi fonetiche, regole relativamente costanti di trasformazione dei fonemi. Poi nacque la linguistica sincronica o descrittiva, che simbolizza la rete di rapporti intercorrenti all’interno del sistema linguistico con formule algebriche e modelli geometrici. L’indoeuropeo Il metodo comparativo scoprì che non solo il latino e greco, ma anche altre lingue europee e asiatiche avevano un’affinità genetica e risalivano ad una “lingua madre” comune, chiamata indoeuropeo: è un concetto linguistico concepito come un insieme di varietà dialettali eurasiatiche risalenti al IV-III millennio a.C. Poi, con le migrazioni, questi dialetti si affermarono tra l’India e l’Europa, soppiantando le lingue indigene e differenziandosi in una serie di lingue: sanscrito, iranico, armeno, slavo, baltico, greco, germanico, italico o osco-umbro, latino, celtico. Le fasi del latino Il latino è una lingua indoeuropea, la lingua della città di Roma, che confinava con l’osco e con l’etrusco, di cui subì un moderato influsso. L’influsso maggiore fu quello del greco: il latino si arricchì continuamente di grecismi lessicali, attraverso tre canali: il commercio, la tecnica, la cultura. Il latino seguì l’espansione di Roma ma non penetrò nell’Oriente ellenizzato: l’impero fu sempre bilingue, come la cultura romana. Nella storia del latino si distinguono le seguenti fasi: 1. Latino preletterario, fino all’inizio del secolo a.C. 2. Latino arcaico: da Livio Andronico (240 a.C.) all’inizio del I secolo a.C. 3. Latino classico: nel I secolo a.C. (età di Cesare e di Cicerone) 4. Latino augusteo (morte di Augusto nel 14 d.C. 5. Latino postclassico o imperiale: nei primi due secoli dell’impero (morte di Marco Aurelio nel 180 d.C.) progressivo divergere di lingua letteraria e lingua parlata e progressivo convergere di lingua poetica e prosastica. 6. Latino cristiano: particolare forma di latino imperiale attestata negli scrittori cristiani dalla fine del II secolo d.C. ricco di semitismi, volgarismi e grecismi. 7. Tardolatino o basso latino: in parte parallelo al latino cristiano, negli ultimi secoli (morte di Boezio, 524) Gli strati del latino Ci sono anche differenze sincroniche all’interno del latino, composto di diversi strati o livelli stilistici: 1. La lingua letteraria, fortemente stilizzata 2. Le lingue tecniche delle varie attività (agricola, giuridica, sacrale, politica e militare) 3. La lingua d’uso della conversazione e della corrispondenza 4. Il latino volgare degli indotti e dei semidotti Ma anche all’interno della lingua letteraria vi sono differenze stilistiche notevoli prescritte dalla teoria dei generi letterari. Una prima biforcazione è tra lingua della prosa e lingua della poesia, che prevede poi un tono alto per epica e tragedia, un tono medio per l’elegia, un tono umile per commedia e satira. La prassi greca caratterizzava ogni genere e con un dialetto e spingeva i latini verso il plurilinguismo, ma i romani non avevano dialetti, banditi dal purismo della urbanitas, perciò risolsero la differenziazione stilistica a livello lessicale. Importante è la questione dei sinonimi: per molte serie sinonimiche la differenza non è semantica ma stilistica (glaudius/ensis). Certo tra i diversi strati non ci sono compartimenti stagni, a causa di un continuo ricambio tra alto e basso, ma complessivamente tra differenze rimangono nette. Il divario tra lingua letteraria, ancorata a modelli classici, e lingua parlata, si approfondisce sempre più nell’epoca imperiale, con l’estendersi del territorio e delle isole alloglotte, che lasciano tracce del latino della loro lingua originaria. Pur nella dicotomia tra latino letterario e parlato subì una rapida differenziazione geografica, agevolata dall’isolamento culturale e dal declassamento economico delle popolazioni. Alla lingua latina, la lingua letteraria, e alla lingua degli invasori, comincia a contrapporsi la rustica Romana lingua, la lingua parlata dei vinti, all’origine delle lingue romanze o lombardo. La pronuncia popolare oscillò sempre tra i e u, e tale oscillazione grafica tra u e i una vocale breve, sia tonica sia, atona, dinanzi a labiale. La grafia più antica era u, ma la u rimase come segno di arcaismo. Sulla reale pronunzia di questo fonema variano tuttora le opinioni: la più probabile sembra quella di chi lo considera una vocale indistinta, che nei proparossitoni (accento acuto sulla terzultima sillaba) poteva preludere alla sincope (caduta di vocale interna. U semivocale (v) Mentre noi distinguiamo tra U u da una parte, V v dall’altra; i Latini invece usavano un solo segno, V per la maiuscola, e in seguito con lo sviluppo della minuscola, u. I segni U e v entrarono nell’uso solo con gli umanisti, da cui presero il nome di “lettere ramiste”. Come i Latini non avevano il segno della v, quasi certamente non ne avevano neanche il suono. Nella pronunzia classica la u di uiuo si distingueva dalla u di unus in quanto questa è una vocale (uno in italiano), l’altra una semivocale (uovo, uomo in italiano). Qualche difficoltà può presentare la pronunzia del gruppo uu di uuius, ma questa grafia è postclassica, la pronuncia classica era dunque col primo elemento semivocalico, u, che fino al primo secolo dell’impero impedì alla o seguente di chiudersi in u. L’aspirazione H in italiano è una lettera muta. Questa tendenza a eliminare l’aspirazione risale già al latino, ma vi fu contrastata dalla lingua colta e dalla scuola. Ci sono tre specie di aspirazione: I. Aspirazione vocalica iniziale: si conservò nel latino, anche per influsso dello spirito aspro greco. Nel latino rustico l’aspirazione iniziale si perse per tempo, capitava che chi volesse parlar fino, aspirasse a sproposito. II. Aspirazione vocalica interna: era già muta in epoca preletteraria, non avendo impedito né la contrazione, né il rotacismo. La pronunzia corrente di mihi e nihil fu certo sempre mi e nil. L’h rimase come segno grafico, per ragioni etimologiche nei composti, o per separare le sillabe. Dunque nella pronuncia classica l’aspirazione vocalica interna, a differenza di quella iniziale, non si fa sentire. III. Aspirazione consonantica: ch, th, ph. Era originariamente estranea al latino, e fu introdotta nella seconda metà del II sec. a.C., per rendere con più fedeltà le aspirate greche (χ, θ, φ), che anteriormente erano state trascritte con le rispettive tenui latine (c,i,p). Poi tali grafie vennero ammodernate con l’aggiunta dell’h, ma la tenue si conservò in parole ormai consacrate dall’uso. La presenza di un’aspirata in latino è indizio di un grecismo, vero o presunto. Noi pronunciamo incoerentemente queste aspirate, in teoria andrebbero pronunciate come le corrispondenti greche, cioè come tenui seguite da aspirazione: k-h, t-h, p-h. Infatti c’è differenza tra ph, muta labiale aspirata, ed f, continua fricativa labiodentale. Se prima erano associati e spesso confusi, in epoca imperiale in seguito all’evoluzione di φ in fricativa, i due suoni si avvicinarono. Dunque