Scarica PSICOLOGIA DELLE ORGANIZZAZIONI ARGENTERO, CORTESE. NUOVA EDIZIONE 2018 e più Sintesi del corso in PDF di Psicologia Delle Organizzazioni solo su Docsity! PSICOLOGIA DELLE ORGANIZZAZIONI CAP 1 Cosa sono le organizzazioni ? F 0 E 8 Pensare alle organizzazioni come entità a se stanti, è concettualmente improprio F 0 E 8 Fa dimenticare che ad agire sono gli individui e i gruppi L’ORGANIZZAZIONE È il risultato di un processo che rende possibili la classificazione, la descrizione e la previsione degli oggetti. Può essere letta in due modi la definizione di organizzazione: • Concetto = In questo caso il “concetto di organizzazione” può includere ogni specie di procedura semantica con la quale si è soliti indicare “un insieme di soggetti che, attraverso una divisione del lavoro formalizzata, tendono alla realizzazione di un fine, anch’esso formalizzato”. • Fenomeno = Manifestazione della realtà Una (possibile) definizione classica: L’Organizzazione è un costrutto sociale (forma di azione collettiva) in continua relazione con l’ambiente di riferimento, in cui risorse umane attraverso l’utilizzo di risorse strumentali tendono alla realizzazione di obiettivi condivisi che coincidono con il fine istituzionale della organizzazione medesima (Ferrante e Zan, 1996) Processi di base: -Differenziazione strutturale: specializzazione/divisione del lavoro; - Integrazione funzionale: cooperazione e coordinamento Nell’icerberg organizzativo (forma di piramide ) hanno 2 parti: 1. la parte hard (formale,razionale e visibile ; la parte in cima) dove ci stanno tutti quegli aspetti dell’organizzazione come : strutture e ruoli; tecnologie; prodotti,impianti e mercati ;risorse finanziare; atteggiamenti (quindi tutti quegli elementi tangibili) 2. la parte soft (informale; emotiva; sommersa) dove ci stanno tutti quegli aspetti dell’organizzazione come : sentimenti;valori; cultura;ideologia;norme e identità Metafore Organizzative Procedimento attraverso il quale si dà ad una cosa il nome che appartiene ad un’altra cosa (Aristotele). Questo trasferimento di significato, solitamente, avviene attraverso il ricorso ad una analogia. Una delle modalità più originali per descrivere il fenomeno organizzativo è stato quello di rappresentare le organizzazioni attraverso particolari metafore che ne illustrano sia l’apparenza che l’essenza (Morgan, 1997). •Le organizzazioni come macchine • Le organizzazioni come organismi • Le organizzazioni come cervelli • Le organizzazioni come sistemi culturali • Le organizzazioni come sistemi politici • Le organizzazioni come prigioni psichiche • Le organizzazioni come cambiamento Le organizzazioni come macchine F 0 6 E La metafora dell’organizzazione come “macchina” è quella che più si avvicina alle realtà organizzative classiche descritte ed analizzate da Taylor, ovvero ai sistemi burocratici tipizzati da Max Weber Le organizzazioni come organismi F 0 6 E Le “organizzazioni/organismi” sono invece quelli che utilizzano la metafora e la logica del “sistema aperto” per descrivere l’essenza di una organizzazione, oltre che le sue modalità di funzionamento F 0 6 ELe organizzazioni come sistemi politici In questo caso le organizzazione sono viste come dei veri e propri “sistemi di governo”, caratterizzati da dinamiche di autorità e/o democrazia. La rappresentazione più calzante di questa metafora è quella che vede le organizzazione come vere e proprie “arene” politiche dominate da “conflitti” per la distribuzione di “potere” ed “interessi”. Le organizzazioni come cervelli F 0 6 E In questo caso le organizzazioni sono viste come complessi sistemi che trattano dati e informazioni. La dinamica fondamentale è quella dell’apprendimento, della conoscenza, al fine di accrescere la capacità decisionale e l’adeguamento alla crescente complessità (learning organization) Le organizzazioni come prigioni psichiche F 0 6 E Con questa metafora s'immagina l’organizzazione come un insieme di processi consci ed inconsci che spesso arrivano a costruire una sorta di “gabbia” per gli attori che ne fanno parte. Gli uomini dunque corrono il rischio di rimanere “intrappolati” dalle immagini, dai pensieri, dalle azioni, dalle idee che scaturiscono da tale processi. La conseguenza più importante di tale processo è che le organizzazioni possono acquisire vita propria ed autonoma rispetto ai loro fondatori Le organizzazioni come cambiamento La metafora del “cambiamento organizzativo” si sviluppa su due dimensioni, solo apparentemente distanti. La dimensione dell’analisi avviata da Maturana e Varela: essi ritengono che ogni sistema vivente sia un sistema interattivo, autonomo e chiuso dal punto vista organizzativo (riferimento solo a sé stesso). Sulla base di alcune tipiche proprietà (autonomia, circolarità e autodeterminazione), le organizzazioni sono dei sistemi “autopoietici”: elaborano, cioè, una particolare capacità di auto-riproduzione in un sistema di rapporti chiusi con l’esterno. Ripensare le strategie di cambiamento dei contesti operativi In sintesi: imparare a vivere in situazioni di cambiamento continuo in un contesto di instabilità e complessità processi di autorità, coordinamento e controllo Ripensare le strategie di cambiamento dei contesti operativi In sintesi: imparare a vivere in situazioni di cambiamento continuo in un contesto di instabilità e complessità Esiste una definizione conclusiva? • Da un aggregato abbastanza ampio di persone (dimensione), aventi uno scopo, da realizzare attraverso lo svolgimento di compiti, che richiede l’impiego di conoscenze e strumenti (tecnologia); • Da divisione e specializzazione dei compiti (differenziazione); • Da regole e procedure che conducono ad unità le singole attività (integrazione); • Da una stabile ed esplicita formalizzazione delle regole d’interazione tra gruppi, individui ed attività (struttura organizzativa); Il circuito D= È noto come comunicazione interna, è monodirezionale, e attrezzato con le più svariate tecnologie. Il circuito E = Connette gli enti interni con quelli esterni, può essere bidirezionale e si serve di una vasta gamma di media. Il circuito F= È quello della pubblicità, della promozione, del marketing. Il circuito G= Noto come comunicazione d’accesso a seguito della riforma dei pubblici servizi, dà voce ai pubblici servizi , dando vita alle lamentele, la soddisfazione del cliente nota come customer satisfaction ecc. Comunicare in un’organizzazione Secondo Jackobson bisogna attenzionare il contesto ove opera la comunicazione, cioè il complesso di conoscenze e significati che emittente e ricevente hanno in comune. Tutto ciò mette a fuoco due importanti nessi e cioè: che a volte il comunicare e l’organizzare possano coincidere e di contro si nota come l’organizzazione non si dissolva mai nella comunicazione. Comunicare in un organizzazione, significa non solo usare la stessa lingua e gli stessi segni, ma soprattutto condividere una cornice di significati. Cornice che può contribuire a costruire il processo organizzativo. Affermiamo quindi che senza comunicazione non vi è organizzazione però senza organizzazione non esisterebbe la comunicazione. Il circuito “C” e la comunicazione di raccordo Nei processi i partecipanti possono avere posizioni variabili. Le aziende spesso collocano gli individui ai confini del processo o in entrata (studente che si iscrive all’Università) o in uscita (studente che si laurea). Tutto mediante la comunicazione. Riguardo la comunicazione di raccordo in ingresso, vanno evidenziati 3 aspetti che adempiono ad una funzione: F 0 7 5 Di contenimento. F 0 7 5 Di accoglienza. F 0 7 5 Contrattuale. Risposta di contenimento: F 0 7 5 Il ricevente, si trova in un momento di grande incertezza, con gli schemi che orientano il suo agire ancora da definire. F 0 7 5 L’emittente, attenziona i significati trasmessi e li rapporta nella relazione. Si avrà una risposta di contenimento, cioè di favorire l’adesione alle regole, alle procedure, alla cultura del servizio. Spesso però si ricevono risposte evasive, burocratiche, lacunose, che generano l’arrangiamento e a volte il trasgredire. Comunicare, quindi significa essere capaci di costruire in maniera preventiva i significati che orientano un campo d’azione. Bisogna prefigurare, spesso anche anticipare le richieste, le attese, renderli disponibili secondo le esigenze dell’utenza, anche di fronte ai più svariati imprevisti che possono accadere. Funzione di accoglienza: F 0 7 5 Secondo momento è quando il cliente entra fisicamente in rapporto con l’unità operativa per la fruizione di una prestazione. F 0 7 5 Si parla quindi di accoglienza, perché l’utente deve essere ricevuto, riconosciuto come persona, oltre che per la sua prenotazione. Funzione contrattuale: F 0 7 5 Il rapporto si chiude con la stipulazione di un patto o contratto dove tempi, orari, modi e condizioni di servizio vengono esitati di fronte ad esborsi pecuniari, rischi e sofferenze. F 0 7 5 La funzione contrattuale oggi deve essere condotta con chiarezza, trasparenza ed equità, esplicita, ponendola non come un elargizione ma bensì come un diritto che include la massima qualità del servizio F 0 7 5. A ciò vengono associati atteggiamenti comportamentali quali il sorridere, il salutare, il chiamare per nome, il rispondere ecc. F 0 7 5 La sfida più ambiziosa è costituita dalla costruzione dell’ambiente che comunica, attraverso gli spazi, gli arredi e i dispositivi che servono ad informare, ad avere un contatto con i clienti, utile per il passaggio delle informazioni, ordinati secondo la funzione del processo di servizio. F 0 7 5 Altro aspetto riguarda l’informazione, il sapere individuare gli elementi necessari ed essenziali da ricevere e da trasmettere, archiviandoli, per averli a disposizione quanto servono (esempio ne sono i computer e gli altri supporti informatici). F 0 7 5 La comunicazione di raccordo, persegue quindi l’obiettivo di garantire la fidelizzazione della clientela attraverso l’informazione, il monitoraggio e il sempre maggiore controllo della clientela. Il circuito “D” e la comunicazione interna F 0 7 5 Il circuito focalizza la distanza tra singoli attori del processo all’interno dell’organizzazione. F 0 7 5 Il rapporto tra gli individui con la molteplicità dei simboli e dei significati, può essere visto sotto diversi significati. F 0 7 5 Attenzione, interesse, voglia di fare, dipendono da quanto l’attore desidera appropriarsene. Ove vi sia un senso minimo, l’attore cercherà altrove delle opportunità di coinvolgimento. F 0 7 5 Si svolge all’interno dell’organizzazione, definita meglio come comunicazione interna, che viene spiegata secondo 4 livelli. Appartenere alla organizzazione è come far parte della grande famiglia. F 0 7 5 Se la famiglia cresce, bisogna sempre cercare e scoprire nuove forme e nuovi riti. Come i grandi appuntamenti familiari in occasione delle festività, l’organizzazione ricorre ai media, a una migliore qualità grafica, di stampa, garantendo sempre una grande coesione interna. F 0 7 5 Se l’organizzazione entra in crisi, è conseguenza del logoramento del patto di fedeltà, della difficoltà dei vertici, dovuta non solo alle dimensioni ma soprattutto alla mancanza di colloquio interno con i dipendenti. F 0 7 5 Manager e dirigenti sono i veicolatori della comunicazione interna, oltre a rappresentare il potere. F 0 7 5 I media, hanno un valore simbolico, che si legge chiaramente nella gerarchia. Chi nella foto immaginaria sta vicino al padrone, partecipa al potere, fa parte della coalizione dominante. F 0 7 5 Dall’altro lato, i canali di comunicazione, permettono ai dirigenti di sentirsi maggiormente coalizione dominante. F 0 7 5 L’innovazione tecnologica, conferisce al lavoro maggior contenuto di conoscenza, emergono i manager di 2° livello, inoltre si vede come costruire qualità dal basso, conferisce responsabilità per il raggiungimento del risultato finale. I Media: F 0 7 5 I media utilizzati per tali percorsi, sono da quelli tradizionali, quali giornali, corsi di aggiornamento ecc. a quelli più innovativi come posta elettronica. F 0 7 5 La particolarità dei media interni sta nel fatto che sono diretti a un pubblico minore e selezionato, cioè i dipendenti, che perseguono i medesimi obiettivi. Il contenuto della comunicazione, si adatta a modelli di linguaggio propri, sempre in funzione delle esigenze del personale. Il circuito “F” e la comunicazione esterna F 0 7 5 E’ la principale attività comunicativa aziendale. Viene identificata nella promozione sul mercato di beni e servizi per sostenere l’attività. F 0 7 5 È quindi un attività comunicativa rivolta principalmente al cliente, centrata sul prodotto e veicolata dai mass-media. F 0 7 5 Oggetto principale della comunicazione sono i prodotti dell’azienda, presentati in funzione della sua specificità. Ciò avviene attraverso il canale della comunicazione pubblicitaria, orientata sempre al consumatore finale. F 0 7 5 È sull’immagine che si focalizza la pubblicità, sul cosiddetto brand, cioè la rappresentazione affettiva del prodotto. Cosa significa comunicare all’esterno per un organizzazione? Comunicazione = marketing F 0 7 5 Essa è il risultato di un complesso processo che prevede un insieme di operazioni preliminari e successive all’atto di comunicazione in se stesso F 0 7 5. Tali operazioni si riferiscono alle attività per acquisire conoscenze sui destinatari, la messa a punto dei messaggi, sia nella forma che nei contenuti e la corretta realizzazione della comunicazione verificando i risultati raggiunti. F 0 7 5 Accanto alle strategie abbiamo anche la comunicazione deduttiva, in cui convivono una forte esposizione dell’emittente e una pesante pressione del ricevente, cioè si cerca di indurre il destinatario a mettere in atto un determinato comportamento, con un contratto di forte impatto ed efficacia F 0 7 5. La seduzione dipende dalla capacità dell’emittente di esprimere un forte valore. Per raggiungerlo, è necessario operare un contratto efficace, attraverso una identificazione di valori. Il circuito “G” e la comunicazione d’accesso F 0 7 5 Il circuito G raccoglie informazioni, attraverso la parola ai cittadini o utenti o consumatori sui prodotti stessi. F 0 7 5 Diviene l’organizzazione dalla parte dell’ascolto, nei confronti di un messaggio prodotto dal pubblico. Ciò contribuisce alla stabilità della relazione o al suo cambiamento. F 0 7 5 La comunicazione di accesso configura un circuito di retroazione che può contribuire alla stabilità della relazione o dello stato di cose (omeostasi) o al suo cambiamento; come tale risulta un circuito bidirezionale. F 0 7 5 Secondo Van Maanen «la cultura fa riferimento alla conoscenza che i membri di un dato gruppo hanno pensato di condividere in maniera più o meno approssimativa» (1984). F 0 7 5 Rispetto a tale osservazione, emerge in maniera prepotente la nozione di gruppo: un’organizzazione può ospitare diversi gruppi che possono coincidere con differenti profili professionali, ruoli gerarchici, luoghi di provenienza, valori, ed essere, dunque, portatori di culture non identificabili con la cultura ufficiale ed egemone. Per imprimere e trasmettere tale cultura ai membri della propria organizzazione i fondatori si servono di due ordini di procedimenti: F 0 7 5 Meccanismi primari: concentrando la propria attenzione su determinati oggetti, attribuendo premi, modellando i ruoli, scegliendo i criteri sui quali basarsi per la selezione del personale, i fondatori comunicano sia esplicitamente sia implicitamente i propri assunti di base. F 0 7 5 Meccanismi secondari: comprendono i messaggi contenuti nella struttura organizzativa, nelle norme, nell’aspetto esteriore e nelle dichiarazioni informali. F 0 7 5 L’uso di termini come cultura, comunicazione, simboli, valori, si precisa in relazione ad un costrutto di organizzazione che si avvale non solo di finalità dichiarate, ma anche di un di un sistema di convinzioni e di visioni generali, attraverso cui viene fornita struttura e coerenza all’azione. (G. Aretino e C. Kaneklin, 1992) F 0 7 5 La cultura si configura insomma come struttura di significato che fornisce un tessuto interconnettivo alle organizzazioni, e come «meta-logica», ovvero come mappa del reale che definisce il campo e le modalità delle esperienze vivibili. (G. Aretino e C. Kaneklin, 1992) Come cambia la cultura? Come deve comportarsi l’organizzazione al fine di evitare che l’introduzione di una innovazione (a qualsiasi livello dell’architettura culturale) determini una completa disgregazione della propria cultura organizzativa? All’interno di questo campo di premesse Pasquale Gagliardi (1986) si interroga circa le strategie attivate dalle organizzazioni al fine di gestire adeguatamente (equilibrio tra) i problemi di adattamento all’esterno (innovazione della cultura) e quelli di integrazione interna (proteggere l’identità organizzativa). Dopo aver distinto tra una strategia “protettiva” «primaria» e strategie «secondarie», a loro volta distinte in «strumentali» (principalmente operative e stese al raggiungimento di obiettivi specifici e misurabili) ed «espressive» (che operano, cioè, in campo simbolico), giunge, così, a proporre tre forme di cambiamento: F 0 7 5 Il cambiamento apparente (si verifica all’interno della cultura ma senza cambiarla); F 0 7 5 Il cambiamento rivoluzionario (allorché viene imposta una strategia organizzativa incompatibile con gli assunti e i valori culturali esistenti solitamente attraverso l’entrata di nuovi membri che distruggono i vecchi simboli creandone di nuovi); F 0 7 5 E quello che lui definisce incrementalismo culturale (l’adozione di una strategia che implica valori differenti da, ma non incompatibili con, i valori del passato spinge la cultura organizzativa ad allargarsi in modo da inserire questi ultimi accanto a quelli vecchi). Mary Jo Hatch (1999), a differenza di questa prospettiva fortemente preoccupata di assicurare il carattere per così dire «stabilizzatore» della cultura all’interno delle organizzazioni pensa ad una seconda prospettiva simbolico-interpretativa – che tende a sottolineare il carattere fortemente dinamico delle culture. Prende le mosse dallo schema originario di Edgar Schein, ma con due decisive varianti. La prima consiste nel fatto di aggiungere alle tre dimensioni della cultura di Schein – artefatti, valori e assunti di base – una quarta dimensione: i simboli. «L’inserimento dei simboli – spiega la Hatch (ibidem, p. 298) – tradisce un concetto di cultura vicino alla prospettiva simbolico-interpretativa e sottolinea i processi di simbolizzazione e di interpretazione, che Schein non sviluppò nella sua teoria». I simboli insieme agli artefatti svolgono