Scarica Riassunti dei manuali Abbagnano-Fornero "La filosofia". Volumi: 2A-2B-3A-3B e più Sintesi del corso in PDF di Storia Della Filosofia solo su Docsity! 1 Il Seicento è un secolo ricchissimo per la storia del pensiero: i filosofi evidenziano l’importanza della ragione e l’indagine si focalizza su due ambiti: ▪ L’UOMO COME SOGGETTO; ▪ Il MONDO, ossia la dimensione oggettiva che l’uomo comprende grazie ai mezzi della ragione. Il pensiero di Cartesio rappresenta una tappa fondamentale nel passaggio dal Rinascimento all’età moderna: la filosofia non si deve limitare alla mera speculazione, ma deve avere dei risvolti pratici, diventando dunque una guida per l’orientamento dell’uomo nel mondo. Per raggiungere questo obiettivo, l’indagine deve seguire una “pista” ben definita, deve trovare un metodo. Per lungo tempo la filosofia cartesiana divenne il centro della speculazione filosofica del tempo: essa veniva vista come una rottura con il passato in particolar modo in quei luoghi in cui era più presente l’idea di una filosofia legata alla scolastica. A tal proposito vi era un racconto che presentava Cartesio come un uomo rinchiuso in una stanza dalle insormontabili mura, che rappresentavano la filosofia scolastica. Il povero Cartesio, non sapendo cosa fare, iniziò a sbattere la testa contro il muro, scoprendo così che il materiale con cui le mura erano state costruite non era il mattone, bensì carta pesta. Il filosofo cadde e gli si rivelò un intero mondo da scoprire. La distinzione fra sostanza pensante ed estesa si rivelò determinante riguardo alla libertà della conoscenza scientifica: il mondo veniva inteso come una realtà a sé stante, distinto e separato da Dio; dunque, gli scienziati erano liberi di studiarlo senza timore. René Descartes, meglio noto come Cartesio, nasce nel 1596 e viene educato nel collegio dei gesuiti di La Flèche. Successivamente, nel Discorso sul metodo, egli criticherà gli studi condotti in quel periodo. Nel 1619 egli compie in una notte tre sogni che sono stati capaci di suscitare in lui la prima intuizione del suo metodo. La prima opera in cui egli esprime tale intuizione è costituita dalle Regole per dirigere l’ingegno, composte tra il 1619 e il 1630. In quest’opera egli vuole mettere in crisi lo scetticismo che svalutava la capacità della ragione. A tal proposito egli fa riferimento ad un presunto convegno, avvenuto a Parigi, durante il quale vennero proposte nuove visioni dello scetticismo: esso si trasformava in fideismo, poiché la ragione, in quanto debole, non doveva porsi alcuna domanda e affidarsi alla fede. Secondo Cartesio bisognava invece ritenere la ragione lo strumento essenziale per la conoscenza umana. Cartesio si mette quindi alla ricerca di regole che possano indirizzare la ragione ed è così che nasce Regole per dirigere l’ingegno. Tuttavia, l’opera non verrà conclusa perché Cartesio si accorgerà che le regole stavano diventando troppe e stavano quindi perdendo la loro validità. Così nasce l’esigenza elaborare poche regole fondamentali, che nel “Discorso sul metodo”, l’opera più importante di Cartesio, saranno solo quattro. 2 Nel 1630 scoppia la Guerra dei trent’anni, Cartesio si arruola e viaggia in tutta l’Europa. Nel 1628 egli si stabilisce in Olanda per godere della libertà filosofica e religiosa caratteristica del paese. Egli inizia così a comporre un trattato di metafisica: nel frattempo riprende lo studio della fisica e scrive un trattato sul mondo che pensa di intitolare Trattato sulla luce. Tuttavia, in seguito alla condanna di Galilei, egli decide di non pubblicarlo poiché all’interno dell’opera è esplicitato il suo sostenimento alla teoria copernicana e il filosofo francese non vuole assolutamente rischiare di limitare la libertà del suo lavoro. Dal trattato, Cartesio estrapola tre saggi sulla Diottrica, sulle Meteore e sulla Geometria. Ad essi, egli premette una prefazione intitolata Discorso sul metodo, pubblica a Leida nel 1637. In quest’opera, egli non si limita a parlare delle regole per indirizzare la ragione, ma fa un discorso più ampio, in cui racconta la propria esperienza e spiega qual è, secondo lui, il metodo migliore per andare avanti nel percorso di conoscenza della realtà. Successivamente riprende e conclude il trattato di metafisica che viene pubblicato nel 1641 con il titolo di Meditazioni metafisiche (o Meditazioni sulla filosofia prima), completo delle Obiezioni e delle Risposte di Cartesio. Nell’ottobre del ’49, egli cede ai ripetuti inviti della regina Cristina di Svezia e si reca a Stoccolma dove si ammala di polmonite e muore nel 1650. Come Montaigne, Cartesio non vuole insegnare quanto ha imparato, ma piuttosto descrivere la propria esperienza. Al termine degli studi presso i gesuiti, il filosofo francese avverte un senso di disorientamento poiché egli ritiene di non aver acquisito il giusto criterio per distinguere il vero dal falso. Il metodo ricercato da Cartesio deve essere sia teoretico che pratico: deve condurre a saper distinguere il vero dal falso e deve avere come fine ultimo il vantaggio dell’uomo nel mondo. Per definire il proprio metodo, Cartesio si volge alla matematica: le regole metodiche presenti in essa devono essere astratte, formulate e soprattutto giustificate. I precetti di Cartesio non sono regole assolute, egli infatti non impone un metodo, ma si limita ad esporre la sua scelta di un metodo che si è spesso rivelato esatto. A tale fine egli dovrà fondarlo, giustificarlo e dimostrare la sua validità. La seconda parte del Discorso sul metodo espone le regole del metodo; esse sono quattro: 1. Regola dell’evidenza: è la regola fondamentale che prescrive l’evidenza. Non bisogna partire dai presupposti e cadere in precipitazioni che risultano necessarie. Con “evidenza” non si intende l’oggetto, ma l’idea di esso che appare alla mia mente: bisogna accettare come vero soltanto ciò che appare alla mente come chiaro e distinto. Una cosa è chiara quando non ha alcuna opacità, non vi è alcun dubbio, così come non vi sono dubbi sulla sua distinzione, non si confonde con altre cose. 2. Regola dell’analisi: è necessario suddividere un problema nei suoi elementi di base, in maniera tale da poter analizzare e comprendere meglio. 3. Regola della sintesi: bisogna supporre un ordine ai nostri pensieri e intraprendere un ragionamento deduttivo. È necessario cominciare ad analizzare le conoscenze più semplici, arrivando gradualmente a quelle più complesse. 4. Regola dell’enumerazione e revisione: bisogna enumerare tutti gli elementi individuati mediante l’analisi e fare una revisione dei passaggi della sintesi. 5 Una volta riconosciuta l’esistenza di Dio, il criterio dell’evidenza trova la sua garanzia: essendo perfetto, Dio non può ingannarmi. Ciò significa che tutto ciò che appare evidente deve essere vero, perché Dio lo garantisce come tale. Dio diventa quindi una sorta di termine medio fra la certezza del nostro io e quella delle altre evidenze. Nel sistema cartesiano permane comunque la possibilità di errare. Essa dipende dall’intelletto e dalla volontà. L’intelletto umano è limitato, infatti possiamo immaginarne uno molto più esteso, come quello di Dio; ▪ La volontà umana invece è libera e di conseguenza molto più estesa rispetto all’intelletto. La facoltà di errare risiede dunque nella possibilità di giudicare ciò che l’intelletto non percepisce chiaramente. In conclusione, l’errore dipende unicamente dal libero arbitrio che Dio ha concesso all’uomo; esso può essere evitato soltanto attenendosi scrupolosamente alle regole del metodo. L’evidenza consente a Cartesio di eliminare il dubbio sull’esistenza della realtà esterna: si acquisisce la certezza della capacità della sostanza pensante di conoscere realmente. Ammettendo l’esistenza di cose corporee corrispondenti alle nostre idee, Cartesio affianca alla sostanza pensante, la sostanza estesa o corporea. Non bisogna inoltre dimenticare l’importanza che egli conferisce alla sostanza divina, la quale diventa la garanzia della realtà dei pensieri della sostanza pensante. In tal modo, colore che non credono in Dio, non possono nemmeno avere la possibilità di fondare qualsiasi forma di conoscenza. Cartesio opera quindi una distinzione della realtà in due sostanze: ▪ La SOSTANZA PENSANTE o RES COGINTANS: incorporea, consapevole e libera ▪ La SOSTANZA ESTESA o RES EXTENSA: corporea, inconsapevole e meccanicamente determinata, sulla base delle leggi che le ha assegnato Dio. Dopo aver tracciato la divisione fra le due sostanze, Cartesio deve trovare un modo per spiegarne il difficile rapporto, così da rendere possibile la relazione tra anima e corpo. Egli cerca di risolvere la questione con la teoria della ghiandola pineale (l’odierna epìfisi), concepita come la parte del cervello che non essendo doppia, può unificare i pensieri con le sensazioni che provengono dai vari organi. Tuttavia, la soluzione cartesiana non avrà grande successo e verrà molto criticata dai pensatori successivi. La scienza cartesiana ebbe nello specifico poca fortuna, ma nell’impostazione generale grande fama. Il meccanicismo cartesiano incise profondamente la mentalità scientifica dell’epoca: esso rimandava al determinismo. In Cartesio, i fenomeni si svolgono secondo il principio di necessità causale: di conseguenza, se la scienza assume una struttura matematica, il principio causale diventa logico-matematico. L’andamento del fenomeno può essere così dedotto matematicamente da un’ipotesi. Si sviluppa così una fisica deduttiva. Secondo il filosofo francese, possiamo assumere come oggettive soltanto le proprietà in cui sia possibile una trattazione geometrica. La Geometria è la più importante delle tre opere introdotte dal Discorso sul metodo e costituisce l’atto di nascita della geometria analitica. Cartesio, consapevole dell’unità delle scienze matematiche, unifica l’algebra e la geometria. Riorganizzata in un linguaggio autonomo, l’algebra diventa idonea a riprodurre in termini formali la geometria, la quale, a sua volta, si offre come strumento di chiarificazione dei procedimenti algebrici. È a tale invenzione che si deve l’odierno sistema di riferimento degli “assi cartesiani”, i quali permettono a rette e curve di essere individuate sul piano, attraverso procedimenti algebrici. La fisica cartesiana pretendeva di ricondurre l’infinita varietà dei fenomeni ai due soli eventi del moto e dell’estensione. Entrambi hanno origine da Dio, il quale creando l’estensione le dona anche una determinata quantità di moto. Al Dio di Cartesio, come osserverà Pascal, basta aver dato un primo “colpetto” al mondo; il resto va da sé. 6 L’identificazione della materia con l’estensione comporta alcune conseguenze: ▪ Lo spazio è infinito, pertanto anche la sostanza estesa lo è; ▪ Lo spazio è infinitamente divisibile, quindi la materia non può essere costituita da atomi; ▪ Lo spazio è continuo, non sono ammesse interruzioni, quindi non esiste il vuoto; ▪ Le qualità che attribuiamo alla materia sono soggettive, perché lo spazio è qualitativamente indifferenziato. L’unico grande motore del mondo è il moto, che si distribuisce in maniera differente tra i corpi, attraverso gli urti. Due sole leggi dominano l’universo cartesiano: ▪ Il PRINCIPIO DI INERZIA; ▪ Il PRINCIPIO DELLA CONSERVAZIONE DELLA QUANTITÀ DI MOTO. Inoltre, secondo Cartesio l’etere, ovvero ciò che chiamiamo comunemente “vuoto”, è in realtà formato da corpuscoli, frammenti minuscoli di estensione, privi di coerenza perché soggetti a differenti condizioni inerziali. Di conseguenza, non esistendo il vuoto, il moto deve necessariamente avvenire in circolo: quando un corpo si muove nella materia sottile (corpuscoli), essa si dovrà richiudere su sé stessa. Ciò produce dei vortici, i quali, oltre ad avvolgere i singoli corpi, avvolgono anche la Terra, i pianeti e il sole. È attraverso questo sistema meccanico che Cartesio spiega la gravità e il moto di rivoluzione dei pianeti. Nel Discorso sul metodo, prima di iniziare l’analisi metafisica con il dubbio metodico, Cartesio elabora alcune regole di morale provvisoria. ▪ La prima regola prescriveva di attenersi alle leggi e ai costumi del paese in cui si vive. Con questa regola egli rinunciava ad estendere la propria critica alla morale, alla religione e alla politica. Cartesio distingueva inoltre l’ambito della contemplazione della verità, in cui ci si sarebbe dovuti attenere soltanto all’evidenza, dall’ambito della vita pratica, in cui la volontà non poteva sempre attenderla. • La seconda regola prescriveva di essere il più possibile risoluti nell’azione e di seguire anche l’opinione più dubbiosa, se è stata accettata; ovvero di scegliere con risolutezza e attenersi alla scelta. Anche in questo caso si tratta di una regola suggerita dalle necessità della vita, che spesso obbligano ad agire anche in mancanza di elementi sicuri. • La terza regola indicava di non cercare di far prevalere la propria realtà sul mondo: bisogna vincere sé stessi, piuttosto che la fortuna e cambiare i propri desideri piuttosto che l’ordine del mondo. Quindi, di fronte all’impossibilità di cambiare il mondo, bisogna cambiare sé stessi. Cartesio sosteneva infatti che l’unica cosa in nostro potere sono i nostri pensieri: questa regola rimane quindi il caposaldo della morale di Cartesio. Cartesio non farà mai seguire alla morale provvisoria, una “definitiva”. Successivamente egli scriverà Le passioni dell’anima, in cui opererà una distinzione nell’anima tra azioni e affezioni: ▪ Le azioni dipendono dalla volontà; ▪ Le affezioni sono involontarie e sono costituite da percezioni ed emozioni. Di conseguenza, la forza dell’anima risiede nella capacità di vincere le emozioni, le quali sollecitano l’anima portandola a combattere contro sé stessa. Nonostante ciò, le emozioni non sono completamente negative, ma hanno la funzione di incitare l’anima ad acconsentire alle azioni che servono a conservare il corpo, migliorandolo ulteriormente: le emozioni positive e negative ci fanno capire cosa è utile o nuoce al corpo, seppur talvolta esagerando per quanto riguarda la distinzione del bene dal male. Il compito dell’uomo è quindi quello di farsi guidare dalla ragione. 7 Il pensiero di Cartesio costituisce la più importante esperienza filosofica del Seicento. Se tra coloro che continuano il cartesianesimo emerge Spinoza, tra coloro che lo criticano spicca Pascal. Blaise Pascal nacque a Clermont nel 1623. I suoi primi interessi furono diretti alla matematica e alla fisica: a soli sedici anni compose il Saggio sulle sezioni coniche. Nel 1564 la vocazione religiosa divenne chiara in lui; nonostante ciò, l’interesse per la scienza non l’abbandonò mai: molte invenzioni lo occuparono negli anni della maturità. A seguito della conversione religiosa, il filosofo entrò a far parte dei solitari di Port-Royal, una comunità religiosa. In quel periodo, Pascal era noto per le “Lettere provinciali”. In esse egli attuava una difesa del giansenismo, un movimento religioso. I giansenisti criticavano la rilassatezza della morale ecclesiastica, specialmente gesuitica, secondo la quale la salvezza era alla portata di qualsiasi uomo: se l’uomo avesse seguito i giusti comportamenti, sarebbe stato sicuramente salvato. Al contrario, secondo i giansenisti, Dio concedeva la grazia della salvezza soltanto ad un numero ristretto di persone, i cosiddetti eletti. Anche secondo Pascal, la grazia che era necessaria per salvare l’uomo: di conseguenza era sbagliato dire che chiunque poteva rientrare nella grazia. Mentre pubblicava le Lettere, egli lavorava anche ad un’Apologia sul cristianesimo, che avrebbe dovuto essere la sua grande opera. Tuttavia, egli non poté completare il lavoro a causa della sua salute malferma e della sua morte prematura, avvenuta nel 1662, a soli 39 anni. I frammenti della sua opera furono così riordinati e pubblicati dai suoi amici di Port-Royal nel 1669, con il titolo di Pensieri. Si tratta dell’opera pascaliana più famosa, in cui il filosofo difende il cristianesimo. In essa, Pascal si dedica alle problematiche della morale provvisoria di Cartesio. Egli afferma che la ragione cartesiana, in grado di raggiungere qualsiasi verità è un’utopia. Vi sono verità e principi non accessibili all’uomo. La critica pascaliana è quindi la critica di un uomo che ama la scienza, ma che crede che la ragione non potrà mai essere in grado di scoprire le prove dell’esistenza di Dio o definire i principi assoluti della realtà. Si crede in Dio attraverso un atto di fede, attraverso una grazia che arriva dall’alto. Secondo Pascal, la questione più importante e decisiva per l’uomo è l’interrogativo sul senso della vita; di conseguenza, il filosofo ritiene mostruoso che gli individui, occupati nelle mille faccende della vita quotidiana, possano rimanervi indifferenti. Pascal ritiene che l’atteggiamento comune nei confronti dei problemi esistenziali sia quello del divertissement, termine che ha il significato filosofico di “oblio e stordimento di sé” nella molteplicità delle occupazioni quotidiane. Il divertimento è quindi una fuga da sé, dalla propria infelicità e dai supremi interrogativi circa la vita e la morte. Restando senza occupazioni, l’uomo viene assalito da sentimenti negativi quali la noia, che rivela la sua strutturale miseria. Da ciò derivano il gioco, la conversazione e la guerra: in essi viene ricercato il trambusto che ci distrae dalla nostra condizione. Secondo Pascal, l’uomo non dovrebbe chiudere gli occhi di fronte alla propria miseria, ma dovrebbe saper accettare, lucidamente, la propria condizione. 10 ▪ Da un lato, egli sembra dare grande importanza alla persuasione degli intelletti e alla scelta della fede, delineando un’apologia del cristianesimo; ▪ Dall’altro lato, proclamando che la fede è soltanto un dono di Dio e non una conquista umana, mette in dubbio il valore apologetico. Tutto ciò si connette alla sua ambigua concezione di grazia: egli afferma che le azioni umane da un lato, a causa del libero arbitrio, dipendono dall’uomo, ma dall’altro dipendono da Dio che fa sì che la volontà umana le generi. La posizione di Pascal sulla grazia rimane fondamentalmente giansenista, quindi più vicina al protestantesimo. Ciò spiega perché Pascal non valorizzi la ricerca umana, ma l’annulli, come dimostra la dottrina del “Dio nascosto”, secondo la quale Dio si manifesta, ma allo stesso tempo si nasconde. Il filosofo lascia intendere che i segni della manifestazione di Dio, appaiono soltanto agli animi, che avendo in sé la grazia, sono predisposti ad accoglierli. Ma se l’iniziativa della fede parte in ogni caso da Dio, l’ombra del mistero della predestinazione abolisce ogni iniziativa da parte dell’uomo. In tal modo la costruzione di Pascal perde ogni senso apologetico, a meno che non venga considerato che essa potrebbe conservare il suo valore anche nella prospettiva giansenista. 11 Spinoza Dopo la morte di Cartesio rimangono alcuni problemi in sospeso, tra cui il più importante è quello relativo al rapporto che ci può essere tra mente e corpo, ovvero il rapporto nel dualismo res cogitans e rex extensa. Gli occasionalisti ritenevano che per risolvere il problema del rapporto mente-corpo, bisognasse richiedere continuamente l’intervento divino. Tutto ciò risulta assurdo, perché vorrebbe dire che ogni movimento dell’universo ha origine da Dio. A partire da questa polemica, un giovane olandese di origine ebraica, Spinoza, esprime le proprie tesi. Baruch Spinoza nacque ad Amsterdam nel 1632, da una famiglia ebraica. Nel 1656 egli venne da scomunicato dalla propria comunità. Egli ricevette una condanna terribile: fu maledetto di giorno e di notte e fu isolato da tutti, poiché chiunque avrebbe parlato con lui sarebbe stato maledetto. Qualche anno più tardi Spinoza abbandonò Amsterdam e si stabilì dapprima presso Leida e poi nell’Aia. Nel 1661 Spinoza si dedica al Trattato sull’emendazione dell’intelletto: in esso egli concepisce la filosofia come via verso la salvezza esistenziale. Nell’opera, con una rapida analisi egli fa comprendere quanto i beni universalmente desiderati dagli uomini siano vani. Nel 1663 uscì l’unico scritto di Spinoza al quale egli diede il proprio nome: Principi di filosofia cartesiana. Pensieri metafisici. Nel 1670 comparve anonimo il Trattato teologico-politico, un vero manifesto contro la superstizione e la libertà di pensiero. Il libro venne condannato dalla chiesa. Da anni egli lavorava alla sua opera fondamentale: l’Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico; essa fu completata nel 1674 e cominciò a circolare nella cerchia dei suoi amici. Spinoza ne rinviò la pubblicazione per evitarne la condanna: l’opera fu data alle stampe solo dopo la sua morte, nel 1677. Le opere di Spinoza erano scritte in latino, considerata la lingua universale. L’odine geometrico che vi era nella sua opera sull’etica, veniva riportato anche grazie all’utilizzo della lingua latina. Lo spinozismo nasce probabilmente da un nucleo di fondo che, pur nutrendosi di fonti diverse, le supera in un’intuizione originale del mondo: il concetto spinoziano del Dio-Natura è la sintesi che esso realizza fra la tradizionale visione metafisico-teologica del mondo e gli esiti della nuova scienza. Spinoza è inoltre il primo filosofo con cui avviene l’esplicito rigetto della concezione biblico-cristiana. Il capolavoro di Spinoza, l’Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico, è una sorta di enciclopedia delle scienze filosofiche che tratta vari problemi, come la metafisica e la gnoseologia, con particolare attenzione all’etica. L’opera è divisa in cinque parti, la prima delle quali è dedicata a temi di ambito metafisico- teologico. Egli si ispira agli Elementi di Euclide ed utilizza un metodo di tipo geometrico. Il concetto fondamentale da cui Spinoza parte per dedurre tutto il suo sistema è la sostanza. Nella tradizione greco-medievale, per “sostanza” si intende sia la forma, cioè l’essenza della cosa, sia (aristotelicamente) il sinolo, ossia l’individuo concreto in cui essa è incarnata. Andando oltre Cartesio, Spinoza tenta di sviluppare tutte le implicazioni logiche della nozione di sostanza: per essa, egli intende “ciò che è in sé e per sé si concepisce”. ▪ Con la prima parte della formula (è in sé), Spinoza intende che la sostanza, essendo da sé, deve la propria esistenza unicamente a sé stessa. 