nella storia dell’aspirazione latina possiamo individuare due correnti: • Una dotta che conservava l’aspirazione vocalica iniziale e consonantica • Una popolare che l’eliminava o l’usava a sproposito. Ti davanti a vocale Si pronuncia com’è scritto, cioè senza assibilazione. La prima testimonianza grafica dell’assibilazione è del 140 d.C. Era avvenuto che la i, divenuta da vocale semivocale in iato, aveva intaccato la dentale precedente. Successivamente, quando nel latino tardo e medievale anche ci davanti a vocale si assibilò, i due segni si confusero, dando luogo a doppioni omofoni. Le velari davanti a vocale palatale (e/i) È il punto di maggior distanza tra la nostra pronuncia e quella classica. Siamo sicuri di poche norme: c e g suonavano sempre “dure”, anche davanti a e ed i. L’omofonia di c e k è documentata dai frequenti scambi epigrafici delle due lettere. I latini trascrivevano con c il k greco. La velare sonora g era più rara della sorda c: perciò le testimonianze sono più scarse. Ma l’equivalenza con il 0 2 6 3 greco è attestata da trascrizioni e dall’omofonia dei due imperativi. Non si può dare una risposta univoca al quesito che si interroga rispetto a quando avvene la palatizzazione delle velari. Il gruppo gn Sul piano pratico, avendo la g un suono velare, ne conseguiva che il gruppo gn non potesse essere pronunciato come in italiano con la cosiddetta schiacciata n, ma come velare più nasale (gn). Per quanto invece riguarda l’aspetto teorico è più probabile, che nel gruppo gn la g, assimilandosi alla n seguente, suonasse come una nasale velare, cioè come la prima di 0 2 6 3 di ἄγγελος. Il gruppo quu Sembra che classicamente coesistessero due grafie e le rispettive pronunce: 1. Una fonetica e popolare, che riduceva la labiovelare qu alla velare pura c dinanzi a o/u, aveva il vantaggio di allineare la desinenza con quella degli altri nominativi singolari maschili della II declinazione. 2. Una colta che conservava la labiovelare, ma allo stesso tempo anche o originaria, aveva il vantaggio di mantenere l’unità fonetica del paradigma, mantenendovi ovunque la labiovelare. Nel I secolo dell’impero si giunse ad un compromesso fra le due analogie con le forme equus e sequuntur, ma fu un compromesso esclusivamente grafico: la pronunzia era con una sola u. La -s- intervocalica È sempre sorda, come s- iniziale: entro il IV sec a.Cr. si rotacizzò, cioè passò a - r-. Restarono solo -s- intervocaliche sorde: in parole di origine non indoeuropea, o dove la -s- deriva dalla semplificazione di una doppia -ss- o dove il rotacismo non aveva avuto luogo per dissimilazione con una r. Il gruppo ns La tendenza del latino ad eliminare la n davanti alla s, allungando per compenso la vocale precedente. Tale tendenza continua ad agire nella pronunzia classica anche in contrasto con la grafia, riducendo la n davanti alla s nelle sillabe radicali a una debole appendice nasale della vocale precedente. Per ipercorrettismo, la n era aggiunta davanti alla s anche dove in origine non era, e nel grecismo thensaurus rispetto a θησαυρός. Forse di seguito all’analisi di alcuni casi, la pronuncia “grafica” di -ns- si è generalizzata nell’insegnamento scolastico del latino, mentre la fonetica romanza procedeva a ridurre in ogni caso ns a s. Abbiamo dunque un’insolita divergenza tra pronunzia scolastica del latino ed esito romanzo, che in genere coincidono. Pronunzia classica o pronunzia italiana? Della pronuncia classica abbiamo tentato di ricostruire solo l’anatomia e non la fisiologia di essa, tuttavia perché essa sia viva mancano troppi elementi che ci sfuggono: • Innanzitutto l’accento, anima vocis, di natura probabilmente musicale • Poi la quantità vocalica che ha rilevante funzione semantica e metrica, come fondamento del ritmo Di contro la pronuncia italiana ha sufficiente legittimità e continuità storica, risalendo all’alto medioevo, e fu veicolo di un altro grande ciclo culturale. La pronuncia scolastica è di solito sconsigliata in quanto ci impone ad adottare regole fonetiche che sono lontane dalla nostra lingua, come nel caso delle aspirate, oppure ci porta ad adottare misure che non ci appartengono. strutture uditive delle rinnovate comunità di parlanti, così tutte le lingue romanze acquistarono un accento intensivo. Fonemi e sillabe Lingua parlata ”catena” di sillabe, che si compongono di uno o più fonemi, ossia di suoni elementari che assumono una loro funzione fonologica (distintiva) nell’ambito, appunto, della sillaba. Il più importante tipo di fonema è quello che siamo abituati a identificare con la vocale usando una distinzione: • Vocale, fonema di base senza il quale la sillaba non può costruirsi e che può, da sola, costituire la sillaba; • Consonante, fonema secondario che possono aversi sia a entrambi i lati della vocale, sia soltanto prima, sia soltanto dopo. E’ molto importante distinguere queste ultime secondo la posizione che occupano nell’ambito della sillaba: consonanti d’inizio e consonanti di chiusura. Ciò consente di fare una prima distinzione di 4 tipi sillabici: 1. Sola vocale 2. Consonante iniziante + vocale 3. Vocale + consonante di chiusura 4. Consonante iniziale + vocale + consonante di chiusura Prima definizione: la sillaba è un segmento della catena parlata, costituito da una vocale, che può combinarsi con una consonante precedente o con una seguente o con tutt’e due insieme. Durata e quantità La quantità è una durata, la dimensione temporale del suono, il quale si prolunga più o meno nel suo tempo di emissione, ora è naturale affermare che tutti i fonemi, in quanto sono entità fisiche, abbiano la dimensione della durata: tutti i fonemi (vocali e consonanti). Se però tutti i fonemi hanno una durata, non tutti hanno una quantità, perché i due termini non si equivalgono. Infatti mentre la prima è presente anche quando l’orecchio non la percepisce, la seconda è la durata che l’orecchio percepisce e la coscienza valuta, ossia è un fatto relativo, legato allo sviluppo che può assumere, in una collettività linguistica, la sensibilità percettiva delle strutture uditive. La durata assoluta dei fonemi è condizionata da tale posizione: essa è massima nella vocale e minore nella consonante di chiusura e minima nella consonante d’inizio. Nella fonologia dei Latini erano percepite ed apprezzate dall’orecchio le durate della vocale e della consonante di chiusura: le une assumevano valore distintivo e si traducevano in quantità, ciò che non accadeva con l’altra, certamente anche in ragione della sua durata istantanea. Questo spiega anche la cosiddetta “scomparsa” del senso quantitativo nelle lingue romanze, ha progressivamente perduto quel valore distintivo che era stato essenziale per il latino. Considerata quindi l’assoluta mancanza di valore quantitativo che caratterizza in latino la consonante iniziale di sillaba, i quattro tipi di sillaba descritti nel paragrafo precedente si riducono a due: 1. Sillabe senza consonante di