una fondamentale funzione di collante ed attivatore dell’eredità che assunti e valori hanno lasciato all’organizzazione. La seconda variante chiarisce ancor di più il suo modello di «processo dinamico» delle culture: diversamente da quanto hanno fatto Edgar Schein e Pasquale Gagliardi: le principali dimensioni della cultura non si presentano allineati in modo verticale secondo uno schema «gerarchico» che va dal più superficiale al più profondo, ma in modo orizzontale, lungo un semicerchio, in una continua relazione circolare. «Il modello delle dinamiche culturali – vede la cultura come l’insieme dei processi attraverso cui i simboli e gli artefatti vengono creati nel contesto dei valori e degli assunti organizzativi; al tempo stesso, spiega come i valori e gli assunti vengano mantenuti e modificati proprio attraverso l’utilizzo e l’interpretazione degli artefatti e dei simboli stessi». F 0 7 5 La Hatch articola meglio, poi, le diverse fasi del condizionamento che una o più delle quattro dimensioni produce sulle altre: F 0 7 5 Manifestazione: gli assunti e i valori creano aspettative riguardo al mondo, le quali producono immagini e visioni che guidano l’azione; F 0 7 5 Realizzazione: attraverso la produzione di artefatti, le immagini fondate su assunti e valori diventano reali, prendono una forma tangibile; F 0 7 5 Simbolizzazione: i simboli vengono confezionati a partire dagli artefatti; F 0 7 5 Interpretazione: il processo di interpretazione dei simboli ha natura ambivalente, da un lato, gli assunti aiutano a capire meglio il significato dei simboli, ma, dall’altro, questi ultimi sono liberi sia di sostenere, sia di andare contro gli assunti. Se l’ambiente esterno non è una rappresentazione speculare di un mondo al di là dei confini del sistema, ma un ritratto fatto dal sistema (M. J. Hatch, 1999): F 0 7 5 Bisogna che l’organizzazione si prepari a rappresentare cose diverse. F 0 7 5 Bisogna che le condizioni e le configurazione dell’ambiente non vengano colte (ed analizzate) in forma separata dalle percezioni degli attori organizzativi. Troppe volte, infatti, l’atteggiamento normale di fronte all’anomalia consiste nel cercare di eliminarla, poiché la sua comparsa produce un disordine percettivo; ma tale disordine percettivo, una tale destabilizzazione delle routine, può essere il punto iniziale che mette in moto nuove opportunità ed una nuova visione del mondo. Nonostante oggi si assista ad un prepotente ritorno della sensibilità organizzativa nell’analisi, in generale, delle organizzazioni complesse, si coglie ancora una scarsa capacità da parte delle scienze organizzative nel considerare l’attore all’interno dell’organizzazione nella sua soggettività. L’ipotesi si muove intorno all’idea che vede l’attore organizzativo stabilire una relazione circolare e complessa con il contesto organizzativo, ed in cui l’identità del soggetto è connotata dalla sua capacità di essere protagonista di momenti di progettualità per e nell’organizzazione; un nuovo soggetto, in altre parole, impegnato in una continua costruzione sociale, cognitiva e culturale del suo essere organizzazione. (M. Depolo, 1998; C. Kaneklin, G. Scaratti, 2000; G. Sarchielli, 2004). Tale considerazione porta ad affermare che è opportuno interpretare le organizzazioni non solo da un punto di vista strutturale (tecnologie, forza lavoro, budget), ma anche come insieme di dimensioni soggettive proprie dei membri che cooperano per il raggiungimento del fine comune. Una formula, cioè, che interpreti il fenomeno organizzativo come situazione che comprenda in sé variabili individuali di comportamento e variabili più specificatamente riferibili alla struttura (ruoli e status) dell’organizzazione e al contesto (tecnologie e risorse). A tal proposito, E. Spaltro suggerisce che «quando si tenta di diagnosticare le organizzazioni come fatto psicologico, cioè soggettivo, non si vuole assolutamente negare l’importanza del tradizionale modo strutturalista di studiare le organizzazioni, ma soltanto aggiungere un contributo seguendo alcune variabili e dimensioni tradizionalmente trascurate da usare nella diagnosi e nell’intervento su quei fatti collettivi chiamati organizzazioni». Gli studi sul comportamento di individui e gruppi in quanto membri di una organizzazione lavorativa sono stati oggetto di numerose rassegne, a partire dalla fine degli anni ’70 . Dai primi anni ‘80 ad oggi l’insita complessità di questa unità di analisi non ha tuttavia impedito considerevoli progressi nella concettualizzazione di tale dinamica. Partendo dalla considerazione che l’aspetto strettamente metodologico non è l’unico ad essere degno d’attenzione, ricercatori e teorici hanno contribuito alla formulazione di un modello teorico capace di interpretare le influenze e gli scambi attivabili all’interno delle organizzazioni − tra persone e gruppi− e tra l’organizzazione in generale ed il contesto di riferimento. Ci riferiamo a tutta una serie di studi che fanno capo all’approccio definito del cognitivismo organizzativo. La prospettiva cognitivista, (dimensione individuale), diversamente dall’approccio strutturalista (dimensione oggettiva), pone a fondamento delle proprie analisi l’idea che i membri di una organizzazione sono continuamente coinvolti nel tentativo di attribuire un senso a ciò che accade intorno a loro. Il comportamento organizzativo si configura, dunque, come una generale attività tesa all’attribuzione di significato alla situazione altrimenti definito sensemaking. CAP 4 Apprendere e conoscere nei contesti organizzativi. La svolta pratica secondo la sociologia del lavoro e delle organizzazioni. un primo rilevante contributo relativo ai processi di produzione e gestione della conoscenza e dell’apprendere nelle organizzazioni, è dato dagli studi di sociologia del lavoro e delle organizzazioni. Questi studi si sono centrati sul costrutto di pratica come insieme di attività culturalmente situate e mediate dal linguaggio e dalle tecnologie. L’idea di fondo risiede nella rilevanza attribuita al “conoscere in pratica” (knowing in practice). Questo è un processo di negoziazione dell’esperienza di conoscenza, e avviene tramite: o Partecipazione al sistema di azione: fatta di interazioni di reciprocità e impegno o Reificazione: traduzione del senso dell’esperienza di conoscenza in forme riconoscibili che condividiamo con gli altri (parole, concetti, immagini ecc). Gherardi individua il framework teorico-concettuale che ha costituito lo sfondo per lo sviluppo del discorso sul sapere pratico: o Moltiplicazione: degli usi e delle applicazioni delle conoscenze di partenza; o Interpretazione: delle esperienze, dando loro un significato e assegnando ad esse un diverso investimento emotivo; o Autoregolazione: dei rapporti tra gli attori sociali che condividono e utilizzano la conoscenza attraverso interazioni reciproche. La conoscenza, la sua disponibilità, produzione, gestione e distribuzione avviene attraverso dei driver (piloti): F 0 B 7Efficacia: connessa alle interpretazioni che i soggetti danno a eventi e situazioni. Il valore assegnato alla conoscenza non è solo in termini di efficacia, ma anche in termini di identità. Infatti esso dipende da un apprezzamento soggettivo (partecipazione emotiva individuale) e sociale (tessuto relazionale in cui il soggetti vive); F 0 B 7Moltiplicazione: possibilità di riusare la conoscenza, riproducendola in nuovi contesti e situazioni consentendo nuove contaminazioni. F 0 B 7Appropriazione: fa riferimento al valore generato dalla conoscenza e dalla sua distribuzione, non solo in termini di utilità economica (relazione tra costi e ricavi), ma anche sociale (sicurezza, legami). È presente un equilibrio tra: F 0 F AExploration: produzione di nuova conoscenza, capace di generare soluzioni innovative a problemi emergenti, ma esposta a rischi e incertezze; F 0 F AExploitation: riutilizzo e propagazione del già noto che massimizza il valore generato dalle conoscenze disponibili. Abitare il mondo come partecipazione a pratiche di attività situata: antropologia ed ecologia della cultura. Questo terzo filone di studi approfondisce il legame tra dimensioni culturali (valori, identità, emozioni, relazioni) e l’insieme di vincoli e possibilità connessi al nostro collocarci all’interno di ambienti materiali e sociali. Importanti sono 4 contributi di diversi autori: F 0 B 3Goodwin: “vedere” come attività culturale mediata. In questi casi si verifica una reciproca connessione tra percezione e azione; F 0 B 3Hutchins: consolida la convinzione che apprendere e conoscere si configurano come processi di partecipazione ad attività situate. L’autore evidenzia come sistemi di azione complessi richiedano azioni condivise, configurando un sistema di cognizione socialmente distribuita; F 0 B 3Suchman: indaga il comportamento umano come pratica quotidiana che genera competenza. Opera una distinzione tra: o Interazione uomo-macchina: programmata e predefinita da un piano; o Interazione tra persone: emerge dall’improvvisazione esperta tra soggetti impegnati in azione. F 0 B 3Grasseni: i contesti definiscono e strutturano le interazioni tra attori. Dalla reflectivity alla reflezivity: pratiche riflessive a supporto del conoscere e dell’apprendere. La nozione di pratica riflessiva può essere ricondotta alla connessione postulata da Dewey tra il pensiero e l’azione. Schon promuove il superamento delle forme tecniche del pensiero razionale, legittimando una valenza alle conoscenze connesse alle pratiche professionali. È infatti attraverso la “riflessione nel corso dell’azione” che i professionisti riescono a cavarsela anche in situazioni caratterizzate da incertezza e instabilità creando conoscenze. La reflection in action è: •Processo continuo •Riflessione sulle proprie azioni e sulle loro conseguenze •Risoluzione situazioni divergenti •Nascita di un professionista riflessivo •Funzione critica •Valorizza il ruolo degli attori sociali. Schon sostiene che per ogni professione ci sono delle “costanti”, dei fattori che si modificano solo con lentezza e che forniscono quindi al professionista dei punti di riferimento relativamente stabili grazie ai quali può mettere in discussione le proprie credenze e i propri quadri di riferimento. Essi sono: F 0 B 7Mezzi di comunicazione, linguaggi e repertori utilizzati per descrivere la realtà; F 0 B 7Sistema di valutazione utilizzato per definire i problemi e per la riflessione; F 0 B 7Teorie di fondo attraverso le quali si costruiscono il senso dei fenomeni e dell’esperienza; F 0 B 7Schemi di ruolo: all’interno dei quali si definiscono i propri obiettivi. Giddens parla di doppia riflessività: F 0 B 7Riflessione critica: uso di informazioni ed esperienza come riflessione sulle proprie azioni e le loro conseguenze; F 0 B 7Contributo pro-attivo: alla costruzione del proprio ambiente e alla gestione delle situazioni divergenti. A partire da tale suggestione, alcuni autori propongono una evoluzione del costrutto di riflessività. Operano quindi una distinzione che evidenzia la duplice natura della riflessività: F 0 A 7Reflection e self reflection: operazione cognitiva di rispecchiamento, in cui le dimensioni del sé e le pratiche sociali diventano oggetto di osservazione; F 0 A 7Reflexive practice o self-reflexivity: esplora la costruzione stessa del sé come qualcosa che si trasforma e si evolve continuamente. Possiamo rintracciare 3 prospettive che mostrano la riflessività come una risorsa per valorizzare l’esperienza lavorativa e professionale dei soggetti, riflessività come fonte di apprendimento: 1) Mezirow assume il costrutto di apprendimento trasformativo: orientato alla rilettura e riformulazione delle prospettive di significato per acquisire una comprensione più integrativa della propria esperienza. Si tratta di rivisitare le strutture simboliche che ci rendono capaci di attribuire un senso ad eventi e situazioni. Tali habitus, ossia modi di vedere il mondo basati su esperienza, cultura e personalità, vengono riletti alla luce di una riflessioni critica, intesa come valutazione della validità dei presupposti e dei processi che hanno portato alla loro costruzione; 2) La concezione di riflessività viene strettamente collegata alle pratiche e al contesto di azione a cui si riferisce. Questa concezione supera la privatezza di una pratica riflessiva individuale, per valorizzarne la dimensione organizzativa. La riflessione che organizza enfatizza aspetti situati e relazionali propri della pratica riflessiva. Da qui lo spostamento di attenzione da aspetti prevalentemente individuali e cognitivi, ad aspetti dialogici e collettivi; 3) Si enfatizza la concezione della riflessione come pratica a supporto di situazioni professionali in continua evoluzione, confrontate con l’esigenza di riformulare conoscenze e significati del lavoro in rapporto al contesto. Possiamo concludere che: F 0 F AL’azione è il punto di partenza dalla quale si genera e prende forma la conoscenza; F 0 F AL’apprendimento nei contesti lavorativi e organizzativi è metafora dei processi di costruzione e negoziazione dei significati; F 0 F AMuoversi in questa prospettiva significa rompere l’equazione che riduce la conoscenza a mera informazione. CAP 6 “le risorse personali e la loro espressione nel contesto organizzativo” Il mondo delle organizzazioni negli ultimi anni è stato sottoposto a molteplici cambiamenti,causati dalla rivoluzione informatica,dall’affinamento delle tecniche di gestione,dalla crescita esponenziale del settore terziario,dando luogo alla cosidetta “società del benessere”. In questa evoluzione sono coinvolte anche le scienze sociali,tra cui la psicologia,che opera più in maniera evulsa dal contesto,ma anzi tiene conto delle situazioni contingenti e dell’influenza dell’ambiente circostante. Si pensi al fatto che prima la cura della psicopatologia era standardizzata ed uguale per tutti e la selezione del personale era intesa come ricerca dell’”uomo giusto,al posto giusto”; al contrario oggigiorno si sta affermando una scienza psicologica volta ad individuare le migliori condizioni di adattamento e di innovazione proattiva (proattivo= diretto a prevenire situazioni o problemi futuri in modo da pianificare anticipatamente le azioni opportune) In tale contesto viene ad affermarsi la cosidetta “Psicologia positiva = un movimento culturale e scientifico che critica l’impostazione “paralogizzante” ponendo l’attenzione,invece,sulle risorse di cui le persone sono portatrici,valorizzando,dunque,il capitale legato all’essere umano e dando luogo ad obiettivi riguardanti per esempio l’incremento delle attività formative. Dando,dunque,una particolare importanza all’individuo,centrale diviene il tema dello sviluppo che comprenderà nuovi modelli di intervento capaci di coniugare le potenzialità individuali e la loro espressione nei contesti lavorativi ì. La psicologia positiva,pertanto è orientata allo sviluppo delle persone e alla comprensione dei fattori alla base del benessere. L’articolo “Positive Psycology An Introduction” è il manifesto della Psicologia Positiva che viene descritta come “una scienza dell’esperienze soggettiva positiva,dei tratti individuali positivi,delle istituzioni positive,che mira ad accrescere le qualità di vita e a prevenire la patologia che sorgono quando la vita è vuota e priva di significato”. Tale esigenza nasce già ai tempi della Seconda Guerra mondiale,dopo aver notato che individui precedentemente di successo,sicuri di sé ritrovandosi senza lavoro,denaro e status apparivano disperati,mentre altri avevano mantenuto la loro integrità e continuavano a perseguire uno scopo,nonostante lo sconvolgimento provocato dalla guerra e pur non partendo da condizioni di base favorevoli. Di qui ci si chied quali risorse interiori avessero guidato queste persone. Nacque pertanto negli anni Settanta la Psicologia umanistica,avente lo scopo di superare gli approcci classici,quali psicanalisi e comportamentismi. Anno significativo,in tale ottica, è il 1988 poiché con il congresso tenuto dall”American Psycological Association” a San Francisco,vi è un focus sulla prevenzione piuttosto che sulla cura dei disturbi e vengono messe in evidenza qualità umane in grado di contrastare la malattia mentale,tra queste :ottimismo,coraggio,fede,perseveranza; il nuovo obiettivo diviene,dunque,quello di creare una scienza umana finalizzata a comprendere appieno queste qualità e ad alimentarle nelle giovani generazioni. Si giunge Essa consiste nel governare il proprio operato in modo autonomi,gli individui infatti possiedono un particolare meccanismo di regolazione delle motivazione,emozioni e condotte,che consento loro di monitorare costantemente che il loro agire sia in linea con gli obiettivi prefissati e di intervenire in caso di azioni improduttive. L’autoregolazione è centrata sul presente e,come sostiene Bandura, consiste in un processo di monitoraggio attraverso il quale l’individuo valuta il grado di efficacia del proprio operato confrontandolo con specifici stantard prestazionali. Nel caso in cui l’azione svolta corrisponda allo standard prefissato avremo una rezione affettiva positiva (soddisfazione o gratificazione), in caso contrario avremo una reazione affettiva negativa (disappunto,frustrazione o senso di colpa). L’individuo è in grado di trasformare le proprie reazioni affettive in una spinta motivazionale per operare in maniera opportuna ed efficace ed evitare che le proprie emozioni,sia positive che negative,evolvano in forme improduttive o controproducenti. L’autoregolazione è correlata positivamente al JOB CRAFTING = la capacità di regolare in modo efficace le proprie emozione rende gli individui meglio equipaggiati per affrontare progetti ed attività in linea con i propri interessi. È anche correlata positivamente anche con il WORK ENGAGMENT = limitare gli effetti delle emozioni negative e canalizzare il proprio impegno mettendo in atto azioni adeguate può generare vissuti più soddisfacenti e positivi nel lavoro. La capacità di autoregolazione può essere rafforzata lavorando sulle emozioni,per esempio mediante una formazione sulla gestione delle dinamiche emozionali,che faciliti la presa di consapevolezza che le proprie azioni possano dar seguito a degli insuccessi e che allo stesso tempo sostenza una strutturazione guidata di tali vissuti improduttivi LA TECNICA DEL FEED-FORWARD = in una prima fase viene condotta una rievocazione guifata di un successo lavorativo passato affinchè l’individuo si valuti positivamente,dopo vi è la seconda fase nella quale si chiede di tradurre in azioni concrete le risorse personali descritte precedentemente,riflettendo su come poterle