12 ▪ Con la seconda parte (per sé si concepisce) intende affermare che la sostanza rappresenta un concetto che per essere pensato, non ha bisogno di altri concetti. Pertanto, la sostanza gode di totale autonomia ontologica e intellettuale. Dalla definizione di sostanza, Spinoza ricava le proprietà di base che la caratterizzano: ▪ La sostanza è increata, in quanto essendo causa sui non ha bisogno di altro per esistere; ▪ La sostanza è eterna, perché essa possiede l’esistenza che non ricava da altro; ▪ La sostanza è unica, poiché facendo il ragionamento ore assurdo, se ce ne fossero due, esse si distinguerebbero per attributi o modi diversi; quindi, la sostanza sarebbe uguale e si tratterebbe della stessa. ▪ La sostanza è infinita, perché se fosse finita dovrebbe essere limitata da un’altra sostanza. La sostanza dotata di tutte queste caratteristiche non può che essere Dio. Spinoza si stacca da gran parte della metafisica occidentale: le sue tesi implicano che Dio non sia esterno al mondo, ma che egli coincida con la Natura; da ciò l’affermazione spinoziana Deus sive Natura, ossia “Dio ovvero Natura”. In tal modo Spinoza perviene ad una forma di panteismo che, identificando Dio con la Natura, considera anche quest’ultima come una realtà increata, eterna, infinita e unica. Per chiarire il rapporto fra Dio e il mondo, Spinoza ricorre ai concetti di attributo e modo. Gli ATTRIBUTI sono le qualità essenziali o strutturali della Sostanza. Dunque, essendo la Sostanza infinita, lo sono anche i suoi attributi. Tuttavia, degli infiniti attributi della sostanza, l’uomo ne conosce solo due: l’estensione e il pensiero. L’infinitezza dell’essenza divina viene dunque “filtrata” dalla mente finita dell’uomo che la definisce mediante le due proprietà essenziali. I MODI sono le “affezioni della sostanza”, i suoi modi di presentarsi. Dunque, mentre gli attributi sono proprietà essenziali della Sostanza, i modi sono le sue modificazioni accidentali. In altre parole, i modi sono le concretizzazioni degli attributi e si identificano quindi con i loro singoli corpi e con le singole menti con le loro idee. Il sostegno di ogni realtà fisica o psichica è Dio. Spinoza distingue ulteriormente i modi in finiti e infiniti: ➢ I MODI INFINITI sono proprietà strutturali degli attributi stessi. Ad esempio, all’attributo dell’estensione segue il movimento, mentre all’attributo del pensiero l’intelletto e la volontà. ➢ I MODI FINITI sono invece gli esseri particolari, cioè “questo” corpo o “questa” idea. ESEMPIO: l’albero in sé è il modo finito dell’attributo estensione, mentre l’idea di albero nella mia mente è il modo finito del pensiero: entrambi si uniscono nell’unica sostanza, Dio. La natura non è altro che una esplicazione di Dio. Spinoza distingue nella natura una componente attiva e una passiva: ▪ La componente attiva viene definita Natura naturante, essa è l’insieme della sostanza e dei suoi attributi, considerata come causa; ▪ La componente passiva viene definita Natura naturata, essa è l’insieme dei modi, ovvero di tutte le cose esistenti nel mondo, essa è l’effetto. Le due nature non sono altro che due punti di vista della stessa realtà, Dio. Di conseguenza egli non è soltanto causa sui, ma è anche causa di tutte le altre cose, una causa immanente. Dio è libero, poiché non può essere creato da altro, ma egli non può avere alcun scopo, in quanto ciò implicherebbe che egli possegga una volontà, cosa impossibile dal momento che essa è semplicemente un suo modo e deve seguire da lui, secondo un rapporto logico di causa e conseguenza, non viceversa. 15 Alla letizia che nasce dalla conoscenza dell’ordine necessario, ovvero di Dio, Spinoza dà il nome di “amore intellettuale di Dio”. La conoscenza di ogni cosa come elemento necessario dell’ordine è contemplazione e amore intellettuale di Dio. Esso, quindi, è eterno e parte dall’amore infinito con cui Dio ama sé stesso. L’amore intellettuale di Dio coincide anche con la beatitudine, ovvero rappresenta il grado più alto dell’ascesi etica dell’uomo; essa è il messaggio ultimo della filosofia spinoziana. Così come il misticismo di Giordano Bruno era in realtà un naturalismo, analogamente anche il misticismo di Spinoza è in realtà una metafisica geometrizzante. La dottrina spinoziana dello Stato, esposta nel Trattato teologico-politico, è orientata al realismo politico. Come Hobbes anche Spinoza muove dalla descrizione di un ipotetico stato di natura, nel quale il diritto di ciascun uomo coincide con la sua potenza: tuttavia questa condizione determina uno stato di “guerra contro tutti”, in cui i diritti naturali sono nulli. Tale condizione di precarietà spinge gli uomini a cercare un comune accordo per una pacifica convivenza. Il sorgere di un diritto comune, dovuto all’istituzione di un governo, fa nascere le valutazioni morali. La differenza fondamentale tra stato di natura e stato civile è che in quest’ultimo tutti temono le stesse cose, vi è una garanzia di sicurezza e un solo modo di vivere. Si possono anche non condividere le leggi dello Stato, ma i vantaggi dello stato civile sono tali che la ragione consiglia comunque a chiunque di sottomettersi alle regole. •Consiste nella percezione sensibile, mediante la quale la mente coglie la realtà in modo parziale, tramite idee "oscure e confuse". •L'errore di questo tipo di conoscenza consiste nel modo parziale e confuso di rappresentare le cose. Il corrispondente etico di questa forma di conoscenza è la schiavitù delle passioni. Primo genere •Scaturisce dalla ragione, si fonda sulle idee "comuni", le quali sono connesse tra loro. La cognizione di secondo genere si identifica con la visione razionale del mondo, che trova nella scienza la sue espressione. •L'equivalente comportamentale è la vita secondo ragione o virtù, in cui l'uomo padroneggia il proprio sforzo di autoconservazione. Secondo genere •Esso viene chiamato "scienza intuitiva", si fonda sull'intelletto e consiste nel concepire la realtà alla luce della Sostanza. •La conoscenza intuitiva si identifica dunque con la metafisica, ossia con la visione delle cose nel loro scaturire da Dio. Quindi la mente, innalzandosi al di sopra delle limitazioni del finito, si colloca dal punto di vista di Dio. Terzo genere 16 Il Trattato teologico-politico rappresenta un manifesto contro la superstizione e la libertà di pensiero. Spinoza analizza metodologicamente l’intero contenuto della Bibbia allo scopo di dimostrare che essa concerne l’esercizio della virtù e non la verità. Al suo interno egli individua palesi contraddizioni: ad esempio Salomone afferma chiaramente che l’odine della natura è immutabile, ma successivamente vi sono eventi miracolosi che violano tale ordine. La credenza nei miracoli è dunque una superstizione dalla quale è necessario liberarsi: non bisogna credere nei miracoli perché farlo significherebbe credere che Dio, violando le sue stesse leggi, agisca contro la propria natura immutabile. La Bibbia si esprime in modo univoco soltanto sul messaggio morale, essa deve limitarsi semplicemente a quell’ambito e non deve essere considerata come materiale di studio per quanto riguarda la realtà fisica. Così facendo, Spinoza offre una definizione di fede, riconducendola ad un atto di obbedienza. L’unico precetto che insegna la Scrittura è l’amore per il prossimo. La riduzione della fede all’obbedienza al comandamento divino dell’amore elimina ogni pericolo di dissenso religioso. Tuttavia, tale riduzione rende impossibile il conflitto tra ragione e fede, ovvero tra filosofia e teologia, le quali si occupano di ambiti diversi: la prima si occupa dell’ambito conoscitivo della realtà, la seconda dell’ambito pratico dell’obbedienza a Dio. L’analisi spinoziana dell’organizzazione politica e la sua definizione di fede come obbedienza hanno come fine il garantire all’uomo la libertà della ricerca filosofica. Così come nessuna religione può costringere un uomo a credere nella verità di tutti i suoi dogmi, allo stesso modo lo Stato non può privare gli uomini di tutti i loro diritti. In qualsiasi comunità politica l’uomo conserva una parte dei suoi diritti e quello più geloso è la facoltà di pensare e giudicare liberamente. L’autentico fine dello Stato è quindi l’esercizio della libertà. FILOSOFO DELLA NECESSITÀ (per la sua concezione della realtà), Spinoza non ha altro scopo che garantire all’uomo la libertà dalle passioni, la libertà religiosa e politica. 17 Leibniz La sostanza e logica Un problema centrale in Leibniz è la concezione di sostanza. Mentre Cartesio riduce i corpi a semplice estensione e Spinoza li considera assieme alle idee come modi degli attributi della sostanza divina, inesistenti in quanto individui particolari; per Leibniz ogni sostanza è unica e comprende in sé tutte le proprie determinazioni. Da queste premesse deriva la nozione di “monade”, come sostanza individuale e spirituale. Leibniz è ricordato come un filosofo, i suoi interessi non erano però legati soltanto alla filosofia ma anche alla matematica. Egli ha avuto una competizione stretta con Newton per quanto riguarda la scoperta del calcolo infinitesimale, alla quale arrivano entrambi mediante procedimenti differenti: ▪ Leibniz a partire dalle monadi, le sue entità metafisiche; ▪ Newton a partire da procedimenti fisici. Leibniz coltiva a lungo il progetto di una riforma completa del sapere, basata sul tentativo di elaborare una lingua simbolica da poter ricondurre alla matematica. Egli intendeva assegnare ai numeri primi la funzione di simboli elementari, in modo che qualsiasi concetto complesso avrebbe potuto essere ricondotto a quelli che lo costituiscono, mediante una semplice scomposizione in fattori. Per esempio: definendo “animale” con il numero 2 e “razionale” con il numero 3, “uomo” sarebbe rappresentato dal 6. Scomponendo il 6 infatti vi troviamo i fattori corrispondenti alle nozioni elementari che formano il concetto di uomo. Il progetto di costruzione di questo linguaggio universale non sarà mai portato a termine; Tuttavia, si può cogliere in esso uno degli aspetti principali della logica e della metafisica leibniziana: ogni soggetto deve includere implicitamente tutti i propri predicati, così come, sul piano ontologico, ogni sostanza deve già contenere tutti i propri attributi. Partendo da questo presupposto ogni verità si caratterizza come analitica e dunque può essere conosciuta a priori. L’esperienza risulta subordinata alla ragione: il razionalismo si contrappone all’empirismo. L’energia e la monade L’aspetto più innovativo della filosofia di Leibniz consiste nell’introduzione del concetto di forza nella teoria fisica. Leibniz contesta il meccanicismo di Cartesio e la sua identificazione dei corpi con l’estensione, affermando che ciò che rimane costante nei fenomeni meccanici non è la quantità del movimento, ma la forza viva, ciò che oggi chiameremmo energia cinetica. La forza è diversa dal movimento, come è dimostrato dal fatto che un corpo fermo, nonostante sia privo di movimenti, possiede comunque una forza che gli permette di resistere al moto. Secondo Leibniz i corpi hanno dunque energia mentre è in dubbio che abbiamo un’estensione. La sostanza non è materiale e passiva, essa è un centro di forza. Leibniz la chiama “monade”, essa è un’“unità reale” con la quale viene superato il dualismo cartesiano di materia e spirito. Essa è il punto metafisico, l’atomo psichico che compone il tutto. La monade è inestesa, pertanto, hai i caratteri dell’indivisibilità e dell’infinità. La concezione di un’infinità di sostanze viventi appariva a Leibniz, se non confermata, almeno suffragata dalle contemporanee osservazioni con il microscopio, che stavano estendendo velocemente le conoscenze biologiche. Ogni corpo risulta composto da milioni di monadi, ognuna delle quali racchiude in sé un 20 Per esempio: Giuda non avrebbe potuto non peccare perché il suo tradimento era già contenuto nel suo concetto quando è stato creato da Dio. Se Giuda non avesse commesso quel peccato avrebbe dato vita ad un mondo diverso, ma se questo è il migliore dei mondi, Giuda non avrebbe potuto evitare di commettere il tradimento. Per salvare, almeno sul piano formale, la libertà umana, Leibniz fa una distinzione tra ▪ Necessario, ossia ciò che non potrebbe essere altrimenti senza contraddizione logica; ▪ Certo, ossia ciò che è così e potrebbe essere altrimenti senza contraddizioni. Egli giunge così a dimostrare che ciò che avviene alla monade è stabilito fin dalla sua creazione, ma non è necessario: Giuda poteva peccare ma avrebbe anche potuto scegliere di non farlo. Razionalismo ed empirismo Leibniz si è continuamente confrontato con posizioni diverse dalla sua, in particolare con quella di Cartesio, Spinoza e Newton. Ma una delle polemiche di maggior interesse è quella con Locke. Nei “Nuovi saggi sull’intelletto umano” Leibniz conduce un accurato esame del Saggio di Locke, ma essendo nel frattempo morto quest’ultimo, egli preferisce non pubblicarlo. I Nuovi saggi sono in forma di dialogo tra Filalete, che riferisce le tesi di Locke e Teofilo che le critica dal punto di vista di Leibniz. Il punto di maggiore controversia riguarda l’origine delle idee che Locke riferisce unicamente all’esperienza, mentre secondo Leibniz, molti principi, quali quelli della matematica o della logica, sono innati. Si tratta infatti, di principi universali, validi in ogni tempo e luogo: dall’esperienza non possiamo che ricavare principi limitati. In chiusura, Leibniz sottolinea che empirismo e razionalismo sono due diverse modalità di conoscenza, usate entrambe da ogni individuo. La differenza tra empirismo e razionalismo è paragonabile a quella che c’è tra conoscenza intuitiva e scientifica: ▪ nella vita quotidiana ragioniamo spesso per intuizione, ma di questa conoscenza sono capaci anche gli animali; ▪ la scienza invece procede deduttivamente, dimostrando le ragioni necessarie degli eventi, come avviene nella matematica, o anche per le leggi della natura. 21 L’empirismo inglese John Locke viene considerato il fondatore del cosiddetto “EMPIRISMO INGLESE”, ossia la corrente filosofica che si sviluppa tra Seicento e Settecento e che rappresenta una componente di fondo dell’illuminismo. L’empirismo si innesta nella tradizione del pensiero inglese e rappresenta un punto di incontro con il cartesianesimo e la rivoluzione scientifica. L’empirismo risulta caratterizzato dalla teoria della ragione come insieme di poteri limitati dall’esperienza. Il richiamo costante ad essa, fa sì che l’empirismo, in antitesi al razionalismo, tenda ad assumere un atteggiamento limitativo o critico nei confronti delle possibilità conoscitive dell’uomo e a seguire un indirizzo antimetafisico, che esclude dalla filosofia e da ogni ricerca, i problemi riguardanti la realtà. Tale prospettiva antimetafisica risulta presente in modo esplicito solo in Hume, in quanto né Locke né Berkeley tagliano completamente i ponti con la metafisica. In ogni caso dall’empirismo inglese, a cominciare da Locke, scaturisce quel concetto della filosofia come analisi del mondo umano. Nel 1687 furono pubblicati i Principi matematici di Newton. Nel 1690 compare il Saggio sull’intelletto umano di Locke. Queste due opere caratterizzarono il periodo storico e costituirono un punto di riferimento fondamentale per l’Illuminismo. Locke Locke nacque nel 1632 in Inghilterra e visse durante gli anni più duri dal punto di vista dello scontro religioso-politico, durante la prima rivoluzione. Locke personaggio centrale in quegli anni, era costretto spesso a spostarsi dall’Inghilterra, le sue riflessioni riflettono anche il luogo in cui si trova. La sua opera più famosa è il Saggio sull’intelletto umano, preceduto da una Epistola al lettore. Nell’opera egli cerca di capire la portata delle capacità di conoscenza della ragione umana. Locke si dedica alla sua composizione in Francia e lo pubblica al suo ritorno in Inghilterra, intorno al 1690. Lo stesso anno egli pubblicò anonimamente anche i Due trattati sul governo. Precedentemente egli aveva pubblicato nel 1667 il Saggio sulla tolleranza, mentre nel 1689 anonimamente la Lettera sulla Tolleranza. Egli si recò nel 1691 presso il castello di Oates di Sir Masham dove morì nel 1704. Secondo Locke, la ragione non possiede nessuno dei caratteri cartesiani: non è unica, non è infallibile e non può ricavare da sé idee e principi, ma deve farlo dall’esperienza. Nonostante la sua imperfezione, la ragione costituisce comunque l’unica guida efficace di cui l’uomo dispone. Con gli empiristi viene introdotto un nuovo termine: “INTELLETTO”. Esso non ha lo stesso significato di ragione: essa è qualcosa che va al di là della conoscenza, mentre l’intelletto è l’insieme delle funzioni che strutturano la nostra conoscenza. Nell’”Epistola al lettore”, premessa al saggio, Locke riflette con dei suoi amici su svariati argomenti. Tuttavia, nel corso della discussione, egli riscontra varie difficoltà, così Locke capisce che prima di intraprendere indagini sulla realtà, è necessario esaminare le capacità conoscitive dell’uomo. Quindi Locke riformula il problema del rapporto tra idee e realtà, analizzando il modo stesso di porsi dinnanzi ai problemi filosofici: non si dovrà partire da definizioni della sostanza per determinare il rapporto, ma al contrario, bisognerà chiedersi quali siano gli strumenti che l’uomo ha a disposizione e quali sono i limiti della 22 sua conoscenza. Questa prospettiva che assume come oggetto gli strumenti e le modalità di conoscenza è designata con il termine “criticismo”. Una delle sue conseguenze principali è la necessità di rinunciare ad affrontare ciò che supera tali limiti e non è conoscibile con gli strumenti umani. Il fine della conoscenza è soprattutto pratico: allo stesso modo in cui una candela vene accesa per illuminare la porzione di spazio interessata, ma non può mai rischiarare l’intera stanza, anche l’intelletto non può conoscere tutta la realtà ma deve limitarsi a conoscere gli aspetti necessari della nostra esistenza, sufficienti per guidare la nostra condotta nei casi concreti. Nel filosofo inglese ritroviamo dunque una forma di provvidenzialismo: tutti i limiti della ragione, sono provvidenzialmente quelli necessari per vivere bene questa vita. Locke è tradizionalmente considerato il fondatore dell’empirismo. La conoscenza si fonda sulla sensibilità, ciò che viene trasmesso al nostro spirito è la percezione, cioè l’azione che l’oggetto esterno ha messo in atto nel nostro spirito. Queste percezioni sono le nostre idee. Quindi, tutto ciò che è al nostro esterno è conoscibile attraverso la percezione. Su questo punto si innesca la filosofia dell’immaterialismo di Berkeley, che porta alle estreme conseguenze il ragionamento lockiano: tutto ciò che esiste è soltanto tutto ciò che si percepisce; dunque, al di là della percezione non vi è nulla. Locke riprende quindi il punto di partenza da Cartesio, le idee, le quali però sono dotate di una nuova limitazione: derivano esclusivamente dall’esperienza, non possono essere create dall’uomo. Locke distingue le idee in: semplici e complesse in base alla forma ▪ Le IDEE SEMPLICI sono le idee di singole sensazioni, quindi ricevute passivamente dall'intelletto. ▪ Le IDEE COMPLESSE sono una riorganizzazione e aggregazione di più idee semplici, quindi ricevute attivamente dall'intelletto. Inoltre, egli le distingue in idee: di sensazione e riflessione, in base al contenuto. ▪ Le IDEE DI SENSAZIONE derivano da senso esterno, sono le qualità che attribuiamo alle cose, come il colore, il gusto ecc... ▪ Le IDEE DI RIFLESSIONE derivano dal senso interno, sono tutte le idee che si riferiscono a operazioni del nostro spirito, come il pensiero, il dubbio, la conoscenza ecc.. Locke dedica il primo libro del suo Saggio alla critica dell’innatismo. Il fatto che i bambini e gli “idioti” non abbiano le nozioni ritenute universali confuta l’innatismo. Locke propone una celebre metafora secondo la quale, prima dell’esperienza, la mente è paragonabile ad una tabula rasa, ad un foglio bianco, che successivamente, facendo esperienza, inizieremo a scrivere. Il secondo libro del Saggio è dedicato all’analisi del meccanismo di conoscenza. L’esperienza ci fornisce soltanto le idee semplici. Il nostro intelletto le riunisce in modi infinitamente vari, producendo così le idee complesse. L’intelletto non può tuttavia inventare nuove idee: è questo il limite insuperabile dell’umanità. Il principale argomento contro l'innatismo è che sarebbe illogico ritenere che le idee innate esistano, dal momento che siamo dotati degli strumenti per acquisirle. L'argomento più noto è invece rivolto contro la presunta universalità di alcune idee. Se tali idee fossero innate, dovrebbero essere note a tutti, anche alle menti dei bembini e degli "idioti". 25 Nel Saggio sulla tolleranza, Locke distingue tra forme di credenza e principi di fede che dovrebbero essere accettati dalla comunità, ma nel momento in cui possono arrecare danno agli altri, non vi deve più essere tolleranza. Nella Lettera sulla tolleranza, Locke mette a confronto lo Stato e la Chiesa, individuando nel concetto di tolleranza, il punto di incontro tra gli interessi delle due istituzioni. Lo Stato è società composta da uomini, il cui solo fine è la preservazione dei “beni civili”, ossia la vita, la libertà, l’integrità del corpo e il possesso delle cose esterne. Questo compito stabilisce i limiti della sovranità dello Stato, la salvezza dell’anima è dunque al di là. La Chiesa è una libera associazione di uomini, che si riuniscono spontaneamente per venerare Dio e ottenere la salvezza. Essa ha il diritto di espellere coloro le cui credenze ritiene incompatibili con i propri principi, ma la scomunica non deve assolutamente comportare una diminuzione dei diritti civili. Per quanto nelle opere di Locke la tolleranza non trovi un riconoscimento radicale, i suoi scritti rappresentano la migliore giustificazione della libertà di coscienza che la storia della filosofia ci abbia offerto. D’altro canto, Locke non intende sminuire il valore della religione, infatti pur accettando gli argomenti dei libertini che negavano il valore razionale della religione, Locke riconosce nel cristianesimo una religione razionale; di ciò parlerà nella sua opera Ragionevolezza del cristianesimo. 26 Dall’empirismo allo scetticismo Restringendo la conoscenza umana nei limiti dell’esperienza, Locke non ne aveva diminuito il valore, ma aveva riconosciuto la validità entro i propri limiti. Hume indirizza invece l’empirismo verso un esito scettico: l’esperienza non è in grado di fondare la validità della conoscenza, la quale non è certa ma soltanto probabile. David Hume David Hume nacque nel 1711 a Edimburgo, in Scozia, dove studiò giurisprudenza nonostante i suoi interessi fossero rivolti alla filosofia e alla letteratura. Successivamente Hume si reca in Francia, dove elabora la sua prima opera, il Trattato sulla natura umana e la pubblica a soli 28 anni, credendo che avrebbe cambiato la storia della filosofia. Tuttavia, ciò non avvenne, perché in un primo momento l’opera non venne compresa, successivamente gli sarà attribuita una maggiore importanza. Si trovava a Torino, quando nel 1748 uscì a Londra la Ricerca sull’intelletto umano, che rielaborava in forma più semplice la prima parte del Trattato. Nonostante il trattato venne pubblicato in forma anonima, le altre opere vennero firmate. Hume veniva considerato come un blasfemo, simbolo della lotta della filosofia contro la religione. Le sue opere vengono tradotte e si diffondono in tutta Europa. Quando Hume si recò negli anni ’60 in Francia, egli venne idolatrato. Fino agli anni ’50 egli si dedicò alla composizione e allo studio di opere filosofiche, successivamente si dedicò alla storia. Nel 1752 Hume ebbe un posto di bibliotecario a Edimburgo e cominciò a comporre una Storia dell’Inghilterra. Nello stesso anno pubblicò la Ricerca sui principi della morale, rielaborazione della terza parte del Trattato. Tornato in Inghilterra, ospitò in casa Jean-Jacques Rousseau. Dal 1769 in poi, ormai benestante, Hume condusse una vita ritirata e tranquilla. Morì a Edimburgo il 25 agosto 1776. Alla base della filosofia di Hume vi è l’ambizioso progetto di costruire una “scienza” della natura umana su base sperimentale: egli intende offrire un’analisi sistematica di essa. Questa scelta empiristica finirà per mettere capo a una forma di scetticismo nel quale le pretese conoscitive della natura umana risultano fortemente limitate. Hume ricerca i principi della natura umana: si tratta di principi conoscitivi e morali. Anche lui, come Berkeley, riprende dei principi lockiani e li porta alle estreme conseguenze. La conoscenza è possibile soltanto a posteriori, limitata alle conoscenze che sono già avvenute. Il ragionamento parte dalla ragione intesa in maniera lockiana; Hume si propone di: ▪ ANATOMIZZARE LA NATURA UMANA, ovvero affermare le cose come stanno; ▪ NON TRARRE CONCLUSIONI CHE NON SI BASINO SULL’ESPERIENZA. Nella sua analisi della conoscenza umana, Hume divide le percezioni della mente in due classi: ▪ IMPRESSIONE: la percezione forte, ciò che percepiamo immediatamente dall’esperienza. Le impressioni sono tutte le sensazioni ed emozioni; ▪ IDEA: percezione più debole. Si ha quando si riflette su una percezione, si basa sul ricordo di una impressione. 