chiusura (aperte, escono in vocale) 2. Sillabe con consonante di chiusura (chiuse, escono in consonante) La quantità di sillaba Data la natura relativa della quantità rispetto a quella assoluta della durata, i Latini distinguevano: 1. Breve 2. Lunga Non si deve pensare che esistesse un’oggettiva unità di misura sul cui metro si determinassero le singole quantità: la sola esistenza delle due quantità diverse ne rendeva sensibile la diversità. Non venivano apprezzate le quantità dei singoli fonemi ma soltanto la quantità complessiva dei fonemi all’interno della sillaba. Solo nel caso di sillaba aperta si realizza una coincidenza piena tra quantità di fonema e quantità di sillaba. Dunque per gli antichi c’erano soltanto sillabe brevi e sillabe lunghe in opposizione tra loro. In una sillaba chiusa la quantità della sillaba è costituita dalla somma della quantità vocalica e della quantità della consonante di chiusura, essa è sempre lunga a prescindere dalla quantità della vocale che essa contiene. In definitiva avremo 4 casi: A. Vocale breve in sillaba aperta sillaba breve B. Vocale lunga in sillaba aperta sillaba lunga C. Vocale breve in sillaba chiusa sillaba lunga D. Vocale lunga in sillaba chiusa sillaba lunga Regola generale: A. È breve la sillaba aperta con vocale breve B. Tutte le altre sillabe sono lunghe Dando la definizione di dittongo va rifiutata quella tradizionale poiché risale ai grammatici antichi ed è compromessa dal fatto che 2 vocali costituiscono 2 sillabe, si usa perciò correggere la contraddizione affermando che il dittongo è costituito dall’unione di una vocale sillabica con una vocale asillabica. Con ciò si intende distinguere la vocale vera e propria che di per sé è breve, dal fonema aggiunto che è del tutto assimilabile alla consonante di chiusura. Il dittongo in sostanza è a tutti gli effetti una sillaba chiusa, perciò lunga. Confini sillabici e quantità <<di posizione>> a. Per la norma generale che assegna due consonanti consecutive a due sillabe diverse, le consonanti graficamente composte in un unico segno vanno scomposte e ripartite fra due sillabe; b. Una i intervocalica non solo è sempre consonantica, ma era sempre pronunciata doppia, come assicurano gli stessi Latini: perciò va divisa anch’essa fra due sillabe. c. H non influisce mai sui confini sillabici: va sempre ignorata. d. La cosiddetta “s impura” della tradizione italiana non dà nessun impedimento alla norma generale. e. Se le consonanti consecutive sono più di due, solo l’ultima appartiene alla sillaba seguente. f. sc davanti a vocale palatale e gn rappresentano due distinti fonemi consonantici, che vanno perciò assegnati a due sillabe diverse g. Qu, che è sempre seguito da vocale, erroneamente viene ritenuto un digamma, in realtà rappresenta la labiovelare sorda accompagnata da u consonantica; e poiché proprio la natura di questa u condiziona la qualità labiale della velare precedente, il gruppo è assolutamente inscindibile h. gu- prevocalico rappresenta con g la labiovelare sonora, seguita da u consonantica, solo quando sia preceduto da n; in mancanza della nasale precedente, g è la velare pura, u la vocale La sillabazione in latino acquista un’importanza essenziale perché essa basta, da sola, a rendere conto di tutta la prosodia latina, col suo gioco di variazioni quantitative. Perciò si era giunti a canonizzare l’esistenza di una quantità <<naturale>> e di una quantità di <<posizione>>, cui una vocale breve 1. Apocope di -e nell’enclitica -ce 2. Apocope di -e nell’enclitica -ne 3. Apocope di -e nell’imperativo dei composti di dico e duco (non di fero il cui imperativo è atematico) 4. Sincope di -i- nella sillaba finale dei nomi in -atis e -itis 5. Sincope di -u- nei perfetti del tipo audit 6. Sincope di -ui- nei perfetti del tipo fumat d. IL TIPO VòLUCRES/VOLùCRES Si è già detto della possibile oscillazione prosodica del nesso muta + liquida, riservata ai contesti metrici, se tale oscillazione riguarda la sillaba ne resta coinvolta anche la posizione dell’accento, tuttavia non si deve perdere di vista la quantità “naturale”, ossia vocalica: l’oscillazione dell’accento non è possibile in parole come salùbris o delùbrum, dove la quantità della penultima è fissata dalla vocale lunga. e. IL TIPO ABÌETE/ ÀBIETE In sede metrica va segnalato il caso di parole proceleusmatiche (che offrono cioè lo schema prosodico del proceleusmatico). Esse non potrebbero, come tali, entrare nell’esametro tuttavia possiamo notare l’utilizzo che ne fa Virgilio. In questi casi il poeta sfrutta la tendenza di i interna prevocalica ad assumere la caratteristica di consonante che è propria della i iniziale prevocalica. Il passaggio da i vocale a i consonante provoca nelle parole suddette la riduzione di una sillaba e la trasformazione della sillaba precedente da aperta e breve in chiusa e cioè lunga. Se l’accento prima della riduzione sillabica, stava sulla -i-, passa necessariamente sulla vocale della nuova terzultima. Per una corretta accentazione A favorire l’errore di accentazione fu il predominare del latino letto, piuttosto che del latino parlato, la legge della penultima rimane inoperante, e ad essa finiscono per sovrapporsi criteri istintivi, così si tende a mantenere nei composti l’accento della parola semplice e, nella coniugazione, l’accento della voce di base, ad attribuire lo stesso accento a parole più o meno identiche, a subire l’influsso della continuazione italiana Dubbi sull’accento possono nascere, solo per le parole con più di due sillabe e con penultima aperta, monosillabi, bisillabi e parole con penultima chiusa non consentono incertezze. Nei polisillabi con penultima aperta il problema sorge nel ricordarsi la quantità della penultima vocale. In particolare sarebbe utile, invece del continuo ricorso ai dizionari, fissare nella memoria: • Il trattamento apofonico della vocale interna garantisce la quantità breve • Una vocale uscita da un dittongo è sempre lunga • Una sillaba aperta seguita da vocale è generalmente breve • Lat. i,u continuati da ital. e,o sono brevi • Lat. e,o, continuati rispettivamente dai dittonghi italiani ie,uo sono brevi • Un contesto metrico di pronto riferimento è il più immediato dei controlli • A volte basta richiamare altre parole dello stesso tema e sul cui accento non esistano incertezze • Poiché il greco distingue graficamente le due quantità di e e di o, il confronto può fornire istruttivi paralleli, sia nel caso di prestiti fra le due lingue sia in quello di sviluppi indipendenti da una stessa base indoeuropea Ad agevolare il riconoscimento delle più comuni occasioni di errore, eccone un elenco, diviso in categorie corrispondenti ad altrettante fonti di dubbio. 1. Omografi non omofoni: parole di scrittura totalmente o parzialmente identica arrivano a distinguersi per la diversa quantità della penultima, ossia per la diversa posizione dell’accento. 2. False analogie con l’italiano: nella evoluzione dal latino all’italiano molte parole conservano la sede dell’accento latino, ma molte altre lo mutano. 