usare per affrontare gli obiettivi lavorativi presenti e futuri. AUTORIFLESSIONE Capacità di saper riflettere sulla propria esperienza,ossia di elaborare un pensiero sul proprio operato,cosi da valutarne l’efficacia,è un fondamentale strumento per l’apprendimento individuale. Essa si rivolge al passato e la valutazione del proprio operato viene effettuata confrontando le conseguenze delle proprie azioni con un elemento assunto come termine di paragone. Ci sono veri riferimenti che possono essere utilizzati per il confronto_ - si puo confrontare il match fra il risultato ed aspettative di esito -oppure l’individuo può assumere come termine di paragone i risultati raggiunti dagli altri -a ancora può valutare i risultati raggiunti affidandosi ad informazioni fornitegli da esperti Questo lavoro di autoanalisi del proprio operato consente di perfezionare le proprie strategie lavorative, riconoscendo e valorizzando le proprie abilità. Esempio tipico della capacità di autoriflessione = LESSON LEARNED = un gruppo di lavoro al termine di un progetto,si riunisce per ripercorrere e rielaborare l’esperienza,e a fronte dei risultati ottenuti,rendere utili gli apprendimenti acquisiti sia in termini di strategie efficaci su cui investire per il futuro sia di azioni improduttive da abbandonare. Correlata positivamente al JOB CRAFTIG = il saper riflettere sulle esperienze vissute è associato ad un maggior livello di consapevolezza riguardo i propri interesse lavorativi e ciò stimola la personalizzazione delle attività svolte. Correlata positivamente anche alla prestazione lavorativa valutata dai capi = l’anisi e la rielaborazione delle esperienze vissute consentono di affinare le proprie modalità di pensiero e di azione sul lavoro e quindi di mettere in atto condotte più efficaci,producendo performance migliori. Un modo per sviluppare la capacità di autoriflessione è il FEEDBACK = i capi possono incentivare la capacità dei dipendenti di riflettere sulle varie determinanti della propria condotta lavorativa,fornendo informazioni di ritorni puntuali e specifiche sulla prestazione di un collaboratore. La qualità del feedback,positiva o negativa che sia, influenza la reazione del collaboratore,generando un’approfondita revisione delle proprie azioni. ALTERNATIVA AL FEEDBACK : instituire attività specifiche per sviluppare l’autoriflessione,come narrazioni riguardo determinate mansioni lavorative o organizzazione di sessioni di riflessione con i propri colleghi APPRENDIMENTO VICARIO L’individuo può acquisire risorse che ritiene importanti anche dagli altri, il focus di questa capacità agentica non è quindi esterno ma interno. L’apprendimento vicario secondo Bandura consta di 4 sottoprocessi: 1. processi attentivi : implicano la regolazione del focus attenzionale e determinano quali informaziono registrare 2. processi motivazionali: promuovono l’apprendimento in virtù del nesso tra le condotte altrui e out come importanti per se stessi 3.processi di rappresentazione cognitiva delle azioni osservate: consentono la momorizzazione e la consolidazione dell’apprendimento 4. processi comportamentali: tentativi di mettere in pratica quanto rappresentato cognitivamente affinando con la ripetizione la propria condotta rispetto al modello. La capacita di apprendimento vicario riveste un importante ruolo adattivo in queanto garantisce una rapida e sicura acquisizione di conoscenze importanti per l’integrazione sociale e culturale dell’individuo. In ambito lavorativo assume una grande rilevanza in quanto facilita l’acquisizione di comportamenti e modalità comunicativo-relazioneli vigenti nell’organizzazione. Correlato positivamenti al JOB CRAFTING = l’attenzione alle condotte altrui consentirebbe di esplorare in maniera indiretta nuovi progetti,mansioni e ruoli cosi da cogliere quelli più in linea con i propri interessi. Correlato positivamente anche al WORK ENGAGMENT = avere accesso alle proprie strategie lavorative di individui più esperti rafforzerebbe la padronanza delle dinamiche lavorati che accrescendo in conseguenza la dedizione stessa al lavoro. Come sviluppare l’apprendimento vicario PEER COACHING = prevede la realizzazione di woekshop nei quali un gruppo di colleghi deve svolgere specifiche attività,come discutere di un particolare processo lavorativo,pianificare le azioni in vista di un nuovo progetto ecc. Durante e al termine dell’attività, i partecipanti vengono stimolati a sfruttare la propria capacità di apprendimento vicario,al fine di arricchire il patrimonio di conoscenze,atteggiamenti e strategie di ognuno. EFFICACIA PERSONALE Tale costrutto fa parte della teoria social cognitiva di Bandura e corrisponde alle convinzioni che le persone hanno circa le proprie capacità di organizzare o raggiungere specifiche mete entro un particolare contesto. Si tratta di un costrutto caratterizzato da SPECIFITA’,poiché necessita di essere contestualizzato entro il dominio al quale si fa riferimento. ESEMPIO: per un manager possiamo parlare di convinzioni di efficacia strategica (quanto si sente in grado di svolgere con successo il proprio ruolo di decisore aziendale) ma si può parlare anche di efficacia relazione (quanto si ritiene capace di interagire proficuamente con i propri interlocutori lavorativi ed esercitare una leadeship nei confronti dei collaboratori) insomma la scelta del focus è sempre una questione fondamentale quando ci si occupa di convinzioni di efficacia ciò distingue tale costrutto da altri simili come l’autostima ( un concetto più generale e decontestualizzato che indica un giudizio di valore complessivo sulla persona) o il locus of control (ritenere in modo anch’esso generale e decontestualizzato che il corso degli eventi sua sotto il controllo delle proprie azioni,senza alcun riferimento però alle proprie capacità di realizzare o meno tali azioni) Un altro aspetto fondamentale di tale costrutto è il CARATTERE SOCIALE E COGNITIVO = non può distaccarsi dalla dimensione sociale dal momento che è quest’ultima a definire che cosa vuol dire avere successo o no in una determinata attività,creando,dunque, gli standard valutativi. Inoltre l’autoefficacia è ancorata ai giudizi che l’individuo formula dentro di sé ossia alla convinzione più o meno forte di poter riuscire. Infine essa è strettamente collegata alla sfera “esecutiva” del comportamento in quanto essa si pone come uno snodo fondamentale nella relazione tra individuo e contesto, le specifiche abilità professionali si trasformano in comportamento solo se la persona è convinta di possederle. Si tratta di una dimensione chiave per la riuscita professionale quanto più le persone sono convinte di riuscire, tanto più sono propense ad elevare i loro livelli di prestazione,viceversa deboli convinzioni di efficacia portano ed evitare di esporsi, a scegliere obiettivi non sfidanti ed accresciuti. Sebbene le convinzioni di efficacia coinvolgono la soggettività individuale e rischiano di risultare irrealistiche,tuttavia esse sono ancorare ad attività e ruoli contestualizzati e ciò le rende indicatori generalmente attendibili delle effettive competenze della persona e delle effettive azioni che essa sarà di grado di sostenere. Molti studi,infatti,hanno individuato nell’efficacia personale uno dei predittori più affidabili della prestazione lavorativa. Si è dimostrato nello specifico un legame tra efficacia personale e performance e un’associazione positiva tra convinzioni di efficacia ed apprendimento e comportamenti innovativi sul luogo di lavoro. Essere convinti di riuscire risulta importante anche per il benessere personale rendendo meno vulnerabile allo stress e al bornout (esaurimento da lavoro) L’efficacia,inoltre,è una dimensione malleabile che può essere sviluppata in 4 modi (individuati da Bandura) 1. esperienza diretta : si gestisce in modo efficace una specifica situazione,sviluppando le proprie competenze ma anche la fiducia nelle proprie capacità 2. esperienza vicaria: avviene in modo indiretto mediante l’osservazione di un individuo che funge da modello e facilita l’apprendimento tramite imitazione 3. persuasione verbale: avviene tramite le parole di supporto e di incoraggiamento che si ricevono da una fonte esperta e credibile 4.controllo e decodifica delle tensioni: aiuta ad interpretare alcuni segnali (per es. l’ansia) in modo meno catastrofico e più funzione al raggiungimento dei propri risultati DETERMINAZIONE Consiste nella spinta interna alla realizzazione e al conseguimento di specifici risultati. Snyder la definisce come uno stato motivazionale basato sull’interazione fra tre componenti : l’agenticità (agency), gli obiettivi (goals), e i percosi verso di essi (pathways) Lo PSYCAP ( o capitale psicologico) rappresenta, dunque, un fattore comune di agenticità internalizzata che combina motivazione,perseveranza,aspettative di successo e capacità di adattamento in un unico stato fortemente positivo proattivo. Lo PSYCAP ha un ruolo determinante nel predire positivamente out come desiderabili quali prestazione lavorativa,soddisfazione lavorativa,commitent organizzativo,benessere psicologico ,ecc. contribuendo fortemente al successo organizzativo,al buon funzionamento dei gruppi di lavoro e all’autorealizzazione personale. Lo PSYCAP può essere dunque ricondotto alle capacità di base precedentemente descritte (anticipazione,autoregolazione,autoriflessione ed apprendimento vicario) che conferiscono all’essere umano l’agenticità. Per spiegarci meglio la determinazione (che in generale fa parte del capitale psicologico) può trarre beneficio dall’anticipazione quanto dall’autoregolazione,dall’autoriflessione e dall’apprendimento vicario. Tale discorso può essere fatto per tutte le parti dello psycap dimostrando come esse dipendono dalle capacità agentiche. In altri termini la capacità agentiche rappresenterebbero le risorse di base,responsabili della costruzione di un rapporto costruttivo con l’esperienza passata,presente e futura. Concludendo le risorse personali di base (capacità agentiche) consentono alle persone di esercitare un’azione trasformativa innanzitutto su se stessa,sviluppando risorse personali di natura più avanzata (efficacia personale,determinazione,ottimismo e resilienza) le quali a loro volta risultano determinanti per lo sviluppo di interazioni reciprocamente vantaggiose tra individuo e organizzazione. Importante è il fatto che in uno studio emerga come il JOB CRAFTING e lo PSYCAP godessero di una relazione reciproca,in quando il job rafting produce cambiamenti positivi nello psycap ed allo stempo lo psycap sembra essere un predittore longitudinale del job rafting, chi è convinto di riuscire in attività difficili,capace di generare percorsi alternativi persistendo fino a realizzare le proprie mete ed è positivo nell’interpretazione della realtà in divenire,superando agevolmente i momenti difficili, può con maggiore probabilità intraprendere azioni volte a trasformare ed ampliare il proprio lavoro in accordo con le proprie motivazioni. Il livello iniziale di risorse psicologiche (efficacia personale,determinazione,ottimismo e resilienza, complessivamente integrate nel capitale psicologico) sembra quindi predire la tendenza ad investirle costruttivamente. CAP 7 I CLIMI La Cultura Su di un’altra direzione, sempre però all’interno di prospettive di matrice psicosociale, altri studiosi hanno concentrato la loro attenzione sul rapporto «valori soggettivi / esercizio del ruolo» all’interno del sistema organizzazione, facendo della dimensione percettiva l’indicatore privilegiato di valutazione del cosiddetto clima organizzativo. F 0 7 5 Sono stati, in particolare, L.R. James e A.P. Jones a sostenere che il comportamento organizzativo è la risultante del sistema valoriale del soggetto, sottolineando come questo resti di stretta pertinenza degli individui. F 0 7 5 Basandosi sull’osservanza dei propri valori rispetto a quelli percepiti nel contesto lavorativo, e sulla successiva valutazione comparativa, gli individui rispondono in forma tendenzialmente emozionale, attribuendo un senso a ciò che accade nella situazione intorno a loro, laddove il significato attribuito viene valutato strettamente collegato al proprio benessere psico-fisico ed alle aspettative di tipo valoriale che hanno elaborato nel corso della loro vita. L.R. James e A.P. Jones propongono una concettualizzazione del costrutto di clima, tendente a differenziare il clima psicologico, come dimensione esclusivamente soggettiva, rispetto al clima all’interno dei contesti organizzativi: quest’ultimo «si riferisce ad attributi organizzativi ed ai loro effetti principali, o stimoli; il primo [clima psicologico] si riferisce ad attributi individuali per mezzo dei quali il soggetto trasforma l’interazione tra attributi organizzativi percepiti e caratteristiche individuali in una serie di aspettative atteggiamenti, comportamenti» Lewin indica le condizioni di tipo psico-sociale che si vengono a creare nei gruppi con il concetto di atmosfera: l’atmosfera è qualcosa d’intangibile, una proprietà della situazione sociale complessiva, e potrà essere valutata scientificamente se verrà valutata da questo punto di vista e inoltre una proibizione o una meta da raggiungere possono giocare un ruolo essenziale nella situazione psicologica senza tuttavia essere chiaramente presenti alla coscienza. Lo stesso è in particolare vero per ciò che riguarda l’atmosfera sociale generale: il suo essere favorevole, ostile o tesa. Secondo Argyris C. Argyris arriva a impiegare il concetto di organizational climate, ad interessarsi cioè dei processi di crescita psicologica degli individui e degli effetti provocati su questi dalle rigide formalizzazioni vigenti in una organizzazione, coniandone questo termine e sviluppando un vero e proprio modello di analisi e d’intervento. F 0 7 5 Nel modello di Argyris sono previsti tre gruppi di variabili organizzative. F 0 7 5 Le politiche, le procedure e le posizioni formali nell’organizzazione. F 0 7 5 I fattori personali che includono bisogni, valori e capacità individuali. F 0 7 5 L’insieme di variabili associate con gli sforzi degli individui per conformare i propri fini con quelli dell’organizzazione Rispetto all’azione di queste tre dimensioni Argyris arriva ad introdurre il concetto di organizational climate definendolo come: «L’energia potenziale a disposizione dell’individuo [rivolta al conseguimento dei fini che l’organizzazione gli propone], funzione del grado di autostima: più alta è l’auto-valutazione, maggiore sarà l’energia potenziale. L’energia dispiegabile da un individuo è dunque funzione del grado in cui sperimenta il successo psicologico, convalidato dall’approvazione degli altri; ciò aumenta nell’individuo la capacità di recepire in maniera adeguata il mondo che lo circonda e rafforza il giusto stato mentale» Secondo J.P. Campbell F 0 7 5 L’attenzione viene rivolta già a partire dagli anni ‘70, nei confronti degli aspetti percettivi del clima e, di conseguenza, al rapporto di complementarietà esistente tra caratteristiche inerenti l’individuo e dimensioni attribuibili al contesto. F 0 7 5 Da questo punto di vista, significativa appare la definizione fornita da J. P. Campbell: il clima è «un set di attributi specifici di una data organizzazione, causati dal modo stesso in cui una organizzazione si occupa dei suoi membri e dell’ambiente» (1970, p. 390) Da quest’ultimo contributo deve trascorrere circa un ventennio per arrivare a quanto viene proposto da T. A. De Cotiis e D. J. Koys (1991) che definiscono il clima: come una caratteristica relativamente omogenea che permette di distinguere un’organizzazione dalle altre; esso, infatti, incorpora le percezioni collettive degli individui rispetto a dimensioni organizzative quali il grado di autonomia, di coesione, di sostegno. F 0 7 5 Secondo Kopelman (1990), il clima organizzativo: corrisponde a quel particolare processo psicologico che pone in relazione l’ambiente lavorativo con i comportamenti e gli atteggiamenti correlati al lavoro; F 0 7 5 Da esso derivano, quindi, le percezioni di benessere o di malessere vissute dai lavoratori durante la loro permanenza all’interno dell’organizzazione, capaci di influenzare, anche fortemente, la soddisfazione e le performance lavorative dei singoli Approccio strutturale (E.T. Moran e J.F. Volkwein) F 0 7 5 Sono stati E. T. Moran e J. F. Volkwein (1992) ad identificare quattro tipi di approcci che hanno caratterizzato la ricerca sul clima organizzativo: F 0 7 5 l’approccio strutturale: considera il clima quale attributo appartenente all’organizzazione. Assume che l’origine del clima si debba trovare nelle caratteristiche dell’organizzazione. La struttura organizzativa produce un clima con proprietà che esistono indipendentemente dalle percezioni individuali dei suoi membri, come posseduti dall’organizzazione stessa (R. M. Guion, 1973). F 0 7 5 Esso si forma in base alle dimensioni oggettive dell’organizzazione (ad esempio il numero dei livelli gerarchici, i tipi di tecnologie utilizzate, le politiche di gestione del personale, il grado di centralizzazione delle decisioni). Approccio percettivo/psicologico (E.T. Moran e J.F. Volkwein) F 0 7 5 L’approccio percettivo/psicologico: pone l’origine del clima nel singolo individuo (L.R. James e A.P. Jones, 1974). Il clima, osservato solo a livello individuale è definito come «una descrizione del contesto fondata su basi percettive ed elaborazioni psicologiche» (L.R. James et al., 1978, p. 84). F 0 7 5 L’assunzione di partenza è che gli individui reagiscono ed interpretano le variabili situazionali non solo sulle basi delle caratteristiche oggettive della specifica situazione o degli attributi strutturali, ma anche a quegli aspetti che sono psicologicamente significativi per loro. Approccio interattivo (E.T. Moran e J.F. Volkwein) L’approccio interattivo: interpreta il clima quale combinazione tra gli elementi strutturali dell’organizzazione e le caratteristiche di personalità dei singoli. La «comunicazione», per questo approccio, è una componente centrale per la formazione del clima organizzativo. Il clima diventa una sintesi rappresentativa creata dall’interazione tra i membri di un gruppo. L’approccio interattivo, se da un lato sottolinea l’importanza delle interazioni tra individui nel processo di apprendimento e nell’interpretazione della realtà organizzativa, dall’altro, tuttavia, riconosce che i processi intersoggettivi generanti significato, richiedono l’interazione tra contesto (dimensione oggettiva) e consapevolezza (dimensione soggettiva). Approccio culturale (E.T. Moran e J.F. Volkwein) L’approccio culturale: focalizza l’attenzione sulle modalità con cui i gruppi costruiscono e negoziano la realtà grazie anche alla creazione di una cultura organizzativa. Il clima, secondo questo approccio, «edifica significati in funzione dei quali gli individui interpretano le loro esperienze e guidano le loro azioni, influenzando le interazioni nell’organizzazione». (C. Geertz, 1973, p. 145) L’approccio culturale esplora le dinamiche attraverso le quali si produce una coscienza condivisa, riguardante esplicitamente le condizioni nelle quali queste dinamiche ricorrono e come diventano significative dal punto di vista organizzativo. Cultura e Clima: una sovrapposizione possibile? Sebbene il clima abbia avuto una storia di ricerca più lunga rispetto alla cultura nell’ambito della psicologia organizzativa e del comportamento organizzativo, i due costrutti si sono sviluppati piuttosto indipendentemente e sono stati di norma, presentati come isolati l’uno dall’altro. È il raggiungimento dell’interdipendenza a trasformare un gruppo in un gruppo di lavoro, in quanto i membri del gruppo sono consapevoli di dipendere gli uni dagli altri e di trovarsi in uno stato di necessità reciproca. Ciò che caratterizza un gruppo di lavoro è la presenza di collaborazione, resa possibile da tre elementi: 1. relazione di fiducia tra i membri = permette che ciascuno si senta sicuro delle proprie ed altrui capacità e che il confronto non sia vissuto come conflitto ma come contributo necessario per il raggiungimento di un obiettivo comune. 