27 Mentre per Locke le percezioni sono tutte idee, in Hume le percezioni si dividono in impressioni e idee. Le idee sono le immagini illanguidite delle impressioni. Ogni idea deriva quindi dalla corrispondente impressione: non esistono idee o pensieri di cui non si sia avuta precedentemente l’impressione. Hume riconduce tutta la realtà alla molteplicità delle idee attuali e non ammette nulla al di là di esse. Egli riprende inoltre la negazione delle idee astratte già operata da Berkeley: per Hume esistono soltanto idee particolari, assunte come segni di altre idee particolari a esse simili. Per spiegare la capacità di un’idea di richiamare un gruppo di idee tra loro simili, Hume ricorre al principio dell’abitudine. Quando abbiamo scoperto una certa somiglianza tra idee, adoperiamo un unico nome per indicarle. Si forma così in noi l’abitudine di considerare unite le idee designate da un unico nome. La facoltà di stabilire relazioni tra idee è detta “IMMAGINAZIONE”. Essa, mediante il principio di associazione, opera secondo tre criteri fondamentali: ▪ La SOMIGLIANZA; ▪ La CONTIGUITÀ NEL TEMPO E NELLO SPAZIO; ▪ La CAUSALITÀ. Hume ritiene che l’associazione stia alla base delle idee complesse, in particolare di quelle di spazio, tempo, causa ed effetto, sostanza. Hume mostra come ad esse non corrisponda alcuna impressione. Innanzitutto, spazio e tempo non sono impressioni ma, modi in cui esse si dispongono dinnanzi allo spirito. Allo stesso modo sono destituite di oggettività le idee di causa ed effetto, con l’analisi critica del principio di causalità e le idee di sostanza materiale e spirituale, con la credenza nel mondo esterno e nell’identità dell’io. Come Leibniz aveva fatto una distinzione tra verità di ragione e di fatto, Hume distingue le proposizioni che concernono le relazioni tra idee da quelle che concernono i fatti. Analisi critica del principio di causalità Tutti i ragionamenti si fondano sulla relazione di causa ed effetto. La tesi fondamentale di Hume è che essa non può mai essere conosciuta a priori, ma soltanto per mezzo dell’esperienza. Relazioni tra idee •Si possono scoprire soltanto per mezzo del pensiero. Queste proposizioni si basano semplicemente sul principio di non-contraddizione. •Queste proposizioni hanno in sè stesse la propria validità, in quanto il predicato è già contenuto nel soggetto. Ad esempio, posta la definizione del triangolo rettangolo ricaviamo che il quadrato dell'ipotenusa è uguale al quadrato dei due lati. Dati di fatto •Queste proposizioni non sono fondate sul principio di non-contraddizione, ma sull'esperienza, giacchè il contrario di un fatto è sempre possibile. •Infatti, la proposizione "domani il sole non si leverà" non è meno intellegibile di "domani il sole si leverà". 30 concetto che al politeismo risulta estraneo. Hume, quindi, pensa che fra le due forme, la migliore sia il politeismo, poiché ognuno può affidarsi al Dio che vuole. Le idee politiche di Hume sono il risultato di un’analisi della vita, mirante a rintracciare nella natura umana i fondamenti della socialità e della vita politica. In un saggio intitolato “Il contrario originario”, egli prospetta le due tesi sull’origine del governo e del contratto sociale, entrambe giuste. • La TEORIA DEL DIRITTO DIVINO è giusta come tesi generale, dal momento che tutto ciò che accade nel mondo rientra nei piani della provvidenza; tuttavia, essa giustifica ogni specie di autorità; • La TEORIA DEL CONTRATTO SOCIALE è anch’essa giusta, in quanto afferma che il popolo è l’origine di ogni potere e spiega come gli uomini abbandonino la loro libertà primordiale, accettando le leggi. Tuttavia, questa dottrina non è sempre verificata: vi sono governi e Stati che nascono da rivoluzioni, conquiste e usurpazioni. Inoltre, Hume distingue i doveri umani in due classi: ▪ Vi sono doveri ai quali l’uomo è spinto da un ISTINTO NATURALE, che opera in lui indipendentemente da ogni obbligo. Tali sono l’amore dei figli, la gratitudine per i benefattori e la pietà per gli sfortunati. ▪ Vi sono invece doveri che scaturiscono unicamente da un SENSO D’OBBLIGO, derivante dalla società umana. Tali sono la giustizia, la fedeltà e l’obbedienza politica e civile. Il DOVERE DELL’OBBEDIENZA CIVILE non nasce dall’obbligo di fedeltà ad un patto originario, ma dal fatto che senza di essa la società non potrebbe sussistere. Hume ritiene quindi che la dottrina dell’obbedienza non vada condotta all’estremo, ma che bisogni difendere i diritti della verità e la libertà offesa. 31 Le opere di Vico introducono temi che saranno centrali nella filosofia del Settecento e dell’Ottocento, a cominciare dal motivo della storia e del progresso. Vita e opere Giambattista Vico nacque a Napoli nel 1668. Studiò filosofia scolastica e diritto. Visse una vita povera e oscura, in vita ottenne scarsi successi: l’originalità e la complessità del suo pensiero rispetto alla cultura italiana del tempo fecero sì che solo in tempi più recenti gli venisse riconosciuto il posto che gli spettava nella storia del pensiero. Morì a Napoli nel 1744. Nel 1710, il filosofo tentò di esprimere sistematicamente il proprio pensiero in un saggio dal titolo Dell’antichissima sapienza italica da trarsi dalle origini della lingua latina. L’opera doveva articolarsi in tre libri rispettivamente dedicati alla metafisica, alla fisica e alla morale, ma risultò effettivamente composta solo dal primo: in essa Vico cercava di risalire, attraverso la storia di alcune parole latine, alle origini dei primi popoli italici. Nel 1725 pubblicò la sua opera fondamentale, Principi di una scienza nuova intorno alla comune natura delle nazioni, a cui continuò a lavorare per il resto della sua vita. Il sapere vichiano La gnoseologia del De antiquissima si fonda interamente sull’antitesi tra conoscenza divina e umana: ▪ A Dio appartiene L’INTENDERE (intelligere), ossia la conoscenza perfetta risultante dal possesso di tutti gli elementi che costituiscono l’oggetto; ▪ All’uomo appartiene il PENSARE (cogitare), ossia la possibilità di ricercare alcuni degli elementi costituitivi dell’oggetto. Di conseguenza la ragione, l’organo dell’intendere, appartiene solo a Dio; l’uomo ne è soltanto partecipe. Si può conoscere realmente soltanto ciò che si fa: le parole verum e factum hanno lo stesso significato in latino. Tuttavia, mentre il fare di Dio corrisponde alla creazione di un oggetto reale, il fare umano diventa la creazione di un oggetto fittizio. La conoscenza dell’uomo nasce così da un difetto della mente umana, la quale non contiene in sé gli elementi di cui le cose sono costituite. Tale difetto può comunque essere convertito in vantaggio, poiché l’uomo si procura gli elementi delle cose mediante l’astrazione. Il principio secondo cui vero e fatto si identificano restringe molto la conoscenza umana. ▪ L’uomo non può conoscere il mondo della natura, il quale, essendo creato da Dio, può essere soltanto oggetto di conoscenza divina. Egli può tuttavia conoscere il mondo della matematica, creato da lui stesso; ▪ L’uomo non può conoscere nemmeno il proprio essere, la propria realtà metafisica. Il cogito è la coscienza del proprio essere, non la sua scienza, dunque può essere propria anche dell’ignorante. Quindi, secondo Vico, Cartesio non avrebbe dovuto dire “io penso dunque sono” ma “io penso dunque esisto”. La nuova scienza Di fronte all’impotenza della conoscenza umana nell’ambito della natura, nella Scienza nuova, Vico riconosce come suo oggetto proprio il mondo della storia: in esso, l’uomo non è sostanza fisica e metafisica, ma prodotto e creazione della sua propria azione. 32 Sotto questa luce, dunque la storia non è un succedersi slegato di avvenimenti, ma deve avere in sé un ordine fondamentale. Vico vuol compiere nel mondo della storia ciò che Bacone ha compito nell’ambito della natura: la sua scienza nuova instaura un’indagine del mondo storico diretta ad individuarne l’ordine e le leggi. Stabilendo gli assiomi di fondo della scienza nuova come “degnità”, in quanti verità “degne”, Vico afferma che essa deve fondarsi sulla filologia e sulla filosofia. ▪ La prima, intesa come studio delle manifestazioni della civiltà umana, è definita “conoscenza del certo”; ▪ La seconda, intesa come studio delle cause e leggi che spiegano la realtà, è definita “conoscenza del vero” Filologia e filosofia devono procedere insieme, così da poter inverare il certo e accertare il vero. Nell’Autobiografia Vico indica i quattro grandi autori da cui avrebbe tratto l’inspirazione del proprio sistema, ossia: Platone, Tacito, Bacone e Grozio. ▪ Da Platone e Tacito, grandi menti metafisiche, egli avrebbe tratto ispirazione per quanto riguarda la storia ideale eterna. ▪ Egli si ispira a Bacone per la sua concezione della complessità dell’universo. ▪ Lo studio filologico di Grozio lo indirizza a basarsi sul mondo degli uomini. ▪ Tuttavia, egli si ispira anche alla filosofia del Seicento, come al neoplatonismo, la nozione dell’identità del vero e del fatto di Hobbes, la concezione di Dio come motore di Malebranche. La storia ideale eterna Il punto di partenza della storia è la situazione originaria dell’uomo. L’uomo cerca di uscire dal proprio stato di decadenza, di disperazione, muovendo verso un ordine divino: egli effettua un “conato”, ossia uno sforzo, per sollevarsi dagli impulsi primitivi. Ciò che aiuta l’uomo in questo sforzo è la filosofia, che gli mostra lo stato ideale, indicando come meta la cosiddetta “REPUBBLICA DI PLATONE” e cercando di impedirgli lo stato bestiale, definito “FECCIA DI ROMOLO”. Tuttavia, considerare la filosofia come guida di un percorso è sbagliato, poiché essa non è in grado di indirizzare, la maggior parte, ovvero la feccia di Romolo, ma è soltanto in grado di guidare coloro che potrebbero già vivere nella Repubblica di Platone. Vengono indicati questi due personaggi, perché Romolo rappresenta l’inizio del percorso storico della comunità che si va formando, mentre la città di Platone indica il modello ideale dei filosofi. La scienza della storia appare quindi come la dimostrazione di un ordine provvidenziale che si va attuando nella società umana. La storia si muove nel tempo, ma tende ad un ordine universale ed eterno. Quest’ordine provvidenziale che dà significato alla storia è la “storia ideale eterna”. Essa corrisponde alla struttura che sorregge il corso temporale delle nazioni e che trasforma la semplice successione cronologica degli eventi storici in un ordine ideale progressivo. La storia ideale eterna rappresenta quindi il modello della storia reale ed il criterio per giudicarla. Non rappresenta la possibilità di avere qualcosa di definito verso cui tendere, ma è soltanto la spinta che l’uomo provvidenzialmente sente. Come meta finale della storia si va definendo “la gran città del genere umano”, ossia la comunità umana nel suo ordine ideale. Tuttavia, la storia nel tempo non si identifica mai con la storia ideale eterna: quest’ultima è soltanto “ideale”, quindi non annulla la problematicità del reale e la libertà dell’uomo. Le tre età della storia Vico ritiene che la storia ideale sia costituita dalla successione di tre età: tale schema dovrebbe essere stato inventato dagli egiziani, ma in realtà è stato desunto dagli scrittori greci e latini da Platone. A differenza degli antichi, la successione delle età assume in Vico un significato progressivo ed inoltre egli dà al proprio schema un fondamento antropologico: essendo la causa della storia l’uomo, le leggi che regolano il suo 35 L’illuminismo è quel movimento culturale che si sviluppa nel XVIII secolo, nei maggiori paesi d’Europa e che nel Settecento rappresenta la voce più importante e significativa. L’illuminismo consiste in una esaltazione dei poteri razionali dell’uomo. La ragione viene intesa come l’organo della verità e uno strumento di progresso, come “lume” rischiaratore delle “tenebre”. Bisogna dubitare di ogni tesi preconcetta e sottoporre ogni realtà al “tribunale della ragione”, per distinguere il vero dal falso e individuare ciò che può creare giovamento alla società. Per gli illuministi, il filosofo o l’intellettuale non è più il sapiente isolato, dedito alle speculazioni metafisiche, ma un uomo in mezzo ad altri uomini, che lotta per rendere più abitabile il mondo, rendendosi utile alla società. Rousseau rappresenta una figura atipica del Settecento e finisce per essere considerato un punto di riferimento decisivo della cultura occidentale. Rousseau Jean-Jacques Rousseau nacque a Ginevra nel 1712. In un primo momento si dedicò agli studi che dovette interrompere a causa della necessità di lavorare. Avvilito a causa dei maltrattamenti subiti durante la propria infanzia, egli lasciò la propria città e iniziò una vita da pellegrino. Ad Annecy trovò rifugio presso Madame de Warens. In seguito a vari spostamenti, nel 1742 è a Parigi dove ha occasione di partecipare alla vita culturale della città. Nel 1749 egli redigerà, per incarico di Diderot, alcuni articoli musicali per l’Enciclopedia. Nel 1745 egli ha una relazione con una donna giovane e incolta, Thérèse Levasseur, dalla quale avrà cinque figli. Nel 1749, in seguito alla lettura del bando di un concorso proposto dall’Accademia di Digione, che poneva il quesito se le scienze e le arti avessero contribuito a migliorare i costumi, egli scrive il Discorso sulle scienze e le arti, grazie a cui vince il concorso e ottiene una momentanea notorietà. In occasione di un altro concorso bandito dalla medesima Accademia, elabora il Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza fra gli uomini. Negli anni successivi egli vive nella zona di Montmorency, in questo periodo nascono i suoi capolavori: La nuova Eloisa, Il Contratto sociale e l’Emilio. Ben presto alle polemiche con i philosophes si sommano le aspre reazioni suscitate dai suoi scritti, che vengono condannati e bruciati sulle pubbliche piazze. Successivamente si trasferisce a Moitiers, ma a causa dell’ostilità dell’ambiente calvinista si rifugia sull’isola di Saint-Pierre, nella quale è nuovamente obbligato a fuggire da un decreto di espulsione. Nel 1766 accetta l’offerta di asilo di Hume, ma ormai psichicamente instabile egli accusa il filosofo scozzese di cospirare i suoi nemici. Così fa ritorno in Francia e sposa Thérèse. Ristabilitosi a Parigi porta a compimento il suo capolavoro autobiografico, le Confessioni, che verranno pubblicate postume. Egli muore nel 1778. Nelle Confessioni Rousseau racconta che nell’ottobre del 1749 ebbe notizia di un quesito proposto dall’Accademia di Digione: “Il progresso delle scienze e delle arti ha contribuito a corrompere o purificare i costumi?”. Il Discorso sulle scienze e le arti si compone di una prefazione e di due parti. 36 ▪ Nella prefazione il filosofo, conscio di essere in contrasto con la sua epoca, rivendica il proprio diritto a pensare in modo critico e autonomo. ▪ Nella prima parte del Discorso, Rousseau afferma che le scienze e le arti, lungi dal purificare i costumi hanno contribuito a corromperli: esse rappresentano ornamenti superflui che gravano sugli uomini. Inoltre, invitando gli individui alle “buone maniere”, li abituano all’apparenza piuttosto che alla realtà: in tal modo alla verità e alla virtù, subentrano la menzogna e i vizi. Oltre l’antitesi tra virtù e vizio, si profila quella più radicale tra natura e civiltà, con la conseguente condanna della cultura in nome della natura. ▪ Nella seconda parte del Discorso, Rousseau mostra come le scienze, anziché scaturire dalle virtù, siano nate da altrettanti vizi e alimentate dall’ozio e dal lusso, abbiano favorito la disuguaglianza sociale e la perdita delle virtù etiche e patriottiche. Tuttavia, Rousseau venne molto criticato poiché attribuire alle scienze e alle arti i guasti della civiltà venne considerato eccessivo. Egli fu quindi costretto a rimediare sulle cause della decadenza, affermando che la fonte principale del male è la disuguaglianza, dalla quale sono derivate le ricchezze che hanno dato vita all’ozio e al lusso: da esse sono derivate le scienze e le arti. Questo mutamento di prospettiva è evidente nel secondo Discorso. Nel 1753 l’Accademia di Digione propone un nuovo quesito su quale sia l’origine della disuguaglianza e se essa sia autorizzata dalla legge naturale. Rousseau elabora il Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini, pubblicato nel 1755. Nella prefazione, il filosofo afferma che per conoscere l’origine della disuguaglianza tra gli uomini, occorre conoscere l’uomo. Per quanto riguarda il modo in cui conoscere l’uomo, Rousseau rifiuta i modelli precedenti e utilizza il metodo ipotetico o congetturale, proprio dei filosofi della scienza. Egli dichiara che non bisogna prendere le sue ricerche come verità storiche, ma semplicemente come ragionamenti ipotetici. Ciò significa che egli non utilizza un procedimento storico-antropologico, ma logico-filosofico. Il filosofo si chiede in cosa consista il cosiddetto “stato di natura” e appura che esso non è né un dato storico, né una fantasticheria, bensì un’ipotesi teorica elaborata ai fini di una critica radicale dell’esistente. Da ciò la suddivisione del Discorso in due parti: la prima descrive com’è l’uomo in natura e la seconda com’è diventato nella storia. Per Rousseau, ciò che qualifica l’uomo primitivo è il perfetto equilibrio tra i bisogni e le risorse di cui dispone. Essendo in rapporto immediato con i suoi bisogni, un tale uomo risulta privo di progettualità: la sua vita sembra svolgersi in una sorta di eterno presente. Inoltre, l’uomo di natura non è né buono né cattivo, poiché vive in uno stato neutro di innocenza: gli unici principi che gli si possono attribuire sono l’amore di sé e la pietà. ▪ Il primo rende interessati al proprio benessere, ▪ Il secondo provoca un’istintiva ripugnanza a veder soffrire o morire gli altri. Nonostante l’uomo provi pietà per i propri simili, nello stato di natura i contatti con gli altri sono sporadici. L’asocialità dell’uomo naturale, coincide con la sua indipendenza, ovvero con uno stato di autarchia e libertà. Ciò che spinge l’uomo naturale, a cui non manca nulla, a cambiare la sua condizione sono i suoi due attributi specifici: ▪ La LIBERTÀ, ossia la capacità di scegliere; ▪ La PERFETTIBILITÀ, ovvero l’attitudine a perfezionarsi. 37 Nella seconda parte del Discorso, Rousseau espone le cause e le modalità del passaggio dallo stato di natura a quello civile: esso coincide con il passaggio dall’uguaglianza primitiva alla disuguaglianza tipica della società. Il filosofo si sforza attraverso una sorta di esperimento mentale di ripercorrere come l’uomo è stato condotto allo stato civile. Le cause vanno ricercate nell’ambiente fisico: se la natura avesse sempre provveduto ai bisogni umani, l’uomo non avrebbe intrapreso la via del progresso. Di fronte alle varie difficoltà che si presentarono per la sopravvivenza, l’uomo si evolse: egli divenne pescatore e cacciatore, scoprì il fuoco e cominciò ad unirsi con i suoi simili in delle sorte di libere associazioni. In tal modo, lentamente nacquero il linguaggio e il concetto di impegno reciproco. Questi primi progressi, aiutarono l’uomo a farne ancora, così si arrivò alla “prima rivoluzione” che portò alla costituzione delle famiglie. Tuttavia, fu in questo momento che iniziarono a svilupparsi sentimenti sociali negativi come la vanità e l’invidia. Nonostante ciò, è in questa società nascente, rappresentante l’equilibrio tra natura e civiltà, che Rousseau scorge l’epoca più felice della storia del mondo. Finché si accontentarono di questo tipo di vita, gli uomini vissero felici, ma nel momento in cui gli uomini ebbero bisogno dell’aiuto reciproco, l’uguaglianza scomparve. Questa seconda “grande rivoluzione” fu la conseguenza di due arti: la metallurgia e l’agricoltura. Alla coltivazione delle terre, seguì la loro spartizione e l’avvento della proprietà. In seguito ad esso, si consolidò definitivamente la disuguaglianza morale e politica. Con la proprietà privata si ebbe la prima grande divisione tra uomini in ricchi e poveri e uno stato di guerra permanente tra di essi. In questa situazione, i possedenti erano coloro che rischiavano di più, così essi proposero un “patto iniquo”. Esso dovette essere sancito anche sul piano giuridico-politico, così nacque lo Stato, che Rousseau concepisce come una subdola legalizzazione dello sfruttamento. La nascita dello Stato accelerò il processo di decadimento antropologico, articolato in tre tappe: ▪ La FONDAZIONE DELLA LEGGE E DEL DIRITTO DI PROPRIETÀ, che sancì la distinzione tra ricchi e poveri; ▪ L’ISTITUZIONE DELLA MAGISTRATURA, che sancì la distinzione tra potenti e deboli; ▪ La TRASFORMAZIONE DEL POTERE LEGITTIMO IN POTERE ARBITRARIO, che sancì la distinzione tra padrone e schiavo. Rousseau individua il termine ultimo della parabola storica dell’umanità proprio nell’avvento del dispotismo e della schiavitù politica. Nelle ultime pagine del Discorso, dopo essere tornato sulla contrapposizione tra primitivi e civilizzati, Rousseau afferma che “la disuguaglianza, trae la propria forza dallo sviluppo delle nostre facoltà e dal progresso dello spirito umano”. Rispondendo alla seconda parte del quesito di Digione, precisa infine che la disuguaglianza civile “autorizzata dal solo diritto positivo, è contraria al diritto naturale ogni volta che non risulta in proporzione con la disuguaglianza fisica, poiché è contro la legge di natura che un bambino comandi un vecchio”. La prima rivoluzione La grande rivoluzione Patto iniquo 40 Pur insistendo sul principio democratico della sovranità popolare, Rousseau ritiene che le funzioni esecutive o governative non debbano necessariamente essere gestite dal popolo. Rifacendosi ai classici, egli ritiene possibili tre forme di governo: • la DEMOCRAZIA; • L'ARISTOCRAZIA; • la MONARCHIA. Rousseau osserva che non esiste una forma di governo migliore in assoluto, ma ognuna è migliore in determinati casi. Nonostante ciò, tra queste forme egli predilige l'aristocrazia, ritenendo che l'ordine migliore e più naturale si realizza “quando sono i più saggi a governare la moltitudine”. Nella Nuova Eloisa e nel Contratto sociale Rousseau ha chiarito le condizioni e il significato del ritorno mediato alla natura della società familiare e di quella politica. Nell'Emilio egli chiarisce le stesse condizioni per l'individuo. In questo caso, tutto dipende dall'educazione: all'educazione tradizionale che opprime, bisogna sostituire un'educazione che si proponga come unico fine la conservazione e il rafforzamento della propria natura. L'Emilio è la storia di un fanciullo educato a questo fine, rispetto al quale, l'opera dell'educatore non deve insegnare la virtù e la verità, ma preservare il cuore dal vizio e la mente dall'errore. L'azione dell'educatore deve essere diretta unicamente a far sì che: • lo sviluppo fisico e spirituale del ragazzo avvenga in modo spontaneo; • ogni sua nuova acquisizione sia una creazione; • nulla venga dall'esterno, ma tutto dall'interno dell'educando. Nel delineare questo sviluppo spontaneo Rousseau segue l'indirizzo sensistico. L'impulso ad apprendere deve venire a Emilio dalla natura, e il criterio che deve orientarlo nella scelta delle conoscenze da acquisire, è l'utilità. Emilio avrà la prima idea della solidarietà sociale e degli obblighi che essa impone imparando un lavoro manuale, e sarà portato all'amore degli altri dallo stesso amor di sé. Quando nell'adolescenza le sue passioni cominceranno a manifestarsi, bisognerà lasciare che si svolgano da sé, affinché abbiano modo e tempo di equilibrarsi progressivamente. Dalla stessa naturalità delle passioni nascono in Emilio le valutazioni morali. Tuttavia, il principio secondo il quale tutto deve nascere con perfetta spontaneità dall'interno dell’educando contrasta, nell’opera di Rousseau, con l’insieme di accorgimenti e artifici che il precettore ordisce intorno all'allievo, per procurargli l'occasione favorevole di determinati sviluppi. Secondo Rousseau, la vera virtù non nasce nell'uomo se non attraverso lo sforzo contro gli ostacoli e le difficoltà esterne. Quando, alla fine dell'Emilio, il giovane si innamora di Sofia, il precettore gli impone un lungo viaggio e, quindi, la separazione da lei per insegnargli a dominare le proprie passioni. Così anche nell'Emilio la natura umana non è l'istinto o la passione nella sua immediatezza, ma piuttosto l'ordine razionale e l'equilibrio ideale dell'istinto e delle passioni. La religione naturale esposta nella Professione di fede del Vicario Savoiardo, contenuta nel IV libro dell'Emilio, pur facendo appello all'istinto e al sentimento naturale, si indirizza soprattutto alla ragione. Il Vicario Savoiardo interroga il lume interiore analizzando le diverse opinioni e dando l'assenso soltanto a 41 quelle che presentano la massima verosimiglianza. Il lume interiore, ossia la coscienza, non è altro che la ragione, intesa come equilibrio degli interessi spontanei dell'anima. • Il primo dogma della religione naturale è l'esistenza di Dio, ricavata dalla necessità spiegare l'ordine e la finalità dell'universo. • Il secondo dogma è la spiritualità, l'attività e la libertà dell'anima. La religione naturale rappresenta nell'Emilio una scoperta che ognuno deve fare da sé. Nel Contratto sociale, Rousseau ammette che lo Stato non può obbligare a credere, ma può bandire chiunque non creda, non come empio ma come insocievole. Si può notare così il contrasto tra l'assoluta libertà religiosa che sembra il presupposto dell'Emilio e l'obbligatorietà del credo civile affermata nel Contratto sociale. Tuttavia, occorre ricordare che nel Contratto sociale Rousseau suppone realizzato in tutte le sue conseguenze l'ordine razionale della natura umana, il cui organo è la volontà generale. 