3. L’accento “colonnare”. Una tendenza tipica dell’apprendimento scolastico, per “paradigmi”, dei verbi latini è quella di mantenere l’accento sulla sillaba che lo porta nelle voci iniziali. Questo accento “colonnare” è spesso erroneo, come si vede, per esempio dal diverso comportamento di capio e venio nel presente indicativo. Come sempre è unicamente la legge della penuiltima a fissare di volta in volta la sede dell’accento quando la parola è più che bisillabica. Per evitare errori di questo genere conviene tenere presente lo schema delle classi in cui si può ripartire la coniugazione tematica: vocale tematica lunga e vocale tematica breve. La stessa tendenza a “colonnare” va sorvegliata nei verbi composti che perdono una sillaba passando dalla 1° alla 2° persona: la 1° persona ha sempre l’accento sulla sillaba radicale, la 2° persona la penultima è costituita proprio dalla sillaba radicale, che dunque può mantenere è costituita proprio dalla sillaba radicale, che dunque può mantenere l’accento solo se lunga. 4. Altri composti e derivati. Altri casi di composizione e derivazione si prestano a errori di accento, sempre per false analogie o per spinte istintive. 5. I grecismi. Le divergenze tra accentazione greca e latina vanno ricondotte alle diverse norme delle due lingue: norma dell’ultima vocale in greco, della penultima sillaba in latino, della baritonesi in greco e dell’ossitonìa in latino. I Latini dinanzi ala schiera di parole greche non si comportarono univocamente: esso variò a seconda della classe sociale, secondo le possibilità di ambientamento del grecismo stesso. È inoltre da sorvegliare l’influsso dell’uso dell’italiano, che nell’accentare i grecismi riflette ora l’uso latino ora l’uso greco, ora quello francese. L’unico criterio sicuro per accentare i grecismi in latino rimane perciò quello di risalire ogni volta alla base greca e ricavarne la quantità della penultima. N.B. RIGUARDO A QUESTO CAPITOLO VEDI ESEMPI SUL LIBRO Capitolo IV Problemi di fonetica Apofonia indoeuropea È conosciuta anche come alternanza vocalica o movimento vocalico e riguarda tutte le antiche lingue del ceppo indoeuropeo, essa consiste nella variazione del timbro vocalico che caratterizza gli elementi costitutivi della parola (radici, suffissi, desinenze): tale variazione fonica è destinata a modificare la funzione morfologica e semantica della parola. Ad esempio nella variazione del verbo greco λείπω, a cambiare è solo la vocale ε, variata in o nel perfetto, scomparsa, cioè ridotta a “zero” nell’aoristo, dove perciò la ι, consonantica nei dittonghi, diventa vocale. Allo stesso modo il latino, benché in maniera meno rigorosa del greco, conserva tracce di tale situazione, che nell’ipotetico “indoeuropeo comune” doveva dare luogo ad una vera e propria categoria grammaticale, per cui ad ogni alternanza corrispondeva una specifica variazione morfologica. Questo movimento vocalico era regolato secondo una gradazione quantitativa e timbrica cosicché si potessero ottenere 4 alternanze: 1. Grado normale medio: e 2. Grado normale forte: o 3. Grado allungato medio: e 4. Grado allungato forte: o dell’accento nel latino preletterario non era regolata dalla legge della penultima, e così nasce il problema della localizzazione di questo accento, che si può chiamare “preistorico”. Il fatto che le vocali lunghe rimangano intatte si spiega con la stessa considerazione che il turbamento delle brevi è in definitiva un indebolimento: le vocali lunghe, hanno la capacità di resistere alla forza che tenderebbe a modificare il loro timbro: si è già visto, nelle sillabe chiuse, come una protezione, sia pure parziale, venga assicurata alle stesse vocali brevi dalla presenza della consonante di chiusura. Nella maggior parte delle lingue, le sillabe immediatamente vicine alla sillaba accentata sono le più deboli: in queste sillabe atone infatti, si verificano comunemente gli indebolimenti e le sincopi. Partendo dall’assunto che la sillaba più debole deve essere contigua alla sillaba tonica alcune parole escludono il pensiero che l’accento cadesse nell’ambito delle tre ultime sillabe. Poiché dunque la sede tipica dell’apofonia meccanica risulta in ogni caso la seconda sillaba, l’unica sede possibile rimane quella iniziale: la conferma viene dalla constatazione che una vocale breve di sillaba iniziale resta intatta come deve accadere in sillaba accentata. Dunque l’accento latino di epoca preletteraria aveva la sua sede fissa nella prima sillaba, qualunque fosse la lunghezza della parola. Vi è stato un largo consenso degli studiosi sull’accento preistorico protosillabico ma non poteva mancare la polemica attorno alla sua natura: l’opinione prevalsa a lungo, anche tra i melodisti fu che l’accento preistorico fosse intensivo, era ovvio quindi che si pensasse ad un accento dinamico. Così nacque la definizione dell’accento preistorico, protosillabico e intensivo. La nozione dell’accento toglie valore anche alla diatriba pro e contro l’intensità iniziale: l’accento preistorico poté essere sentito dai parlanti come un accento melodico senza che ciò impedisse alla coesistente componente intensiva di agire come forza riduttrice delle sillabe deboli post-toniche. Altri fatti di vocalismo Vari fenomeni evolutivi caratterizzano il comportamento delle vocali latine nel passaggio dall’epoca preistorica o protostorica allo stadio che si definisce comunemente classico, in particolare tratteremo di alcuni turbamenti che, a differenza dell’apofonia, colpiscono la parola nella sua parte finale, e proprio perché incidono sulla struttura fonetica della desinenza, a cui il latino affida funzioni morfologiche essenziali, assumono un rilievo morfologico di primo piano. • Imperativo di capio viene a coincidere con quello di lege, unificando così due categorie di temi verbali. Il tema di capio esce in i e l’imperativo, al singolare, coincide con il puro tema; la sua forma originale era dunque capi. Ma il preistorico accento iniziale, oltre a modificare la vocale breve della sillaba postonica, poteva influire anche sopra la sillaba più lontana, quella finale: così da capi si è avuto cape, del tutto analogo a lege, e per le stesse ragioni si è costituita anche la categoria dei nomi neutri in -e della terza declinazione, che formano anch’essi il nominativo con il puro tema. • Uno dei più venerati idola grammaticali, il genitivo locativo crolla di fronte alla storia dell’evoluzione fonetica. La desinenza del caso locativo - i, si agglutinava ai temi della prima declinazione, in -a, e della seconda in -o/-e, provocando così la formazione dei dittonghi -ai in -ae e di -ei in -i portò alla completa omofonia tra locativo e genitivo. Accanto a questi fenomeni di evoluzione che riguardano il timbro della vocale, altri tipi di evoluzione sono almeno parzialmente controllabili nell’ambito della lingua storicamente documentata e interessano