2. negoziazione continua = tiene insieme i diversi punti di vista al fine di elaborarne un unico. 3. condivisione delle decisioni prese e la loro concretizzazione in azioni = volte al raggiungimento di risultati che ciascun membro del gruppo può riconoscere come pochi. Katzenbach e Smith enfatizzano l’elemento di impegno comune come tratto distintivo dei gruppo di lavoro senza questa i gruppi lavorano come individui,con esso diventano una potente unità di performance collettiva. In particolare vengono evidenziati i seguenti passaggi come necessari ad un gruppo per diventare gruppo di lavoro. - la leadership diventa attività condivisa - la responsabilità da individuale diventa sia individuale che collettiva - il gruppo sviluppa un proprio scopo o una missione - il problem solving diventa un’attività full time - l’efficacia viene misurata dai risultati collettivi del gruppo Il lavoro di gruppo prevede la pianificazione e lo svolgimento del compito da un lato e la gestione delle relazioni tra i membri del gruppo e tra il gruppo e l’organizzazione dell’altro. Ne deriva che il gruppo di lavoro è caratterizzato da due fondamentali e interconnesse dimensioni o esigenze di funzionamento a. dimensione del “fare insieme” = consiste nell’agire con gli altri mettendo in campo piani di azione e svolgendo compiti in funzione del raggiungimento degli obiettivi attesi e condivisi. b. dimensione dello “stare insiem” = caratterizzata dalle relazioni tra i membri e delle emozioni e dinamiche psicologiche che ne derivano TIPI DI GRUPPI DI LAVORO IN ORGANIZZAZIONE (identificati da Sundstrom e colleghi) 1. Gruppi action and performing affrontano le emergenze e le crisi,esempio squadre di vigili del fuoco 2. Gruppi advisory offrono consulenze, es. i gruppi di controllo delle qualità che offrono suggerimenti per migliorare un prodotto o un servizio 3. Gruppi management hanno compiti di gestione, es. consiglio di amministrazione di una società 4. Gruppi production si occupano dell’organizzazione di un prodotto/servizio, es. squadra di operai addetta ad un linea all’interno di uno stabilimento manifatturiero 5. Gruppo project sviluppano idee e sono spesso interfunzionali, es. gruppo di sviluppo prodotto che comprende esperti di produzione,marketing e vendite 6. Gruppi service offrono assistenza e hanno l’obiettivo di garantire risultati di alta qualità in situazioni prevedibili e ripetute, es. assistenti di volo Viene effettuato un ulteriore distinzione tra i gruppi formali e informali, i primi vengono esplicitamente istituiti ossia i loro obiettivi,compiti,ruoli sono definiti in modo preciso,dispongono di risorse,hanno una leadership istituzionale,tempi programmati e frequentemente anche un monitoraggio esterno. I secondi si formano in modo spontaneo e la definizione degli elementi sopra ricordati avviene all’interno. Possiamo inoltre distinguere le task forces gruppi creati ad oc in riferimento ad uno specifico obiettivo che smettono di esistere quando l’obiettivo viene raggiunto. Sono stati individuati alcuni fattori essenziali per l’analisi di un gruppo di lavoro OBIETTIVO = variabile fondamentale in quanto giustifica e dà senso all’esistenza del gruppo stesso. Esso può essere definito come l’espressione del risultato atteso dal gruppo di lavoro, in coerenza con i risultati dell’organizzazione ed è quindi una sintesi dello scopo del gruppo stesso. È necessario che l’obiettivo sia chiaro ed ad ampie mento condiviso affinchè il gruppo funzioni bene. Inizialmente ciascun membro possiede una propria interpretazione dell’obiettivo, è indispensabile,dunque,che ogni gruppo dedichi del tempo a chiarire l’obiettivo, in modo tale che tutti lo comprendono con precisione. L’obiettivo che un gruppo di lavoro efficace si dà dovrebbe essere smart acronimo che sta per Specifico = deve essere definito in modo preciso e non vago e se possibile,quantificato Misurabile = bisogna definire in che modo esso debba essere misurato e valutato mediante specifici creiteri e strumenti di misurazione Attendibile = deve essere realistico e raggiungibile in base alle capacità e alle risorse del gruppo di lavoro Orientato al risulto = deve essere chiaro in che modo raggiungere l’obiettivo Legato al tempo = è fondamentale determinare i tempi di un obiettivo,ossia la scadenza entro la quale dev’essere raggiunto METODO = modo di funzionamento del gruppo di lavoro,caratterizzato da un lato da principi e criteri che guidano l’attività del gruppo, dall’altro dalle modalità che strutturano ed organizzano l’attività stessa. Può essere anche definito come la specificazione delle norme operative che regolano l’agire del gruppo. Esso consente di stabilire ad adottare le regole per il lavoro comune,passando da una logica di pensiero individuale ad una di gruppo PRINCIPALI ATTIVITA’ PER LE QUALI E’ FODAMENTALE CHE IL GRUPPO DI LAVORO DEFINISCA UN METODO: -analisi delle risorse e dei vincoli = è importante che il gruppo conosca bene ciò di cui dispone in termini di risorse e di vincoli; risorse = ciò che il gruppo può utilizzare per lo svolgimento del compito; vicolo= ciò che limita e condiziona il gruppo - discussione = il dialogo ed il confronto tra i membri rappresentano le basi per la sopravvivenza del gruppo -decisione = è bene darsi un metodo che faciliti il modo di prendere le decisioni all’interno del gruppo -pianificazione del tempo = il gruppo deve predisporre di un’agenda di lavoro, definire cioè le azioni da mettere in campo ed i tempi previsti per ciascuna di esse il tempo è l’unica risorsa non recuperabile una volta spesa,pertanto è bene ottimizzarlo - problem solving = darsi un metodo nell’affrontare e risolvere i problemi, permette di creare un modo di pensare volto alla risoluzione comune di problemi e che integri le diverse prospettive di pensiero. RUOLI = insieme di comportamenti che ci si aspetta da parte di chi occupa una determinata posizione. Il sistema di ruoli si basa sulla valorizzazione delle differenze presenti nel gruppo, al fine di generare innovazione e creatività e di permettere a ciascuna di esprimere se stesso- l’assegnazione dei ruoli deve essere fatta tenendo conto della coerenza con gli obiettivi e con i compiti. Alcune aree di gruppo richiedono di essere presidiate attraverso ruoli precisi AREA DEL RISULTATO = necessaria per garantire il raggiungimento degli obiettivi, generalmente presidiata dal ruolo del conservatore : colui che costruisce e mantiene la memoria del gruppo e lo aiuta a procedere senza continuamente tornare al punto di partenza e dal ruolo da realizzatore : colui che spinge alla concretezza mantenendo il gruppo focalizzato sui tempi e sull’obiettivo. AREA DEL LAVORO = nella quale si realizzano la coesione, la condivisione della responsabilità e l’assunzione dei rischi,presidiata dal ruolo del metodologo : colui che in maniera logica ed orienta il problem solving e l’organizzazione del lavoro,e dal ruolo del negoziatore: capace di aumentare il livello di partecipazione e condivisione. AREA DELLE RELAZIONI = dalla quale dipendono il clima e le possibilità di scambio ed espressioni da parte dei membri, presidiata dal ruolo del comunicatore: colui che facilita la comunicazione,ascolta tutti e verifica che ciascuno possa esprimersi,attento alle esigenze di tutti, in grado di favorire un buon clima . AREA DELLA QUALITA’ = fondamentale affinchè il gruppo possa produrre risultati condivisi orientati al miglioramento ed all’innovazione, presidiata dal ruolo del creativo: colui che ribalta i soliti schemi di ragionamento del gruppo e propone nuovi punti di vista e dal ruolo dell’innovatore: colui che spinge per cambiare modo e strumenti di lavoro,per cercare nuove soluzioni e vecchi problemi COMUNICAZIONE = condizione fondamentale per il funzionamento del gruppo in quanto garantiste l’aggiornamento ed orienta le relazioni. Può essere definita come un processo interattivo,informativo e trasformativo,grazie alla quale si realizzano il dialogo e la struttura di relazioni tra le persone, avviene lo scambio di dati ed informazioni, si generano innovazioni e cambiamento. Competenti principali del processo di comunicazione: - confronto e scambio: a livello sia di contenuto che di relazione - ascolto: reso possibile dalla fiducia e dalla consapevolezza che gli altri possono essere una risorsa utile per la propria crescita da un lato,e dal riconoscimento della situazione comune nella quale si sta operando,dall’altro - esposizione: anche in questo caso sia a livello di contenuto che di relazione,orientata a trasmettere elementi significativi generando interesse,curiosità e coinvolgimento - feedback: dare o richiedere importazioni di ritorno per verificare la comprensione dei contenuti comunicativi CLIMA= insieme di elementi,sentimenti,percezione dei membri che descrivono l’atmosfera che si respira nel gruppo. Sono stati rilevati alcuni indicatori in grado di esprimere il clima di un gruppo di lavoro: - sostegno: fiducia di poter ricevuto aiuto concreto in caso di bisogno dagli altri membri e dal leader - calore: qualità delle relazioni e grado di vicinanza tra i membri -riconoscimento dei ruoli: livello di riconoscimento ad accettazione delle differenze individuali -apertura e feedback: possibilità di esprimere nel gruppo le proprie idee e di accettare il disaccordo come opportunità di crescita e non come minaccia Ci sono due criteri di efficacia del gruppo di lavoro: performance e vitalità Performance : raggiungimento di un risultato atteso che soddisfa le richieste di un cliente interno o esterno all’organizzazione Vitalità: soddisfazione dei membri del gruppo ed il loro desiderio a continuare a lavorare insieme. COMPOSIZIONE DEL GRUPPO Elementi che determinano la composizione del gruppo -dimensioni del gruppo: i migliori risultano essere i gruppi formati da tre persone,seguiti da quelli con quattro o più membri e con quelli da due membri. L’aumentare delle dimensioni del gruppo rende maggiormente difficile il coordinamento dei membri stessi -team tenure: indica per quanto tempo i membri hanno fatto parte di uno stesso gruppo e hanno lavorato insieme. Un’elevata team tenure influenza positivamente l’efficacia del gruppo mentre frequenti entrate ed uscire dei suoi componenti la possono indebolire - personalità del gruppo: la personalità dei singoli membri del gruppo contribuisce ad influenzare l’efficacia. Per esempio un altro livello di amicalità di gruppo (cioè la media dei livelli di amicalità individuale) accresce l’efficacia del gruppo favorendone la comunicazione e la coesione -diversità del gruppo: può rappresentare un vantaggio laddove crei complementarietà su determinate caratteristiche ma allo tempo stesso può creare separazione creando dei sottogruppi. Le differenze all’interno del gruppo possono riguardare diversi elementi come genere,età,etnia,competenze,istruzione ecc. CAP 9 LA LEADERSHIP Management e Leadership Management e Leadership C’È UNA PROFONDA DIFFERENZA TRA MANAGEMENT E LEADERSHIP. MANAGEMENT SIGNIFICA GESTIRE, AVERE LA RESPONSABILITÀ DI RISORSE. LEADERSHIP VUOL DIRE, INVECE, INFLUENZARE, ORIENTARE, ESSERE GUIDA E PUNTO DI RIFERIMENTO Il Manager •ORGANIZZA •PIANIFICA •ASSEGNA RUOLI •DELEGA •CONTROLLA Il Leader •GUIDA •MOTIVA •FA CRESCERE •E’ DI ESEMPIO •E’ UN PUNTO DI RIFERIMENTO Le teorie del grande uomo Le teorie del grande uomo Bass tenta una definizione di leadership: la leadership è l’azione di avere e, al contempo, di conseguire i risultati. Il management è considerato come il “raggiungimento degli obiettivi organizzativi in maniera efficace ed efficiente, attraverso la pianificazione, l’organizzazione, la costruzione dello staff, la direzione e il controllo delle risorse organizzative”. Di conseguenza: la leadership è una relazione d’influenza tesa a realizzare significativi cambiamenti; mentre il management è una relazione di autorità finalizzata a produrre e vendere beni e/o servizi. I primi studi: le teorie del “grande uomo” Le prime ricerche, definite come approccio del “grande uomo” si sono concentrate su quei leader che sono stati capaci di raggiungere un elevato livello di popolarità. Alla base di queste teorie c’è l’idea che alcune persone possiedono caratteristiche che li rendono “leader naturali”, questi studi quindi si basano sull’obiettivo di individuare ciò che è distintivo di soggetti riconosciuti “grandi”, differenziandoli da chi è considerato privo di leadership. L’approccio basato sul comportamento Lo studio di Lewin, Lippitt e White sugli stili di conduzione dei gruppi rilancia il tema della leadership in una diversa prospettiva, ovvero nella scelta di approfondire il problema dell’influenza dello stile di leadership sul comportamento del gruppo, sia in relazione al clima affettivo, sia per quanto riguarda la realizzazione dei compiti (behavior approach). Autocratico è quel leader che cerca di centralizzare l’autorità, che prende potere dalla posizione, lo gestisce attraverso il controllo, le ricompense e le forme di coercizione. un leader democratico è invece chi delega l’autorità agli altri e incoraggia la partecipazione. Lo stile laissez-faire, infine, fa riferimento alla tendenza del leader a essere passivo nella relazione con il gruppo, evitando di agire proattivamente e limitando le sue azioni laddove esplicitamente richiesto dal gruppo stesso. L’università del Michigan avvia al termine degli anni Cinquanta un programma di ricerca guidato da Likert, impegnato proprio nel compito di definire l’efficacia della leadership. A questo scopo l’autore mise a punto un questionario, la Survey of Organization, e furono realizzate alcune interviste per raccogliere dati sugli stili di leadership. I ricercatori identificarono così due stili principali di leadership: uno centrato sul lavoro, rilevato da scale che misurano l’enfasi sugli obiettivi e la facilitazione del lavoro; l’altro centrato sulla persona, rilevato da scale che misurano il supporto ai collaboratori e la facilitazione dell’interazione. Likert ha individuato quattro stili per cogliere le diverse sfumature dell’atteggiamento del management in azienda, facendo riferimento a quattro modelli culturali: autoritario- minaccioso, autoritario-benevolente, consultativo e partecipativo. All’università dell’Ohio, sotto la guida di Stogdill, un gruppo di ricerca mise a punto uno strumento noto come Leader Behavior Description Questionnaire, da questo lavoro nacquero due dimensioni principali: il comportamento di realizzazione (l’insieme dei comportamenti tesi alla realizzazione del compito) e il comportamento di sostegno (l’insieme dei comportamenti tesi al riconoscimento dei bisogni dei collaboratori e allo sviluppo delle relazioni). Dall’intreccio di queste due dimensioni sono stati individuati quattro stili di leadership: leader molto orientati alla realizzazione del compito e poco attenti alle persone fanno quasi sempre ricorso a comunicazioni unidirezionali, prendendo decisioni da soli senza coinvolgere i collaboratori; mentre leader molto attenti alle persone e meno orientati alla realizzazione del compito, fanno ricorso soprattutto a comunicazioni bidirezionali e tendono a condividere il processo decisionale. Dagli stili di leadership all’approccio situazionale Lo schema della leadership di Tannenbaum e Schmidt, individua una leadership centrata sul capo (quando il capo prende una decisione e la rende nota) e una leadership centrata sui subordinati (che decidono in modo indipendente). Ci sono tre elementi che possono influenzare la scelta dello stile: F 0 F AManager, ciascuno ha un idea circa la leadership appropriata; Collaboratori, possono variare molto in termini di indipendenza, assunzione di responsabilità, tolleranza dell’ambiguità, conoscenza ed esperienza; F 0 F ASituazione, la cultura organizzativa prevale in un determinato contesto può determinare in una certa misura il tipo di leadership adottato. Blake e Mouton, realizzano presso l’università del Texas una griglia manageriale che segna il legame forte tra leadership e cambiamento, favorisce la selezione dello stile d’azione più adeguato. Il modello riconosce che la leadership oscilla tra le due dimensioni dell’interesse per la produzione e dell’interesse per le persone. Entrambi gli interessi sono misurati attraverso un questionario che identifica diversi tipi di leadership, di cui cinque principali: F 0 B 7Il leader debole: limita i suoi sforzi al minimo indispensabile per mantenere la sua posizione; F 0 B 7Il leader manipolatore: è interessato soprattutto alla produzione e per questo può avere la tendenza a trattare le persone in modo strumentale; F 0 B 7Il leader amichevole: è interessato alla relazione con le persone ed è orientato a mantenere un’atmosfera di lavoro amichevole, senza molto interesse per la produttività; F 0 B 7Il leader moderato: ha un interesse intermedio per la produttività, per le persone, ed è orientato a mantenere una prestazione soddisfacente e un buon clima; F 0 B 7Il leader della squadra: ha un elevato interesse sia per le persone che per la produttività ed è teso ad ottenere la prestazione migliore possibile. Fiedler nel modello di contingenza riteneva che lo stile di leadership fosse un atteggiamento stabile distinguibile in due distinte tendenze: la motivazione al compito (di chi cerca di soddisfare principalmente il proprio bisogno di realizzazione) e la motivazione alle relazioni (di chi cerca di soddisfare il proprio bisogno di costruire e mantenere relazioni). Gli stili devono essere valutati in relazione alle caratteristiche della situazione: o La relazione fra leader e follower: è la dimensione principale nel determinare quanto la situazione sia favorevole per il leader; o La struttura del compito: si riferisce alla maggiore o minore strutturazione del compito; o Il potere di posizione: laddove questo potere è elevato il leader ha facoltà di assegnare compiti, riconosce e punire i collaboratori. Il lavoro di Hersey e Blanchard propone la variabile della maturità dei collaboratori nell’affrontare il compito assegnato. Valutata dunque la maturità dei collaboratori, da bassa ad alta, il leader può scegliere lo stile più adeguato tra i quattro seguenti: F 0 D 8Prescrivere: fornire istruzioni estremamente dettagliate, descrivendo i modi e i tempi per la realizzazione del compito (basso livello di maturità); I. destinatari: dell’influenza dei leader II. moderatori: dell’impatto dei leader III. sostituti: nella leadership IV. costruttori: della leadership V. leader I punto: vi sono le teorie tradizionali si concentrano sui tratti dei leader. Il suo comportamento influisce sui comportamenti dei follower, che condividono la visione dei leader. II punto: ammettono che le caratteristiche di alcuni collaboratori possono influenzare lo stile dei leader. III punto: comprende le situazioni in cui i follower possono fare a meno dei leader. IV punto: da al follower un ruolo centrale e specifico. V punto: mette in discussione la distanza tra leader e follower parlando di leadership come un processo diffuso. Verso uno studio della followership di per se: il contributo di Crossmane Crossman 1. Gli autori affermano che un primo insieme delle teorie è caratterizzato dall’individuazione e leader - centricità: si tratta di lavoratori, che si occupano di studiare il leader «grande uomo» e le sue caratteristiche uniche ed eccezionali. 