1 Immanuel Kant nacque da una famiglia di origine scozzese a Konigsberg. Uscito dal collegio Kant studiò filosofia, matematica e teologia all’Università di Konigsberg. Nel 1755 ottenne la libera docenza presso quella stessa università, mentre nel 1770 fu nominato professore ordinario di logica e metafisica. Inoltre, Kant simpatizzò con gli americani nella loro guerra di indipendenza e con i francesi nella loro rivoluzione: il suo ideale politico era una costituzione repubblicana. Durante i suoi ultimi anni, Kant venne colpito da una debolezza senile che lo privò di tutte le sue facoltà fino alla morte, avvenuta nel 1804. Sulla sua tomba vennero incise delle parole tratte dalla Critica della ragion pratica: “Il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me”. Nell’attività letteraria di Kant si possono distinguere tre periodi: ▪ Nel PRIMO prevale l’interesse per le scienze naturali; ▪ Nel SECONDO prevale l’interesse filosofico e si accentua l’orientamento verso l’empirismo inglese e il criticismo; ▪ Nel TERZO si delinea la filosofia trascendentale. Gli scritti del primo e del secondo periodo sono raggruppati come “scritti del periodo precritico”. Il primo periodo Gli scritti del primo periodo sono caratterizzati dall’interesse naturalistico. La sua formazione parte dal mondo scientifico: nell’opera principale di questo periodo, Storia naturale universale e teoria del cielo (1755), egli descrive la formazione dell’intero sistema cosmico, a partire da una nebulosa primitiva, in conformità alle leggi della fisica newtoniana. Lo studio della natura va di pari passo con quello metafisico, in particolare nella “Monadologia physica”, Kant rivede radicalmente la teoria leibniziana, riducendo le monadi ad atomi materiali. Il secondo periodo e la dissertazione del 1770 Il secondo periodo segna il decisivo prevalere degli interessi filosofici e un primo delinearsi del criticismo. Nel 1764, Kant elabora uno scritto in occasione di un concorso, bandito dall’Accademia di Berlino. Kant identifica la metafisica con una sorta di filosofia primordiale. Egli è inoltre un sostenitore dell’applicabilità del metodo matematico alla filosofia. Lo scritto dimostra una nuova tendenza del suo pensiero verso le analisi dell’empirismo inglese. Questo orientamento è ancora più chiaro nella Notizia sull’indirizzo delle lezioni, in cui il distacco dal dogmatismo della scuola wolffiana è chiaro e coincide con l’adesione allo spirito di ricerca e all’empirismo inglese. Molto significativo è lo scritto Sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica, in cui egli ritiene che di fronte alla vanità di sogni ad occhi aperti, la metafisica debba in primo luogo considerare le proprie forze. La metafisica è la scienza dei limiti della ragione umana: dunque i problemi che essa deve trattare sono quelli che si limitano ai confini dell’esperienza. 4 Per tentare di risolvere questo problema, Kant apre la Critica della ragion pura con un’ipotesi gnoseologica: “Benché ogni nostra conoscenza cominci con l’esperienza, da ciò non segue che essa derivi interamente da essa”. Essa risulta immediatamente convalidata dall’esistenza di “giudizi sintetici a priori”, che Kant crede che siano le verità universali e necessarie, che la scienza presuppone e su cui essa si regge. Egli li denomina: ▪ GIUDIZI poiché consistono nel connettere un predicato con un soggetto; ▪ SINTETICI perché il predicato dice qualcosa di nuovo rispetto al soggetto; ▪ A PRIORI perché, essendo universali e necessari, non possono derivare dall’esperienza. Dal punto di vista di Kant, i giudizi della scienza non sono né analitici a priori, né sintetici a posteriori: ▪ I primi sono universali e necessari, in quanto a priori, ossia enunciati prima dell’esperienza; essi, tuttavia, non ampliano la nostra conoscenza in quanto il predicato esplicita ciò che è già contenuto nel soggetto. Si tratta quindi di giudizi universali e necessari, che sono infecondi e che richiamano la concezione razionalistica della scienza; ▪ I secondi sono giudizi in cui il predicato dice qualcosa di nuovo rispetto al soggetto, tuttavia ciò avviene soltanto a posteriori, in virtù dell’esperienza. Si tratta di giudizi fecondi, privi di universalità e necessità, che richiamano la concezione empiristica della scienza. Secondo Kant, l’errore di Hume è stato non cogliere la differenza tra i giudizi sintetici e il principio di causalità, il quale non è altro che un giudizio sintetico a priori. I giudizi sintetici a priori costituiscono la spina dorsale della scienza, ciò che le conferisce stabilità e universalità. Kant ritiene quindi, contro il razionalismo, che la scienza derivi dall’esperienza, mentre contro l’empirismo, che alla base dell’esperienza esistano dei principi inderivabili da essa. La “rivoluzione copernicana” Avendo ammesso che il sapere poggi sui giudizi sintetici a priori, Kant deve spiegare la loro provenienza. Egli elabora così una nuova teoria della conoscenza, intesa come sintesi di materia e forma, ossia di un elemento a posteriori e uno a priori: ▪ Per “MATERIA” della conoscenza viene intesa la caotica molteplicità delle impressioni sensibili; ▪ Per “FORMA” della conoscenza viene inteso l’insieme delle modalità fisse, attraverso cui la mente ordina le impressioni. Kant ritiene che la mente umana filtri i dati empirici, attraverso forme che sono innate e comuni a tutti i soggetti pensanti. Dunque, egli è in un certo senso un innatista, sebbene i suoi schemi a priori non siano ciò che si conosce, ma le modalità attraverso cui lo si fa. Queste forme sono a priori rispetto all’esperienza e hanno una validità universale e necessaria, in quanto tutti le possiedono. L’esistenza di determinate forme a priori, attraverso cui si incapsulano i dati empirici, spiega come si possano formulare i giudizi sintetici a priori. Egli propone l’esempio delle lenti colorate: egli paragona le forme a priori attraverso cui si filtra l’esperienza a delle lenti colorate, attraverso cui viene osservata la realtà. Di conseguenza, ciò che conosciamo non corrisponde alla realtà oggettiva, ma al tempo stesso dato che tutti gli uomini possiedono le lenti dello stesso colore, la conoscenza diventa universale. Questa nuova impostazione implica due importanti conseguenze: ▪ La cosiddetta “RIVOLUZIONE COPERNICANA”, che Kant opera in filosofia. Come Copernico ha ribaltato il rapporto tra il Sole e la Terra, allo stesso modo Kant, per spiegare la scienza, ribalta i rapporti tra soggetto e oggetto: non è la mente a modellarsi sulla realtà, ma è quest’ultima che si modella sulle nostre forme a priori; 5 ▪ La DISTINZIONE TRA FENOMENO E COSA IN SÉ: o Il fenomeno è la realtà che ci appare con le nostre forme a priori. Non si tratta di un’apparenza illusoria, ma di un oggetto reale esclusivamente nel rapporto con il soggetto conoscente e uguale per tutti gli intelletti strutturati allo stesso modo. o La cosa in sé o noumeno è la realtà considerata indipendentemente dalle nostre forme a priori: essa è inconoscibile. La partizione della Critica della ragion pura Kant articola la conoscenza in tre facoltà principali: ▪ La SENSIBILITÀ è la facoltà con cui gli oggetti ci sono dati intuitivamente attraverso i sensi e tramite le forme a priori dello spazio e del tempo; ▪ L’INTELLETTO è la facoltà attraverso cui pensiamo dati sensibili, attraverso le categorie; ▪ La RAGIONE è la facoltà attraverso cui, procedendo oltre l’esperienza, cerchiamo di spiegare globalmente la realtà mediante le idee di anima, mondo e Dio. Su questa tripartizione delle facoltà conoscitive è basata anche la divisione della Critica della ragion pura. Vi sono due tronconi principali: ▪ La DOTTRINA DEL METODO, chiarisce l’uso degli elementi a priori della conoscenza, ossia il metodo della conoscenza; ▪ La DOTTRINA DEGLI ELEMENTI, che individua e analizza gli elementi della conoscenza, le forme a priori. Questa dottrina è la parte più estesa della Critica e si ramifica in: o ESTETICA TRASCENDENTALE, la quale studia le forme a priori della sensibilità, spazio e tempo, mostrando come esse si fondino sulla matematica; o LOGICA TRASCENDENTALE, la quale studia le forme a priori del pensiero e si divide in: • ANALITICA TRASCENDENTALE, che studia le forme a priori dell’intelletto, le 12 categorie, mostrando come su di esse si fondi la fisica; • DIALETTICA TRASCENDENTALE, che studia le forme a priori della ragione, le idee, mostrando come su di esse si fondi la metafisica. Kant collega il concetto di trascendentale con quello di forma a priori, la quale indica semplicemente una condizione gnoseologica che rende possibile la conoscenza della realtà fenomenica. Il principale significato di “trascendentale” lo identifica non con gli elementi a priori, ma con le discipline filosofiche che li studiano. Posto che con “ragion pura” si intenda la facoltà che contiene i principi per conoscere qualcosa, il titolo Critica della ragion pratica può essere interpretato come “esame critico generale della validità e dei limiti che la ragione umana possiede in virtù dei suoi elementi puri a priori”. La Critica rappresenta quindi un’analisi delle possibilità conoscitive umane e si configura come una sorta di mappa filosofica, della potenza e dell’impotenza della ragione. Dinnanzi al tribunale della critica, la ragione appare come giudice e giudicato al tempo stesso. Infatti, la critica è “della” ragione sia nel senso che la ragione è ciò che viene reso argomento di critica, sia che essa è ciò che mette in atto la critica. 6 Estetica trascendentale Nell’Estetica Trascendentale, Kant studia la sensibilità e le sue forme a priori. Egli la considera “ricettiva” dal momento che accoglie “per intuizione” i propri contenuti dall’esperienza. Tuttavia, la sensibilità è anche attiva, dal momento che organizza il materiale delle sensazioni, le intuizioni empiriche, attraverso le sue forme a priori dello spazio e del tempo, le intuizioni pure. ▪ Lo SPAZIO è la forma del senso esterno, la rappresentazione a priori, a fondamento di tutte le intuizioni esterne e del disporsi delle cose. ▪ Il TEMPO è la forma del senso interno, la rappresentazione a priori, a fondamento dei nostri stati interni e del loro disporsi l'uno dopo l'altro. Tuttavia, poiché è unicamente attraverso il senso interno che ci giungono i dati del senso esterno, il tempo si configura anche, indirettamente, come la forma del senso esterno e di conseguenza come la maniera universale attraverso cui percepiamo tutti gli oggetti. Kant giustifica l'apriorità dello spazio e del tempo sia con argomenti teorici generali, nella cosiddetta "esposizione metafisica”, sia con argomenti tratti dalle scienze matematiche, nella cosiddetta “esposizione trascendentale”. Nell'”esposizione metafisica”, emerge il punto di vista kantiano, confutando sia la visione empiristica, che considerava spazio e tempo come nozioni tratte dall'esperienza (Locke), sia la visione oggettivistica, che considerava spazio e tempo come entità a sé stanti o recipienti vuoti (Newton), sia la visione concettualistica, che considerava spazio e tempo come concetti esprimenti i rapporti tra le cose (Leibniz). •Kant afferma che spazio e tempo non possono derivare dall'esperienza, poiché per fare un'esperienza qualsiasi è necessario presupporre le rappresentazioni originarie di spazio e di tempo. Contro l'interpretazione empiristica •Kant sostiene che se spazio e tempo fossero degli assoluti a sé stanti, avrebbero dovuto esistere anche nell'ipotesi in cui in essi non vi fossero oggetti. •Secondo Kant, spazio e tempo sono dei quadri mentali a priori in cui connettiamo i dati fenomenici. Come tali, essi, pur essendo"ideali" e “soggettivi” rispetto alle cose in sè stesse, sono tuttavia “reali” e “oggettivi” rispetto all'esperienza. A tal proposito, Kant parla di «idealità trascendentale» e di «realtà empirica» dello spazio e del tempo. •Pur rifiutando l'oggettivismo di Newton, Kant si avvicina allo scienziato per la sua dottrina dello spazio e del tempo come coordinate assolute dei fenomeni. Contro l'interpretazione oggettivistica •Kant afferma che spazio e tempo non possono essere considerati alla stregua di concetti, in quanto hanno una natura intuitiva e non discorsiva. • Infatti, non astraiamo il concetto di spazio dalla constatazione dei vari spazi, come il concetto di cavallo dai vari cavalli, ma intuiamo i vari spazi come parti di un unico spazio, presupponendo così la rappresentazione originaria di spazio, la quale diventa un'intuizione pura o a priori. Contro l'interpretazione concettualistica 9 Il ragionamento kantiano consiste quindi nel mostrare che: L'io penso si configura come “il principio supremo della conoscenza umana”, come ciò a cui deve sottostare ogni realtà per poter entrare nel campo dell'esperienza. Nello stesso tempo, esso rappresenta ciò che rende possibile l'oggettività: senza di esso potremmo stabilire soltanto delle connessioni particolari e contingenti. L'importanza della figura teoretica dell'io penso nell'ambito della gnoseologia criticista, non fa di Kant un “idealista”: il suo io, a differenza di quello di Fichte, non è affatto un io creatore. Tanto che Kant insiste inequivocabilmente sul carattere formale dell'io penso, il quale è semplicemente una funzione che si limita a ordinare una realtà che gli preesiste. Gli schemi trascendentali Mentre nella prima parte dell’Analitica Trascendentale Kant si occupa delle categorie e della loro legittimazione, nella seconda parte, egli indaga il modo in cui esse si “applicano" ai fenomeni. Con la deduzione trascendentale Kant ha mostrato in generale come l'intelletto condizioni la realtà fenomenica tramite le categorie, mentre con la dottrina dello schematismo trascendentale, egli mostra come ciò possa avvenire in concreto. La domanda di partenza è la seguente: com'è possibile che l'intelletto condizioni effettivamente le intuizioni e, quindi, gli oggetti sensibili? Kant risolve il problema affermando che l'intelletto, non potendo agire direttamente sugli oggetti, agisce indirettamente su di essi tramite il tempo, il quale è il medium universale attraverso cui tutti gli oggetti sono percepiti. Ciò avviene attraverso una facoltà che Kant chiama «immaginazione produttiva», in quanto “produce" (a priori) una serie di “schemi” temporali che corrispondono ognuno a una delle categorie. In conclusione, l’io penso organizza nelle categorie ciò che l’immaginazione produttiva produce, modellando il tempo per renderlo aderente ai concetti puri. Di conseguenza, la “rete” temporale attraverso la quale l'intelletto "cattura" i fenomeni, corrisponde alle categorie. In generale, Kant intende per “schema” la rappresentazione intuitiva di un concetto. Come tale, esso, pur avendo una certa parentela con l'immagine, va distinto da essa. Gli schemi trascendentali sono infatti le regole attraverso cui l'intelletto condiziona il tempo in conformità ai propri concetti a priori: gli schemi trascendentali si potrebbero definire le categorie “tradotte” in linguaggio temporale: • per quanto concerne le CATEGORIE DI RELAZIONE, o lo schema della categoria di sostanza è la permanenza nel tempo; o lo schema della categoria di causa-effetto è la successione irreversibile, nel tempo; o lo schema della categoria di azione reciproca è la simultaneità nel tempo; • per quanto concerne le CATEGORIE DI MODALITÀ, lo schema complessivo è l’esistenza in un tempo qualsiasi, in un determinato tempo e in ogni tempo; • per quanto concerne le CATEGORIE DI QUANTITÀ, il loro schema complessivo è il numero, ovvero la successiva addizione degli omogenei nel tempo; • per quanto concerne le CATEGORIE DI QUALITÀ, il loro schema complessivo è la “cosalità”, ossia la presenza, l'assenza e l'intensità dei fenomeni nel tempo. Poiché tutti i pensieri presuppongono l'io penso E poiché l'io penso pensa tramite le categorie, Ne segue che tutti gli oggetti pensati presuppongono le categorie. 10 I Principi dell’intelletto puro e l’io “legislatore della natura” Con la teoria dello schematismo, la deduzione trascendentale raggiunge il suo coronamento. Tuttavia, il definitivo superamento dello scetticismo di Hume è riscontrabile solo nella sezione dedicata ai PRINCIPI DELL'INTELLETTO PURO, ovvero alle regole tramite cui avviene l'applicazione delle categorie agli oggetti. Questi principi costituiscono le leggi supreme dell’esperienza e le proposizioni fondamentali in cui si incarna la conoscenza a priori della natura. Kant li suddivide in quattro gruppi, corrispondenti ai quattro tipi di categorie. ▪ Gli ASSIOMI DELL'INTUIZIONE (corrispondenti alle categorie della quantità) affermano a priori che tutti i fenomeni intuiti sono “quantità estensive” e possono essere conosciuti solo mediante la sintesi successiva delle loro parti. Tali “assiomi” giustificano l'applicazione della matematica all'intero mondo dell'esperienza. ▪ Le ANTICIPAZIONI DELLA PERCEZIONE (corrispondenti alle categorie della qualità) affermano a priori che ogni fenomeno percepito ha una «quantità intensiva», ossia un grado di intensità che può essere indefinitamente suddiviso. Il termine “anticipazione” indica che «tutte le sensazioni sono date soltanto a posteriori, tuttavia la proprietà di avere un grado si può conoscere a priori». ▪ Le ANALOGIE DELL'ESPERIENZA (corrispondenti alle categorie di relazione) affermano a priori che l'esperienza è possibile solo mediante una trama necessaria, basata sulle categorie di sostanza, causa e azione reciproca Con il termine "analogia”, Kant designa un concetto filosofico che spiega come questi principi non si riferiscano ai singoli oggetti, ma alle analogie formali del loro accadere che fungono da regole generali. ▪ I POSTULATI DEL PENSIERO EMPIRICO IN GENERALE (corrispondenti alle categorie di modalità), definiscono come possibile, reale o necessario, ciò che si accorda con le condizioni formali, materiali e universali dell’esperienza. I principi dell’intelletto puro costituiscono il fondamento dei giudizi sintetici a priori della fisica, tuttavia ▪ Per avere una validità, queste forme a priori devono necessariamente basarsi sull’esperienza. ▪ Ciò che è a priori sono le categorie grazie alle quali possiamo ordinare la natura secondo delle leggi necessarie, determinabili empiricamente. Per questo motivo, secondo Kant, l’IO È IL LEGISLATORE DELLA NATURA: le leggi della fisica non sono nella natura al di fuori di noi, ma sono il nostro modo di organizzare il mondo: la natura si deve conformare alle leggi del nostro intelletto, che sono i giudizi sintetici a priori, fondati dalle categorie. In questo senso l’io “legislatore della natura” si configura come la massima espressione della “rivoluzione copernicana” attuata da Kant in filosofia. In conclusione, se per "natura" in generale intendiamo l'ordine necessario e universale che sta alla base di tutti i fenomeni, bisogna concludere che questa natura non è ordinata dall’esperienza, ma dall’io penso, dall’io legislatore di natura che attraverso le sue forme a priori ne fonda le leggi. In tal modo, la gnoseologia di Kant si configura come l'epistemologia della scienza galileiano-newtoniana e come il tentativo di giustificarne i principi di base contro lo scetticismo di Hume. Quest’ultimo riteneva infatti che l'esperienza, da un momento all'altro, avrebbe potuto smentire le verità fondamentali della scienza. Kant sostiene invece l’impossibilità di tale teoria, in quanto l’esperienza, essendo condizionata dall’io penso, non potrà mai smentirne i principi. In tal modo, le leggi della natura formulate dalla scienza risultano pienamente giustificate. 