Scarica quaderni di serafino gubbio operatore trama e analisi e più Appunti in PDF di Italiano solo su Docsity! I quaderni di Serafino Gubbio operatore sono in numero di sette e scandiscono le pagine di un diario immaginario, scritto a cose già avvenute. Chi scrive è un operatore cinematografico, Serafino Gubbio, soprannominato Si gira, il quale vuole vendicarsi delle macchine che lo hanno ridotto a una mano che gira una manovella, scrivendo, dal suo punto di vista, le vicende della troupe impegnata nella produzione di un film per la casa cinematografica Kosmograph. Il racconto, in prima persona, si apre con l’arrivo a Roma di Serafino, ospite la prima notte di uno strano tipo di filosofo, Simone Pau, in un ospizio di mendicità. Sono memorie che seguono il percorso di un individuo vittima della macchina da presa, mentre prende coscienza della sua alienazione. Della troupe fanno parte l’attrice Varia Nestoroff, figura esemplare delle nuove dive dello schermo, il regista Nino Polacco, amico intimo di Serafino, e altri attori ed addetti. L’incontro con la Nestoroff riporta alla mente di Serafino momenti del passato: è una donna fatale che ha tragicamente sconvolto la vita felice di due giovani, Giorgio Mirelli, morto suicida, e la sorella Duccella, da lui conosciuti nella paradisiaca “casa dei nonni” vicino a Sorrento. Un’altra vittima è Aldo Nuti, che aveva abbandonato la fidanzata Duccella per seguire la diva. Una storia che si complica nella tragedia finale, raccontata nel settimo quaderno: il film sta per essere terminato, si sta preparando la scena finale dell’uccisione della tigre, feroce e innocente incarnazione della natura. Nella gabbia, dentro la quale è stata ricostruita la giungla, vengono fatti entrare Nuti e Gubbio, l’uno con il fucile, l’altro con la macchina da presa. Attori e tecnici assistono alla scena finale attorno alla gabbia: appena entra la tigre, “si gira”. Ma ecco che accade l’imprevisto che trasforma la scena di finzione in scena reale: Nuti, anziché colpire la tigre, volge l’arma contro la Nestoroff che sta assistendo alla scena e la uccide, mentre la tigre si avventa su di lui e lentamente lo sbrana. È qui il punto centrale del romanzo: Serafino è talmente alienato dalla macchina che, impassibile come un automa, continua a girare la scena, in una sorta di raggelante identificazione con la macchina. Il sesto romanzo pirandelliano nasce alla vigilia della prima guerra mondiale, nel 1914 e viene pubblicato per la prima volta su di una rivista letteraria, “Nuova Antologia“, e poi in un volume nel 1916 con il titolo “Si Gira“; successivamente, nel 1925, riveduto e corretto appare con un nuovo titolo: “I quaderni di Serafino Gubbio operatore”. Sono gli anni del Futurismo, che al netto rifiuto della tradizione univa l’esaltazione della vita moderna e dei suoi aspetti più caratteristici: la velocità, le macchine, le nuove metropoli e i complessi industriali. Tali principi vennero elaborati per la prima volta dal poeta italiano Filippo Tommaso Marinetti, che nel Manifesto del futurismo del 1909 sostituiva alla vittoria di Samotracia, quale nuovo ideale estetico, l’immagine della “automobile in corsa con il suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo” mentre, nel 1912 il Manifesto tecnico della letteratura futurista, redatto da Boccioni, Balla, Russolo, Carrà e Severini, era dettato a Marinetti dall’elica turbinante di un aeroplano. Nell’ambito della situazione politica, culturale ed economica italiana, il futurismo rappresenta quindi la fase più clamorosa della subordinazione della letteratura all’industria capitalista, l’esito estremo delle correnti letterarie spiritualistiche, nazionaliste che presupponevano la negazione dei valori umani: valori che non l’industrializzazione in sé svalorizza ma l’industrializzazione capitalista. La negazione del passato della storia, l’odio contro ogni forma espressiva tradizionale, il disprezzo della bellezza classica a vantaggio di una nuova bellezza meccanica, sono gli elementi mediante i quali i futuristi intendono negare all’arte ogni diritto di