2. Il secondo insieme è caratterizzato da lavoratori cui la leadership si trova al centro anche se la prospettiva dei follower diventa più rilevante. 3. Il terzo insieme riguarda gli studi della leadership che viene considerata condivisa, collaborativa, e collettiva. La followership di per sé: tipologie e modelli Essa risulta molto complessa: molti autori presentano varie definizioni chiare o avere delle risposte esaustive di precedenti contributi. Baker individua quattro tematiche ricorrenti nella letteratura sulla followership: 1 Follower e leader identificano ruoli e non persone con specifiche caratteristiche, 2 i follower sono attivi e non passivi, 3 follower e leader condividono uno scopo comune, 4 leadership e followership sono concetti relazionali. Tipologie comportamentali descrittive Alla fine degli anni settanta, Burns distingueva tra: Follower passivi: identifica coloro i quali danno supporto in cambio di favori; Follower partecipativi: gli piace far parte di un gruppo di lavoro e sono d’accordo nello scambio tra performance e ricompensa; Close followers: che sono essi stessi i leader ma subordinati da un capo Kelleye il potere della followership Con la pubblicazione del suo libro (The Power of Leadership) mette in evidenza il comportamento dei collaboratori che si possono declinare in due dimensioni. La prima rappresenta la continuazione della indipendenza/dipendenza del pensiero. La seconda rappresenta il continuum dell’attività/passiva di comportamento Tra queste dimensioni sorgono cinque tipi di follower: 1) Passive:manca di pensiero critico, e richiede che sia lo stesso leader a pensare di dare spinta e direzione per l’ agire; 2) Alienated:persona poco motivata e passiva, ma indipendente e critica nel modo di pensare; 3) Conformist:individuo attivo e acritico nel pensare; 4) Pragmatic:adotta e modifica il proprio comportamento; 5) Effective:follower indipendente e creativo dotato di coraggio e forte senso dell’ etica. Kellerman:followershipedengagement L’ autrice classifica vari tipi di follower, che comprendono 5 categorie: isolates, bystanders, participants, activists, diehards. 1. Gli isolates sono distaccate; 2. I bystander osservano ma non partecipano; 3. I participant sono in qualche modo coinvolti; 4. Gli activist sono coinvolti dal leader e dall’ organizzazione e agiscono di conseguenza; 5. I diehard sono pronti a morire per la sua causa, sia in maniera individuale, che nei due modi Potter, Rosenbache Pittman: l’iniziativa dei follower • Essi vedono nell’iniziativa l’aspetto cruciale per esprimere i comportamenti di followership realmente efficaci. • L’iniziativa viene divisa in due versanti principali. • Il primo, definito performance initiative(PI) ha a che fare con la prestazione, fornita e include quattro comportamenti: svolgere il proprio lavoro con competenza, operare efficacemente con gli altri, riconoscere nella propria persona una risorsa e abbracciare il cambiamento. • il secondo, definito relationship initiative (RI), riguarda le relazioni e comprenderle. • Dall’unione di queste due dimensioni derivano quattro stili di followership: 1) Subordinate: identificato con lo stereotipo negativo del follower, un collaboratore di questo tipo può svolgere il proprio lavoro. 2) Politication:collaboratore dotato di una rara sensibilità alle dinamiche interpersonali, riesce a sintonizzarsi con il leader; 3) Contributor: è un follower che svolge il proprio lavoro con entusiasmo e competenza affrontando il cambiamento in maniera positiva; 4) Partner:ha un elevato commitment sia rispetto alla prestazione sia rispetto alla relazione. Tipologie comportamentali prescrittive • Gli studi di Chalef sui comportamenti dei follower pongono l’ accento su un diverso aspetto, il coraggio. L’ autore divide il coraggio in cinque dimensioni: assumersi la responsabilità per la meta condivisa, dare supporto al leader e fare di tutto per contribuire al suo successo, partecipare alla trasformazione per migliorare la relazione con il leader la performance organizzativa, e prendere una chiare posizione in senso morale per mantenere un atteggiamento etico. • A queste cinque dimensioni se ne aggiunge un’ altra: il coraggio di rivolgersi alla gerarchia rendendo noti il proprio pensiero e le proprie convinzioni. • Fra queste dimensioni si aggiungono il: support e il challenge. • Il coraggio di supportare il leader, il buon collaboratore non esita a lavorare duramente e assumersi nuovi carichi; • Il coraggio di sfidare, se il collaboratore è insoddisfatto dei comportamenti del proprio leader o del proprio gruppo. Alla ricerca di una definizione univoca Gli elementi che ricorrono nelle concettualizzazioni sono tre: I. Un’asimmetria: sottointesa al rapporto tra i ruoli che sono più o meno riequilibrati dall’influenza che i follower sono in grado di esercitare II. La condivisione tra leader e follower di un obbiettivo comune III. La possibilità per il follower di esercitare un’ influenza sui leader. La letteratura sulla followership prende una posizione che unisce gli aspetti di asimmetria e disparità che aumentano la distanza tra leader e follower da un lato e dall’altro riequilibrare i dislivelli Gli studi sul campo Negli ultimi anni gli studi sulla followership sono aumentati. Questi studi si dividono in ricerche qualitative e ricerche quantitative. • La prima riguarda gli studi esplorativi, lavorando su una base empirica rappresentato da narrazioni e linguaggio quotidiani. • La seconda si individuano gli antecedenti di uno stile di followership efficace. Alcuni studi riguardanti la followership, Blanchard e colleghi mettono in evidenza due aspetti riguardante la followership: la soddisfazione lavorativa, e il commitment organizzativo. Prospettive per la formazione e per la ricerca • Tra le varie implicazioni dello studio della followership vi è quella di rendere la conoscenza della leadership più completa e organica. L’unione tra leadership e followership nei loro aspetti positivi e nei loro rischi sono definite «tossiche». Uno strumento per la formazione e la ricerca: la versione Italiana del questionario sulla followership di Kelley. Kelley declina la followership in due dimensioni: Indipendent propria identità occupazionale) ed economiche (quando la propria competenza esperta, consolidata nel corso degli anni, è minacciata e quando si teme una riduzione dello stipendio); o La selezione percettiva delle informazioni: gli individui hanno la tendenza a selezionare le informazioni coerenti con le loro opinioni e gli schemi consolidati e utilizzati abitualmente: si attivano le resistenze quando il cambiamento minaccia queste credenze; o Le abitudini: il cambiamento può cerare situazioni poco prevedibili in grado di mettere in discussione le routine, gli schemi mentali individuati e i comportamenti consolidati. Le resistenze di gruppo. Le dinamiche legate al potere e ai conflitti: quando il cambiamento è percepito come occasione per conferire maggiore o minore potere ad alcuni individui a discapito di altri, si possono attivare forme di resistenza La struttura e la cultura organizzativa: una struttura organizzativa centralizzata e caratterizzata da una stratificazione rigida risulta più resistente ai tentativi di cambiamento. Le organizzazioni “piatte” e decentralizzate, essendo flessibili, sono più disposte ad accettare i cambiamenti. La ricerca-azione per lo Sviluppo organizzativo. La RA è un modo di intervenire all’interno del contesto organizzativo, con un intento trasformativo. La RA è un modo di conoscere nella relazione e attraverso la relazione: perché la conoscenza diventi fonte di energia in grado di sostenere e orientare i futuri comportamenti degli attori organizzativi impegnati in un cambiamento. La RA è una filosofia, un modo di essere e di vivere che interpreta e vive la partecipazione come testimonianza e come metodologia: la RA è animata da intenti volontari e trasformativi, e intende raggiungere importanti scopi organizzativi. È ricerca con, per e attraverso le persone e non sulle persone. È dunque una scienza delle persone. La RA è un processo di cambiamento ed infine è anche una metodologia di ricerca, prevalentemente ma non esclusivamente, quantitativa. CAP 12. PRENDERE DECISIONI NELLE ORGANIZZAZIONE Le strategie a lungo temine, caratteristiche della struttura, andamento dei processi, successo/insuccesso nel cambiamento, qualità della vita lavorativa, clima relazionale dipendono da decisioni prese a diversi livelli gerarchici nelle organizzazioni. Definizione ed elementi costitutivi. Le dimensioni di decisione si influenzano a vicenda e individuano la natura e il tipo della decisione. Dimensioni. Le tre principali dimensioni di una decisione sono: o Rilevanza: questioni di routine (es: cambiamenti di strategia). Il tipo di rilevanza specifica l'impatto sull'organizzazione; o Temporalità: effetti a breve, medio o lungo termine; o Contesto: influenza delle condizioni ambientali. Schemerhorn, Hunt e Osborn individuano tre situazioni: F 0 F ACertezza: si conoscono bene i fatti e l’esito della decisione: F 0 F ARischio: si ha conoscenza parziale delle informazioni e si possono solo fare previsioni sull’esito della decisione; F 0 F AIncertezza: non si hanno informazioni sufficienti, è possibile nemmeno per fare una previsione della decisione. Tipologia. L'interazione tra le dimensioni individua due grandi famiglie di decisioni: F 0 B 7 Programmate: affrontano problemi strutturati (di routine, familiari e conosciuti) che richiedono procedure standard. Hanno effetti a breve termine, non comportano grandi rischi e possono essere prese a tutti i livelli della gerarchia; F 0 B 7Non programmate: problemi non strutturati (situazioni inaspettate), richiedono soluzioni originali e innovative e riguardano questioni di grande rilevanza. A loro volta le decisioni non programmate possono dividersi in: F 0 A 7Tattiche: pur non essendo programmate, non devono affrontare grandi problematiche, ma questioni con effetti a breve o medio termine; F 0 A 7Strategiche: hanno più ampia rilevanza e più alto livello di rischio, in quanto modificano le strategie a lungo termine. L’evoluzione del concetto di decisione organizzativa: i modelli di decision making. Modello razionale. Questo modello assume che l’essere umano sia un decisore perfettamente razionale. È un modello prescrittivo che indica il processo da seguire per raggiungere la soluzione migliore, ossia quella che soddisfa il principio di massimizzazione dei risultati. Fasi: 1. Ricognizione problema: si rileva la presenza di un problema, ossia un divario tra la situazione presente e quella desiderata; 2. Definizione problema e obiettivi: si analizza in modo approfondito il problema per comprenderne le caratteristiche e le cause. Successivamente si stabiliscono gli obiettivi delle azioni correttive; 3. Definizione criteri decisione: si definiscono i requisiti che le possibili soluzioni dovranno avere; 4. Generazione delle alternative: si individuano tutte le possibili soluzioni alternative 5. Valutazione delle alternative: si analizzano tutte le alternative; 6. Scelta soluzione: si identifica la soluzione ottimale, quella che massimizza il raggiungimento degli obiettivi; 7. Implementazione della soluzione: si intraprende il corso d’azione stabilito; 8. Valutazione e controllo della soluzione: si valuta se la decisione presa ha raggiunto i risultati desiderati e in caso contrario, si ricomincia il processo decisionale per correggere difetti e mancanze. L'efficacia del modello dipende da: o Razionalità del decisore: visto come una sorta di scienziato infallibile; o Indipendenza del decisore dall'ambiente in cui è inserito: può operare in qualsiasi contesto, senza che le sue capacità ne siano influenzate; o Irrilevanza dello stato emotivo: le sue emozioni e i suoi sentimenti non influenzano le sue capacità; o Disponibilità totale delle informazioni: il decisore è in grado di trovare la soluzione migliore, in quanto dispone di tutte le informazioni necessarie; o Capacità di valutare le informazioni “in parallelo”: il decisore può valutare simultaneamente e in modo obiettivo tutte le informazioni a disposizione. Il modello della razionalità limitata. Questo modello è nato dall'incapacità del modello razionale di dar conto dei processi decisionali osservabili sul campo. Il decisore non è uno scienziato infallibile, anzi dispone di una razionalità limitata e intenzionale. Secondo Simon gli individui sono infatti limitati da costrizioni interne ed esterne a diversi livelli: F 0 F AElaborazione delle informazioni: le informazioni necessarie per trovare una soluzione ottimale superano la reale capacità di elaborazione degli individui. Pertanto essi tenderanno ad accontentarsi di informazioni che sono in grado di gestire; F 0 F AUso di euristiche: sono strategie generali di comportamento costruite a partire dai dati immagazzinati nella memoria a lungo termine a seguito di esperienze passate; F 0 F APrincipio della soddisfazione: il decisore non dispone sempre di risorse e di tempo sufficienti per individuare la soluzione ottimale e può accontentarsi della prima soluzione soddisfacente. Il modello di Simon è un modello descrittivo, ovvero finalizzato a rappresentare il processo che l'essere umano segue realmente nel prendere decisioni: 1) Ricognizione del problema: nonostante i segnali provenienti dall’ambiente, in molti casi gli individui tendono a non accorgersi o a ignorare ciò che sta accadendo, finché la situazione non diventa critica; 2) Definizione del problema e degli obiettivi: questa fase viene spesso trascurata. Quando il decisore riceve notevoli pressioni a trovare al più presto una soluzione, può scambiare gli effetti per le cause; 3) Definizione dei criteri di decisione: spesso si verificano fraintendimenti e definizioni soggettive dei requisiti che le possibili soluzioni dovranno avere per essere accettabili; 4) Generazione delle alternative: fase spesso caratterizzata dall’uso di euristiche, ma è anche il momento in cui può esprimere al meglio la propria creatività e innovazione; 5) Valutazione delle alternative e scelta della soluzione: queste fasi risentono sia della chiarezza con cui sono stati definiti gli obiettivi, sia del principio della soddisfazione; 6) Implementazione della soluzione scelta: le persone impegnate in questa fase devono possedere adeguate informazioni e competenze e se possibile aver partecipato al processo decisionale, in modo da essere consapevoli degli obiettivi; 7) Valutazione e controllo della decisione: è la fase in cui è riscontrabile la scarsa obiettività degli individui. Infatti a seconda delle priorità personali o delle influenze esterne, la valutazione può cambiare anche in modo radicale, sopravvalutando i risultati o sottovalutando le conseguenze negative. Altri modelli di decison making. Thompson e Tuden hanno messo a fuoco il tema del disaccordo rispetto agli obiettivi da raggiungere (che determinano ambiguità) e al metodo per conseguirli (che determina incertezza): F 0 F AModello razionale: accordo su metodi e obiettivi. Qualunque processo decisionale vorrebbe tendere a questo modello decisionale, senza riuscire a raggiungerlo mai completamente; o Dominio: uno o più componenti del gruppo possono monopolizzare la discussione, avendo come scopo quello di “vincere” piuttosto che trovare la soluzione migliore; o Conformismo: alcuni membri potrebbero seguire la posizione del gruppo anche se non la condividono per paura di non essere accettati. Alcuni strumenti per la decisione di gruppo. Schein ha individuato sei modalità di raggiungimento di una decisone da parte di un gruppo: Decisione per mancanza di risposta: nessuna decisione è soddisfacente quindi si sceglie il “male minore”; Decisione per autorità: il leader sceglie per tutti; Decisione della minoranza: piccola parte del gruppo riesce ad imporre la propria soluzione; Decisione della maggioranza: si sceglie a votazione; Decisione per consenso: scelta di un'alternativa preferita dalla maggioranza ma accettata anche da membri dissidenti; Decisione all'unanimità: tutti i membri del gruppo sono d'accordo. Per facilitare la presa di decisione in gruppo sono state proposte diverse modalità di lavoro, come il brainstorming (Osborn, 1953) che prevede gruppi di 4-8 persone gestiti da un moderatore. Le regole consistono nel: F 0 A 7Parlare a ruota libera: i partecipanti sono incoraggiati a presentare tutte le idee che passano per la loro testa; F 0 A 7Abolire la