11 Il concetto di "noumeno” Nella dottrina dell'io «legislatore della natura» appare in tutta la sua evidenza l’originalità del copernicanesimo filosofico di Kant, che, scopre la garanzia della conoscenza nella mente dell’uomo. L'originalità della soluzione kantiana è consistita anche nell'intendere il fondamento del sapere in termini di possibilità e di limiti, conformemente al modo d'essere dell'uomo. Le categorie funzionano solo in rapporto al materiale che esse organizzano. Considerate di per sé, senza essere riempite di dati, esse sono “vuote”. Ciò fa sì che esse risultino operanti solo in relazione al fenomeno: di conseguenza, per Kant il conoscere non può estendersi al di là dell'esperienza. Questo principio esclude che le categorie abbiano un uso trascendentale, per il quale possano essere riferite alle cose in generale e implica che il loro unico uso possibile sia quello empirico. La delimitazione della conoscenza al fenomeno, comporta un rimando alla nozione di “cosa in sé” che, pur essendo inconoscibile, si staglia sullo sfondo di tutta la gnoseologia kantiana. Kant ha sempre ribadito che l'ambito della conoscenza umana è rigorosamente limitato al fenomeno, poiché la cosa in sé, che egli denomina con il termine «noumeno» non può divenire oggetto di un'esperienza possibile. Kant distingue, a proposito del noumeno, tra un significato positivo e uno negativo: ▪ in senso positivo, il noumeno è «l'oggetto di un'intuizione non sensibile», ovvero di una conoscenza extra-fenomenica che a noi è preclusa e che potrebbe invece essere propria di un ipotetico intelletto divino; ▪ in senso negativo, il noumeno è invece il concetto di una cosa in sé che non può mai entrare in rapporto conoscitivo con noi. Di conseguenza, la cosa in sé, più che essere una realtà, è per noi un concetto-limite, che serve ad arginare le nostre pretese conoscitive. Il concetto di esperienza In Kant, il termine “esperienza” viene usato in due accezioni distinte: ▪ nella prima, indica L'INTUIZIONE SENSIBILE, ovvero la fonte della conoscenza sensibile. Kant discorre dell'a priori come di ciò che è «indipendente dall'esperienza», la quale viene intesa come di una sorta di datità bruta che precede l'opera unificatrice dell'intelletto. ▪ nella seconda, più caratteristicamente kantiana, indica la TOTALITÀ DELLA CONOSCENZA FENOMENICA, ovvero l'ordine unitario dei dati sensibili secondo le leggi a priori della mente. Da questo punto di vista, l'esperienza è l'organizzazione complessiva della conoscenza. In questa accezione, Kant giunge a identificare l'esperienza in generale con la natura in generale. 14 ▪ Il secondo limite dell'argomento risiede nel suo fondarsi su una serie di forzature logiche e nel suo inevitabile ricadere nella prova ontologica. Infatti, dopo essersi elevato all'idea del necessario, esso giunge a sostenere che esso coincida con l'idea del perfettissimo, ovvero di un ente che, in quanto tale, non può fare a meno di esistere. Così, anche la prova cosmologica implica la logica di quella ontologica, che da concetti vuol far scaturire delle esistenze. Anche questo argomento, avventurandosi in discorsi metaempirici, risulta inequivocabilmente fallace e privo di autentica capacità dimostrativa. La PROVA FISICO-TEOLOGICA fa leva sull'ordine e sulla finalità del mondo per innalzarsi a una mente ordinatrice, identificata con un Dio creatore perfetto. Essa viene anche denominata prova "fisico- teleologica": mentre nel linguaggio filosofico il termine “teologia” si riferisce allo studio di Dio, la parola "teleologia” significa “studio degli scopi”. Anche questa prova, secondo Kant, risulta minata da una serie di forzature logiche e dall'utilizzazione mascherata dell'argomento ontologico. ▪ In primo luogo, essa parte dall'esperienza dell'ordine del mondo, ma pretende di elevarsi subito all'idea di una causa ordinante trascendente. Per asserire che tale ordine non può scaturire dalla natura, questa prova deve concepire Dio non solo come causa dell'ordine del mondo, cioè come supremo Architetto, ma anche come causa dell'essere stesso del mondo, ossia come Creatore. Tale operazione è possibile soltanto identificando la causa ordinante con l'Essere necessario creatore, ricadendo così nella prova cosmologica, la quale ricade a sua volta in quella ontologica. ▪ In secondo luogo, la prova fisico-teologica pretende di stabilire, sulla base dell'ordine cosmico, l'esistenza di una causa infinita e perfetta, proporzionata ad esso. Tuttavia, non si accorge che gli attributi che essa dà al mondo, sono relativi a noi e non autorizzano a passare dal finito all'infinito. Di conseguenza, non possiamo arrogarci il diritto di affermare che la causa del mondo è infinitamente perfetta. Quindi, anche questa prova non è valida. Kant, con tali critiche, non intendeva negare Dio (ateismo), ma piuttosto mettere in discussione la dimostrabilità razionale della sua esistenza. In sede teorica, Kant non è ateo, ma agnostico. Il nuovo concetto di metafisica Le idee della ragion pura devono avere un uso regolativo: ogni idea è una regola che spinge la ragione a dare al suo campo d'indagine, ovvero l'esperienza, non solo la massima estensione, ma anche la massima unità sistematica. Così: ▪ l'idea psicologica spinge a cercare i legami tra tutti i fenomeni del senso interno. ▪ L'idea cosmologica spinge a passare incessantemente da un fenomeno naturale all'altro, dall'effetto alla causa e alla causa di questa causa e così via all'infinito. ▪ L'idea teologica, infine, addita all'intera esperienza un ideale di perfetta organizzazione sistematica, che non raggiungerà mai. Alla vecchia metafisica "dogmatica”, Kant contrappone una nuova metafisica “critica”, concepita come «scienza dei concetti puri», ovvero come una scienza che abbraccia le conoscenze che possono essere ottenute indipendentemente dall'esperienza. Di questo tipo di metafisica fanno parte: ▪ sia una metafisica della natura, che studia i principi a priori della conoscenza della natura, ▪ sia una metafisica dei costumi, che studia i principi a priori dell'azione morale. In conclusione, respinta nella sua forma classica, la metafisica è accettata da Kant nella forma di una scienza dei principi a priori del conoscere o dell'agire morale. 15 La ragione non dirige soltanto la conoscenza, ma anche l'azione. Kant distingue tuttavia tra una ▪ RAGION PURA PRATICA, che opera indipendentemente dall'esperienza e dalla sensibilità, ▪ e una RAGIONE EMPIRICA PRATICA, che opera sulla base dell'esperienza e della sensibilità. Nella Critica della ragion pratica, dal momento che la moralità si identifica con la dimensione della ragion pura pratica, il filosofo dovrà distinguere in quali casi la ragione pratica è pura (ovvero morale) e in quali essa non lo è. Mentre la ragione teoretica ha bisogno di essere criticata, la ragione pratica non ha bisogno di esserlo, dal momento che nella sua parte pura, obbedisce alle leggi universali, mentre nella sua parte non pura, si dà delle massime dipendenti dall’esperienza. Ciò non significa tuttavia che essa sia priva di limiti: al contrario, la morale è segnata profondamente dalla finitudine dell'uomo e necessita di essere salvaguardata dal fanatismo, ossia dalla presunzione di identificarsi con l'attività di un essere infinito. Allo stesso modo in cui, nella Critica della ragion pura, Kant muoveva dall'idea dell'esistenza di conoscenze scientifiche universali, nella Critica della ragion pratica egli muove dall'analoga convinzione dell'esistenza di una legge etica assoluta. Secondo lui, essa è assolutamente incondizionata, deve cioè presupporre una ragion pratica “pura”, capace di svincolarsi dalle inclinazioni sensibili. Di conseguenza, questa tesi implica: ▪ LA LIBERTÀ DELL’AGIRE: poiché essendo incondizionata, la morale implica la possibilità umana di autodeterminarsi oltre le sollecitazioni istintuali, rendendo la libertà il primo presupposto della vita etica; ▪ LA VALIDITÀ UNIVERSALE E NECESSARIA DELLA LEGGE: poiché la legge morale è indipendente da ogni impulso contingente da ogni condizione particolare. Le caratteristiche essenziali che il filosofo riferisce alla legge morale sono: CATEGORICITÀ, FORMALITÀ e AUTONOMIA. La morale agisce all'interno di una insopprimibile tensione bipolare tra ragione e sensibilità. La bidimensionalità umana fa sì che l’azione morale si concretizzi in una lotta permanente tra la ragione e gli impulsi egoistici. Tra legge morale e volontà non vi è una coincidenza spontanea: la prima si presenta infatti all'uomo nella forma dell’«IMPERATIVO», ovvero di un comando che richiede il sacrificio delle proprie inclinazioni sensibili. Mentre il tema dominante nella Critica della ragion pura è la polemica contro l’arroganza della ragione, quello della Critica della ragion pratica è la polemica contro il fanatismo morale, che consiste nell’idea di poter superare i limiti umani, sostituendo alla virtù la presunzione della santità, ossia il possesso della perfezione etica. Nonostante i desideri condizionino la volontà umana, Kant nega che essi possano essere considerati un movente morale: la sua etica è quindi prescrittiva e non descrittiva: non concerne l'essere, ma il dover-essere. La morale kantiana non riguarda il «contenuto» del volere, ma la sua «forma»: ciò per cui qualcosa, anziché essere considerato soltanto piacevole di fatto, diventa degno di essere voluto, cioè morale, indipendentemente dal fatto che sia realizzabile. L'articolazione dell'opera La Critica della ragion pratica si divide in due parti fondamentali: la DOTTRINA DEGLI ELEMENTI e la DOTTRINA DEL METODO. • La prima tratta degli elementi della morale e si divide in analitica, che è l'esposizione della regola della verità (etica), e dialettica, che affronta la parvenza morale, l'antinomia della ragion pratica. • La seconda tratta del modo in cui le leggi morali «accedono» all'animo umano. Vengono trattati i temi dell’educazione, dei giudizi corretti ecc… 16 La "categoricità" dell'imperativo morale Kant distingue i «principi pratici», le regole che disciplinano la nostra volontà, in «massime» e «imperativi»: • la MASSIMA è una prescrizione soggettiva, valida esclusivamente per l'individuo che la rende propria (può essere una massima, ad esempio, quella di vendicarsi di ogni offesa subita); • l'IMPERATIVO è una prescrizione oggettiva, valida per chiunque. A loro volta, gli imperativi si dividono in ipotetici e categorici. o Gli IMPERATIVI IPOTETICI prescrivono dei mezzi in vista di determinati fini e sono caratterizzati dalla forma del “se... devi...” (“se vuoi conseguire buoni risultati scolastici, devi impegnarti in modo costante"). Essi sono fondati su regole dell'abilità, che illustrano le norme tecniche per raggiungere un determinato scopo e su consigli della prudenza, che forniscono i mezzi per ottenere il benessere. o L’IMPERATIVO CATEGORICO prescrive invece incondizionatamente il dovere, a prescindere da qualsiasi scopo, ed è caratterizzato dalla forma del "devi”. Solo un tale imperativo, in quanto totalmente incondizionato, ha le caratteristiche della “legge”, ovvero di un comando che vale per tutte le persone e per tutte le circostanze. Posto che la legge etica assuma la forma di un «imperativo categorico», secondo Kant il suo contenuto si concretizza nella prescrizione di agire secondo una massima che può valere per tutti. Da ciò la formula- base dell'imperativo categorico: L'imperativo categorico è quindi un comando che prescrive di tener sempre presenti gli altri e che ci rammenta che un comportamento risulta morale solo se supera il “test della generalizzabilità”, ovvero se la sua massima appare universalizzabile. La seconda formula afferma: Ciò significa che bisogna rispettare la “dignità umana” presente in sé stessi e negli altri, evitando di ridurre il prossimo o se stessi a semplice mezzo delle nostre passioni. In tale contesto la parola "fine" indica la caratteristica fondamentale che risiede nell’essere scopo-a-sé-stessa. In questo senso, Kant sostiene che la morale istituisce un «regno dei fini», ossia una comunità ideale, in cui le persone vivono secondo le leggi della morale e si riconoscono dignità a vicenda. La terza formula prescrive di agire in modo tale che: Questa formula ripete, in parte, la prima. Tuttavia, a differenza di essa, che puntualizza soprattutto la legge, quest'ultima sottolinea in modo particolare l'autonomia della volontà, mettendo in evidenza come il comando morale debba essere il frutto spontaneo della volontà razionale, la quale, essendo legge a sé agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere nello stesso tempo come principio di una legislazione universale agisci in modo da trattare l'umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo. la volontà, in base alla massima, possa considerare contemporaneamente se stessa come universalmente legislatrice la volontà non è semplicemente sottoposta alla legge, ma lo è in modo da dover essere considerata autolegislatrice, e solo a questo patto sottostà alla legge. 19 Kant trae il termine “postulato" dal linguaggio della matematica: esso indica quei principi che, pur essendo indimostrabili, vengono accolti per rendere possibili determinate verità geometriche. Analogamente, i postulati di Kant sono le esigenze interne della morale che vengono ammesse per rendere possibile la realtà della morale. I primi due postulati formulati da Kant sono l'immortalità dell'anima e l'esistenza di Dio. Per quanto riguarda l'immortalità dell'anima, Kant afferma che: a. poiché solo la santità, cioè la conformità completa della volontà alla legge, rende degni del sommo bene b. e poiché la santità non è mai realizzabile nel nostro mondo, c. si deve necessariamente ammettere che l'uomo, oltre il tempo finito dell'esistenza, possa disporre, in un'altra zona del reale, di un tempo infinito grazie a cui progredire all'infinito verso la santità. Se la realizzazione della prima condizione del sommo bene, ossia la santità, implica il postulato dell'immortalità dell'anima, la realizzazione del secondo elemento, la felicità proporzionata alla virtù, comporta il postulato dell'esistenza di Dio, la credenza in una «volontà santa ed onnipotente» che faccia corrispondere la felicità al merito. Accanto ai due postulati “religiosi”, Kant pone un altro postulato: la libertà. Se nell'ordine ontologico la libertà è condizione della moralità, nell'ordine gnoseologico è la legge morale a costituire il presupposto della libertà. Questo postulato si colloca su un piano oggettivamente diverso, in quanto, pur non sapendo che cosa sia la libertà, possiamo comunque ammettere la sua esistenza. Quindi, mentre la libertà è la condizione stessa dell'etica, l'anima immortale e Dio rappresentano soltanto delle condizioni ipotetiche. Pertanto, “postulati” in senso forte sono da considerarsi soprattutto quelli religiosi. Kant classifica, comunque, la libertà come postulato perché, stando alle conclusioni gnoseologiche della Critica della ragion pura, l'idea dell'uomo come essere capace di autodeterminarsi non potrebbe venire scientificamente affermata, nonostante sia evidente che l'uomo compie azioni che avrebbe potuto non compiere. In ciò consiste la soluzione della “aporia della libertà”: una stessa azione può essere determinata in quanto accadimento del mondo sensibile ed essere allo stesso tempo libera in quanto atto morale. Libertà e determinismo possono così coesistere. Il primato della ragion pratica La teoria dei postulati mette capo a ciò che Kant definisce «primato della ragion pratica», consistente nella prevalenza dell'interesse pratico su quello teoretico. Tuttavia, i postulati kantiani non possono affatto valere come conoscenze: più volte Kant sottolinea la non-teoreticità dei postulati, poiché ammettendo la loro validità conoscitiva non solo verrebbero violate le conclusioni della Critica della ragion pura, ma verrebbe anche minato il modo di intendere la morale come libertà e autonomia. Rovesciando il rapporto tradizionale, Kant sostiene, che non sono le verità religiose a fondare la morale, ma è la morale, sia pure sotto forma di “postulati”, a fondare le verità religiose. In altri termini, per Kant, Dio non è alla base della vita morale, ma, eventualmente, alla fine, come suo possibile completamento. Dall'altro lato, però, Kant afferma che «La morale conduce inevitabilmente alla religione». Con la teoria dei postulati, dunque, Kant non elimina l'autonomia dell'etica, ma la integra con una sorta di “fede razionale”. La Critica della ragion pratica finisce per delineare una sorta di dualismo platonizzante che spezza la realtà e l'uomo in due: ▪ da un lato il mondo fenomenico della scienza, del dovere; ▪ dall'altro il mondo noumenico dell'etica, della libertà. 20 La Critica del Giudizio di Kant muove da una sorta di “dualismo” lasciato aperto dalle prime due Critiche: dalla Critica della ragion pura emergeva un mondo fenomenico e deterministico "conosciuto” dalla scienza, dalla Critica della ragion pratica affiorava un mondo noumenico e finalistico “postulato” dall'etica. Nella Critica del Giudizio Kant studia il sentimento, così come nella prima Critica aveva analizzato la conoscenza e nella seconda Critica la morale. Egli fa del sentimento una “terza facoltà”, intendendolo come la facoltà mediante cui l'uomo fa esperienza della finalità del reale che la prima Critica escludeva sul piano fenomenico e la seconda postulava a livello noumenico. Ciò non significa tuttavia che la Critica del Giudizio sia la sintesi delle altre due: sebbene il sentimento tenda a figurarsi in termini di finalità e di libertà, esso rappresenta soltanto un'esigenza umana, di conseguenza non ha un valore di tipo conoscitivo. In altri termini, il sentimento permette, nel soggetto, non la conciliazione ma l'incontro tra i due mondi. Per Kant i giudizi sentimentali costituiscono i “GIUDIZI RIFLETTENTI", che si contrappongono ai giudizi "DETERMINANTI": • i GIUDIZI DETERMINANTI sono i giudizi scientifici studiati nella Critica della ragion pura; • i GIUDIZI RIFLETTENTI, invece, si limitano a "riflettere" su una natura già costituita mediante i giudizi determinanti e ad interpretarla attraverso le nostre esigenze di finalità e di armonia. Kant spiega che, se nei giudizi determinanti l’universale è «già dato» dalle forme a priori, che incapsulano immediatamente il particolare, nei giudizi riflettenti l’universale va «cercato» partendo dal particolare. La Critica del Giudizio si configura come un'analisi dei giudizi riflettenti, per cui la parola "Giudizio” assume il significato di “organo dei giudizi riflettenti”, una facoltà che Kant ritiene intermedia tra l'intelletto e la ragione. I due tipi fondamentali di giudizio riflettente sono quello “estetico", che verte sulla bellezza, e quello "teleologico”, che riguarda i fini della natura. Essi si distinguono inoltre per il diverso rimando al finalismo: • nel GIUDIZIO ESTETICO si vive immediatamente o intuitivamente la finalità della natura: in altri termini, in questo caso la finalità esprime un “venir incontro” dell’oggetto alle aspettative estetiche del soggetto; • nel GIUDIZIO TELEOLOGICO si pensa concettualmente tale finalità mediante la nozione di fine. La finalità esprime quindi un carattere proprio dell’oggetto. Di conseguenza, il giudizio riflettente risulta estetico o teleologico a seconda del modo in cui viene articolato il principio di finalità. Per sottolineare tale diversità Kant parla, nel primo caso, di finalità «soggettiva» o “formale”, nel secondo caso, di finalità «oggettiva» o «reale». La Critica del Giudizio si divide in due parti: Critica del Giudizio estetico e Critica del Giudizio teleologico. Entrambe constano di due sezioni, articolate in Analitica e Dialettica. L'analisi del bello Nella Critica del Giudizio, dopo aver premesso che "bello" è ciò che piace nel giudizio estetico o di gusto, Kant si propone di chiarire la natura specifica di tale giudizio e dividendolo secondo la tavola delle categorie, offre quattro definizioni della bellezza. • Secondo la QUALITÀ, il bello è l'oggetto di un piacere «senza alcun interesse». Infatti, i giudizi estetici sono caratterizzati dall'essere contemplativi e disinteressati, poiché si curano solo della loro immagine o rappresentazione. 21 • Secondo la QUANTITÀ, il bello è «ciò che piace universalmente senza concetto». Il giudizio estetico si presenta, da un lato pretendendo universalità, in quanto esige che il sentimento di piacere provocato da una cosa bella sia condiviso da tutti, dall'altro lato, che il bello sia sottomesso a qualche concetto o esprima un piacere dipendente da una conoscenza. Pertanto, il giudizio estetico risulta qualcosa di sentimentale e di extralogico. • Secondo la RELAZIONE, il bello è «la forma della finalità di un oggetto, in quanto questa vi è percepita senza la rappresentazione di uno scopo». Con questa affermazione che sostiene che la bellezza è percepita come «finalità senza scopo», Kant intende dire che l'armonia degli oggetti belli, non soggiace a uno scopo determinato: la bellezza è un libero gioco di armonie formali che non rimanda a concetti precisi. • Secondo la MODALITÀ, il bello è «ciò che, senza concetto, è riconosciuto come oggetto di un piacere necessario». Il giudizio estetico si presenta come qualcosa su cui tutti devono concordare, sebbene ciò non si possa esprimere mediante giudizi scientifici come quelli determinanti, poiché il bello è qualcosa che si percepisce intuitivamente, ma che nessuno riesce a “spiegare” intellettualmente. Proprio perché non vi sono principi razionali del gusto, l'educazione alla bellezza, non può risiedere in un “manuale tecnico”, ma soltanto nella ripetuta contemplazione delle cose belle. La "rivoluzione copernicana" estetica La tesi dell'universalità del giudizio estetico può apparire piuttosto paradossale: sostenendola, Kant intende asserire che nel giudizio estetico, la bellezza è vissuta come qualcosa che deve venir condivisa da tutti. Per comprendere questa tesi di Kant, risultano indispensabili due considerazioni: 1. Kant fa una distinzione tra il campo del piacevole, che è «ciò che piace ai sensi nella sensazione», e il campo del piacere estetico, che è il sentimento provocato dalla “forma” della cosa bella. Il piacevole dà luogo ai «giudizi estetici empirici», che scaturiscono dalle attrattive delle cose sui sensi e sono legati alle inclinazioni individuali. Il piacere estetico invece è qualcosa di “puro", che si concretizza nei «giudizi estetici puri», derivanti dalla contemplazione della “forma” di un oggetto. Solo questi giudizi sono universali. 