rappresentare l’uomo nelle sue reali aspirazioni individuali e sociali. Il mito della macchina, del progresso meccanico, rappresenta la costante di una letteratura incapace di osservare realisticamente questo progresso nel quadro generale del progresso sociale. Il tema delle fabbriche, delle macchine, dell’elettricità è certamente uno dei prediletti dei futuristi, ma non si tratta solo di una scelta di contenuti: i futuristi affermano, e realizzano, l’antropomorfizzazione della macchina, la vedono in sembianze e le attribuiscono sentimenti umani: la mitragliatrice è paragonata ad una bella donna, poi ad un tribuno, quindi ad un trapano, a un laminatoio, a un tornio elettrico, a un cannello ossidrico. Ma, d’altra parte, nel futurismo è anche l’uomo a trasformarsi in macchina, sono i suoi sentimenti ad essere espressi con termini presi dalla fraseologia dell’industria: l’uomo ansima come dynamo, i nervi sono paragonati a cavi dell’alta tensione, l’anima grida come un cuore d’acciaio, si protende come un elemento di macchina. Nella struttura e nelle proporzioni del racconto futurista il funzionamento meccanico della nuova civiltà non deve venire intralciato dall’elemento umano; l’uomo non sarà che una rotella nel gigantesco corpo della macchina. E’ il ripudio del neoclassico a favore del moderno. Pirandello invece nutre per le macchine una profonda diffidenza. È proprio sulla insistita polemica vita/macchina che si aprono i Quaderni di Serafino, ridotto dalla sua professione ad essere esclusivamente “una mano che gira una manovella”. L’alienazione di un uomo depauperato di vita e di creatività nel farsi servitore di macchinari è il nucleo intorno a cui ruotano le riflessioni di questo io narrante, più interessato a seguire il suo filo teorico/meditativo che a raccontarci la storia di amore e morte presa a pretesto di narrazione. Siamo, con la prima edizione del romanzo, nel 1915: le macchine che incombono nella nostra vita sono quelle belliche, in una atmosfera pervasa da fremiti futuristi. Il presagio di Pirandello è quello di una Terra devastata dalla follia distruttiva dell’uomo/macchina e ancor di più, il presentimento che, forse, proprio questo esito apocalittico possa essere l’unica via rigeneratrice dell’essere uomo: “mi domando se veramente tutto questo fragoroso e vertiginoso meccanismo della vita, che di giorno in giorno sempre più si complica e s’accelera, non abbia ridotto l’umanità in tale stato di follia, che presto proromperà frenetica a sconvolgere e a distruggere tutto. Sarebbe forse, in fin dei conti, tanto di guadagnato. Non peraltro, badiamo: per fare una volta tanto punto e a capo”. Il vertiginoso meccanismo della vita Le esagerazioni futuriste, se da un lato dimostravano l’assurdità di un riconoscimento entusiastico del progresso industriale dentro una concezione statica anziché dinamica della società, dall’altro attestavano che il mondo meccanizzato non era riducibile a un semplice “contenuto” narrativo o poetico da potersi accettare o scartare a seconda degli interessi dello scrittore, ma una componente essenziale del mondo contemporaneo di fronte alla quale più non reggevano i tradizionali criteri di rappresentazione della realtà. La rivoluzione del linguaggio operata dal futurismo testimonia che lo scrittore è ormai cosciente di vivere in una società che l’industrialismo ha trasformato profondamente. Il tema delle macchine, della velocità, del movimento, tanto caro ai futuristi, diviene quindi, in Pirandello, oggetto di riflessione critica dinanzi al progressivo affermarsi, nella società, di tendenze spersonalizzanti legate all’espandersi della grande industria, nonché al diffondersi delle macchine, che meccanizzano l’esistenza dell’uomo e riducono il singolo a insignificante rotella di un gigantesco meccanismo, privo di relazioni e privo di coscienza. Un primo effetto di questa spersonalizzante situazione è il mito della velocità, che cresce in tutti gli uomini attirati dalla macchina. All’inizio del terzo quaderno viene presentata un’immagine Solo alla fine, quando il supplizio d’esser soltanto