critica: non è permesso criticare le idee di nessuno; F 0 A 7Partecipare tutti: il moderatore incoraggia anche i soggetti più introversi a dare il proprio contributo; F 0 A 7Fare attenzione alla quantità: la quantità stimola la creatività; F 0 A 7Costruire sulle idee degli altri: il moderatore incoraggia a prendere spunto ed elaborare le idee degli altri; F 0 A 7Scrivere tutte le idee: tutti i contributi vengono registrati e analizzati nella fase successiva di valutazione critica. Il limite di questa tecnica è: F 0 F ABlocco produttivo: alcune persone infatti, per timidezza, possono non esprimere il loro pensiero, oppure altri possono dimenticare alcune delle loro proposte mentre attendono il proprio turno. Due tecniche sono state messe a punto per superare questo blocco: F 0 B 7Gruppo nominale: evidenzia che i partecipanti costituiscono un gruppo solo nel nome dato che la maggior parte del lavoro avviene individualmente. Il moderatore illustra il problema ai partecipanti, che devono scrivere lavorando indipendentemente le loro soluzioni. A turno le espongono e poi insieme scartano quelle che riscuotono meno successo; F 0 B 7Gruppo Delphi: il moderatore invia in via cartacea o elettronica una spiegazione della situazione e il partecipante è chiamato a scrivere e inviare le soluzioni e le considerazioni. fgna volta raccolti i dati, il moderatore li invia a tutti e poi raccoglie i feedback e predispone una sintesi. Schwenk (1990) ha messo in punto la tecnica dell'avvocato del diavolo, che può essere un singolo o un sottogruppo che ha il compito di analizzare le proposte/argomentazioni del gruppo portando alla luce tutte le debolezze di queste. Il gruppo cerca quindi di controbattere costruttivamente rivedendo le proprie proposte. Il processo si ripete finché entrambe le parti non sono soddisfatte. Al giorno d'oggi non si può non parlare di gruppi virtuali, che possiedono caratteristiche peculiari come l'assenza di segnali e comunicazione non verbali, scambi sociali limitati, la possibilità di superare le inibizioni e la minore conflittualità. Disfunzioni nella presa di decisione di gruppo. Le disfunzioni sono di due tipi: o Risky shift (tendenza al rischio): (Stoner, 1961). I gruppi sono propensi a rischiare più di quanto farebbero i singoli. Questo avviene perché decidere in gruppo equivale a liberarsi a livello individuale delle responsabilità; o Cautious shift: (Stoner, 1968): Il passaggio da decisione individuale a decisione di gruppo può portare a maggior cautela. Stoner riformulò quindi il fenomeno definendolo group polarization: l'interazione di gruppo sposta le posizioni degli individui ma la tendenza al rischio, alla cautela o ad una posizione intermedia dipende da variabili come le preferenze di partenza degli individui, il contesto, le info a disposizione e le modalità di discussione. un altro fenomeno è quello del groupthink (Janis, 1972): in gruppi molto coesi può capitare che il prendere una buona decisione venga messo in secondo piano rispetto al mantenere una buona coesione. Altri elementi caratterizzanti sono il comportamento del leader, la struttura dell'organizzazione e il livello di isolamento del gruppo. Critiche al pensiero di gruppo di Janis: F 0 A 7Hogg e Hains evidenziano ambiguità nella definizione di coesione giudicandola simile all'amicizia; F 0 A 7Kramer sostiene che la disfunzione del processo decisionale è attribuibile più all'intensificazione dell'impegno individuale più che groupthink. Le questioni aperte. La “rinascita” del modello razionale: la tentazione della prescrittività. Alcuni studiosi propongono di aggiornare il modello razionale: Bordley (2001)ha proposto la Prescriptive Decision Theory, che propone 12 passi che consentono di prendere una buona decisione, tenendo conto delle influenze interne ed esterne. Betsch, Haberstroh e Molter invece hanno messo in luce il relapse error, legato alla routine causata dall'utilizzo del modello razionale e che può portare alla difficoltà nel cambiare soluzione. La razionalità limitata rivista: il Naturalistic Decision Making e la razionalità ecologica. Klein, Orasanu e Calderwood (1993) presentano invece il Naturalistic Decision Making, filone che analizza il processo di presa di decisione in contesti reali, ricostruendo quindi situazioni impossibili da studiare in laboratorio. I limiti di questo filone sono l'adeguatezza degli strumenti, che risultano difficilmente tarabili e la difficoltà nel generalizzare le conclusioni. Todd e Gigerenzer (2003) hanno invece assunto i presupposti del modello della razionalità limitata, elaborando il principio della razionalità ecologica, in base al quale le persone, sfruttando solo la propria esperienza, sono in grado di prendere buone decisioni a partire da meccanismi mentali che possono sfruttare le configurazioni assunte dall'info esterna nell'ambiente circostante. CAP 13 LEGGERE E GESTIRE IL CONFLITTO NELLE ORGANIZZAZIONI In questi anni è aumentato il livello di conflittualità nei contesti organizzativi che genera importanti fatiche emotive. Aumenta il timore di essere controllati, oppressi, poco liberi di spaziare e sperimentare, sembra diffusa la paura prevalente di essere inadeguati, soli ed esclusi da relazioni e contesti. In uno scenario organizzativo caratterizzato da incertezza di appartenenza e professionale, rapidità e velocità di trasformazione, l’altro può rappresentare facilmente una minaccia. Il tema del conflitto assume dunque una rilevanza cruciale sulla scena dei contesti organizzativi e lavorativi. Gli aspetti di fatica e la prevalenza delle manifestazioni distruttive, assegnano alla dimensione di conflittualità un’attribuzione di senso negativa. Occorre riconfigurare la possibilità di una diversa considerazione del conflitto. Spigolature minime sul conflitto. I principali problemi di conflitto nelle organizzazioni sono: F 0 A 7Conflitto interno e soggettivo, connesso all’identità lavorativa dei soggetti quando si aprono alla possibilità o necessità di accogliere responsabilità più ampie; F 0 A 7Vi sono inevitabili transazioni che il soggetto effettua per negoziare tra esigenze organizzative e il proprio bilancio professionale; F 0 A 7Vi sono elementi che generano sintonia o distonia e che rompono gli equilibri esistenti, portando a delle situazioni turbolente che richiedono ad ogni attore di gestirle; F 0 A 7Il conflitto può anche essere dovuto dalla rinuncia dei propri interessi e della propria esperienza, mettendola a disposizione per la crescita di altri e di interessi collettivi; F 0 A 7Infine si registrano anche componenti di irrazionalità: il conflitto si connota di una distruttività che penetra nei rapporti consolidati, relazioni, scambi e comunicazioni. Da ciò si capisce che il conflitto diventa variabile inevitabile da attraversare, pertanto ogni attore coinvolto dovrà accedere e attivare reti di sostenibilità che gli consentano di costruire alleanze. Occorre quindi rileggere il tema del conflitto, ponendo attenzione alle valenze in esso presenti e orientandolo verso una crescita dei processi organizzativi, lavorativi e professionali. Origine e sviluppo storico della concezione di conflitto. Si dalle prime concettualizzazioni del conflitto si coglie la sua centralità nella vita di uomini e donne. Alle origini del pensiero filosofico il conflitto era soprattutto una questione politica: o Eraclito: il conflitto è principio della realtà, motore delle cose; o Anassimandro: il conflitto è un momento negativo e di ingiustizia; o Rousseau: concepisce l’uomo come animale sociale dotato di istinto naturale alla cooperazione, lo Stato è visto come organismo armonico e pertanto il conflitto è patologia; o Machiavelli e Hobbes: le relazioni umane sono per natura portate alla competizione individuale, sotto la spinta dell’egoismo che solo la ragione può controllare; Con Hegel il conflitto va oltre la portata politica, e diventa principio metafisico al quale riferirsi per spiegare la realtà. In epoca contemporanea: F 0 F ASimmel: nel conflitto si hanno due tendenze parallele che caratterizzano ogni relazione tra persone e gruppi: F 0 A 7Associativa che spinge alla socializzazione; F 0 A 7Dissociativa che rinforza l’individualismo. F 0 F ALewin: il conflitto è una struttura fondamentale che regola il gioco delle forze psichiche presenti nel campo psicologico dell’individuo; F 0 F ALuhmann: il conflitto è indicatore di disfunzioni nel sistema sociale. Perché via sia conflitto deve essere comunicata una contraddizione che genererà reciproche aspettative in merito alle future interazioni tra le parti. I rischi non sono rappresentati dal conflitto in sé, ma dall’irrigidimento e dal perpetuarsi di aspettative reciproche. Diversi paradigmi hanno provato a dare una lettura del conflitto organizzativo, proponendo via via differenti interpretazioni: F 0 B 3Deviazione pericolosa: il conflitto è nocivo con conseguenze distruttive e disfunzionali. Questa visione del conflitto è propria dell’ottica funzionalista dello scientific management taylorista-fordista e quindi del progettare regole, procedure e strutture allo scopo di rimuovere l’insorgenza di conflitti e mantenere un ordine e un controllo razionali; F 0 B 3Paradigma interazionista: il conflitto nelle organizzazioni è inevitabile ed è frutto di aree di frustrazione (come scarse possibilità di carriera, invidia dei colleghi ecc). Deve quindi essere gestito: F 0 B 7In modo da trarne il massimo beneficio per l’organizzazione; F 0 B 7Prefigurando conseguenze non sempre negative, ma anche positive; F 0 B 7Interrogandosi rispetto a situazioni in cui non emerge conflittualità. Esiti e ricadute del conflitto. Il conflitto può rivestire funzioni sia positive che negative per l’organizzazione: o Positive: maggiore qualità delle idee generate, incremento dibattito costruttivo, uso migliore delle risorse, una maggior possibilità di manifestazione dei problemi e un’individuazione più attenta delle soluzioni; o Negative: un clima ostile può causare disfunzioni nei gruppi di lavoro, un aumento di ansia e timore fino alla frustrazione e alla paura di essere rifiutati, perdita del senso e del ruolo. una teoria molto accreditata ipotizza che un certo livello di conflitto sia funzionale all’organizzazione, mentre una sua insufficiente presenza causerebbe effetti negativi. Esisterebbe quindi una relazione tra conflitto e performance. Conflitto, soddisfazione e benessere lavorativo. un tema molto dibattuto è il rapporto tra conflitto e soddisfazione lavorativa, definita come “un sentimento di piacere che deriva dalla percezione che la propria attività è in grado di soddisfare valori personali importanti”. In una ricerca De Dreu e Weingart hanno evidenziato una correlazione tra i due costrutti considerati, di cui non è chiara la natura e la direzione: ossia se sia il conflitto a incidere sulla soddisfazione o se sia la soddisfazione a condurre al conflitto. Gli autori ipotizzano un circolo ricorsivo in cui le due variabili si influenzano a vicenda, con l’aggiunta di una terza variabile: la stabile differenza individuale. De Dreu, Van Dierendonck e Dijkstra sottolineano che il disagio psicofisico può portare i lavoratori a sperimentare una minore soddisfazione e un minor impegno lavorativo, producendo nel tempo conflittualità. Di conseguenza il livello di benessere o malessere lavorativo e la connessa soddisfazione, possono essere sia portatrici di conflitto, sia esito di un conflitto. un prolungarsi della situazione conflittuale produrrebbe a lungo termine disturbi psicosomatici e burnout. In sintesi secondo tali studi: F 0 B 7L’esasperarsi del conflitto riduce la soddisfazione lavorativa e insidia salute e benessere; F 0 B 7Gli effetti negativi che il conflitto ha su soddisfazione lavorativa e benessere si riducono quando il conflitto è gestito attraverso problem solving e si rafforzano quando viene gestito con l’evitamento; F 0 B 7Le variabili individuali e situazionali moderano la relazione tra conflitto e salute attraverso strategie di gestione del conflitto. Conflitto ed efficacia personale-collettiva. F 0 F AEfficacia personale: giudizio personale sulla propria capacità di portare a termine con successo un compito che conduce ad un vantaggio personale. L’efficacia personale influenza la scelta dell’individuo tra diverse attività, livello di perseveranza e performance; F 0 F AEfficacia collettiva: percezione dei membri della competenza del gruppo a portare a termine con successo un compito che conduce a un vantaggio collettivo. De Dreu e Beersma sostengono che il letteratura vi sono due prospettive diverse in relazione ai possibili effetti che il conflitto può avere su efficacia e produttività: F 0 A 7Information-processing perspective: c’è una relazione tra conflitto ed efficacia individuale. Risulta funzionale per il benessere organizzativo la presenza di una quota di conflitto che non deve essere né troppo elevata, né troppo bassa; F 0 A 7Conflict typology framework: si basa sulla distinzione tra conflitto task (compito) e relationship oriented (relazione). Il secondo interferisce con la performance causando meno efficacia e innovazione; il primo conduce invece i soggetti a considerare più prospettive di soluzione, potendo così aumentare la qualità del processo di presa di decisione e efficacia personale e di gruppo. Conflitto e team di lavoro. Nel gruppo i legami tra i componenti si muovo tra cooperazione e conflitto, dato dall’ambivalenza dello stare in relazione e riferirsi ad un obiettivo comune. De Dreu, Van Dierendonck e Dijkstra pongono al centro della loro riflessione la cultura organizzativa del conflitto, la quale determina come i contrasti vengono valutati e quali strategie di gestione sono adeguate. Ad esempio vi saranno rappresentazioni nelle quali il conflitto viene visto come correlato al compito e il confronto è la strategia di gestione; altre in cui il conflitto è una minaccia all’identità personale e l’evitamento la strategia di gestione. Altro studio interessante è quello di Desivilya e Yagil i quali hanno preso come riferimento i pattern di gestione del conflitto: F 0 B 2Dominio: alto interesse per sé, basso interesse per l’altro F 0 B 2Sottomissione: basso interesse per sé, alto interesse per l’altro; F 0 B 2Compromesso: moderato interesse per sé e per l’altro F 0 B 2Integrazione: alto interesse per sé e per l’altro F 0 B 2Evitamento: basso interesse per sé e per l’altro. Hanno messo in relazione questi pattern con i due maggiori antecedenti alla base dei modi di gestione dei conflitti: task e relationship. I risultati hanno evidenziato che i pattern di gestione del conflitto sono connessi soprattutto alla relationship, e quindi alle reazioni emotive dei membri del gruppo: o La scelta di modalità cooperative (integrazione e compromesso) sono positivamente associate ad emozioni positive; o Il pattern di dominio è connessa sia ad emozioni positive che negative; o Il evitamento è correlato ad emozioni solo negative. Conflitto, culture organizzative e prospettive di gestione. La cultura organizzativa è cruciale per comprendere la tolleranza dei membri del gruppo rispetto alle discussioni e alle diverse opinioni che possono sorgere tra obiettivi individuali e collettivi. La cultura organizzativa è quell’insieme di valori, norme di comportamento, pattern comportamentali che governano il modo in cui le persone interagiscono nell’organizzazione e investono energia nel proprio lavoro. Sono state studiate due tipi di organizzazioni: F 0 F AOrganizzazioni private con alta cultura goal oriented: l’alto orientamento al risultato attenua gli effetti negativi del conflitto in merito al compito; F 0 F AOrganizzazioni pubbliche con bassa cultura goal oriented e alta cultura support oriented: la cultura orientata al supporto e al servizio influenza negativamente il conflitto relazionale. La cultura organizzativa ha il compito di mediare le relazioni tra il tipo di conflitto e le relazioni affettive dei lavoratori. CAP 14 LA QUALITA’ NELLE ORGANIZZAZIONI Qualità: si riferisce alle proprietà, alle caratteristiche, alla tipologia o alla natura di un oggetto, prodotto, servizio, persona ecc, come specifico modo di essere in relazione a particolari aspetti e condizioni, attività, funzioni e utilizzi; F 0 A 7Secondo Romano questa è una parola ambigua: qualità in sé per sé ha una forte valenza positiva, parola che genera approvazione e consenso, ma proprio per questa assonanza positiva nasconde inganni e può mascherare contraddizioni o ambiguità; Qualità in ambito organizzativo: movimento ispirato proprio ai principi della “qualità” che comprendono, fra tanti, la soddisfazione del cliente, il miglioramento continuo, l’eccellenza competitiva. La storia della qualità. Agli inizi del ‘900 la qualità era legata alla difettosità o meno di un prodotto, ispezionato alla fine del processo produttivo. Il problema della qualità si impone con l’avvento dell’era industriale e la conseguente divisione del lavoro. Agli inizi l’obiettivo principale era quello dell’abbattimento dei costi di lavoro; la meccanizzazione dei processi produttivi, poi, portava alla standardizzazione dei prodotti. Le funzioni di controllo nascondevano complessità organizzative: All’aumentare della complessità tecnica del prodotto, non sempre corrispondeva un aumento delle competenze dell’ispettore incaricato del giudizio del prodotto finito; Mancava una vera e propria formazione di questi ispettori; La funzione di controllo non migliorava la produzione o la produttività, accertava solo che i prodotti fossero privi di difetti. D’altro canto c’erano anche degli aspetti positivi: F 0 7 6Registrazioni di dati e informazioni; F 0 7 6Adozione di strumenti di misura; F 0 7 6Applicazione della statistica nel controllo della qualità (Walter Shewharz abbozzò il primo modello di controllo statistico di processo). Fino al 1950 il controllo di qualità ha trovato fortuna solo nell’industria bellica. Nel periodo postbellico il Giappone si è orientato alla qualità e al miglioramento dei prodotti. Si ha qui la fine dell’impostazione Taylorista e Fordista; il controllo della qualità doveva avvenire lungo i singoli processi x l’eliminazione immediata dei difetti. Si tende per tanto al raggiungimento dell’obiettivo “zero difetti”. Qualità totale: termine coniato da Feigenbaum (1969) per intendere che la qualità interessa tutta l’organizzazione allo scopo di garantire la piena soddisfazione del cliente al minimo costo. La ricerca della qualità deve essere perseguita da tutti i componenti dell’organizzazione per tutto il processo produttivo. Company Wide Quality Control: sistema di gestione, descritto da Ishikawa, che