2. Kant distingue anche tra bellezza «libera», che viene appresa senza alcun concetto, e bellezza «aderente», che implica il riferimento a un determinato concetto di perfezione dell'oggetto. Soltanto i giudizi che riguardano la bellezza libera sono giudizi estetici puri, e perciò universali perché gli altri sono complicati da considerazioni intellettuali o pratiche. Queste specificazioni, se da un lato permettono di capire meglio in che senso egli sostenga l'universalità del giudizio estetico, dall'altro mettono in luce che i giudizi estetici «puri» costituiscono una fascia ristretta di tutti i giudizi umani sul bello. La giustificazione dell'universalità dei giudizi estetici Affermata l'universalità del giudizio estetico, Kant si trova di fronte al problema della «deduzione» dei giudizi estetici puri, cioè della «legittimazione della pretesa di questi giudizi alla validità universale». Kant afferma che il giudizio estetico nasce da un rapporto spontaneo della fantasia con l'intelletto; in virtù di esso, l'immagine della cosa appare adeguata alle esigenze dell'intelletto, generando un senso di armonia. Tale meccanismo risulta identico in tutti gli uomini: ciò spiega l'universalità estetica e giustifica la presenza di un «senso comune» del gusto. Questa linea argomentativa rappresenta l’“antinomia del gusto”, che costituisce l'oggetto della Dialettica del Giudizio estetico. Essa consiste in una tesi e una antitesi: 24 La funzione "epistemologica" del giudizio riflettente Nella seconda versione dell'introduzione alla Critica del Giudizio, Kant spiega che il giudizio riflettente svolge anche una precisa funzione all'interno della conoscenza scientifica, poiché serve a integrare l'intelletto rendendo operanti le categorie nei casi concreti. Ad esempio, perché se piove attribuisco la causa del bagnato alla pioggia e non ad un altro evento? La risposta si trova nelle categorie che esigono di essere "applicate" al caso particolare. Le condizioni di tale applicazione non sono tuttavia regole oggettive, ma soggettive, riguardanti il rapporto tra le rappresentazioni e il soggetto. Non sono contenute nell'intelletto, ma richiedono l'ausilio dell'esperienza, e si traducono nelle leggi della scienza, mutevoli e perfettibili. Le differenti teorie scientifiche non sono che diversi “ordinamenti” dell'esperienza, dovuti alla diversa creatività di chi la sta organizzando. In altri termini, i giudizi riflettenti, nel loro procedere dal particolare all'universale, servono a costituire non gli oggetti, bensì le teorie intorno ad essi. In questo senso, essi rappresentano lo strumento grazie a cui i giudizi determinanti (e quindi le categorie) diventano scientificamente operativi. Perciò Kant può affermare che, pur non avendo una funzione teoretico- costitutiva in rapporto ai fenomeni, i giudizi riflettenti hanno un'importante funzione epistemologica in rapporto alla costruzione delle teorie scientifiche. Religione raziale e religione rivelata La religione presa in esame da Kant è una religione puramente razionale, o naturale, costituita da convinzioni a cui l’uomo può pervenire esclusivamente mediante la ragione. Essa costituisce il nucleo della religione rivelata, la quale, quanto ai contenuti, è in grado di fornire spiegazioni più convincenti su argomenti come la presenza del male nel mondo o come la conversione dell’uomo al bene e, quanto alla sua forma, “parla” all’uomo intero, cioè non solo alla sua componente razionale, ma anche alla sua sensibilità. In ultima analisi, però, Kant ritiene che i contenuti della religione rivelata debbano essere sottoposti al vaglio critico della ragione, per evitare di cadere in forme inautentiche di fede, che allontanino l’uomo dall’agire etico. Male radicale Il “male radicale” per Kant, consiste nella tendenza al negativo che contraddistingue la natura umana e che si presenta secondo tre gradi diversi: ▪ la fragilità, cioè la difficoltà a tradurre nella pratica i precetti morali; ▪ l’impurità, cioè la tendenza ad agire mescolando i precetti morali con motivazioni meno nobili; ▪ la malvagità, cioè l’adesione totale a impulsi estranei alla morale. Tale inclinazione non è una disposizione fisica, della quale l’uomo non sarebbe responsabile, ma una massima contraria alla legge morale e liberamente accettata. Conversione Per "conversione" Kant intende il progresso incessante dal male al bene, a cui gli uomini possono dedicare le proprie forze poiché in essi vi è una disposizione originaria al bene, che scaturisce dalla medesima libertà da cui deriva il male radicale. 25 Diritto Il diritto per Kant è «l'insieme delle condizioni, per mezzo delle quali l'arbitrio dell'uno può accordarsi con l'arbitrio di un altro secondo una legge universale della libertà». Tale definizione deriva dall'impostazione trascendentale della filosofia kantiana, interessata non a stabilire le norme concrete che rendono possibile la convivenza, ma a giustificare i principali istituti giuridici riportandoli ad alcuni principi razionali a priori. Inoltre, Kant distingue il diritto innato, che è dato a ogni individuo dalla natura, dal diritto acquisito, che nasce soltanto da un atto giuridico. Il diritto acquisito include il diritto privato, che definisce la legittimità e i limiti del possesso delle cose esterne, e il diritto pubblico, che concerne la vita associata degli individui nello Stato. Stato Lo Stato, secondo Kant, nasce da un "contratto originario", che egli interpreta non come un fatto storico, bensì come una necessità concettuale che precede e rende possibili tutti gli eventi storici, come un'idea pura o priori della ragion pratica che funge da modello per i contratti reali. Lo stato kantiano è: ▪ liberale, in quanto il suo scopo è quello di mettere i propri cittadini in condizione di perseguire i fini religiosi, etici, economici o eudemonistici che essi prediligono; ▪ giuridico, in quanto deve istituire un ordinamento in cui ciascuno possa coesistere con gli altri, secondo una legge universale; ▪ formale, in quanto non si occupa di ciò che devono fare i cittadini, ma di come devono farlo (cioè in modo da non ledere la libertà altrui) Storia Kant individua nella storia una "destinazione" aprioristica per l'uomo, che consiste nella realizzazione della sua essenza razionale e coincide con la progressiva acquisizione della consapevolezza di sé stesso e delle proprie potenzialità. Questa impresa non può essere realizzata dai singoli, vista la brevità dell'esistenza, ma riguarda l'umanità nel suo complesso. Stimolo e condizione del progresso è il conflitto tra gli individui, determinato dalla loro «insocievole socievolezza»: se non vi fossero antagonismi, gli uomini resterebbero in una condizione di armonia perfetta, immobile e improduttiva. Ordinamento cosmopolitico Kant afferma l'esigenza di una comunità mondiale, ossia di una federazione di Stati vincolata da rapporti trans-nazionali e improntata alla collaborazione tra i popoli. Lo stato di pace duratura che tale comunità mondiale dovrebbe assicurare si configura come un «compito» affidato alla razionalità umana e privo di garanzie di successo. 1 Con il termine “Romanticismo” si indica generalmente una tendenza artistica e letteraria, mentre all’ambito filosofico, si riferisce spesso il termine “Idealismo”. Contrariamente all’illuminismo, nel romanticismo l’uomo non ha il controllo della natura, ma è sottomesso ad essa. Nell’interpretazione idealistica, l’Assoluto è spiritualità che si realizza nel mondo e nella storia. Nel suo divenire essa diventa cosciente di sé e coincide con l’umanità. L’individuo si avverte come parte di una totalità che non potrà mai compiutamente raggiungere. Da questa tensione derivano alcuni concetti romantici fondamentali: ▪ L’ironia, che consiste nel il ridere di sé stessi. Essa rappresenta la capacità di percepire il senso dei limiti dell’uomo nel confronto con l’infinito, con l’Assoluto; ▪ Il concetto di Titanismo indica la volontà dell’uomo di oltrepassare il finito; ▪ Lo Streben esprime la tendenza inesauribile verso qualcosa di ignoto; ▪ Il termine Sehnsucht esprime la tensione inappagata, la nostalgia verso qualcosa di ignoto. Sul piano conoscitivo, il rapporto con l’Assoluto è possibile mediante l’arte: come la natura crea, così fa l’uomo con le opere artistiche. Egli riesce a creare perché fa da tramite al genio che si trova al suo interno. Nel momento in cui si crea, il mondo degli uomini e quello dello spirito risultano uniti. Parlando dei “critici” o dei “seguaci immediati di Kant” si fa riferimento ad alcuni pensatori, come Reinhold, Schulze, Maimon e Beck, i quali rivolgono particolarmente l’attenzione ai dualismi dal criticismo, cercando di trovare un principio unico su cui fondare una nuova filosofia. Jacobi aveva insinuato che il concetto di “noumeno” fosse in realtà un presupposto “realistico”: poiché, se il criticismo fosse vero, bisognerebbe abolire la cosa in sé, per poter ricondurre tutto al soggetto; se il criticismo fosse falso, bisognerebbe ammettere la cosa in sé, tornando così al realismo. Il ragionamento generale a cui pervengono i critici immediati di Kant è che ogni realtà di cui siamo consapevoli esiste come rappresentazione della coscienza, la quale funge, a sua volta, da condizione indispensabile del conoscere. Tuttavia, se l'oggetto risulta concepibile solo in relazione a un soggetto che lo rappresenta, come può venir ammessa l'esistenza di una cosa in sé, una realtà non rappresentabile? Il noumeno si configura come un concetto impossibile. Agli occhi di questi critici, il kantismo tende a configurarsi come una forma di “idealismo coscienzialistico”, basato sulla doppia riduzione del fenomeno a rappresentazione e della rappresentazione a coscienza. Questa interpretazione trova molti agganci soprattutto nella prima edizione della Critica della ragion pura, in cui Kant: • parla del fenomeno come di una rappresentazione in senso cartesiano-berkeleyano, la cui realtà consiste solo nell'essere pensata; • discorre della cosa in sé come di un «oggetto della rappresentazione». Un’altra critica verso Kant risiede nella tesi secondo la quale il filosofo, asserendo che la cosa in sé è causa delle nostre sensazioni, si sarebbe contraddetto, applicando al noumeno il concetto di causa ed effetto, valido soltanto per il fenomeno. Nonostante questa serie di critiche, volte a demolire la nozione di cosa in sé, i seguaci immediati di Kant si muovono ancora in un orizzonte prevalentemente gnoseologico, non ancora incentrato sulla tesi metafisica di un io creatore e infinito. 4 La prima esposizione della Dottrina della scienza rappresenta il tentativo di dedurre dal principio dell'autocoscienza, il complesso della vita teoretica e pratica dell'uomo. Si tratta di una deduzione diversa da quella kantiana: quest'ultima, era una deduzione trascendentale, volta a giustificare le condizioni soggettive della conoscenza (le categorie), mentre la deduzione di Fichte è una deduzione “assoluta” o metafisica, che fa derivare dall'Io sia il soggetto, sia l'oggetto del conoscere. La deduzione di Kant metteva capo a una possibilità trascendentale, che implicava un rapporto continuo tra l'io e l'oggetto fenomenico, mentre la deduzione di Fichte mette capo a un principio assoluto, che pone il soggetto e l'oggetto fenomenici in virtù di un'attività creatrice. La Dottrina della scienza ha lo scopo di dedurre da questo principio l'intero mondo del sapere, in modo da costituire il sistema unico e compiuto di esso. I principi fondamentali della deduzione fichtiana sono tre, di cui il secondo e il terzo sono implicati dal primo. Quest’ultimo è ricavato da una riflessione sulla legge d'identità (per cui A = A), che la filosofia tradizionale aveva considerato come base universale del sapere. Tale legge non rappresenta tuttavia il principio primo della scienza, poiché implica un ulteriore principio: l’Io. Essa presuppone che se A è dato, deve essere formalmente uguale a sé stesso (A = A). L'esistenza iniziale di A dipende però dall'Io che la pone, poiché, senza l'identità dell'Io (Io = lo), l'identità logica (A = A) non si giustifica. Di conseguenza, il principio supremo del sapere non è quello d'identità, posto dall’lo, ma l’lo stesso, il quale si pone da sé. Pertanto, se la metafisica classica sosteneva che operari sequitur esse, intendendo dire che gli individui agiscono in conformità della loro natura, la nuova metafisica idealistica, capovolgendo l’assioma, afferma che esse sequitur operari, in quanto l'Io appare come il frutto della sua stessa azione e il risultato della sua stessa libertà. Tale prerogativa dell'Io viene denominata da Fichte “Tathandlung”. Con questo termine, che, insieme a Streben (sforzo), è il più caratteristico della Dottrina della scienza, il filosofo indica che l'Io è, nello stesso tempo, attività agente (Tat) e prodotto dell'azione stessa (Handlung). I tre principi Esaminiamo i tre principi della dottrina della scienza • Il primo principio stabilisce che «l’lo pone sé stesso», o Come attività autocreatrice e infinita, o Come condizione incondizionata della realtà, o Come principio primo del sapere. • Il secondo principio stabilisce che «l’lo pone il non-io»: per realizzarsi come attività, l’Io è costretto a contrapporre a sé stesso, dentro sé stesso, qualcos’altro, quindi un non-io (oggetto, natura). • Il terzo principio stabilisce che «l’Io oppone nell’io, all’io divisibile un non-io divisibile»: avendo posto il non-io, l’Io esiste sottoforma di un io divisibile (molteplice e finito), limitato da una serie di non-io altrettanto divisibili. Si perviene così alla situazione concreta del mondo, in cui vi sono una molteplicità di io finiti che hanno di fronte a sé una molteplicità di oggetti a loro volta finiti. I tre principi delineano i capisaldi dell'intera dottrina di Fichte, perché stabiliscono: • l'esistenza di un Io infinito, attività assolutamente libera e creatrice; • l'esistenza di un io finito, cioè di un soggetto empirico (l'uomo come intelligenza o ragione); • la realtà di un non-io, cioè dell'oggetto (mondo o natura), che si oppone all'io finito, ma è ricompreso nell'Io infinito, dal quale è posto. 5 Tali principi costituiscono il fulcro della deduzione idealistica del mondo, ossia di quella spiegazione della realtà alla luce dell'Io che, contrapponendosi all'antica metafisica dell'essere o dell'oggetto, mette capo a una nuova metafisica dello spirito e del soggetto. Inoltre, è bene aggiungere che: • I tre principi non vanno interpretati in modo cronologico, bensì logico, in quanto Fichte intende semplicemente affermare che esiste un Io che, per poter essere tale, deve presupporre un non-io, finendo per esistere concretamente come io finito. Con la sua deduzione, Fichte vuole evidenziare come la natura non sia una realtà autonoma, ma qualcosa che esiste soltanto come momento dialettico della vita dell'Io. • In virtù di questa dottrina, l'Io, per Fichte, risulta finito e infinito al tempo stesso. l'Io infinito, o «puro», di cui parla Fichte non è qualcosa di diverso dall'insieme degli io finiti nei quali si realizza, esattamente come l'umanità non è qualcosa di diverso dai vari individui che la compongono. • L'Io infinito, più che la sostanza degli io finiti, è la loro meta ideale. Per lo «infinito» Fichte intende un Io libero, privo di limiti. Di conseguenza, dire che l'Io infinito è la “natura” e la “missione” dell'io finito significa affermare che l'uomo è uno sforzo infinito verso la libertà, una lotta inesauribile contro il limite e quindi contro la natura. In altri termini, il compito dell'uomo è l'umanizzazione del mondo, il tentativo incessante di “spiritualizzare” le cose e noi stessi, dando origine, da un lato, a una natura plasmata secondo i nostri scopi e, dall'altro, a una società di esseri liberi e razionali. • Questo compito, tuttavia, si staglia sull'orizzonte di una missione mai conclusa, poiché se l’lo, la cui essenza è lo sforzo (lo Streben), riuscisse davvero a superare tutti i suoi ostacoli, cesserebbe di esistere. Al posto del concetto statico di perfezione, Fichte contrappone un concetto dinamico, che pone la perfezione nello sforzo di autoperfezionamento. • I tre principi rappresentano anche la piattaforma della deduzione fichtiana delle categorie. o Infatti, i tre principi corrispondono alle tre categorie kantiane di qualità: affermazione, negazione e limitazione. o Dal concetto di un io divisibile e di un non-io divisibile, ossia molteplice (terzo principio), derivano le categorie di quantità: unità, pluralità e totalità. o Dal terzo principio, in cui sono stabiliti un Io che si autodetermina dell'intero processo (sostanza), un non-io che determina (causa), un io empirico che è determinato (effetto) e un reciproco condizionarsi tra io e non-io (azione reciproca), scaturiscono anche le tre categorie di relazione: sostanza, causa-effetto e azione reciproca. La struttura dialettica dell'lo Affermare che la storia “filosofica” del mondo si articola nei tre momenti dei principi, significa affermare che l’Io presenta una struttura triadica e "dialettica” articolata nei tre momenti di tesi-antitesi-sintesi e incentrata sul concetto di una "sintesi degli opposti”. La nostra vita spirituale deve essere caratterizzata da un’attività ritmica: la natura del nostro spirito è tale, che ogni tesi suscita un'antitesi, non come punto di arresto ma come un limite fecondo. La sintesi non è la semplice ripetizione della tesi iniziale, ma è la riaffermazione di essa, arricchita e rafforzata dal superamento dell'antitesi. Lo spirito vive di opposizione e di lotta, e le sue affermazioni devono essere vittorie. Si potrebbe falsamente immaginare che raggiunta la sintesi, il fecondo travaglio dello spirito subisca un arresto: ogni sintesi segna una pausa; tuttavia, si tratta semplicemente di momenti di tregua che preludono a un nuovo slancio. Da ciò nasce nello spirito lo scontento delle soluzioni conseguite di volta in volta. La visione dialettica del reale è perciò dinamica e progressiva. 6 La “scelta" tra idealismo e dogmatismo Nella Prima introduzione alla dottrina della scienza, dopo aver affermato che idealismo e dogmatismo sono gli unici due sistemi filosofici possibili, Fichte cerca di illustrare i motivi che spingono alla “scelta” dell'uno o dell'altro. Egli sostiene lo scopo della filosofia è evidenziare il fondamento dell'esperienza. Poiché in essa vi sono sia l'oggetto, che il soggetto, la filosofia può assumere la forma dell'idealismo, che consiste nel partire dal soggetto, per spiegare su questa base, l’oggetto; o quella del dogmatismo, che consiste nel partire dalla cosa in sé, per poi spiegare, su questa base, il soggetto. Secondo Fichte, nessuno dei due sistemi può a confutare direttamente quello opposto. Egli si chiede dunque cosa induca l’uomo alla scelta. A questo interrogativo, il filosofo tedesco risponde affermando che la scelta tra i due sistemi, deriva da una differenza di «inclinazione», ovvero da una presa di posizione in campo etico. Secondo Fichte, ▪ il dogmatismo, che si configura come una forma di realismo in gnoseologia e di naturalismo in metafisica, finendo sempre per rendere problematica la libertà. ▪ Al contrario, l'idealismo, facendo dell'Io un'attività autocreatrice, finisce sempre per strutturarsi come una rigorosa dottrina della libertà. Le due filosofie hanno, come corrispettivo esistenziale, due tipi di umanità. ▪ da un lato, vi sono individui che non si sono ancora elevati al sentimento della propria libertà assoluta e che, trovando sé stessi soltanto nelle cose, sono istintivamente attratti dal dogmatismo, che insegna loro che tutto è deterministicamente dato. ▪ Dall'altro lato, invece, vi sono individui che, avendo il senso profondo della propria libertà, risultano spontaneamente portati a simpatizzare con l’Idealismo, che insegna loro come essere uomini sia sforzo e conquista. Tuttavia, nonostante Fichte parli in termini di «scelta», dal contesto del suo sistema si deduce la predilezione per un tipo di filosofia: tutta la Dottrina della scienza è volta a dimostrare che solo muovendo dall'Io si riescono a spiegare in termini di “scienza” sia l’lo, sia le cose. Pertanto, proprio la doppia superiorità, etica e teoretica, dell'idealismo sul dogmatismo, spinge Fichte a intraprendere il primo. Dall'azione dell'io e del non-io nascono sia la conoscenza (la “rappresentazione”), sia l'azione morale. Per quanto concerne la rappresentazione, Fichte ritiene che la rappresentazione sia il prodotto di un'attività del non-io sull'io, ma poiché il non-io è posto dall’lo, la sua attività deriva proprio da esso. Di conseguenza, Fichte si proclama realista e idealista al tempo stesso: • realista perché alla base della conoscenza ammette un'azione del non-io sull’io, • idealista perché ritiene che il non-io sia, a sua volta, un prodotto dell'Io. Tuttavia, questa dottrina genera alcuni problemi: ▪ Il non-io appare alla coscienza comune come sussistente di per sé, indipendentemente dall’lo. ▪ L’lo sembra essere causa di una realtà di cui non ha esplicita coscienza ▪ Eliminata la consistenza autonoma del non-io, questo rischia di ridursi a parvenza. 9 La celebrazione della missione civilizzatrice della Germania La battaglia di Jena e l'occupazione napoleonica della Prussia contribuiscono a far sì che la filosofia politica di Fichte si evolva in senso nazionalistico, concretizzandosi nei celebri Discorsi alla nazione tedesca. Il tema fondamentale di essi è l'educazione: Fichte ritiene che il mondo moderno richieda una nuova azione pedagogica, capace di mettersi al servizio della maggioranza del popolo. Tuttavia, i Discorsi passano ben presto dal piano pedagogico a quello nazionalistico, in quanto Fichte argomenta che soltanto il popolo tedesco è adatto a promuovere la nuova educazione, in virtù di ciò che egli chiama «il carattere fondamentale», che identifica nella lingua. Infatti, i tedeschi sono gli unici ad aver mantenuto la loro lingua, che fin dall'inizio si è posta come espressione della cultura del popolo. Per questo i tedeschi, il cui sangue non è commisto a quello di altre stirpi, rappresentano l'incarnazione di un popolo «primitivo» rimasto integro e puro, e sono il popolo per eccellenza (tant'è vero che Fichte fa notare come deutsch, preso nel suo senso letterale, significhi originariamente «volgare», o «popolare»). Di conseguenza, i tedeschi sono gli unici a costituire un'unità organica che si identifica con la realtà profonda della nazione. A questo punto il discorso di Fichte si fa decisamente patriottico, auspicando, implicitamente, all'avvento di una nuova generazione di tedeschi, educati e rinnovati secondo i principi enunciati dal grande pedagogista svizzero Pestalozzi. Fichte proclama che solo la Germania, sede della Riforma protestante di Lutero e patria di Leibniz e di Kant, nonché epicentro della nuova arte romantica e della filosofia idealistica, risulta la nazione spiritualmente «eletta» a realizzare «l'umanità fra gli uomini». Tale missione di guida risulta così importante, che se la Germania fallisse l'umanità intera perirebbe. Bisogna osservare che: • il primato che Fichte assegna al popolo tedesco è esclusivamente "spirituale” e culturale; • Fichte ritiene che il popolo tedesco debba avere come interesse ultimo l'umanità intera; • il fine di quest'ultima sono i valori etici della ragione e della libertà. Tutto ciò, se da un lato scagiona i Discorsi da un'affrettata interpretazione razzista, dall'altro lato non toglie che la loro influenza storica maggiore sarà esercitata proprio in questo senso. Infatti, i Discorsi, parlando di «primato», hanno costituito un testo-chiave non solo del patriottismo, ma anche dello sciovinismo tedesco, indirizzato a trasformare la «supremazia spirituale» fichtiana in una supremazia di razza e di potenza, lungo un processo che ha trovato il suo epilogo nel nazismo del Terzo Reich. Nel Sistema della dottrina del diritto, Fichte tenta di ricondurre il diritto alla moralità. Il diritto è la condizione preparatoria di quest’ultima. Se la moralità fosse universalmente realizzata, il diritto sarebbe superfluo; ma poiché non lo è e affinché possa esserlo, bisogna assicurare ad ogni individuo le condizioni della sua realizzazione attraverso il diritto. In quest'ultima fase del suo pensiero, Fichte accentua la missione "educatrice dello Stato e a risolve l'io empirico nel "noi spirituale” della nazione. L'opera Tratti fondamentali dell'epoca presente, espone una filosofia della storia che riproduce a suo modo le idee esposte da Schelling. Fichte comincia con il dichiarare che «lo scopo dell'umanità sulla terra sia conformarsi liberamente alla ragione in tutte le sue relazioni». Rispetto ad esso si distinguono nella storia dell'umanità due stadi fondamentali: a. uno è quello in cui la ragione è ancora incosciente, si tratta dell'età dell'innocenza; b. l'altro è quello in cui la ragione domina liberamente, si tratta dell'età della giustificazione e della santificazione, il kantiano «regno dei fini». 