in particolare la quantità. In primo luogo va ricordata la legge dell’abbreviamento giambico, che sembra ricondurre a ragioni più ritmiche che fonetiche. In base a questa legge, bisillabi di struttura giambica (∪—) tendono a trasformarsi in pirrìchi (∪∪). la legge ha condotto talora ad esiti definitivi, più spesso invece ha costituito esiti prosodici, ampiamente sfruttati in poesia come alternative metriche. Ancora l’età arcaica permette di individuare un altro importante tipo di abbreviamento: i polisillabi uscenti in consonante diversa da -s abbreviano la vocale dell’ultima sillaba. Così si ha amat e audit al posto di amas, amare e audimus, auditis etc. In particolare l’abbreviamento davanti a -m l’abbreviamento è più antico: nella desinenza del genitivo plurale, -om l’abbreviamento della quantità originaria è un fatto già compiuto alle origini del latino storico; così anche per l’accusativo singolare dei temi in -a- e per le voci verbali. L’età arcaica, dunque ha sviluppato, una tendenza riduttiva già insita nella lingua, trovando i suoi limiti solo nella presenza di -s, nei casi di ossitonia, talora nel monosillabismo. Alcuni esiti italiani del vocalismo latino In fase preromanza il latino perse le distinzioni quantitative e ridusse il suo vocalismo alle cinque gradazioni timbriche a e i o u. Ma in tutto ciò la quantità continuò a giocare un suo ruolo. La semplificazione del sistema vocalico tardolatino ebbe come immediata come immediata conseguenza l’unificazione dei timbri i e ed u o, rispettivamente. Per questo, in italiano, a i e u corrispondono i timbri chiusi e e o. Questo permette, quando la parola latina sia passata in italiano per via naturale (cioè orale) di riconoscere la quantità breve di i e u latine grazie alla semplice constatazione che in italiano vi corrispondono rispettivamente e e o. Un altro esito tipico dell’italiano è la dittongazione avvenuta in sillaba tonica aperta di e in ie, di o in uo: La loro presenza garantisce la quantità breve della vocale originaria non indica di per sé il contrario, ossia la quantità lunga, si aggiunga la formazione, in italiano di molti allotropi dotti, ovvero parole che la lingua colta riesuma dal latino letterario dopo che la tradizione orale le aveva già sottoposte ai normali mutamenti fonetici. Le semivocali A ciascuno dei due segni i ed u corrispondono due distinte funzioni: • Designare dei veri e propri fonemi consonantici • Designare vere e proprie vocali L’incongruenza dell’alfabeto è dovuta all’identità timbrica, ciò che a parità di timbro, fa diversi i due tipi è il minore o maggiore ostacolo frapposto dagli organi fonatori alla corrente d’aria in espirazione. Nella scala che classifica i fonemi i ed u sono le più chiuse tra le vocali mentre le altre due sono le più aperte tra le consonanti. Tra le une e le altre la distinzione è minima, cosicché no sorprende che a volte la lingua si consenta oscillazioni di i e u dall’uno all’altro stato. Questa instabilità, dovuta alla natura intermedia di tali fonemi, al limite tra le vocali e le consonanti, spiega perché a i ed u sia stato dato il nome di semivocali o, che è lo stesso, di semiconsonanti. In generale, la natura consonantica di u è condizionata dalla posizione che il fonema occupa nella parola e dalla natura dei fonemi contigui: ▲ i è consonantico in posizione iniziale prevocalica e mediana intervocalica, diversamente è sempre vocale; ▲ u è consonantico nelle stesse condizioni di i , occorre notare che i grecismi assunti dal latino letterario rispettano le norme del greco ▲ quanto a u intervocalica essa era soggetta a sparire tra due vocali di timbro uguale; Alcuni fatti di consonantismo Il più vistoso fenomeno è quello del rotacismo. Le forme con s presentano il consonantismo originario, le forme con r sono frutto di evoluzione, infatti r compare al posto di s solo in posizione intervocalica: qui l’originale s sorda da qui si sonorizzò, poi si mutò in r. il fenomeno è databile con buona approssimazione al IV secolo a.C. grazie ad alcune concrete testimonianze degli antichi. Successivamente per i casi di persistenza di s intervocaliche, associativi, e proprio in quanto unità significative elementari, A. Martinet li ha denominati “monemi”. La flessione nominale: temi e desinenze Osservando le cinque declinazioni possiamo notare che la terza declinazione contiene due temi principali in i e in consonante. Ognuno dei due aveva una flessione propria, ma poi esse andarono unificandosi, con prevalenza di quella dei temi in consonante. Ma dei temi in i rimasero larghe tracce, oltre che nel genitivo plurale, nell’accusativo singolare in im, nell’ablativo singolare in i, nel nominativo, accusativo, neutro plurali in ia: quest’ultima forma alternò con quella in es, analogica dei temi in consonante per tutta l’epoca repubblicana fino alla poesia augustea, e Gellio ne attesta l’alternanza in Virgilio, riconducendola a motivi eufonici. Occorrenze di -is sono ben rappresentate nella tradizione letteraria post augustea, sia in poesia che in prosa. È tuttavia possibile un ulteriore raggruppamento delle cinque declinazioni. Consideriamo le desinenze (o segnacaso): a parte le desinenze che sono o erano comuni a tutte le declinazioni, c’è una netta opposizione fra la I e II da una parte, la III e IV dall’altra nella distribuzione delle desinenze del gen. sing. e plur. e del dat. ablat. Plur. Se si riflette che i e u sono semivocali e che le nasali e le liquide sono sonanti ì, appare evidente che il latino tende a opporre una flessione di temi in vocale e una flessione di temi in semivocale, sonante e consonante. Resta la V, le cui desinenze concordano ora con quelle della I-II, ora con quelle della III-IV. Ma la V declinazione è poverissima e oscillante tra la I e la III: si discute tutt’ora se si tratta di un fossile indoeuropeo o di una innovazione latina abortita. Le principali anomalie della flessione verbale 1. IL GENITIVO SINGOLARE IN -AS DEI TEMI IN -A I grammatici latini si chiedevano se si trattasse di accusativo o di grecismo. Difatti il parallelo col genitivo greco s’impone, ma il rapporto non è diretto. Si tratta del genitivo singolare indoeuropeo dei temi in a, conservato in greco e sopravvissuto in latino come residuo di una norma più antica; le attestazioni del genitivo in as sono rarissime, come vedremo, tranne nel giustapposto formulare pater familias, talora scritto paterfamilias. Da allora gli scrittori usano familias o familiae secondo le rispettive tendenze grammaticali. Al di fuori di pater familias le forme in as sono limitate all’epica arcaica, dove hanno funzione di arcaismi solenni, come dimostra il fatto che, nella maggior parte dei casi, entrano in iuncturae rispondenti a patronimici greci. La loro funzione stilistica è ereditata dai genitivi in -ai, probabilmente già arcaici al tempo di Plauto: il primo esempio epigrafico sicuro di -ae è di poco posteriore al 188. Fu Ennio a consacrare come poetismo il genitivo in -ai. 2. IL GENITIVO PLURALE IN -VM DEI TEMI IN -O/E Dal confronto col greco la forma in -um è quella originaria e quella in - orum è analogica del genitivo plurale dei temi in -a. Non si parli quindi di genitivo sincopato, ripetendo un errore che risale almeno a Cicerone. Sul piano sincronico si ripropone l’antitesi stilistica fra i genitivi in -um conservati in iuncturae formulari e tecniche, del tutto inespressive e quelli usati come arcaismi poetici è attestato a partire da Virgilio, l’arcaismo morfologico vuol essere almeno in parte l’equivalente stilistico del composto epico greco ippodamos. 