implica la partecipazione di tutti i dipendenti al controllo di qualità. All’inizio, del modello giapponese, in Occidente vengono presi in considerazione solo i “Circoli di qualità”, piccoli gruppi di lavoratori che s’incontrano con il management per discutere e proporre iniziative. La qualità e il cliente. Dal punto di vista del cliente la qualità può assumere diverse sfumature: F 0 D 8Qualità attesa: quelle caratteristiche che il cliente ritiene adeguate rispetto alle sue preferenze; è la prestazione minima del prodotto o servizio che il cliente si aspetta di ricevere; F 0 D 8Qualità progettata: è quella che l’organizzazione si propone di raggiungere. Quando qualità attesa e progettata non coincidono abbiamo un gap di comprensione; F 0 D 8Qualità erogata: ciò che l’organizzazione realmente fornisce. È la qualità realmente raggiunta e può differire da quella progettata, in questo caso abbiamo un gap di realizzazione; F 0 D 8Qualità percepita: del prodotto o servizio, che il cliente riscontra. La distanza tra la qualità erogata e percepite è il gap di comunicazione; La dimensione psicologica assume un ruolo centrale all’interno dell’organizzazione ogni qual volta che aumenta la complessità interna dell’organizzazione stessa. I requisiti di una corretta gestione del personale, secondo le norme della qualità, sono: o Competenza a svolgere attività connesse e finalizzate alla qualità del prodotto o del servizio; o Formazione stimolata all’obiettivo del miglioramento continuo; o Valutazione delle azioni messe in atto e della formazione; o Consapevolezza, soprattutto dei comportamenti e della loro importanza per l’obiettivo da raggiungere; o Documentabilità dei progressi conseguiti da tutti i soggetti in tutte le loro componenti. È proprio su questi punti che la psicologia del lavoro fornisce il suo contributo in termini di conoscenze teoriche e tecniche applicative. Obiettivi prioritari del sistema di gestione della qualità (Dean e Brown 1994): F 0 A 7Leadership orientata alla comunicazione della vision aziendale; F 0 A 7Sviluppo di una cultura della qualità; F 0 A 7Formazione continua; F 0 A 7Commitment. Secondo Tari e Sabater (2006) le politiche del personale e il coinvolgimento di tutti, sono i punti di contatto tra gestione delle risorse umane e TQM. Il leader nel TQM deve essere: F 0 B 7Portatore della vision aziendale; F 0 B 7Comunicatore della “mission”; F 0 B 7Motivatore dei collaboratori, dando significato al lavoro di gruppo; F 0 B 7Stimolatore della creatività e dell’innovazione. CAP 15. LE EMOZIONI NELLA VITA ORGANIZZATIVA La centralità delle risonanze emotive è sovente data per scontata. Tuttavia gioia, invidia, rancore, ansia e frustrazione sono connaturate al vivere e costruire la realtà organizzativa. Le parole della psicologia: affetto, emozione, sentimento e umore. La prima teoria sulle emozioni è quella di James il quale sosteneva che i cambiamenti fisici stimolano i sentimenti, ossia che se ridiamo siamo contenti. A partire da James le emozioni sono state definite in modi diversi. Ad esempio alcuni le associano a tratti di personalità, altri a dimensioni inconsce, altri a processi cognitivi. Non c’è accordo tra i ricercatori, ma si può ricostruire il senso delle emozioni differenziandole da affetto (affect), sentimento (feeling) e umore (mood): F 0 A 7Affetto: è un termine generico di ampia portata che, in quanto tale, include le emozioni; F 0 A 7Emozione: è uno stato affettivo intenso e di breve durata che ha una causa interna o esterna al soggetto. Le emozioni hanno una fase iniziale, cui seguono un’evoluzione e un’attuazione. Esse quindi “vanno e vengono” e hanno intensità diverse. Le emozioni hanno natura incerta e ambivalente e spesso sono intrecciate tra loro (es. l’odio può mescolarsi all’amore). Infine le emozioni sono accompagnate da modificazioni fisiologiche, espressioni facciali e comportamenti caratteristici che variano a seconda di ciò che si prova e della situazione; F 0 A 7Sentimento: secondo Fineman il sentimento è l’elemento più soggettivo di ciò che si prova, ossia è ciò che sentiamo in maniera intima e autentica. Pertanto secondo questa prospettiva le emozioni sono ciò che mostriamo ed esibiamo, ciò che rendiamo visibile dei nostri sentimenti; F 0 A 7Umore: stato affettivo di intensità minore ma di durata maggiore rispetto alle emozioni (es. siamo tristi per tutto il giorno fino a quando non torniamo a casa). Alcune persone sono di umore stabile mentre altre sono umorali, sperimentano quindi un cambiamento repentino nei loro sentimenti e stati d’animo. Secondo Bowlby le emozioni si esprimono in forma di trame (emotional texture). Il tessuto emotivo fa sì che in uno stesso momento si sperimentino ansia e delusione, che l’angoscia sia intrecciata a un sentimento di depressione e che la felicità si accompagni a uno stato di eccitazione. Esse quindi non si sperimentano in maniera discreta o polarizzata, ma secondo una complessa, sottile, fragile, confusa tessitura. Le emozioni nelle organizzazioni. Dal punto di vista storico, l’interesse per le emozioni in ambito organizzativo ha seguito il seguente percorso: o Anni ’30: a partire dagli studi di Mayo è emersa l’importanza della “logica dei sentimenti” nei processi di lavoro. Si è parlato di “stato morale dei lavoratori” e le emozioni hanno varcato la soglia degli studi sulle organizzazioni e della psicologia del lavoro e delle organizzazioni; o Anni ’50 - ’70: l’interesse degli studiosi per le emozioni si è dispiegato lungo due direzioni: F 0 B 7Lungo la prima è stato dato rilievo ad alcune attitudini che possiedono una componente affettiva. In particolare le ricerche sulla soddisfazione lavorativa si sono interessate a comprende come alcuni fattori cognitivi connessi all’attività svolta dal singolo influenzino la soddisfazione e i risultati organizzativi; La seconda direzione è rappresentata dalla lettura psicodinamica delle organizzazioni, descrivendo le dinamiche organizzative centrate intorno alle angosce primarie che le persone rivivono all’interno dei contesti lavorativi. o Anni ’80: gli studiosi delle organizzazioni hanno riscoperto le emozioni come riflesso di una tendenza di più ampia portata che ha visto crescere l’interesse per i sentimenti e le emozioni. Le organizzazioni come arene emotive. Secondo Fineman la marginalità dell’interesse per la vita emotiva degli individui negli studi organizzativi fino alla prima metà degli anni ’80 è connessa con la cultura occidentale dell’inizio del secolo scorso che ha diffidato dell’espressione delle emozioni e sentimenti, considerati un disturbo per l’efficienze organizzativa. Questa posizione è stata sostenuta da Weber il quale ha suggerito che la burocrazia raggiunge la massima espressione in termini di efficacia quanto è completamente deumanizzata, sottratta quindi all’interferenza dei sentimenti. Questa visione ha alimentato una letteratura organizzativa manualistica in cui le emozioni sono state spesso lasciate sullo sfondo. Ancora oggi nella descrizione delle organizzazioni ci si interessa soprattutto a strutture, ruoli, norme, elenchi di obiettivi e procedure, tralasciando le emozioni nella valutazione delle prestazioni e delle competenze. Tuttavia a partire dagli anni ’80 la prospettiva psicodinamica a quella costruttivista, hanno rivitalizzato il dibattito scientifico sulle emozioni che gli individui provano nel loro agire organizzativo. Per gli autori che hanno sviluppato questo tema, le organizzazioni sono arene emotive, dove le emozioni sono rappresentate a favore di un pubblico che si intende stupire, spaventare, impressionare. L’esibizione delle emozioni (emotional display) vuol dire che le emozioni sono solo impulsi incontrollabili, ma spesso possono essere utilizzate per sostenere o destabilizzare l’ordine organizzativo. Da ciò ne deriva che: F 0 B 3Sono i soggetti dotati di personalità ed emozioni a costruire l’organizzazione (produzione); F 0 B 3Tali attori organizzativi compiono azioni modellate dalle emozioni da cui sono animati. Le organizzazioni sono quindi arene emotive, dove i sentimenti provati dai singoli danno forma ad azioni e decisioni e viceversa, azioni e decisioni modellano le emozioni. Le organizzazioni, infine, generano gioia e orgoglio, ma anche frustrazione, ansia, noia o depressione. Nei luoghi di lavoro le circostanze organizzative possono essere spesso caratterizzate da ingiustizie, violenze verbali, discriminazioni sessuali o razziali che provocano profonde ferite negli individui. L’approccio psicodinamico. La psicanalisi ha una visione plastica e dinamica delle emozioni, viste come forze che condizionano profondamente le vicende degli esseri umani. Le emozioni sono un impulso profondo che rappresentano il collante dei gruppi, ma che sono anche le forze che portano alla distruzione. L’ansia è l’emozione posta in primo piano negli studi psicodinamici, che hanno proposto una riflessione originale sulla vita emotiva degli individui nei contesti organizzativi. Jaques e Menzies hanno proposto il paradigma delle difese contro l’ansia secondo cui gli individui costruiscono le organizzazioni per ripararsi da due tipi di ansia: F 0 F AAnsie paranoidi: ossia le forme più primitive di angoscia, che coincidono con la paura di essere annientati e distrutti; F 0 F AAnsie depressive: profondi timori per la perdita di un oggetto desiderato e amato intensamente. Queste due forme di ansia giocano un ruolo fondamentale in tutto l’arco della vita dell’individuo, determinando così la presenza nei meccanismi di difesa, ossia forme di protezione dal riaffiorare di ansie primordiali. Altro elemento centrale dell’approccio psicodinamico (Jaques) è la visione strumentale dell’organizzazione, come frutto del bisogno di individui di proteggersi da angosce, paure e ansie. In tal modo gli individui si utilizzano e si offendono reciprocamente, attribuendo agli altri poteri, ruoli e atteggiamenti che non possiedono, ma che sono il risultato di meccanismi di protezione di questi individui per difendersi dalle minacce percepite. Emerge quindi l’irrazionalità organizzativa, organizzazione che viene messa continuamente a repentaglio dai sui membri e dai loro meccanismi di difesa (arroganza, narcisismo, vittimismo). Il lavoro di Menzies su delle infermiere di una scuola ospedaliera londinese, ha portato alla luce questi fatti. L’autrice infatti ha messo in evidenza che il personale infermieristico era continuamente esposto sia ad emozioni proprie legate al contatto con la sofferenza altri, sia alle emozioni dei pazienti che esse stesse suscitavano. Allo scopo di far fronte a questo insieme di emozioni, l’organizzazione aveva escogitato numerosi meccanismi di difesa: F 0 B 2Ad ogni infermiera era assegnato un ristretto numero di compiti da svolgersi per tutti i ricoverati, riducendo così al minimo il tempo da dedicare ad ogni singolo paziente e quindi potenzialmente anche l’ansia; F 0 B 2La spersonalizzazione dei pazienti, identificati anziché con nome e cognome, attraverso il numero di letto, o il tipo di malattia; F 0 B 2Massima riduzione delle decisioni da prendere, affiancata ad una lista di compiti da eseguire che, da un lato, definiva le azioni in modo dettagliato, dall’altro svuotava di significato il compito stesso rendendolo meccanico; F 0 B 2Mancanza di chiarezza nella distribuzione delle responsabilità. La scarsa definizione dei ruoli era spiccata soprattutto ai livelli più alti della gerarchia; F 0 B 2Esercizio del distacco professionale: una buona infermiera non doveva far trasparire la sua personalità. Dunque il sistema di formazione delle infermiera era di fatto un sistema di difesa sociale, tuttavia illusorio: si presentavano lo stesso burnout e stress lavorativo. Quindi se da una parte l’organizzazione offre meccanismi di difesa, dall’altra genera altrettanta ansia, fallendo quindi nel tentativo di proteggere gli individui da essa. L’organizzazione produce quindi un circolo ansiogeno, vizioso e distruttivo. Baum si è interrogato sulle F 0 B 3Necessità di agire tempestivamente attraverso rapide ed efficaci decisioni. Da ciò ne deriva un termine di crisi riferito sia ad episodi catastrofici rari, sia a situazioni traumatiche comuni che hanno effetti psicologici analoghi. Le fasi del “crisis management”. Caywood e Stocker affermano che il crisis management si riferiscono alla gestione di operazioni: F 0 B 7Prevenzione: sono operazioni prima della crisi. Emerge che al crescere del numero di interventi preventivi attuati, corrisponde un pari decremento delle probabilità che si realizzino situazioni critiche o della gravità dei danni che possono implicare; F 0 B 7Intervento: sono operazioni durante la crisi. Per una buona riuscita degli interventi è necessaria una comunicazione chiara e rapida fra gli operatori impegnati nella gestione. fgna comunicazione efficace facilita la comprensione di quanto sta avvenendo e favorisce una rapida gestione di eventi simili futuri. Accanto alla comunicazione altro fattore importante è la capacità di elaborare rapidamente gli elementi del problema da fronteggiare; F 0 B 7Gestione degli effetti a lungo termine: sono operazioni dopo la crisi. Consiste in interventi riabilitativi da realizzare dopo la conclusione delle operazioni. È necessario soprattutto potenziare le azioni preventive in quanto sono queste le uniche che consentono di rendere l’ambiente sicuro. Prevenzione. Le principali strategie di prevenzione sono: 1) Costituire un team addetto al crisis management e un centro di comando: un primo efficace strumento di prevenzione consiste nel formare gli operatori su come prevenire o affrontare situazioni minacciose. Sul piano organizzativo invece sono da stabilire i meccanismi che possono garantire rapidità ed efficacia degli interventi; 2) Condurre una valutazione del rischio: individuare le vulnerabilità dell’ambiente o dell’area geografica sui quali si sta effettuando l’intervento; 3) Definire piani d’azione strutturati per i possibili eventi critici: è necessario formulare anticipatamente piani d’azione precisi per ogni possibile situazione di emergenza; 4) Impostare piani di recupero da realizzare in seguito all’evento critico: ogni struttura deve prevedere mezzi per recuperare le risorse materiali ed economiche spese nell’operazione; 5) Preparare piani di comunicazione con le altre strutture addette al soccorso: le strutture addette al soccorso, soprattutto nei casi di grandi calamità, dovrebbero agire insieme per la buona riuscita dell’intervento. Pertanto è necessario che gli operatori possano comunicare rapidamente e in modo continuativo; 6) Esercitazioni: è fondamentale condurre esercitazioni pratiche continuative da parte delle organizzazioni e delle persone coinvolte negli interventi. Intervento. Include tutte le operazioni attuate subito dopo il verificarsi dell’evento critico, al fine di ridurne danni o aggravamenti. Le principali azioni di intervento sono: 1) Riconoscere la crisi e attivare le squadre di crisis management: occorre individuare da subito la presenza di una situazione critica attraverso dei segnali d’allarme: o Fonte del segnale: dove esso si origina; o Tipologia del segnale: ad esempio se sia stato avvistato da persone o segnalato da dispositivi automatici. 2) Valutare la crisi: un metodo efficace di valutazione è quello dei quattro fattori principali, le cosiddette “4Ps”: F 0 A 7Fattori protettivi: fattori in grado di esercitare un potere protettivo, ovvero in grado di mitigare gli effetti negativi di possibili situazioni critiche; F 0 A 7Fattori di predisposizione: elementi che rendono un sistema più vulnerabile o ne diminuiscono le capacità di gestione efficace; F 0 A 7Fattori di precipitazione: fattori in grado di far scaturire l’evento critico. Sono correlati a scarsi fattori protettivi e a numerosi fattori di predisposizione. La valutazione di questi fattori può aiutare a determinare l’entità del futuro evento; F 0 A 7Fattori di perpetuazione: permettono di verificare se il sistema possiede elementi in grado di perpetuare la crisi nel tempo 3) Contenere la crisi: gli esiti negativi di un evento critico che devono essere limitati, sono quelli sia di natura fisica, sia psicologica, cioè l’impatto che esso esercita sulle vittime e sull’opinione pubblica 4) Rispondere alle esigenze della comunità comunicando tempestivamente e in maniera continuativa. Gestione degli effetti a lungo termine. Questa fase include tutte le operazioni svolte al fine di gestire le conseguenze negative a lungo termine derivanti dall’evento critico, e di riabilitare le persone e l’intera comunità dal punto di vista fisico, economico e psicologico. Queste strategie vengono adottate soltanto quando prevenzione e intervento sono state inefficaci e quando l’evento critico generato ha determinato effetti negativi di lungo periodo che potrebbero diventare stabili. I rischi psicosociali per il personale dell’emergenza. Nella gestione delle emergenze un aspetto fondamentale riguarda le conseguenze che gli eventi traumatici possono avere sia sulle vittime dirette, sia sui professionisti d’aiuto. Sebbene esista un’innegabile componente di soddisfazione derivante dallo svolgimento di professioni d’aiuto, i soccorritori presentano significative reazioni negative a livello psicologico, sociale e fisico. Il principale fattore di rischio per gli operatori è l’imprevedibilità dell’evento, ma anche la mancanza di informazioni adeguate ad affrontare la situazione, la visione di corpi feriti, la presenza di situazioni a rischio per la propria vita ecc. Stress. Numerosi studi hanno posto in evidenza che lo stress psicologico rappresenta uno dei principali rischi per gli operatori di emergenza. Tuttavia per lo sviluppo di una condizione di stress posttraumatico, non è sufficiente l’esposizione all’evento traumatico, è necessaria anche un’interazione tra fonti di stress e traumi vissuti. In particolare quando il soggetto ha vissuto precedenti esperienze simili a quella attuale, sembra essere maggiormente in grado di farvi fronte; se al contrario la situazione è totalmente nuova, il soggetto risulta privo delle risorse necessarie per fronteggiarla. Le strategie di coping attraverso cui è possibile ridurre gli effetti negativi prodotti dallo stress: F 0 B 7Ristrutturazione cognitiva dell’evento traumatico, ossia dalla capacità di focalizzare l’attenzione più sui suoi aspetti positivi che su quelli negativi; F 0 B 7Consapevolezza di esercitare controllo sulla situazione; F 0 B 7Libera espressione delle emozioni; F 0 B 7Uso di humor. Traumatizzazione vicaria. A causa del contatto diretto con persone che stanno vivendo o hanno vissuto eventi