10 L’intero sviluppo della storia si muove tra queste due epoche ed è il prodotto dello sforzo della ragione di passare dalla determinazione dell'istinto alla piena libertà. Le epoche della storia sono determinate a priori, proprio da questo sforzo: • la prima epoca è quella dell'istinto, in cui la ragione governa la vita umana senza la partecipazione della volontà; • la seconda epoca è quella dell'autorità, in cui l'istinto della ragione si esprime in uomini superiori, i quali impongono la ragione a un'umanità incapace di seguirla autonomamente; • la terza epoca è quella della rivolta contro l'autorità ed è la liberazione dall'istinto. Sotto l'impulso della riflessione, si sveglia nell'uomo il libero arbitrio; la sua prima manifestazione è una critica negativa di ogni verità, un'esaltazione dell'individuo al di sopra di ogni legge; • la quarta epoca è quella in cui la riflessione riconosce la propria legge e il libero arbitrio accetta una disciplina universale: è l'epoca della moralità; • la quinta epoca è quella in cui la legge della ragione cessa di essere un semplice ideale per divenire interamente reale. Ci troviamo nell’autentico regno di Dio. Nelle prime due epoche vi è il dominio cieco della ragione, mentre nelle ultime due prevale il dominio veggente della ragione. In mezzo si trova l'epoca della liberazione, nella quale la ragione non è né cieca né cosciente. A quest'epoca appartiene l'età presente: è questa l'età dell'Illuminismo, in cui prevalgono gli interessi individuali e si fa continuamente appello all'esperienza. Come progressivo realizzarsi della ragione, la storia è lo sviluppo del sapere. Quest’ultimo incarna l'esistenza, l'immagine della potenza divina. Di conseguenza, considerato nell'eternità del suo sviluppo, il sapere non ha altro oggetto che Dio. Tuttavia, Dio è inconcepibile per i singoli gradi dello sviluppo, così il sapere si rompe nella molteplicità degli oggetti empirici. Questa inconcepibilità condiziona l'infinito progresso della storia: in realtà non esiste nulla di accidentale ma tutto è necessario; la libertà umana consiste proprio nel riconoscere questa necessità. 1 Il maggior esponente dell’Idealismo è Hegel. Il suo sistema si mostra come una costruzione armonica, che segue un modello di sviluppo unitario, il cui assunto di base è la risoluzione del finito nell’infinito. Georg Wilhelm Friedrich Hegel nacque nel 1770 a Stoccarda. Segui i corsi di filosofia e di teologia all'Università di Tubinga, dove strinse amicizia con Schelling. Gli avvenimenti della Rivoluzione francese esercitarono un'influenza duratura sul suo pensiero. Nel 1801 pubblicò il suo primo scritto, un saggio di argomento filosofico, intitolato Differenza fra il sistema filosofico di Fichte e quello di Schelling. Nei due anni successivi, Hegel collaborò con Schelling al “Giornale critico della filosofia”. Nel 1805 divenne professore a Jena; nel 1818 fu chiamato all'Università di Berlino. Cominciò allora periodo del suo massimo successo. Morì a Berlino, forse di colera, nel 1831. Gli scritti del periodo giovanile mostrano un prevalente interesse religioso-politico, che nelle grandi opere della maturità si trasforma in un interesse storico-politico. Gli scritti giovanili non furono pubblicati da Hegel, ma lo furono soltanto all'inizio del XX secolo. Si tratta di opere di natura teologica, quali Religione popolare e cristianesimo, La vita di Gesù, La positività della religione cristiana, Lo spirito del cristianesimo e il suo destino, e di un primo abbozzo del suo sistema. Nel suo primo scritto filosofico, Differenza fra il sistema filosofico di Fichte e quello di Schelling, l’autore si schiera con l'idealismo schellinghiano, poiché gli appare sia soggettivo che oggettivo. La prima grande opera di Hegel è la Fenomenologia dello spirito, nella cui prefazione il filosofo dichiara il suo distacco dalla dottrina di Schelling. Nel 1817, a Heidelberg diede alle stampe l'Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, che è la più compiuta formulazione del suo sistema. Nelle due successive edizioni dell'opera, Hegel aumento di molto la mole dello scritto. Al fine di intendere compiutamente il percorso di formazione della filosofia hegeliana, assumono molta importanza gli scritti giovanili. In queste opere l'argomento dominante è teologico, nonostante sia molto netto il legame con la politica. Hegel studia un tema profondamente connesso con la Rivoluzione francese: il tema della rigenerazione morale e religiosa dell'uomo come fondamento della rigenerazione politica. È impossibile che si realizzi una rivoluzione politica se quest’ultima non si basa su una “rivoluzione del cuore”, ossia una rivoluzione culturale: per questo motivo, negli scritti giovanili, il tema religioso e quello politico formano un’unità inscindibile. D’altronde, in Germania religione e politica avevano una connessione particolarmente profonda. I paesi tedeschi erano, infatti, stati al centro del movimento della Riforma protestante. Nei frammenti Sui rapporti interni del Württemberg e sulla Costituzione della Germania, l'idea di fondo è che l'aspirazione a una vita migliore deve realizzarsi attraverso il compimento di progetti di riforma, che eliminino il vecchio impianto sociale, fondato sulla supremazia della nobiltà. Affinché ciò accada, sono necessarie nuove istituzioni sociali, fondate sull'uguaglianza. Hegel, dunque, crede che la rivoluzione nelle istituzioni possa avvenire solo come conseguenza di una maturazione avvenuta all'interno della coscienza del popolo. 4 La funzione giustificatrice della filosofia Hegel ritiene che il compito della filosofia consista nel comprendere le strutture razionali che costituiscono la realtà. La filosofia, afferma Hegel, con un paragone famoso, è “come la nottola di Minerva che inizia il suo volo sul far del crepuscolo”, cioè quando la realtà è già costituita. La filosofia deve dunque rinunciare alla pretesa assurda di determinare e guidare la realtà, ma deve limitarsi ad elaborare in concetti, il contenuto reale che l'esperienza le offre, dimostrandone l'intrinseca razionalità. L'autentico compito che Hegel attribuisce alla filosofia è la giustificazione razionale della realtà. Secondo alcuni critici, l'hegelismo non è riducibile a una forma di giustificazionismo. Un noto filone interpretativo ha cercato di mostrare come esso possa venir letto anche in modo dinamico e rivoluzionario. Secondo questi autori, l'aforisma di Hegel significherebbe che il reale è "destinato” a coincidere con il razionale, mentre l'irrazionale è destinato a perire. Tale lettura è riuscita a darsi una parvenza di legittimità storiografica solo a patto di distinguere, nella filosofia di Hegel, il cosiddetto “metodo”, dal cosiddetto “sistema”, distinzione che è stata contestata da più parti. In conclusione, sembra che i testi di Hegel, al di là di ogni “costruzione" interpretativa, documentino in modo inequivocabile il suo atteggiamento fondamentalmente giustificazionista nei confronti della realtà. Hegel ritiene che la dinamicità dell'Assoluto passi attraverso i tre momenti dell'idea «in sé e per sé» (tesi), dell'idea «fuori di sé» (antitesi) e dell'idea che «ritorna in sé» (sintesi). Il disegno complessivo dell'Enciclopedia hegeliana è quello di una grande triade dialettica. 1. L’IDEA «IN SÉ E PER SÉ» è l'idea considerata in sé stessa, a prescindere dalla sua concreta realizzazione nel mondo. Da questo angolo prospettico, l'idea è assimilabile all'ossatura logico-razionale della realtà. 2. L'IDEA «FUORI DI SÉ» è la natura, cioè l'alienazione dell'idea nelle realtà spazio-temporali del mondo. 3. L'IDEA CHE «RITORNA IN SÉ» è lo spirito, cioè l'idea che, dopo essersi fatta natura, torna «presso di sé» nell'uomo. Questa triade non va intesa in senso cronologico, ma in senso ideale. A questi tre momenti strutturali dell'Assoluto, Hegel fa infatti corrispondere le tre sezioni in cui si divide il sapere filosofico: 1. la LOGICA, che è «la scienza dell'idea in sé e per sé», l’idea considerata nel suo essere implicito (= in sé) e nel suo graduale esplicarsi (= per sé); 2. la FILOSOFIA DELLA NATURA , che è «la scienza dell'idea nel suo alienarsi da sé»; 3. la FILOSOFIA DELLO SPIRITO , che è «la scienza dell'idea, che dal suo alienamento ritorna in sé». Per Hegel, l’Assoluto è "divenire". La legge che regola tale divenire è la “dialettica” che rappresenta la legge ontologica di sviluppo della realtà e la legge logica di comprensione della realtà. Nonostante Hegel non abbia offerto una teoria sistematica della dialettica, ciò non esclude la possibilità di fissarne qualche tratto generale. 5 I tre momenti del pensiero Hegel distingue tre momenti o aspetti del pensiero. 1. IL MOMENTO ASTRATTO O INTELLETTUALE; 2. IL MOMENTO DIALETTICO O NEGATIVO-RAZIONALE; 3. IL MOMENTO SPECULATIVO O POSITIVO-RAZIONALE. Il MOMENTO ASTRATTO O INTELLETTUALE consiste nel concepire l'esistente sotto forma di una molteplicità di determinazioni statiche. In questo momento (il grado più basso della ragione) il pensiero si ferma alle determinazioni rigide della realtà, limitandosi a considerarle nelle loro differenze reciproche, secondo i principi di identità e di non-contraddizione. Il MOMENTO DIALETTICO O NEGATIVO-RAZIONALE consiste nel mostrare come le determinazioni del momento astratto esigano essere relazionate con altre determinazioni. Infatti, poiché ogni affermazione sottintende una negazione, risulta indispensabile procedere oltre il principio di identità e mettere in rapporto le varie determinazioni con le determinazioni opposte. Il MOMENTO SPECULATIVO O POSITIVO-RAZIONALE consiste nel cogliere l'unità delle determinazioni opposte, nel rendersi conto che tali determinazioni sono aspetti unilaterali di una realtà più alta che li sintetizza entrambi. Dalla distinzione dei tre momenti del pensiero si evince la contrapposizione tra intelletto e ragione. ▪ L'intelletto è un modo di pensare "statico", che considera gli enti soltanto nella loro reciproca esclusione. ▪ La ragione è invece un modo di pensare “dinamico", capace di cogliere la concretezza del reale. In quanto dialettica, la ragione nega le determinazioni astratte dell'intelletto, mettendole in relazione con le determinazioni opposte; in quanto speculativa, essa coglie l'unità degli opposti realizzandone la sintesi. Nella prospettiva hegeliana, se l'intelletto è l'organo del finito, la ragione è l'organo dell'infinito, lo strumento tramite cui il finito (l'astratto) viene risolto nell'infinito. Globalmente considerata, la dialettica consiste: 1. nell'affermazione di un concetto astratto, che funge da tesi; 2. nella negazione di questo concetto come alcunché di finito e nel passaggio a un concetto opposto, che funge da antitesi; 3. nell'unificazione dell’affermazione e della negazione in una sintesi comprensiva di entrambe. La sintesi si configura come la ri-affermazione potenziata, attraverso la negazione, della tesi. Essa viene indicata da Hegel con il termine «Aufhebung», il quale esprime l'idea di un “superamento" che è, al tempo stesso, un togliere (l'opposizione tra tesi e antitesi) e un conservare (la verità della loro lotta). La dialettica corrisponde alla totalità dei tre momenti. Essa illustra il principio fondamentale della filosofia hegeliana: la risoluzione del finito nell'infinito. La dialettica esprime il processo mediante cui le varie determinazioni della realtà perdono la loro rigidezza e diventano “momenti” di un'idea unica e infinita. Inoltre, la dialettica ha un significato globalmente ottimistico, poiché essa ha il compito di conciliare le opposizioni, ridurre ogni cosa all'ordine e alla perfezione del tutto. In altri termini, il negativo, per Hegel, sussiste solo come momento del farsi del positivo. 6 Poiché ogni sintesi rappresenta a sua volta la tesi di un'altra antitesi, a prima vista la dialettica sembra un processo costitutivamente aperto. In verità, Hegel pensa che in tal caso si avrebbe il trionfo della «cattiva infinità», un processo che, spostando indefinitamente la meta da raggiungere, toglierebbe allo spirito il pieno possesso di sé stesso. Di conseguenza, egli opta per una dialettica a sintesi finale chiusa, con un preciso punto di arrivo. Tutti i filosofi che si rifaranno all'hegelismo criticheranno questa idea di uno “stagnante epilogo” della storia del mondo, recuperando piuttosto quella di un processo che risulta costitutivamente aperto. La dottrina di Hegel si contrappone a diverse filosofie Hegel e gli illuministi L'hegelismo implica un rifiuto della maniera illuministica di rapportarsi al mondo. Gli illuministi, facendo dell'intelletto il giudice della storia, erano costretti a ritenere che il reale non fosse razionale. La ragione degli illuministi esprime solo le esigenze e le aspirazioni degli individui: è una ragione finita e parziale, ovvero un «intelletto astratto» che pretende di dare lezione alla realtà stabilendo come essa dovrebbe essere, nonostante la realtà sia sempre necessariamente ciò che deve essere. Hegel e Kant Kant aveva voluto costruire una filosofia del finito, della quale faceva parte integrante l'antitesi tra l'essere e il dover essere, ovvero tra la realtà e la ragione. In campo gnoseologico, le idee della ragione erano per lui meri ideali, idee “regolative" che dipingevano la ricerca scientifica all'infinito. Analogamente, in campo morale, la volontà non coincideva con la ragione e la santità era irraggiungibile. Tuttavia, se in Kant l'essere (la realtà) non si adeguava mai al dover essere (alla razionalità), per Hegel questa adeguazione è necessaria. A Kant Hegel rimprovera anche la pretesa di voler indagare la facoltà del conoscere prima di procedere a conoscere. Hegel e i romantici Hegel è anche un critico severo delle posizioni del “circolo” romantico: si può dire che il suo dissenso verta essenzialmente su due punti: ▪ in primo luogo, Hegel contesta il primato del sentimento, dell'arte o della fede, sostenendo che l'Assoluto non può che essere oggetto della filosofia, ovvero di una forma di sapere mediato e razionale; ▪ in secondo luogo, Hegel contesta gli atteggiamenti individualistici dei romantici, affermando che l'intellettuale non deve ripiegarsi sul proprio io, ma deve attenzionare l'oggettivo «corso del mondo», cercando di integrarsi nelle istituzioni socio-politiche del proprio tempo. Alcuni studiosi, accettando la riduzione (hegeliana) del Romanticismo al circolo romantico, hanno considerato il filosofo come un anti-romantico. In realtà Hegel, pur non rientrando nella “scuola romantica” in senso stretto, risulta profondamente partecipe del clima culturale del Romanticismo, del quale, condivide soprattutto il tema dell'infinito. Di conseguenza, la filosofia di Hegel, costituisce semplicemente un diverso esito della cultura romantica. 9 Servitù e signoria Secondo Hegel, l'uomo è autocoscienza solo se riesce a farsi riconoscere da un'altra autocoscienza: di conseguenza non può limitarsi a cercare negli oggetti sensibili l'appagamento dei propri desideri, ma ha bisogno degli altri uomini. Si potrebbe pensare che il reciproco riconoscersi delle autocoscienze debba avvenire tramite l'amore, il miracolo per cui ciò che è due diviene uno. Nella Fenomenologia il filosofo sceglie però un'altra strada, dal momento che all'amore, non insistendo abbastanza sul carattere drammatico della separazione tra le autocoscienze, manca «il travaglio del negativo». Pertanto, il riconoscimento deve passare attraverso un momento di lotta. Tale conflitto, non si conclude con la morte delle autocoscienze, ma con il subordinarsi dell'una all'altra nel rapporto servo- signore. Il signore è colui che, pur di affermare la propria indipendenza, ha messo valorosamente a repentaglio la propria vita, fino alla vittoria, mentre il servo è colui che ha preferito la perdita della propria indipendenza, pur di avere salva la vita. Tuttavia, la dinamica di questo rapporto è destinata ad una paradossale inversione di ruoli: infatti, il signore, che inizialmente appariva indipendente, nella misura in cui si limita a godere passivamente del lavoro dei servi, finisce per dipendere da loro. Al contrario il servo, che inizialmente appariva dipendente, padroneggiando le cose da cui il signore riceve il proprio sostentamento, finisce per rendersi indipendente. Questo processo di progressiva acquisizione di indipendenza da parte del servo avviene attraverso i tre momenti della paura della morte, del servizio e del lavoro. Lo schiavo è tale per aver «tremato» dinnanzi alla possibilità della morte. In virtù di questa paura, egli ha tuttavia sperimentato il proprio essere come qualcosa di indipendente dal mondo di certezze naturali che prima gli apparivano come fisse e con le quali, si identificava. Inoltre, nel servizio la coscienza si autodisciplina e impara a vincere i propri impulsi naturali. Nel lavoro, il servo imprime alle cose una forma, dando luogo a un’opera indipendente. In questo senso, l'opera prodotta rappresenta il riflesso, nelle cose, della raggiunta indipendenza del servo rispetto agli oggetti. La figura hegeliana del servo-signore è stata molto apprezzata soprattutto dai marxisti, i quali hanno visto in essa un'intuizione dell'importanza del lavoro e della configurazione dialettica della storia. La figura hegeliana non si conclude con una rivoluzione, ma con la consapevolezza dell'indipendenza del servo nei confronti delle cose e della dipendenza del signore nei confronti del lavoro servile. Stoicismo e scetticismo Il raggiungimento dell'indipendenza dell'io nei confronti delle cose trova la sua manifestazione filosofica nello stoicismo, un tipo di visione del mondo che celebra la libertà del saggio nei confronti di ciò che lo circonda. Tuttavia, nello stoicismo l'autocoscienza, che pretende di svincolarsi dai condizionamenti della realtà, raggiunge soltanto un'astratta libertà interiore, giacché quei condizionamenti permangono e la realtà esterna non è negata. La pretesa di mettere completamente tra parentesi il mondo esterno appartiene invece allo scetticismo, una visione del mondo che sospende l'assenso su tutto ciò che è comunemente ritenuto vero e reale. Tuttavia, in virtù del suo esasperato atteggiamento negativo verso l'alterità, lo scetticismo dà luogo a una situazione contraddittoria e insostenibile. Hegel non fa che usare, contro lo scetticismo, l'argomento tradizionale: quello secondo cui lo scettico si autocontraddice, poiché da un lato dichiara che tutto è non-vero, mentre dall'altro pretende di dire qualcosa di vero. 10 La coscienza infelice Secondo Hegel, lo scettico che non crede in nulla è in intimamente religioso, perché sulla nullità della creatura basa l’infinità di Dio. Attraversata dalla contraddizione tra la negazione della verità e l'affermazione di una verità, la coscienza scettica trapassa nella «coscienza infelice», in cui la suddetta contraddizione diviene esplicita e assume la forma di una separazione radicale tra l'uomo e Dio. Questa opposizione tra finito e infinito produce nella coscienza una lacerazione che genera infelicità. La separazione tra uomo e Dio si manifesta in primo luogo sotto forma di antitesi tra «intrasmutabile» e «trasmutabile». Si tratta della situazione propria dell'ebraismo, nel quale l'Assoluto, la realtà vera, è sentito lontano dalla coscienza individuale e assume le sembianze di un Dio trascendente, un Signore inaccessibile di fronte a cui l'uomo si trova in uno stato di totale dipendenza. La coscienza infelice ebraica rappresenta la traduzione della situazione sociale espressa dal rapporto servo-signore. Nel secondo momento l'intrasmutabile assume la figura di un Dio incarnato. Si tratta della situazione del cristianesimo medievale, il quale, anziché considerare Dio come un giudice lontano, lo prospetta sottoforma di una realtà effettiva. Tuttavia, la pretesa di cogliere l'Assoluto in una presenza particolare e sensibile è destinata al fallimento. Di conseguenza, con il cristianesimo, la coscienza continua a essere «infelice» e Dio continua a configurarsi come un «irraggiungibile al di là che sfugge», dal momento che Gesù rimane qualcosa di separato di fronte alla coscienza. Manifestazioni di questa infelicità cristiano-medievale sono le sotto-figure della devozione, del fare e della mortificazione di sé. ▪ La devozione è il pensiero sentimentale e religioso che non si è ancora elevato a concetto. ▪ Il fare o l'operare della coscienza è il momento in cui la quest’ultima, rinunciando a un contatto immediato con Dio, cerca di esprimersi nel desiderio, e nel lavoro. Tuttavia, la coscienza cristiana non può fare a meno di avvertire il frutto del proprio lavoro come un dono di Dio. In tal modo essa si umilia ulteriormente e riconosce che ad agire è sempre Dio. ▪ La vicenda prosegue con la mortificazione di sé, in cui vi è la negazione dell'io a favore di Dio. Il punto più basso toccato dal singolo trapassa nel punto più alto, nel momento in cui la coscienza, nel suo vano sforzo di unificarsi con Dio, si rende conto di essere, lei stessa, Dio, il soggetto assoluto. Come soggetto assoluto, l'autocoscienza diventa ragione e assume in sé ogni realtà. Mentre nei momenti anteriori la realtà del mondo le appariva come qualcosa di, ora invece sa che nessuna realtà è qualcosa di diverso da sé stessa. La ragione, è la «certezza di essere ogni realtà». La ragione osservativa La certezza della ragione di essere tutta la realtà deve però essere giustificata per divenire verità. Il primo tentativo di giustificarsi si rivolge da principio al mondo della natura: si tratta della fase del naturalismo del Rinascimento e dell’empirismo, in cui la coscienza crede di cercare l'essenza delle cose, mentre non cerca che sé stessa. L'osservazione della natura parte dalla semplice descrizione, si approfondisce con la ricerca della legge e con l'esperimento, in seguito si trasferisce nel dominio del mondo organico, per passare infine all'ambito stesso della coscienza con la psicologia. Hegel esamina lungamente a questo proposito due scienze dei suoi tempi: la fisiognomica, che aveva la pretesa di determinare il carattere dell'individuo attraverso i tratti della sua fisionomia, e la frenologia, che pretendeva di conoscere il carattere dalla forma del cranio. 