3. IL VOCATIVO DI DEVS Sino all’età di Augusto non s’incontra nessuna forma che valga come vocativo di deus: a partire da Orazio compare, ma raramente e in poesia, diue, propriamente vocativo di diuos. Negli epigrammi e in Seneca, in età imperiale, troviamo deus, cioè il nominativo usato come vocativo: isolato nei pagani è frequentissimo nei cristiani. Di dee si conoscono in tutto due attestazioni letterarie, la cui interpretazione classica è quella di Wackrnagel: la mancanza del vocativo di deus si spiegherebbe col fatto che gli antichi, in quanto politeisti si rivolgevano alla singola divinità col solo teonimo, mentre usavano normalmente il vocativo plurale di. Sarà il monoteismo cristiano ad avere bisogno del vocativo singolare di deus. Questa spiegazione è insufficiente. Non tiene abbastanza conto dei vocativi sinonimici daimon e diue. Non a caso sia in greco che in latino i nomi a struttura fonetica identica a teos/deus cioè veos mancano anch’essi di vocativo. 4. I PLURALI ETEROGENEI DEI TEMI IN O/E Il caso classico è il doppio plurale loci/loca, il primo anche in senso figurato, il secondo solo in senso proprio. Ma l’opposizione originaria tra il plurale in -i e quello in -a era diversa: si trattava del primo caso di un plurale collettivo. In effetti il suffisso -a del neutro plurale era un antico suffisso collettivo indoeuropeo, il che spiega come in greco il neutro plurale potesse accordarsi col verbo al singolare. In latino l’opposizione è più ridotta: sopravvive morfologicamente nei doppioni. Semanticamente, l’opposizione è viva in qualche passo del latino arcaico, ma altrove i due plurali sono interscambiabili, o la scelta è dovuta a motivi eufonici o metrici. Classicamente, la differenza tra loca e loci è ormai, solo quella secondaria tra senso proprio e senso figurato, ma quest’ultimo si è innestato sul singolativo, non sul collettivo. Lo stesso è avvenuto in italiano, che ha esteso l’antitesi fra i due tipi di plurale, il senso figurato, dove c’è, scaturisce dal singolativo. Spesso il collettivo è rimasto in frasi fatte. 5. VIS, SVS, BOS Vis, come il suo corrispondente etimologico is, è difettivo, per quanto tutti i grammatici latini, ne diano il paradigma completo. In realtà il genitivo uis si legge in Tacito e nei tardi testi giuridici. Il dativo ui sembra apparire in un passo malconcio del bellum Africum e poi torna nelle iscrizioni. In complesso, il Doctrinale dava il precetto: uis, uim, uique dabit, totum plurale tenebit. Il suppletivismo uis roboris, così diffuso nella nostra tradizione scolastica, si deve a Luigi Ceci. Fu infelice innovazione: uis e robor indicano due concetti che si toccano ma non si ricoprono. Vis è la forza in movimento, di genere animato, e quindi suscettibile di agire in bene e in male, secondo i casi “violenza”, “efficacia”, “influsso” etc. il suo corrispondente greco semantico è dunamis. Robur invece è il legno della rovere, e metaforicamente la forza statica che sostiene e resiste. Solo il plurale uires, collettivo e concreto è interscambiabile con robur. Sus è un tema in u, ha una doppia forma del dativo-ablativo plurale: la prima etimologica, la seconda analogica degli altri sostantivi della terza. Bos è un tema in ou, il dittongo originario si trova in bous. La forma fonetica del genitivo plurale è boum, al dativo-ablativo plurale*bou-bus dava bubus; bobus può aver subìto l’influsso di bos. Bouibus non è attestato. 6. PARISILLABI E IMPARISILLABI La vecchia regola dei parisillabi e imparisillabi è puramente empirica, e si fonda sul fatto che i temi in i hanno lo stesso numero di sillabe nel nominativo e nel nominativo nel genitivo singolare, mentre i temi in consonante, col nominativo sigmatico o asigmatico, hanno una sillaba in più nel genitivo. Tuttavia, altri temi in i sono diventati imparisillabi in seguito alla apocope o alla sincope della vocale tematica al nominativo singolare. Queste tre categorie di nomi si chiamano temi misti, d’altra parte alcuni temi in consonante si presentano come parisillabi. Sono principalmente di due tipi: 1. pater, mater, frater, temi in r che indoeuropeo avevano l’alternanza e/e/ zero. Il latino, secondo le leggi della sua fonetica, ha abbreviato la vocale al nominativo (pater) e negli altri casi ha generalizzato il grado zero; 2. Iuuenis senex canis panis mensis, antichi imparisillabi che la lingua ha reso parisillabi o aggiungendo il suffisso -i al nominativo, o ricavando i casi obliqui da un tema diverso; 7. LA FLESSIONE VERBALE Premesso che la desinenza dell’infinito è se>re e che la seconda persona singolare dell’imperativo presente è uguale al puro tema, i verbi latini possono raggrupparsi all’ingrosso in due categorie: la differenza tra i due gruppi è che nel primo si ha una vocale di collegamento fra la radice e la desinenza, nel secondo questa vocale manca e la desinenza, quando c’è, si unisce 3. A perifrasi varie, elencate nelle sintassi, di cui la più ricca di avvenire fu quella che le sintassi non citano, facio con l’infinito, bene attestata nella lingua d’uso e nella lingua poetica. La formazione del perfectum Il perfectum latino è una forma sincretica, ovvero congloba due diverse forme verbali indoeuropee: il perfetto propriamente detto e l’aoristo. Esso indica originariamente l’azione giunta a compimento e si oppone all’infectum, che, indica l’azione incompiuta o in via di svolgimento. Sull’antitesi morfologica fra i temi dell’infectum e del perfectum è costruito tutto il verbo latino, secondo uno schema binario che si riscontra anche ad altri livelli della lingua latina, di fronte alle varietà e molteplicità di temi verbali del greco. Il latino conosce 4 tipi di perfetto: 1. In –ui, produttivo per tutto l’arco della latinità 2. A raddoppiamento, residuo ereditario che subiscono la concorrenza degli altri 3. Ad alternanza vocalica, residuo ereditario che subisce la concorrenza degli altri 4. Sigmatico, che resta produttivo per tutto l’arco della latinità I. IL PERFETTO IN –VI E’ la formazione del perfetto più tipica del latino, per quanto se ne abbia qualche traccia in sanscrito. È proprio dei temi in vocale lunga, dopo la quale il suffisso assume la forma semivocalica –ui, -v; inoltre si trova in alcuni verbi la cui radice termina in una vocale lunga, ma che formano il dìtema dell’-infectum mediante vari suffissi nosco, noui (vi), pasco, paui