una mano finisce, egli può riacquistare tutto il suo corpo e riabbandonarsi a quello sciagurato superfluo che è pure in lui e di cui per quasi tutto il giorno la sua professione lo condanna ad esser privo. Quel superfluo che di continuo tormenta inutilmente gli uomini, non facendoli mai paghi di nessuna condizione e sempre lascandoli incerti del loro destino. E tuttavia, sotto la sua maschera di apparente impassibilità, Serafino appare un essere sensibile, mai capace di reprimere completamente le sue emozioni. Come di fronte alla signorina Luisetta, quando, egli sente affiorare in sé dei sentimenti “non necessari” che non gli si addicono in quanto “cosa” ma che, per un momento, valgono a fargli godere della sua ingenuità, del piacere che le cagionava il vento della corsa, mentre gli occhi di Serafino brillavano nel contemplarla. La totale identificazione con la macchina emerge chiaramente dalle parole di Serafino che afferma “assumo subito, con essa in mano, la mia maschera di impassibilità. Anzi ecco: non sono più. Cammina lei, adesso, con le mie gambe. Da capo a piedi, son cosa sua: faccio parte del suo congegno. La mia testa è qua, nella macchinetta, e me la porto in mano.” Gubbio scompone la propria figura umana in pezzi confusi e sovrapposti a quelli della macchinetta, arrivando ad affermare che lui non ha più un’anima, perché non gli serve per girare una manovella. Come Serafino è ridotto a “una mano che gira una manovella” così questa umanità anonima e senza volto, divenuta serva delle macchine, coincide tutta ed unicamente con le mani funzionali al lavoro. È l’immagine che si staglia davanti agli occhi di Serafino e del lettore, nel momento in cui si mette piede nel reparto Artistico o del Negativo, dove si compie misteriosamente l’opera delle macchine, “quanto di vita le macchine hanno mangiato con la voracità delle bestie afflitte da un verme solitario, si rovescia qua, nelle ampie stanze sotterranee, stenebrate appena da cupe lanterne rosse, che alluciano sinistramente d’una lieve tinta sanguinea le enormi bacinelle preparate per il bagno. La vita ingoiata dalle macchine è li, in quei vermi solitari, dico nelle pellicole già avvolte nei telai. Bisogna fissare questa vita, che non è più vita, perché un’altra macchina possa ridarle movimento qui in tanti attimi sospeso. Siamo come in un ventre, nel quale si stia sviluppando e formando una mostruosa gestazione meccanica. E quante mani nell’ombra vi lavorano! C’è qui un intero esercito d’uomini e di donne: operatori, tecnici, custodi, addetti alle dinamo e agli altri macchinari, ai prosciugatori, all’imbibizione, ai viraggi, alla coloritura, alla perforatura della pellicola, alla legatura dei pezzi. Basta che io entri qui, in questa oscurità appestata dal fiato delle macchine, dalle esalazioni delle sostanze chimiche, perché tutto il mio superfluo svapori. Mani, non vedo altro che mani, in quelle camere oscure; mani affaccendate su le bacinelle; mani, cui il tetro lucore delle lanterne rosse dà una apparenza spettrale. Penso che queste mani appartengano a uomini che non sono più; che qui sono condannati ad essere mani soltanto: queste mani, strumenti. Hanno un cuore? A che serve? Qua non serve. Solo come strumento anche esso di macchina, può servire, per muovere queste mani. E così la testa: solo per pensare ciò che a queste mani può servire. E a poco a poco m’invade tutto l’orrore della necessità che mi s’impone, di diventare anch’io una mano e nient ‘altro” . Gubbio subisce dunque un dramma senza alcuna possibile soluzione, intrappolato com’è fra due modi di vita: quello sentimentale e quello meccanico. Simbolo della sorte miserabile a cui il continuo progresso condanna l’umanità appare un vecchio violinista, incontrato la prima volta da Serafino in un ospizio di mendicità. Erede di una tipografia ben avviata la trascurò fino a ridursi sul lastrico, preso da un’unica passione: il violino. Malgrado i suoi tentativi di sottrarsi alla tirannia delle macchine, il violinista fu ripetutamente costretto ad accettare umili lavori, come quello di alimentare con forme di