11 In tutte le ricerche, la ragione, pur cercando apparentemente altre cose, cerca in realtà di riconoscersi nella realtà oggettiva che le sta dinnanzi. Tuttavia, in questa esasperata ricerca di sé, sperimenta alla fine la propria crisi, riconoscendosi di nuovo come qualcosa di distinto dal mondo. La ragione attiva Dalla ragione osservativa si passa a quella attiva, nel momento in cui ci si rende conto che l'unità di io e mondo non è qualcosa di dato, ma qualcosa che deve venir realizzato. Tuttavia, tale progetto è destinato a fallire finché è uno sforzo individuale, come testimoniano le tre figure della ragione attiva. ▪ La prima figura, «IL PIACERE E LA NECESSITÀ», è quella in cui l'individuo, deluso dalla scienza, si getta nella vita e va alla ricerca del proprio godimento. Tuttavia, nella ricerca del piacere l'autocoscienza incontra la necessità del destino, che, incurante delle sue personali esigenze di felicità, la travolge inesorabilmente, evidenziando la finitudine dell'individuo. ▪ L'autocoscienza cerca di opporsi all’ostilità del mondo appellandosi alla «legge del cuore». Nasce in tal modo la seconda figura della ragione attiva, «LA LEGGE DEL CUORE E IL DELIRIO DELLA PRESUNZIONE», nella quale l'individuo, dopo aver cercato di abbattere i responsabili dei mali nel mondo, entra in conflitto con altri presunti portatori del progetto di miglioramento della realtà. ▪ Ai vari fanatismi, l'individuo contrappone la virtù, un agire in grado di procedere oltre l'immediatezza del sentimento e delle inclinazioni soggettive. Nasce in tal modo la terza figura della ragione attiva, «LA VIRTÙ E IL CORSO DEL MONDO». Tuttavia, il contrasto tra la virtù, il bene astratto e la realtà concreta non può che concludersi con la sconfitta del «cavaliere della virtù» e dei suoi propositi di moralizzazione dell'esistente. Hegel cita come esempio di tale sconfitta il periodo del Terrore e Robespierre. In ciò, riprende la critica di Burke e dei romantici, che vedevano nel fallimento della Rivoluzione francese espresso dal Terrore, l'effetto dell'Illuminismo e del suo voler “dare lezioni” al mondo in nome di ideali astratti. L'individualità in sé e per sé Alle sezioni della ragione osservativa e della ragione attiva segue «l'individualità che è a sé stessa reale in sé stessa e per sé stessa». In essa egli mostra come l'individualità, pur potendo raggiungere la propria realizzazione, rimane, in quanto tale, astratta e inadeguata. ▪ La prima figura di questa sezione è «IL REGNO ANIMALE DELLO SPIRITO E L 'INGANNO». Hegel intende dire che alle ambizioni universalistiche della virtù subentra l'onesta dedizione ai propri compiti particolari. Alla base di questo «regno animale» dello spirito, vi è un inganno, in quanto l'individuo tende a spacciare la propria opera come il dovere morale stesso, mentre essa esprime soltanto il proprio interesse. ▪ La seconda figura è quella della «RAGIONE LEGISLATRICE». L’autocoscienza cerca in sé stessa delle leggi universali, le quali, in virtù della loro origine individuale, si rivelano contraddittorie. ▪ Tali contraddizioni spingono l'autocoscienza a farsi «RAGIONE ESAMINATRICE DELLE LEGGI», a cercare delle leggi assolutamente valide. Tuttavia, nella misura in cui sottomette le leggi al proprio esame, essa appare costretta a porsi al di sopra delle leggi e quindi a ridurne l'intrinseca validità. Con le figure analizzate, capiamo che ponendoci dal punto di vista dell'individuo si è inevitabilmente condannati a non raggiungere l'universalità. Quest'ultima si trova soltanto nella fase dello «spirito», di ciò che Hegel denominerà «spirito oggettivo ed «eticità», intendendo con queste espressioni che la 14 L'articolazione della logica hegeliana La logica hegeliana si divide in logica dell'essere, dell'essenza e del concetto, e mostra come partendo da concetti poveri e astratti si giunga a concetti più ricchi e concreti, fino al concetto massimo: l'idea. La logica dell'essere La logica dell'essere si divide in logica della qualità, della quantità e della misura. La categoria della QUALITÀ si articola a sua volta in essere (indeterminato), essere determinato ed essere per sé. Il concetto di essere costituisce il punto di partenza della logica hegeliana: essa cerca di liberare il reale da ogni contenuto specifico, per analizzare l’essere in quanto tale, ovvero l’essere senza determinazioni. Esso, però sembra coincidere con il non essere, dal momento che non gli si può predicare nulla senza determinarlo. Il vero senso di questo percorso si trova nella sintesi tra l’essere e il non essere, caratterizzata dall’aufeben, ossia nel togliere la contraddizione iniziale. Tale sintesi, è costituita dal divenire, che diventa la struttura logica fondamentale della realtà intesa dialetticamente. Il divenire è movimento indeterminato del pensiero, che non ha un oggetto propriamente detto. Il passaggio all'essere determinato è un momento importante, poiché esprime il trasformarsi del pensiero in un pensiero specifico: pensando l’essere indeterminato, mettiamo in atto una determinazione, dal momento che lo "definiamo” indeterminato. In tal modo, il pensiero diventa determinato: non c'è ente che non assuma un'interna qualificazione, da ciò deriva il titolo della sezione “qualità”. Tuttavia, anche nella stabilità dell’essere determinato si ripresenta l'opposizione tra essere e nulla, dal momento che la determinazione di qualcosa coincide sempre con la negazione di qualcos’altro. Nello sdoppiamento dell'essere determinato si genera il processo che Hegel definisce «cattiva infinità». Ogni finito, in quanto insufficiente, tende a qualcos’altro. La consapevolezza di questa insufficienza del finito, che produce in sé la sua negazione è il cuore stesso dell'idealismo. Interviene la categoria della «QUANTITÀ», con cui si distinguono gli oggetti numerandoli. Si cerca di capire se è possibile rintracciare nella misurazione quantitativa delle differenze che qualifichino gli oggetti. Questa sintesi di qualità e quantità è la «MISURA» o «quantità qualitativa», in base alla quale ogni cosa ha una misura propria: non esiste una misurazione «assoluta». Alla fine della logica dell'essere si ha a una conclusione negativa: l'oggetto non può mai essere definito mediante le sue proprietà «oggettive», cioè «immediate». Dall'oggetto, l'attenzione si sposta verso la sua «essenza». La logica dell'essenza Se la logica dell'essere considera l'essere fuori da ogni relazione, la logica dell'essenza esprime un’interiorizzazione mediante cui l'essere, riflettendo su di sé, scopre, le proprie “radici”. La maggior parte delle filosofie del passato è riconducibile a questa logica della riflessione. Lo stesso empirismo è governato da una logica riflessiva, in quanto chiarisce che le strutture del mondo oggettivo derivano da quelle soggettive. Kant porta al culmine questa logica, scoprendo che il principio dell'oggettività sta nel soggetto conoscente, da cui il mondo oggettivo dipende. La logica della riflessione indaga pertanto i diversi modi in cui l'oggetto si pone come «fenomeno», ovvero come manifestazione non essenziale di una verità che è altrove. A differenza dell'essere determinato, la «cosa» della logica dell’essenza non sarà semplicemente un “qualcosa” diverso, ma subirà uno sdoppiamento in sé stessa, in quanto dipendente da una ragione che ne giustifica l’esistenza e ne costituisce il fondamento del pensiero e in quanto distinta in un sostrato e nelle sue proprietà. 15 La logica del concetto Alla fine della logica dell'essenza Hegel mostra come la verità non risieda in nessuno dei due poli riflessivi (l'essere e l'essenza), ma nella relazione che li unisce, cioè in quella processualità dialettica che ha il merito di ridurre le esistenze immediate a processi, svelando il carattere dinamico, cioè dialettico, della realtà. I due termini della riflessione sono ricondotti ad un terzo elemento che li comprende entrambi: il concetto. La logica del concetto inaugura un piano ulteriore rispetto a quello del pensiero che riflette su un oggetto. Poiché l'oggetto «in sé» si è risolto nella riflessione, questa prende il posto dell'oggetto. In questa maniera soggetto e oggetto si identificano: il pensiero scopre sé stesso come vero oggetto. Il concetto è in primo luogo concetto soggettivo o formale; poi concetto oggettivo che si manifesta negli aspetti fondamentali della natura; infine è idea, unità dell'oggettivo e del soggettivo. • Il concetto soggettivo si determina dapprima nei suoi tre aspetti di universalità, particolarità, individualità; poi si articola nel giudizio e infine si organizza nel sillogismo, il quale manifesta l'aspetto formale e soggettivo della razionalità del tutto. • Il concetto oggettivo comprende le categorie fondamentali della natura: meccanismo, chimismo e teleologia, la quale ultima è la categoria fondamentale della natura organica. • L'ultima categoria della logica è l'idea. Quest’ultima è la totalità della realtà in tutta la ricchezza delle sue determinazioni. Nella sua forma immediata l'idea è la vita, un'anima realizzata in un corpo, ma nella sua forma mediata, è il conoscere, nel quale il soggettivo e l'oggettivo appaiono distinti e tuttavia uniti. Come unità di vita e conoscere, vi è l'idea assoluta. L’idea nella sua forma assoluta non è altro che la logica stessa di Hegel, nella totalità e nell'unità delle sue determinazioni. Logica e storia del pensiero Hegel non si accontenta di offrire una formulazione astratta della logica: egli individua precise corrispondenze tra le tappe dell'idea nella sua attuazione logica e la storia del pensiero. ▪ La logica dell'essere, in quanto irriflessa, è attuata nella filosofia dei presocratici, i quali identificano il principio del Tutto senza soffermarsi sul significato dei termini. In tale fase “immatura” la filosofia non è capace di riflettere su sé stessa, ma si limita soltanto a mettere a fuoco il mondo esterno: il pensiero greco si focalizza sulla spiegazione dei fenomeni fisici. ▪ Con Platone inizia ad affermarsi la logica dell’essenza: il mondo empirico viene derivato dalle idee, che ne costituiscono la spiegazione. Si avvia così un procedimento di reduplicazione: le entità mondane richiamano entità poste in una dimensione diversa. Questo processo è riscontrabile anche nella filosofia moderna: in Cartesio i corpi sono ricondotti all’estensione; in Spinoza gli individui derivano Sostanza. La necessità di spiegare la dimensione apparente del mondo postula l'esistenza di entità che non appaiono. In Kant, la reduplicazione assume la forma di una dicotomia non componibile. La cosa in sé, che dovrebbe spiegare il fenomeno, è inconoscibile: si arriva al paradosso. ▪ La sintesi delle tappe precedenti è il concetto, che incarna la filosofia idealistica. Quest’ultima mette in relazione l'essere con l'essenza, mantenendone distinti i ruoli: di conseguenza, il mondo soggettivo si configura come la verità di quello oggettivo. La logica del concetto coincide con la tesi fondamentale dell'idealismo per cui tutto è Idea e non esiste una realtà indipendente dal pensiero. 16 Il testo fondamentale in cui Hegel espone la propria filosofia della natura è la seconda parte dell’Enciclopedia. Hegel ammette che la filosofia della natura abbia per presupposto la fisica empirica, la quale deve limitarsi a fornirle il materiale, di cui essa si avvale per mostrare la necessità con la quale le determinazioni naturali si concatenano in un organismo concettuale. Secondo Hegel, che da un certo punto di vista si ispira più a Fichte che a Schelling, la natura è essenzialmente esteriorità. Considerata in sé, l’idea è divina, tuttavia il suo essere non corrisponde al concetto: si ha quindi contraddizione insoluta. Il carattere proprio della natura è negazione. Essa è la decadenza dell'idea da sé stessa, perché l’idea nella forma dell'esteriorità è inadeguata a sé stessa. Il concetto di “natura” ha una funzione chiave nella dottrina di Hegel. Il principio stesso dell'identità di realtà e ragione pone infatti a questa dottrina l'obbligo di risolvere nella ragione tutti gli aspetti della realtà. Hegel respinge fuori della realtà, ciò che è finito e la stessa individualità in ciò che ha di irriducibile alla ragione. Tutto ciò deve pur trovare una qualche giustificazione della sua esistenza: la trova nella natura, la quale, da questo punto di vista, rappresenta la “pattumiera” del sistema. Le divisioni fondamentali della filosofia della natura sono: la meccanica, la fisica e la fisica organica: ▪ la MECCANICA considera l'esteriorità, che è l'essenza propria della natura, o nella sua astrazione (spazio e tempo), o nel suo isolamento (materia e movimento), o nella sua libertà di movimento (meccanica assoluta); ▪ la fisica comprende la fisica dell'individualità universale, cioè degli elementi della materia, la fisica dell'individualità particolare, cioè delle proprietà fondamentali della materia e la fisica dell'individualità totale, cioè delle proprietà magnetiche, elettriche e chimiche della materia; ▪ la fisica organica comprende la natura geologica, la natura vegetale e l'organismo animale. La filosofia dello spirito consiste nello studio dell'idea che, dopo essersi estraniata da sé, sparisce come natura, per farsi soggettività. Lo sviluppo dello spirito avviene attraverso tre momenti principali: ▪ lo spirito soggettivo, che è lo spirito individuale nell'insieme delle sue facoltà; ▪ lo spirito oggettivo, che è lo spirito sovra-individuale o sociale; ▪ lo spirito assoluto, che è lo spirito che conosce sé stesso nelle forme dell'arte, della religione e della filosofia. Diversamente da quanto accade nella natura, nella quale i gradi sussistono l'uno accanto all'altro, nello spirito ciascun grado è compreso e risolto nel grado superiore. Lo spirito soggettivo Lo spirito soggettivo è lo spirito individuale, considerato nel suo progressivo emergere dalla natura, attraverso un processo che va dalle forme più elementari di vita psichica alle più elevate attività conoscitive e pratiche. La filosofia dello spirito soggettivo si divide in tre parti: ▪ ANTROPOLOGIA; ▪ FENOMENOLOGIA; ▪ PSICOLOGIA. 19 Il SISTEMA DEI BISOGNI nasce poiché gli individui, dovendo soddisfare le proprie necessità, danno origine a differenti classi: ▪ la classe «sostanziale» degli agricoltori (che «ha il suo patrimonio nei prodotti naturali di un terreno che essa lavora»); ▪ la classe «formale» degli artigiani, («che ha per sua occupazione il dar forma al prodotto naturale»); ▪ la classe «universale» dei pubblici funzionari (che «ha per sua occupazione gli interessi universali della situazione sociale»). L'AMMINISTRAZIONE DELLA GIUSTIZIA concerne la sfera delle leggi e si identifica sostanzialmente con il diritto pubblico. LA POLIZIA E LE CORPORAZIONI provvedono alla sicurezza sociale. Nel sistema di Hegel le corporazioni, attuando una sorta di unità tra la volontà del singolo e la categoria lavorativa a cui egli appartiene, prefigurano, sia pure in modo imperfetto, il momento dell'universalità statale. LO STATO Lo Stato rappresenta il momento culminante dell'eticità, la riaffermazione dell'unità della famiglia al di là della dispersione della società civile. Esso non implica una soppressione della società civile, ma uno sforzo di indirizzarne i particolarismi verso il bene collettivo. Nello Stato il cittadino è finalmente consapevole di essere parte del tutto. Hegel definisce lo Stato «sostanza etica consapevole di sé», poiché, in quanto autocoscienza, esso è ciò che sostiene le scelte del singolo, orientandole. Questa concezione etica dello Stato, visto come incarnazione suprema della moralità sociale, si differenzia nettamente dal modello democratico, la concezione secondo cui la sovranità risiederebbe nel popolo e dalla teoria liberale dello Stato, come strumento volto a garantire la sicurezza e i diritti degli individui. La polemica anti-liberale e anti-democratica di Hegel ha come presupposto teorico, la prospettiva “organicistica”, secondo cui non sono gli individui a fondare lo Stato, ma è quest’ultimo a fondare gli individui, sia dal punto di vista storico-temporale, sia dal punto di vista ideale. L'ottica organicistica si accompagna al rifiuto del modello contrattualistico, ovvero delle teorie secondo le quali la vita associata dipenderebbe da un contratto scaturito dalla volontà degli individui. Inoltre, Hegel contesta anche il giusnaturalismo, l'idea dell’esistenza di diritti naturali prima e oltre lo Stato. Coerentemente con la sua ottica storicistica, Hegel sostiene che la costituzione sgorga necessariamente dalla vita collettiva di un popolo: se si imponesse a priori una costituzione a un popolo, come fece Napoleone con gli spagnoli, si finirebbe inevitabilmente per fallire. Hegel identifica la costituzione “razionale” con la monarchia costituzionale moderna, un organismo politico che prevede una serie di poteri distinti tra loro: il potere legislativo, governativo e principesco. ▪ Il POTERE LEGISLATIVO consiste nel “poter stabilire l'universale” e concerne le leggi. A tale potere concorre «l'assemblea delle rappresentanze di classi». Pur insistendo sull'importanza mediatrice dei ceti, Hegel si mostra diffidente nei confronti del loro agire politico, ritenendo che essi siano inclini a far valere gli interessi personali. Coerentemente con queste premesse, Hegel dichiara che l'assemblea dei ceti è soltanto una parte del potere legislativo, poiché a quest'ultimo concorrono preminentemente gli altri due: quello governativo e principesco. ▪ Il POTERE GOVERNATIVO , o esecutivo consiste nello sforzo di tradurre in atto l'universalità delle leggi. A questo compito sono adibiti i funzionari dello Stato. 20 ▪ Il POTERE DEL PRINCIPE rappresenta l'incarnazione dell'unità dello Stato, il momento in cui la sovranità di quest’ultimo si concretizza in un’individualità reale. Tuttavia, al di là dell'enfasi che Hegel pone sulla figura-simbolo del monarca, il vero potere politico, nel modello costituzionale hegeliano, è il potere del governo. In ogni caso, per Hegel la monarchia costituzionale: o rappresenta la «costituzione della ragione»; o risolve organicamente in sé stessa le forme classiche di governo: monarchia, aristocrazia e democrazia. Il pensiero hegeliano mette capo a un'esplicita divinizzazione dello Stato. Come vita divina che si realizza nel mondo, lo Stato non può essere limitato dalle leggi morali. Infatti, Hegel sostiene che, «il benessere di uno Stato ha una giustificazione del tutto diversa». Soffermandosi specificamente sul diritto esterno dello Stato e sulla storia del mondo, Hegel dichiara che non esiste un organismo superiore in grado di regolare i rapporti inter-statali, il solo giudice è lo spirito universale, cioè la storia, la quale ha come suo momento strutturale la guerra. A quest’ultima, Hegel attribuisce non solo un carattere di necessità e inevitabilità, ma anche un alto valore morale, poiché “preserva i popoli dalla fossilizzazione alla quale li ridurrebbe una pace durevole”. Hegel non nega che la storia possa apparire priva di ogni piano razionale e dominata dallo spirito del disordine. Tuttavia, essa può apparire tale soltanto dal punto di vista dell'individuo, che misura la storia alla stregua dei suoi ideali personali: in realtà, «il grande contenuto della storia del mondo è razionale». La stessa fede nella provvidenza, cioè nel governo divino del mondo, implica la razionalità della storia. Il fine della storia del mondo è che lo spirito giunga al sapere di ciò che è veramente. Esso è lo spirito del mondo che s'incarna negli spiriti dei popoli che si succedono nel corso della storia. I mezzi della storia del mondo sono gli individui e le loro passioni, che Hegel ritiene dei semplici mezzi che conducono a fini diversi. La tradizione, oltre ad essere conservazione, è anche progresso: quest’ultimo trova i propri strumenti nei cosiddetti eroi. Essi «sono i veggenti: sanno quale sia la verità del mondo, quale sia l’universale prossimo a sorgere ed esprimono ciò di cui è giunta l'ora». Solo a tali individui Hegel riconosce il diritto di avversare lo stato di cose presente e di lavorare per l'avvenire. In apparenza, gli eroi della storia del mondo (come Alessandro, Cesare, Napoleone) non fanno che seguire la propria passione e la propria ambizione; ma si tratta di un'astuzia della ragione che si serve degli individui e delle loro passioni come di mezzi per attuare i propri fini. Il fine ultimo della storia del mondo è dunque la realizzazione della libertà dello spirito. Essa si realizza nello Stato, il quale diventa il fine supremo. La storia del mondo è la successione di forme statali che costituiscono momenti di un divenire assoluto. I tre momenti di essa, il MONDO ORIENTALE , il MONDO GRECO-ROMANO, il MONDO GERMANICO , sono i tre momenti della realizzazione della libertà dello spirito del mondo. Nel mondo orientale uno solo è libero; nel mondo greco-romano alcuni sono liberi; nel mondo cristiano-germanico tutti gli uomini sanno di essere liberi. Infatti, la monarchia moderna, abolendo i privilegi dei nobili e pareggiando i diritti dei cittadini, rende libero l'uomo. La libertà che accomuna gli individui si può realizzare soltanto nello «Stato etico», che risolve l'individuo nell'organismo universale della comunità. 21 Lo Spirito assoluto Lo spirito assoluto è il momento in cui l'idea giunge alla consapevolezza della propria assolutezza. Tale riconoscersi come Assoluto non è immediato, ma è il risultato di un processo dialettico incarnato dall'arte, dalla religione e dalla filosofia. Queste attività non si differenziano per il loro contenuto, ma soltanto per la forma nella quale viene presentato lo stesso contenuto: l'Assoluto o Dio. ▪ l'ARTE conosce l'Assoluto nella forma dell'intuizione sensibile; ▪ la RELIGIONE nella forma della rappresentazione; ▪ la FILOSOFIA nella forma del puro concetto. L'ARTE L'arte rappresenta il primo gradino attraverso cui lo spirito acquista coscienza di sé, in quanto, tramite essa, l'uomo assume la consapevolezza di sé mediante forme sensibili (figure, parole, musica ecc.). Inoltre, nell'arte lo spirito vive in modo immediato la fusione tra spirito e natura, sostenendo che la natura è soltanto una manifestazione dello spirito. Hegel dialettizza la storia dell'arte in tre momenti: ▪ L'ARTE SIMBOLICA, tipica delle grandi civiltà orientali e pre-elleniche, è caratterizzata dallo squilibrio tra contenuto e forma, dall'incapacità di esprimere un messaggio spirituale (l'Assoluto) mediante forme sensibili adeguate. Espressioni viventi di questa incapacità sono il ricorso al simbolo e la tendenza allo sfarzoso. ▪ L'ARTE CLASSICA è invece caratterizzata da un armonico equilibrio tra contenuto spirituale e forma sensibile, attuato mediante la figura umana, la sola forma sensibile in cui l'arte riesce a rappresentarsi e manifestarsi compiutamente. ▪ L'ARTE ROMANTICA, propria dell'Europa cristiana medievale e moderna, è caratterizzata da un nuovo squilibrio tra contenuto spirituale e forma sensibile, in quanto lo spirito acquista consapevolezza di come qualsiasi forma sensibile sia insufficiente a esprimere compiutamente l'interiorità spirituale, che preferisce volgersi alla filosofia, o fare dell'arte stessa una sorta di filosofia in cui il contenuto trabocca dalla forma. In conclusione, se nell'arte simbolica il messaggio spirituale è così povero da non trovare la sua espressione figurativa adeguata, nell'arte romantica è così ricco da trovare inadeguata ogni figurazione sensibile. Il passaggio fra i vari gradi dell’arte corrisponde a un graduale processo di smaterializzazione e spiritualizzazione: ▪ la forma artistica tipica dell'ARTE SIMBOLICA è l'architettura, in cui la materia è fortemente “presente” nelle enormi proporzioni delle costruzioni; ▪ nell'ARTE CLASSICA si privilegia la scultura, espressione di un perfetto equilibrio; ▪ l'ARTE ROMANTICA , di fronte a un elemento spirituale non più "contenibile”, si volge alla pittura e, soprattutto, alla musica e alla poesia, in una graduale rarefazione dell'elemento materiale. Tutto ciò determina la "crisi" moderna dell'arte. Nessuno vede più nelle opere d'arte l'espressione più elevata dell’idea. L'artista stesso non può sottrarsi all'influsso della cultura razionale. Questa “morte dell'arte” non va tuttavia interpretata alla stregua di un suo funerale di fatto, ma come una sua inadeguatezza a esprimere la profonda spiritualità moderna.