etc. Quando la vocale tematica è breve, in quanto la vocale breve per apofonia si assimila alla u del suffisso: doma-ui domu-ui. La brevità della vocale tematica riappare al participio perfetto: domitus, monitus, sectus, doctus. Infine l’analogia ha avuto larga parte nella diffusione di questo tipo, con una specie di reazione a catena. Cupio, attratto parzialmente nella IV coniugazione, ha ricevuto un perfetto cupiui, che influito su una serie di verbi semanticamente o fonicamente affini. Su potui si è modellato uolui, su quest’ultimo si sono modellati colui, alui, etc. II. IL PERFETTO A RADDOPPIAMENTO Prosegue in gran parte il perfetto indoeuropeo. La vocale del raddoppiamento era e: cecini, fefelli, pepuli etc. Si hanno casi di assimilazione alla vocale radicale, ,a abbiamo prove che in molti di essi il raddoppiamento originario era con e: Gellio ci attesta memordi, pepugi e spopondi non solo negli autori arcaici, ma anche in Cesare e Cicerone.il raddoppiamento si prevedeva nei composti, per ovvie ragioni fonetiche i perfetti bisillabici si conservano e si ha qualche caso di ricomposizione coi perfetti didici , poposci, cucurri, in questi ultimi due per evitare l’omofonia col presente. La scomparsa del raddoppiamento nei composti ha avuto tre conseguenze: 1. 1. L’omofonia con alcune forme del presente 2. La formazione di un altro tipo di perfetto 3. Il passaggio del perfetto senza raddoppiamento dal composto al semplice III. IL PERFETTO AD ALTERNANZA VOCALICA RADICALE Prosegue in parte il perfetto indoeuropeo. L’alternanza può essere solo quantitativa o anche qualitativa. È solo quantitativa in edo – edi, emo – emi, lego – legi, uenio – ueni, fodio – fodi. E’ quantitativa e qualitativa insieme in ago/egi, capio/cepi, facio/feci IV. IL PERFETTO SIGMATICO Risponde all’aoristo sigmatico greco e interessa la maggior parte dei verbi la cui radice termina in consonante: velare, dentale, labiale, sibilante. Resta un esiguo numero di perfetti che si distinguono dai relativi presenti solo per la desinenza. I verbi anomali Sono i verbi atematici e i loro composti: sum, volo, fero, eo, edo. Di solito le forme atematiche sono limitate alla II e alla III persona singolare e II plurale dell’indicativo presente e dell’imperativo presente e futuro, all’infinito presente e all’imperfetto congiuntivo. Si noti il contrasto tra fer-t e leg-i-t, fer-tis e leg-i- tis, fer-rem e leg-e-rem ma l’accordo tra fer-i-mus e leg-i-mus, fer-unt e leg- unt, tra fer-am e leg-am. Tre di essi hanno in comune un congiuntivo in –im, derivato da un antico ottativo con suffisso –i. questa –i, abbreviatasi davanti a – m e –t finale è rimasta lunga altrove: dunque possis, possimus possitis, uelis uelimus uelitis ì, edis edimus editis. Non è possibile in questa sede una trattazione dettagliata dei verbi anomali. Ci limiteremo ai tratti essenziali. I. SVM E POSSVM Sum è caratterizzato da tre fatti: 1. La desinenza della prima persona singolare –m, che è forse l’unico residuo latino della desinenza –mi dei verbi atematici indoeuropei; 2. L’alternanza e/zero della radice dal grado e derivano le forme atematiche, l’indicativo futuro e imperfetto; dal grado zero le altre forme; 3. Il suppletivismo del perfectum, fui, derivato da una radice indoeuropea che indica il divenire. Alla radice di fui appartengono anche fore e il raro fuam. Il più importante dei composti di sum è possum. Il primo elemento è potis, da una radice indoeuropea diffusa in greco e in latino. Il perfectum, potui, è da un verbo di stato *poteo il cui infectum raffiora nel latino volgare per normalizzare alcune forme anomale di possum. II. VOLO, NOLO, MALO Volo è caratterizzato da due fatti: 1. L’alternanza vocalica radicale *uel/uol, che non è di origine indoeuropea, ma ubbidisce a una legge fonetica latina. Il timbro della vocale dipende dalla natura dell’l seguente: se l è palatale, resta e ; se l è velare e < o < u. Quanto a uolebam e uolens, è incerto se la o sia dovuta alla l velare davanti a e o all’influsso di uolo. 2. L’altro fatto che caratterizza uolo è il suppletivismo nella II persona singolare del presente indicativo, dove il posto forse lasciato vuoto da uels è stato preso da uis < ueis, che ha la medesima radice di in-ui- tus. Il perfectum, uolui, è analogico di potui. Nolo e Malo sono rispettivamente composti da neuolo < neolo < nolo e mag(i)s-uolo > mauolo > maolo > malo. I dettagli della formazione sono oscuri e discussi: molto deve aver giocato sulle altre forme l’influsso delle I persone nolo e malo. Basti qui osservare che le forme più antiche neuis, neuolt, e mauolo, mauoltis, mauelim, mauelle sono attestate in Plauto. III. FERO Presenta una caratteristica peculiare, ovvero l’atematismo, e il suppletivismo del perfectum, comune al greco, essendo la radice indoeuropea*bher imperfettiva. Tollo, integrato successivamente come perfectum di fero, ha sviluppato l’accezione secondaria di “sollevare”, ricevette in cambio il perfetto di sustuli, composto di subs e tuli. Anche latus < *tla-tos è della radice di tollo con diversa gradazione vocalica. IV. EO, NEQVEO, QVEO indeterminato. Tali pronomi sono dunque cinque, e si collocano lungo una scala che va da un minimo a un massimo di indeterminatezza secondo il seguente schema: • Quidam individua ma non specifica • Aliquis (da alius e quid) afferma l’esistenza di persona o cosa non individuabile • Quispiam (da quis- piam) è l’indefinito della probabilità. La concorrenza dei pronomi contigui aliquis e quis ne ha ridotto l’uso a formule fisse o a desiderio di uaratio • Quis (enclitico) è l’indefinito della pura possibilità e come tale si appoggia a particelle di senso eventuale, ma queste possono anche mancare, perché l’eventualità risulti dal contesto. Inversamente quando si ha interesse ad affermare un minimo di realtà si usa aliquiis anche in frasi ipotetiche e negative. • Quisquam pone in discussione l’esistenza di qualcuno o di qualcosa che si nega o di cui si dubita, o contro cui si protesta. È evidente che l’indefinito originario è quis corradicale al relativo qui e risalente all’indoeuropeo. È un fatto originale latino la creazione di una ricca serie sinonimica di indefiniti mediante composizione con altri pronomi o con particelle generalizzanti. Facio con l’infinito: un aspetto del causativo È attestato sin dal latino arcaico in due filoni di opposto livello stilistico: la lingua poetica e la lingua d’uso. Nel primo caso possiamo dire che esso passa da Ennio per poi andare a Lucrezio e poi esso viene ereditato da Virgilio, che a sua volta lo trasmette alla poesia imperiale. Nel caso della lingua d’uso è sicuro nella lingua d’uso nella satira luciliana, poi nel De Rustica di Varrone e si fa sempre più frequente nella prosa imperiale. La prosa letteraria classica l’ignora, ma non così rigidamente da non lasciarlo filtrare proprio in un’opera retorica di Cicerone. La motivazione stilistica è evidente, il parallelismo dei due infiniti. Facio