traumatici, gli operatori sono costantemente a rischio di sviluppare malessere psicologico del tutto sovrapponibile a quella provata dalle vittime dirette. L’interesse iniziale per lo studio della traumatizzazione vicaria, è stato suscitato da Figley il quale constatò come familiari dei reduci della guerra del Vietnam, constatò come essi stessero vivendo indirettamente i traumi del conflitto attraverso i racconti, le risposte emozionali e comportamentali del reduce. Burnout. Affinché la sindrome di burnout si sviluppi è necessaria sia l’esperienza di stressor acuti, ossia situazioni violente a impatto stressante, sia la presenza di stressor cronici sul piano organizzativo. Le componenti basilari della sindrome di burnout: Esaurimento emotivo: consiste nella sensazione di sovra-affaticamento, derivante da un abuso delle risorse fisiche ed emotive F 0 D 8Depersonalizzazione (cinismo): è la componente interpersonale del burnout. È dato dalla necessità di affrontare situazioni lavorative personalmente molto impegnative e negative che producono distacco nei confronti dei pazienti; F 0 D 8Ridotta percezione di efficacia personale: componente autovalutativa. Sensazione di scarsa efficacia professionale, di incompetenza e di mancata capacità di raggiungere i propri risultati lavorativi. Il soggetto sviluppa l’impressione di aver “bruciato” tutte le proprie energie per far fronte al lavoro. Tale condizione implica conseguenze sia per il singolo a livello personale e professionale, sia per i pazienti, sia per l’organizzazione. Tecniche d’intervento per la gestione del post-emergenza. Le due tecniche d’intervento più diffuse nella fase post-emergenza, sono quelle di defusing e debriefing. Queste tecniche hanno il fine di contenere potenziali danni e riportare i soggetti ad uno stato di normalità. Il defusing. C onsiste in una discussione di gruppo, effettuata nelle prime ore successive all’evento critico. Può essere considerato un primo soccorso emotivo delle vittime di esperienze traumatiche. La sua finalità è quella di condividere l’esperienza vissuta riducendo il senso di isolamento che i singoli possono percepire dopo il trauma. Può essere condotto anche da non psicologi. Vi sono 3 fasi fondamentali nel discorso: F 0 B 2Fase introduttiva: in cui i conduttori si presentano e spiegano le finalità dell’incontro; F 0 B 2Fase operativa: durante la quale viene chiesto ai membri di descrivere l’accaduto, esprimendo così le loro emozioni; F 0 B 2Fase informativa: dedicata alla spiegazione da parte dei conduttori di alcune indicazioni attuabili per ridurre lo stress e fronteggiare lo stato di disagio personale. I principali obiettivi di questa tecnica sono far sì che tutte le persone coinvolte nell’evento traumatico comprendano quanto accaduto e chiariscano le emozioni e le esperienze vissute F 0 D 8Focus group: sono uno strumento di frequente utilizzo. Consistono in discussioni di gruppo (8-10 persone), moderate da uno o due ricercatori, in cui si trattano i temi d’interesse per un paio d’ore. Le informazioni sono raccolte o con videoregistrazione o con appunti degli osservatori, in base agli obiettivi; F 0 D 8Interviste a testimoni privilegiati: come esperti o politici. Sono utili per ottenere informazioni sul target, per discutere strategie da seguire e per interpretare dati già in possesso dal ricercatore. Tali interviste potrebbero essere semistrutturate; F 0 D 8Survey: sono indagini quantitative su larga scala svolte attraverso questionario, sono utili per identificare aspetti sintetici della popolazione di riferimento. Si inizia con il definire chi risponderà al questionario, precisando la numerosità campionaria, e successivamente la modalità attraverso cui si scelgono le persone della popolazione. Il campione è un sottoinsieme di persone rappresentativo della popolazione di riferimento, vanno poi scelte le domande; F 0 D 8Esperimento: per testare l’efficacia di una parte del progetto. Con questo metodo è possibile individuare le relazioni di causa-effetto tra le variabili considerate. Si tratta di fare in modo che due o più gruppi differiscano solo per una o più variabili scelte dal ricercatore, o che le variabili siano manipolabili, ossia consistano nella presentazione di materiali o attività che influenzino ciò che si vuole indagare (variabile dipendente); F 0 D 8Osservazione: tecnica molto utile, ma disattesa per motivi di costo e scarsa strutturazione. L’osservazione potrebbe essere utilizzata per scoprire eventuali barriere al comportamento atteso e può aprire gli occhi al ricercatore, portandolo a riflessioni che altrimenti non avrebbe fatto; F 0 D 8Tecniche implicite: sono procedure svolte al computer che utilizzano la velocità o l’accuratezza (numero di errori) delle risposte dei partecipanti a compiti di identificazione o categorizzazione per ottenere una misura dell’intensità dell’associazione semantica tra concetti. In sostanza queste tecniche consentono di individuare l’atteggiamento implicito; F 0 D 8Ricerca etnografica: si basa sull’assunto che il ricercatore può capire veramente gli utenti se si immerge estensivamente nel loro ambiente naturale. L’osservazione è una tecnica molto usata in questo approccio insieme a diari e colloqui. Sviluppo di una campagna di marketing sociale. In questa fase avviene la progettazione e la realizzazione dell’intervento. Lo sviluppo della campagna di marketing sociale ha due obiettivi: Il prodotto (che cosa promuovere): il prodotto di un marketing sociale può essere: F 0 B 7Comportamento: ad esempio smettere di fumare; F 0 B 7Bene fisico: per esempio etilometri da distribuire ai giovani in una campagna contro la guida in stato di ebbrezza; F 0 B 7Servizio: per esempio il controllo del tasso alcolemico fuori dai locali notturni; F 0 B 7Persona: ad esempio un testimonial. F 0 A 7Il prezzo, la distribuzione e la promozione (come promuovere): o Prezzo: rappresenta il costo che il target deve sopportare per ottenere i benefici derivati dall’adozione del comportamento desiderato. A tale livello possono essere utilizzati incentivi o disincentivi che possono essere utilizzati per favorire il cambiamento del target; o Distribuzione (placement): la facilità e la comodità di accesso al cambiamento proposto; o Promozione: si tratta di scegliere i canali e i contenuti di comunicazione più adeguati. La progettazione del prodotto sociale. Esistono tre livelli di prodotto che è utile definire: F 0 B 3Core product (cuore del prodotto): i vantaggi che l’utenza desidera o si aspetta di avere in cambio dell’adozione del comportamento promosso. È essenziale perché implica la scelta dei vantaggi che andranno promossi, sui quali la campagna dovrà centrarsi. Questa scelta considererà i benefici del comportamento e i costi dei comportamenti in competizione. Ad esempio smettere di fumare porta a benefici fisici, ma anche a risparmio economico; F 0 B 3Actual product (prodotto vero): è il comportamento stesso, l’oggetto della comunicazione. Deriva dalla campagna, ma è più specifico (es. mangiare 4 frutti in una campagna di fitness). Il comportamento reale deve essere visto come uno strumento che permetterà agli utenti di ottenere i benefici di notevole valore percepito (core product); F 0 B 3Augmented product (prodotto esteso): è l’insieme di tutti i beni tangibili e dei servizi che accompagnano il prodotto vero e che sostengono quindi il comportamento desiderato (es. linea telefonica dedicata a chi vuole smettere di fumare). Sono fattori importanti per il successo della campagna di marketing sociale. Tramite loro si possono, infatti, rimuovere barriere all’adozione del comportamento, o sostenere l’adozione del comportamento nel lungo periodo, o ancora permettere di trasformare la motivazione individuale in comportamenti reali. La gestione dei costi di adozione del comportamento sociale (prezzo). I costi di adozione del comportamento possono essere: F 0 F AMonetari: sono associati a beni e\o servizi tangibili che fanno parte dell’augmented product (es. cerotti antifumo distribuiti in farmacia in una campagna antifumo); F 0 F ANon monetari: sono il tempo, lo sforzo e l’energia necessari per l’adozione del comportamento desiderato. Anche eventuali rischi o disagi psicologici o fisici, attesi o percepiti, relativi all’adozione del comportamento sono un costo per l’utente. Secondo Kotler e Lee, incentivi e controincentivi di tipo monetario e psicologico possono agire su due fronti: F 0 B 2Comportamento atteso: si usano incentivi per aumentare o migliorare i vantaggi derivanti dall’adozione del comportamento desiderato (core product), o per ridurre i costi monetari e psicologici legati al comportamento atteso; Comportamenti alternativi: aumentare i costi monetari e psicologici dei comportamenti alternativi. Per quanto riguarda il tema di aumento e riduzione di costi monetari, si osserva che il ricorso ad essi è prassi frequente anche nel marketing tradizionale. Ad esempio molti nel 2006 hanno usufruito delle agevolazioni fiscali per acquisti di veicoli a “euro 4” per la riduzione dello smog. In questo stesso ambito è possibile aumentare i benefici psicologici percepiti: molti acquisti effettuati possono essere attribuiti all’iniziativa di vari comuni di bloccare la domenica tutto il traffico che non rispettasse la normativa “euro 4”. Tuttavia la durata della gratificazione è inversamente proporzionale al successo della campagna (nel 2007 i veicoli euro 4 erano già moltissimi, riducendo così il beneficio di guidare in assenza di traffico). Alcune strategie sono adottabili anche per ridurre il costo psicologico e fisico. Gemunden suggerisce 4 modalità per ridurre il rischio percepito di incontrare perdite durante l’adozione del comportamento desiderato: F 0 7 6Rischio psicologico: è necessario sviluppare prodotti sociali che elargiscano ricompense psicologiche; F 0 7 6Rischio di natura sociale: occorre far sponsorizzare la campagna da enti prestigiosi e riconoscitui per li loro impegno sociale; F 0 7 6Rischio di natura fisica: occorre far sponsorizzare la campagna da enti prestigiosi riconosciuti per la loro competenza medica; F 0 7 6Rischio dato dall’utilizzo di un bene o di un servizio tangibile: fornire la possibilità di provare il bene \servizio stesso. L’accessibilità del prodotto (placement o distribuzione). Gli obiettivi di chi progetta una campagna di marketing sociale devono considerare l’accessibilità del comportamento desiderato e dei prodotti\servizi a esso collegati. L’obiettivo è rendere “facile” il comportamento promosso e “difficili” i comportamenti alternativi. L’efficacia delle campagne di marketing sociale è molto spesso limitata dalla difficoltà incontrata dagli utenti nel raggiungere il luogo in cui usufruire dei servizi o dove il comportamento desiderato si può realizzare. Kotler e Lee hanno sviluppato una serie di strategie per la distribuzione del prodotto sociale: F 0 B 7Avvicinare la location: ad esempio avvicinare gli utenti alla donazione di sangue attraverso dei laboratori medici mobili che stazionano vicino a luoghi di aggregazione; F 0 B 7Estendere l’orario in cui l’utente può mettere in atto il comportamento desiderato o usufruire dei prodotti \servizi a esso collegati (es. attivare linee telefoniche); F 0 B 7Essere presenti al momento della decisione: è una strategia difficile da realizzare. Infatti non si può essere presenti durante la scelta di mangiare cibi ipercalorici, tuttavia vari accorgimenti possono essere utili, come ricordare sistematicamente l’importanza di una dieta equilibrata; F 0 B 7Rendere la location più attraente: ad esempio la barriera dell’utilizzo delle biciclette in Italia è data da un’assenza di rete di corsie praticabile. Per essere efficaci le corsie dovrebbero proporre percorsi interconnessi e separati dal traffico automobilistico; F 0 B 7Superare le barriere psicologiche legate alla distribuzione: la timidezza o la vergogna sono una delle barriere più difficili da vincere, perché aderire alla campagna di marketing corrisponde all’ammissione di aver avuto in passato comportamenti indesiderabili. Per superare queste barriere è possibile impostare un primo contatto anonimo; F 0 B 7Essere più accessibili della concorrenza. F 0 B 7Rendere il comportamento concorrente più difficile: ad esempio il divieto di fumo a 5 metri dall’ingresso dei locali pubblici a Washington, è stato molto efficace Essere presenti dove gli utenti target fanno compere o si ritrovano. F 0 B 7 Integrarsi con i canali di distribuzione esistenti: per esempio per attività educative che riguardano i giovani è opportuno coordinarsi con la scuola e la famiglia. La promozione del prodotto sociale. La promozione è il momento più rappresentativo di una campagna di marketing. Nel caso del marketing sociale il fine ultimo è l’adozione di un comportamento socialmente desiderabile. Le azioni di promozione sono quindi comunicazioni persuasive finalizzate a motivare l’utenza designata all’azione. Nella comunicazione persuasiva bisogna prendere in considerazione: F 0 D 8Fonte del messaggio persuasivo. Possono essere: o Sponsor: può essere sia un’organizzazione no profit, sia un ente a scopo di lucro; imprese che scelgono di adottare una sorta di “codice etico” che esprima il loro impegno nel rispettare la qualità dei prodotti emessi sul mercato. L’immagine stessa delle imprese si sta modificando. Cause Related Marketing e Green Marketing. Da quanto detto prima, emerge quindi la concezione di un marketing etico che, mantenendo intatte le sue caratteristiche e le sue strategie d’azione, opera in spazi diversi da quelli puramente d’impresa, a favore di un benessere sia dei consumatori, sia dell’intera società. Questo punto di vista porta con sé una maggior fiducia dei consumatori i quali, in nome di una condivisione di valori con l’azienda, assicurano un maggior vantaggio competitivo all’azienda stessa. Le componenti etiche sono strumenti per creare fiducia, migliorando l’immagine dell’impresa e aumentando così la probabilità di acquisto e di riacquisto. Il consumatore viene altamente fidelizzato. Tra le tecniche che hanno raccolto maggior consenso abbiamo: F 0 B 7Cause Related Marketing: c’è un alleanza tra impresa produttiva e impresa non-profit per promuovere il prodotto abbinato ad una causa meritevole di attenzione e di impegno e ottenere così un beneficio per entrambe le imprese. Con questa tecnica l’azienda aumenta le vendite, il consumatore trae beneficio dall’acquisto del prodotto e le imprese non-profit (promotori) ricevono nuovi fondi; F 0 B 7Green Marketing: consiste in tutte quelle attività per facilitare scambi destinati a assolvere desideri e bisogni umani, affinché la soddisfazione di questi desideri avvenga con un impatto minimamente dannoso per l’ambiente. Questa strategia richiede la massima coerenza tra missione, strategie d’impresa e piano di marketing. L’obiettivo primario del Green Marketing consiste nell’ottenere un profitto per l’impresa mediante la soddisfazione dei bisogni del cliente, diminuendo il consumo di materie prime e di energia, utilizzando materiali riciclati ecc. La prestazione ecologica di un bene viene valutata durante tutto il suo ciclo vitale interessando anche il post consumo in termini di riciclaggio dei rifiuti. Comportamenti di consumo sostenibili. Per gli atteggiamenti consapevoli verso l’ambiente, è in corso un processo di trasformazione che sta investendo il consumatore: un consumatore attivo, critico, responsabile le cui scelte non avvengono solo in base al parametro qualità\prezzo, ma anche in base a come quel bene è stato prodotto. Il consumatore è quindi sempre più attento a comprare prodotti da aziende che integrano la sensibilità sociale con le valutazioni economiche. Tuttavia i consumatori non sono esenti da critiche dato il loro comportamento contradditorio. Vari studi hanno dimostrato che ad elevati livelli di preoccupazione ambientale (componente emozionale) e di coscienza ambientale (componente cognitiva), non corrisponde sempre un comportamento responsabile nelle azioni quotidiane. In particolare emerge, anche in Italia, che le persone che si sono dichiarate consumatori attenti all’ambiente, non sono però disposte a spendere di più per prodotto a basso impatto, o ad utilizzare trasporti pubblici per recarsi al lavoro ecc. Emerge quindi che nelle scelte relative all’adozione di alcuni comportamenti, i consumatori attribuiscono maggior peso al proprio benessere immediato, a discapito di un beneficio a lungo termine, sociale. Il concetto di consumo sostenibile si deve invece basare sulla reciproca responsabilità dei consumatori e delle imprese. Si possono definire quattro principali comportamenti del consumatore attento all’ambiente: F 0 A 7Cerca di evitare i prodotti dannosi per l’ambiente (es. bombolette spray); F 0 A 7Respinge prodotti che fanno esaurire le risorse ambientali naturali (prodotti ad alto consumo di energia); F 0 A 7Rifiuta i prodotti dannosi per la salute di persone e animali (es. carne di animali sottoposti a trattamento ormonale); F 0 A 7Vuole tornare al sapore originale del cibo. La letteratura ha individuato relazioni fra alcune variabili individuali (locus of control, coscienziosità, norme sociali e valoriali, self-efficacy) e l’adozione di comportamenti sostenibili. Ad esempio il consumatore verde ha elevati livelli di self-efficacy e percepisce il proprio contributo come utile per migliorare l’ambiente; se non realizza comportamenti sostenibili, il consumatore “verde” è soggetto a senso di colpa per non aver agito coerentemente con i propri valori. Tuttavia il consumatore non è disposto all’acquisto di beni ad elevate qualità ambientali a fronte di una prestazione complessiva inferiore al prodotto tradizionale. È pertanto necessario che l’impresa soddisfi i bisogni del consumatore assicurando la medesima qualità. Appare necessaria quindi una maggior conoscenza dei propri clienti e delle loro caratteristiche per fidelizzarli. Da queste considerazioni ha avuto origine il marketing relazionale il cui obiettivo principale è quello di gestire le relazioni di scambio con i gruppi di interesse al fine di perseguire vantaggi competitivi sostenibili a lungo termine. È richiesta infine, per promuovere una crescita sostenibile e rispettosa dell’ambiente, una consapevolezza da parte di consumatori e imprese che tale intervento è necessario per migliorare la qualità della vita. Raggiungere una sicurezza ambientale significa da parte di istituzioni e consumatori, non solo riconoscere il problema, ma anche porsi in collaborazione per poterlo risolvere. La condivisione delle responsabilità costituisce la chiave per la tutela ambientale.