piombo le macchine da stampa monotype, in modo da ottenere i soldi per riscattare il suo prezioso strumento dal banco dei pegni. La tragedia esplode quando una compagnia cinematografica assume il vagabondo per accompagnare una pianola con il suo violino. La richiesta di asservire il suo talento artistico al ritmo automatico di una macchina lo fa infuriare a tal punto da causargli un accesso di ira cieca che gli procura due settimane di prigione. Rilasciato il vagabondo smette di suonare il suo violino. L’episodio serve da paragone al destino di degradazione provocato da una macchina che il protagonista subisce come operatore. Il violinista entrerà ancora nella vita di Gubbio quando gli verrà proposto di suonare per una tigre che doveva comparire in un film. Alla vista del superbo animale rinchiuso in una gabbia, vittima anch’esso dell’era industriale, il vecchio accetterà di suonare per l’ultima volta. Poco dopo il vecchi violinista muore, raggiungendo così l’unica liberazione che gli era rimasta, il solo tipo di libertà possibile in un mondo in cui tutti i valori umanistici hanno ceduto il posto alle macchine che divorano l’anima. La cinepresa come gioco di illusione Di questo rapporto alienante, uomo-macchina, diventa immagine metaforica la cinepresa. Attraverso di essa Serafino ha l’importante compito di filmare la vanità della vita, la quale assomiglia sempre più ad un film in cui ciascuno interpreta un ruolo sciocco ed insignificante. La cinepresa isola gli attori dalla vita concreta, dal rapporto vivo con il pubblico, che il teatro offriva prima loro, e i fotogrammi che la cinepresa riprende, ritraggono immagini staccate, senza alcun significato. L’ostilità che gli attori nutrono per Gubbio è dovuta alla sottrazione vitale che lui, attraverso la cinepresa, attua su di loro, riducendoli da corpo ad ombra; un’ombra che è destinata ad essere veduta “su uno squallido pezzo di tela” , davanti agli occhi di un pubblico di cui l’attore non si sente più parte viva. Ciascun di essi è li di mala voglia, è li perché pagato meglio, per un lavoro che, se pur gli costa qualche fatica, non gli richiede sforzi di intelligenza. La macchina, con gli enormi guadagni che produce, può compensarli molto meglio di qualsiasi altro impresario o direttore proprietario di compagnia drammatica. Non solo; ma essa, con le sue riproduzioni meccaniche, riempie le sale dei cinematografi e lascia vuoti i teatri, e gli attori, per non languire, si vedono costretti a picchiare alle porte delle Case di cinematografia. In tal modo si vedono allontanati, strappati dalla comunione diretta col pubblico, da cui prima traevano il miglior compenso e la maggior soddisfazione: quella di vedere, di sentire dal palcoscenico, in un teatro, una moltitudine intenta e sospesa seguire la loro azione viva, commuoversi, fremere, ridere, accendersi, prorompere in applausi. Qua si sentono come in esilio. In esilio non soltanto dal palcoscenico, ma quasi anche da se stessi. Perché la loro azione, l’azione viva del loro corpo vivo, là, sulla tela dei cinematografi, non c’è più: c’è la loro immagine soltanto, colta in un momento, in un gesto, in una espressione, che guizza e scompare. Avvertono confusamente, con un senso smanioso, indefinibile di vuoto, anzi di vuotamento, che il loro corpo è quasi sottratto, soppresso, privato della sua realtà, del suo respiro, della sua voce, del rumore che esso produce muovendosi, per diventare solamente un’immagine muta, che tremola per un momento sullo schermo e scompare in silenzio, d’un tratto, come un’ombra inconsistente, giuoco d’illusione su uno squallido pezzo di tela. Si sentono schiavi anch’essi di questa macchinetta stridula, che pare un grosso ragno in agguato, un ragno che succhia e assorbe la loro realtà viva per renderla parvenza evanescente, momentanea, giuoco d’illusione meccanica davanti al pubblico. La sera della rappresentazione per essi non viene mai. Il pubblico non lo vedono più. Pensa la macchinetta alla rappresentazione davanti al pubblico, con le loro ombre; ed essi debbono contentarsi di rappresentare solo