con l’infinito, come le analoghe costruzioni in tante lingue antiche e moderne, è un surrogato perifrastico dei causativi o fattitivi, di cui l’azione è direttamente o indirettamente provocata dall’agire di altri. Morfologicamente questa categoria era caratterizzata dal vocalismo radicale o e dal tema in –e : moneo, doceo. La scarsità e improduttività di tali verbi pose il problema di rendere il causativo con altri mezzi, che poi sono quelli perifrastici, consigliati dalla sintassi per tradurre <<fare>> seguito dall’infinito. La prosa letteraria classica, nella sua tendenza analitica a sviluppare i costrutti congiunzionali, ha preferito facio (efficio) ut alla infinitiva, certo più economica e perciò più accetta sia alla lingua d’uso, sia alla lingua poetica. L’aspetto verbale La tripartizione del tempo è una conquista dell’astrazione a cui non tutte le lingue sono pervenute, specialmente la determinazione del futuro sembra povera e vaga in molte lingue primitive. La categoria dell’aspetto è la più antica e concreta di quella del tempo, ma ancor viva e variamente operante nelle lingue moderne. Esso definisce il processo verbale in rapporto alla durata. Nella realtà della lingua l’aspetto non è percepibile che in un sistema di opposizioni: ossia un aspetto si definisce in rapporto al suo opposto. In latino riconosciamo due opposizioni fondamentali: incompiuto/ compiuto, durativo/momentaneo. I. INCOMPIUTO/COMPIUTO L’azione in via di svolgimento è opposta all’azione giunta a compimento. Su questa opposizione è basata la morfologia del verbo latino, bipartita in infectum e perfectum, secondo una terminologia risalente a Varrone. Questo valore aspettuale del perfectum spiega il valore temporale di presente dei perfetti memini, noui, odi. Tuttavia se il valore durativo dell’infectum è sempre rimasto vivo,dal valore compiuto del perfectum si sono sviluppati due valori, temporali e non più aspettuali: il valore assoluto di passato, nel perfetto indicativo e il valore relativo di anteriorità. Così l’opposizione infectum/perfectum si sposta semanticamente sul piano del tempo, costituendo la vera originalità del verbo latino rispetto al verbo greco, ancora condizionato dalle opposizioni aspettuali ereditate dall’indoeuropeo. Il prevalere del valore temporale su quello aspettuale nel perfectum ha avuto come conseguenza la creazione di una nuova forma perifrastica per l’aspetto compiuto: habeo con il participio perfetto, limitato nella prosa classica ai verbi di <<conoscere>> e <<deliberare>>, ma destinato a originare il passato prossimo romanzo. II. DURATIVO/MOMENTANEO È l’opposizione aspettuale più semanticamente viva e operante in latino: il processo verbale considerato nel suo durare indefinito (aspetto durativo) si oppone al processo verbale condensato in un punto (aspetto momentaneo); tale punto può essere anche il momento iniziale (aspetto ingressivo) o finale (aspetto egressivo o terminativo) dell’azione. Il latino ricorre ai cosiddetti perfettivizzanti e specialmente –con, i quali, oltre a mantenere il significato originario, possono aggiungere al verbo composto l’aspetto momentaneo in opposizione al verbo semplice. La differenza di aspetto può implicare notevoli modificazioni semantiche, a cui non sempre si presta la dovuta attenzione. Al perfectum dei verbi semplici naturalmente non si può più parlare di <<durata indefinita>>, ma di <<durata conclusa>>, cui si oppone sempre la momentaneità dei composti. In questo caso è opportuno usare il termine di aspetto complessivo in opposizione al momentaneo o puntuale. Al posto dei termini durativo e momentaneo puoi utilizzare perfettivo/imperfettivo oppure quella determinato/ indeterminato. La paratassi e le principali congiunzioni ipotattiche Rispetto alla pratica dell’ellissi, comunemente utilizzata, verso la metà del secolo scorso, la grammatica storica, ponendosi da un punto di vista diacronico, osservò che è illegittimo sottintendere ut là dove in origine non c’era, perché il sintagma iube ueniat nasce dall’accostamento di due verbi originariamente autonomi, l’imperativo iube e il congiuntivo esortativo ueniat. A questo accostamento fu dato il nome di paratassi. Essa riguarda la forma e non la natura del rapporto sintattico, in quanto constata l’assenza di ogni indizio di collegamento grammaticale fra due proposizioni contigue, il cui rapporto sintattico resta perciò implicito, del tutto psicologico. In ciò si distingue dalla coordinazione, in quanto da una parte la coordinazione può esplicarsi mediante le congiunzioni coordinanti, dall’altra parte la paratassi include anche la subordinazione implicita. La sua più meritoria acquisizione fu di svincolare il modo dalla congiunzione, rivendicandone l’originaria autonomia. Oggi invece le mutate prospettive hanno messo in gioco di nuovo il ricorso all’ellissi nel riscontrare problemi nel passaggio dalla paratassi all’ipotassi. Tuttavia anche sul piano sincronico resta viva l’importanza stilistica della paratassi come tipo di organizzazione sintattica che caratterizza una lingua più libera e immediata, soprattutto la lingua d’uso e la lingua poetica: quella perché di origine colloquiale, e quindi in grado di compensare con riferimenti extralinguistici la carenza di indicazioni grammaticali, questa perché volta a oscurare e condensare il messaggio mediante la riduzione degli elementi grammaticali. I. QVOD, QVIA Quod è il neutro del pronome relativo, probabilmente un originario accusativo di relazione; nel latino volgare quod si estende a scapito di altre congiunzioni e dell’accusativo con l’infinito, sino a diventare l’antecedente del nostro che. Quia è il neutro plurale del tema in –i del relativo-indefinito-interrogativo, ma, diversamente da quod, il suo punto di partenza per il valore causale sarà stato il valore interrogativo, ancora attestato nel composto arcaico quianam e parallelo a quello di quidnam. L’originario valore interrogativo di quia potrebbe spiegare perché il suo uso è prevalente nelle causali, ma limitato nelle dichiarative, riservate a quod. II. CVM, QVUONIAM Cum < quom è anch’esso di origine relativa, con desinenza comune a molte particelle latine. Dal valore temporale si è sviluppato il valore Si < sei è una particella di origine pronominale: il suo primo significato, <<così>>, conservatosi nella formula si dis placet , è poi passato al composto sic < *sei-ce, ma è il presupposto del suo uso paratattico; trasparente il valore etimologico paratattico. In casi come questi, si si accompagna al congiuntivo volitivo; più spesso all’eventuale , e naturalmente all’indicativo. Sembra questo il punto di partenza per lo sviluppo del valore ipotetico ed ipotattico di <<se>>. Senza la particella si il periodo ipotetico paratattico è attestato in tutti i suoi tipi. La falsa denominazione di periodo ipotetico della realtà non può applicarsi né all’apodosi, né alla protasi. Ni è dunque una negazione rafforzata. (finire di leggere sul libro).