davanti a lei. Quando hanno rappresentato, la loro rappresentazione è pellicola. Il significato dei “Quaderni” nell’opera di Pirandello Il valore metaforico della cinepresa emerge in tutta la sua profondità se letto alla luce del vitalismo sotteso alla concezione pirandelliana della vita. La realtà tutta è vita, perpetuo movimento vitale, flusso continuo, incandescente, indistinto. Ciò che fuoriesce da questo flusso perde forma, si irrigidisce, comincia a morire. Così avviene per l’identità dell’uomo. La cinepresa, che fissa le azioni in una forma, diviene metafora della inveterata tendenza dell’uomo a fissarsi in una realtà che egli stesso si dà. È la necessità per la vita di calarsi in una forma ed insieme l’impossibilità di esaurirvisi. Anche gli altri, con cui viviamo in società, vedendoci ciascuno secondo la sua prospettiva particolare, ci impongono determinate forme. Noi crediamo di essere uno per noi stessi e per gli altri, mentre siamo tanti individui diversi, a seconda della visione di chi ci guarda. Ciascuna di queste forme è una visione fittizia, una maschera che noi stessi ci imponiamo e che ci impone il contesto sociale. La presa di coscienza di questa inconsistenza dell’io suscita nei personaggi pirandelliani smarrimento e dolore. Ancora una volta la metafora della cinepresa appare fortemente significativa e pregnante: le vicende ripresa dalla macchina da presa sono, appunto, finzione, finzione cinematografica, cui manca l’alito genuino della vita. La realtà non è più una totalità organica ma si sfalda in una pluralità di frammenti che non hanno un senso complessivo. Di questa assenza di significato è indice allusivo il nome del protagonista: Serafino. Di lui non abbiamo connotati fisici, ne conosciamo retroterra affettivi, la sua personalità emerge furtivamente in un gioco di specchi, quanto mai sfuggente. L’unica chiave che ci permette di penetrare l’astrattezza del personaggio risiede in quel suo strano nome, Serafino. Certo non casuale in un autore come Pirandello, convinto che il nome fosse il primo biglietto da visita da affidare al personaggio. La natura del nome e del cognome dell’interprete principale del romanzo è stato oggetto di diverse interpretazioni. Una di queste rimanda a San Francesco, descritto nel paradiso dantesco “serafico in ardore”. Un ulteriore interpretazione si deve a Umberto Artioli il quale notò che “Dottor Seraphicus” era appellativo attribuito a San Bonaventura, autore di un trattato di mistica dal titolo “Itinerarium mentis in Deum” . Il nome del protagonista, dunque, sembra riferirsi allusivamente ad un analogo itinerario interiore, un itinerario, tuttavia, che non va “in Deum”, ma procede verso il nulla, non arriva a nessuna soluzione rigenerativa. formalizzazione dell’impossibilità del tempo oggettivo, continuo, dell’azione storica e della dinamica psicologica convenzionale; in una dialettica di piani che, di fatto, si riduce ad una oggettiva significazione della sua non-rappresentatività: del suo essere forma aperta, inconclusa, di un materiale oggettivo non apprezzabile se non come luogo e occasione di non-conclusione e di relatività, in cui si riversa la casualità degli eventi, il caos delle situazioni, l’allinearsi irrazionale delle forme di coscienza. La scelta formale di Pirandello è usata come mezzo per attuare una critica alla società borghese, con le sue ideologie e istituzioni, attraverso il suo contribuire attivamente alla crisi della narrativa in funzione di una critica più complessa dei valori, e cioè delle ideologie, che ne fondavano e ne garantivano l’agibilità. Ed è appunto la prospettiva “copernicana” in cui Pirandello colloca il problema del rapporto medesimo tra arte e realtà, tra falsa assolutezza del soggetto e delle forme fenomeniche dell’esistenza: una prospettiva che non tanto misura la degradazione oggettiva dei rapporti sociali e degli istituti dell’ordine borghese, quanto la falsità dei valori, delle forme di ricomposizione ideologica della crisi, delle certezze logiche ed etiche tuttora operanti come strumento di violenza e di sfruttamento. Serafino , napoletano, con senso della filosofia particolarmente spiccato », grazie ad una modesta eredità,aveva intrapreso gli studi universitari in Belgio. Tornato a Napoli, si era abbandonato a una «vita da scapigliato» fra giovani artisti, fino a esaurire il piccolo patrimonio. Una sera di novembre Serafino Gubbio giunge a Roma «con scarse speranze» e, in cerca di alloggio, si imbatte in un vecchio amico sardo, Simone Pau, che lo conduce a Borgo Pio nel suo albergo, un Ospizio di Mendicità, dove, malgrado la tristezza del luogo, Serafino accetta di restare. L'indomani inizia la sua grottesca avventura. All'ospizio arriva una troupe di attori della Casa cinematografica La Kosmograph per la ripresa «di un film . La troupe ha come direttore di scena Nicola Polacco, amico d'infanzia e compagno di studi di Serafino. Polacco vista la situazione dell'amico gli offre un lavoro di operatore alla Kosmograph, un ruolo su misura per chi, estraniato da tutto e da se stesso, ha raggiunto la «perfetta impassibilità» e può agevolmente ridursi a «una mano che gira la manovella» della macchina da presa. Serafino accetta l'impiego anche perché, per il suo studio dell'umanità, vuole osservare da vicino il comportamento di una delle attrici della troupe Varia Nestoroff,un'inquietante avventuriera russa, che, con la sua prorompente personalità aveva distrutto la vita di persone a lui care. Varia Nestoroff era stata infatti fidanzata di un giovane pittore di Sorrento, Giorgio Mirelli, a cui Serafino, quando era ancora studente, aveva impartito lezioni private. Giorgio viveva con la nonna e la sorella , fidanzata ad Aldo Nuti, giovane aristocratico napoletano, attore dilettante e amico del fratello. Alla vigilia delle nozze tra Giorgio e Varia, Aldo Nuti, per dimostrare all'amico l'indegnità della donna che sta per sposare, diviene l'amante di Varia. Giorgio, ferito dal tradimento, si uccide e L'orrore del tragico evento allontana i due amanti. Ma Aldo Nuti, diviso tra amore e odio per la donna - che intanto è divenuta prima attrice della Kosmograph - per riavvicinarla si fa scritturare come attore dalla Casa cinematografica. La Nestoroff è ora l'amante di un attore siciliano, Carlo Ferro, uomo all'apparenza grossolano e violento . I rapporti di Varia con gli uomini sono oggetto di particolare studio da parte di Serafino Gubbio che osserva: «Nemici per lei diventano gli uomini, a cui ella s'accosta, perché la aiutino ad arrestare ciò che di lei le sfugge: lei stessa». Ma gli uomini a cui si accosta, affinché la aiutino a comprendere la sua personalità, la deludono perché mostrano di desiderare solo il suo corpo e allora per vendicarsi e «per mostrar loro in quanto dispregio tenga ciò che essi sopra tutto pregiano in lei», si offre a uomini scapestrati come Carlo Ferro. Alla Kosmograph si prepara un nuovo film di soggetto indiano, La donna e la tigre, con una scena finale molto rischiosa, in cui un cacciatore dovrà affrontare una tigre - un feroce esemplare acquistato dalla Casa cinematografica - e abbatterla. Il ruolo del cacciatore è affidato a Carlo Ferro, ma all'ultimo momento Aldo Nuti ottiene di sostituirlo. L'attore, seguito da Serafino Gubbio con la sua manovella, entra in una grande gabbia, le cui sbarre sono state preparate per simulare la giungla; attorno al set Varia Nestoroff e altri attori assistono alla scena. Al «si gira», nella gabbia viene introdotta la tigre; Aldo Nuti imbraccia il fucile, ma rivolge la mira, attraverso uno spiraglio tra le sbarre, sulla Nestoroff che cade morta; la tigre si lancia su Nuti e lo sbrana prima di essere abbattuta. A Serafino, che con impassibile professionalità aveva ripreso la scena, la voce, per il terrore gli «s'era spenta in gola, per sempre». E Quaderni di serafino gubbio operatore note: LINGUA E STILE Il lessico proposto nel romanzo è molto ricercato; ciò è dimostrato dall'utilizzo abbastanza costante di termini tecnici e specifici del linguaggio cinematografico. Tale utilizzo può avere il duplice scopo di far entrare ed ambientare il più possibile il lettore nell'opera, e di sottolineare l'importanza sempre maggiore acquisita dalle macchine nella società. Nonostante questa ricercatezza, comunque, i periodi, anche se piuttosto lunghi e articolati i varie subordinate, risultano abbastanza comprensibili. Una particolarità del romanzo è l'utilizzo da parte dell'autore di citazioni di altre proprie opere, sia letterarie che, soprattutto, teatrali; non si tratta infatti di semplici collegamenti concettuali, abbastanza usuali in campo letterario, ma di un utilizzo di espressioni prese quasi integralmente da passaggi di queste opere. Non mancano inoltre alcuni cenni autobiografici da parte di Pirandello (ad esempio il comportamento della moglie del Cavalena, gelosa e ossessionata fino alla follia, ci fa pensare alla pedante moglie dell'autore). INTERPRETAZIONE COMPLESSIVA Le idee proposte dall'autore sono svariate; in primo luogo viene sottolineata e contestata la tendenza all'utilizzo di "maschere" da parte degli esseri umani, e dunque la tendenza ad apparire diversamente rispetto alla propria natura reale (un esempio ne è la Nestoroff, che maschera insoddisfazione e disagio con una sfacciata sicurezza e arroganza nei rapporti con gli uomini). Questo non fa altro che accentuare l'incomunicabilità dei personaggi, aumentandone la sofferenza e il disagio che li pervade. Il contrasto fra Pirandello e i suoi personaggi nasce dalla volontà dello scrittore di metterne a nudo l'anima nascosta; di scomporne l'apparente impassibilità e indifferenza di fronte ai casi della vita, e di capirne l'intima composizione per metterne in mostra la loro vera forma che si concretizzerà una volta per tutte. Si comprende inoltre una sensazione di disagio provata dall'autore nei confronti della meccanizzazione del mondo che lo circonda: parliamo di un processo in cui egli stesso, suo malgrado, si trova coinvolto. Non casuale è la professione di Gubbio, né il suo continuo girare la manovella della camera da presa, obbligato a servirla per mangiare e quindi servo di essa. Le macchine non fanno altro che accelerare e rendere più vaga la nostra esistenza, già effimera ed alienata per se stessa; Gubbio, e di conseguenza Pirandello, sono consci di ciò e non lo vorrebbero accettare. Tuttavia il triste epilogo vede il protagonista sconfitto, poiché, sebbene abbia conquistato una posizione rispettabile e invidiabile nella società, diventa muto, e solo ora veramente passivo esecutore: la crudeltà di quello che era accaduto aveva sconvolto Gubbio ad un livello tale da non consentire al protagonista stesso di potersi riprendere. Gubbio ormai accetta passivamente il tipo di esistenza che lo aspetta, senza più sforzarsi, come aveva fatto in precedenza, di capire a fondo quanto stava accadendo: d'ora in poi si sarebbe limitato ad essere il perfetto operatore, "solo, muto e impassibile": una figura perfetta nel nuovo mondo che andava delineandosi. Questo processo di meccanizzazione, poi, sta coinvolgendo anche l'arte; il cinema, attraverso cui gli attori possono trasmettere solo finzioni, nuova "arte" di massa, dai grandi e facili guadagni, sta prendendo il sopravvento sul vecchio teatro, ancora in grado di trasmettere veri sentimenti, uccidendolo. La morte del vecchio suonatore di violino e la situazione finale del nostro operatore sanciscono, sconsolatamente, la vittoria del cinema sul teatro, della falsità, dell'apparenza, dell'ipocrisia, della superficialità sul sentimento, e, in definitiva, della finzione sulla vita vera. Un punto, toccato dall'autore e a mio parere ancora molto attuale è quello della disillusione: Gubbio vedeva la vecchia casa dei nonni come un rifugio sicuro dal mondo esterno, in grado di evocare in lui sentimenti autentici di sicurezza e di affetto famigliare. Il fatto che, alla fine del quaderno VI, il protagonista trovi la situazione della nonna e di Duccella degenerata fino al patetico, porta ad una disillusione del protagonista stesso: anche i sentimenti che egli credeva immutabili verso la nonna e Duccella, sono stati inquinati dal tremendo mondo che le circonda, e che sta subendo una "artificiale perdita di valori".