Scarica Riassunto Andrea Riccardi – La sorpresa di Papa Francesco e più Sintesi del corso in PDF di Storia Contemporanea solo su Docsity! Andrea Riccardi – La sorpresa di Papa Francesco Prefazione La domanda che molti si pongono è se la crisi della Chiesa cattolica sia irreversibile. La convinzione più diffusa è che l’antica Chiesa cattolica quasi non abbia le risorse per affrontare la crisi. In questo clima di incertezza è arrivata, inaspettata, la rinuncia di papa Benedetto, apparendo come la conferma della gravità della crisi. Crisi che non veniva dall’esterno, ma aveva radici nella vita interna della Chiesa stessa. Alle dimissioni è seguita l’elezione del primo papa latinoamericano nella storia, il cardinale Jorge Bergoglio, che ha preso il nome di Francesco. Una vera sorpresa: non solo per la scelta dell’uomo, ma per l’impatto felice e immediato della sua personalità tra i cattolici e i non cattolici. Si è percepito subito un cambiamento di rilievo. La proposta di papa Francesco è rappresentata dalla qualità della comunicazione stabilita con la Chiesa e in genere con la gente; è una “proposta” che viene da lontano. Jorge Bergoglio ha maturato una riflessione articolata sui temi cruciali della vita della Chiesa e sulla sua collocazione nella società contemporanea. Ha seguito con particolare attenzione il cambiamento degli ultimi due decenni con l’affermazione indiscussa della globalizzazione e delle sue conseguenze sulla vita economica e sociale. Il “laboratorio” di questa riflessione di papa Francesco è stata l’Argentina, con le sue difficoltà e contraddizioni, connessa com’è all’intera America Latina. Il nuovo papa ha una visione articolata e mediata del mondo globale, delle sue vicende umane e, soprattutto, dei problemi e delle sfide della Chiesa cattolica oggi. Eletto papa a 76 anni, quest’uomo ha subito manifestato una forte speranza, anzi un “sogno” sulla sua Chiesa. È un sogno maturato in una vita caratterizzata dal gusto dell’incontro con gli altri e del dialogo con loro, ma anche da una dimensione riflessiva e interiore, contrassegnata in particolare dalla preghiera e dal confronto con la Bibbia. La sua diversificata esperienza di umanità e le sue idee maturate sulla Chiesa non lo portano però a un atteggiamento negativo verso il mondo contemporaneo: pur non ignorandone i limiti e le contraddizioni, il suo rapporto con la realtà di oggi è marcato da una profonda simpatia. Una Chiesa all’altezza della sua missione è, per lui, il vero contributo per cambiare il mondo contemporaneo e renderlo più umano. La chiesa di papa Francesco non è solo quella delle strutture: è un “popolo” diffuso in tanti paesi del mondo. È un popolo che il papa intende guidare, ma anche accompagnare e persino seguire. Non è un uomo solo al comando, ma un vescovo in mezzo a un popolo complesso. C.1 – Le dimissioni di Benedetto XVI La notizia shock La mattina dell’11 febbraio 2013 l’agenzia di stampa italiana ANSA trasmette una notizia quasi incredibile, Benedetto XVI comunica in latino un’inedita decisione: “Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino”. Quando la notizia è confermata, la sorpresa si intreccia con un diffuso sconcerto. Il fatto è clamoroso. Papa Wojtyla aveva considerato il suo spegnersi sulla cattedra di Pietro come la croce della sua vita, convinto che dalla croce un papa non può scendere. Con questo spirito, Giovanni Paolo II aveva voluto restare fino alla fine al suo posto per testimoniare quello che chiamava il Vangelo della sofferenza. Uno tra i motivi che l’avevano convinto a non ritirarsi era stata anche la volontà di non dar luogo a un pericolo precedente. Benedetto XVI non intendeva prendere le distanze dal suo “amato” predecessore, anche se il suo gesto appariva una rottura con la tradizione, incarnata da Giovanni Paolo II con grande sacrificio negli ultimi anni della sua vita. Ratzinger disse che si può governare con la sofferenza, tuttavia “non sempre, ma in un lungo pontificato”: “dopo tanta vita attiva, era giusta una pausa di sofferenza”. Benedetto XVI aveva parlato di diritto e, persino, di dovere di dimettersi da parte del papa, quando egli “giunge alla consapevolezza di non essere più in grado fisicamente, mentalmente e spiritualmente di svolgere l’incarico affidatogli”. Si deve notare che il termine “incapacità” usato da papa Ratzinger ricorre pure nella rinuncia di Celestino V, letta ai cardinali nel 1294. Le dimissioni non sono una scelta praticata nella storia dei papi moderni. Le dimissioni di papa Ratzinger sono state un “trauma”. Perché questa decisione? Tutti i suoi predecessori del Novecento si sono misurati con l’indebolimento fisico, talvolta ponendosi il problema delle dimissioni, ma alla fine hanno deciso di non abdicare. Anche Pio XII si era interrogato sulla questione. Ratzinger ha deciso in altro modo rispetto ai predecessori, dimostrando che, pur essendo uomo della tradizione, ha un senso molto personale delle responsabilità, tanto da operare cambiamenti di grande portata. Nell’immaginario cattolico il papa dimissionario per eccellenza è Celestino V. Papa Ratzinger ha continuato a governare per un periodo dopo l’annunzio delle dimissioni, e poi ha conservato l’abito bianco papale (senza la mantellina), nonché il nome da papa e ha assunto il titolo inusuale di “papa emerito”. Gli “scandali” di tanto in tanto sollevati dalla stampa avevano messo a dura prova la tenuta del papa. La mitezza del pontefice aveva giocato male in un periodo difficile. Nell’emozione suscitata dalla rinuncia papale si è avuta la sensazione dell’esistenza di problemi molto gravi che Benedetto XVI non riusciva ad affrontare. A ogni modo, la rinuncia sembrava confermare agli occhi dell’opinione pubblica che la crisi della Chiesa cattolica era tanto grave da non permettere al papa di continuare a governarla, mentre tutti i suoi predecessori l’avevano fatto fino alla fine. L’umiltà di Ratzinger Le dimissioni hanno esposto papa Benedetto a una serie di critiche e a una certa freddezza dell’opinione pubblica. A distanza di tempo si è largamente cancellato quel diffuso stato d’animo. C’è stata una rielaborazione in senso molto positivo, tanto da far dimenticare la perplessità. Tuttavia con la sua rinuncia, papa Benedetto si è sottoposto quasi a un’umiliazione collettiva. È emersa l’umiltà di papa Ratzinger che non si è difeso di fronte a un’opinione pubblica perplessa. È indubbio che questo atto inaspettato è sembrato confermare l’immagine di una Chiesa in crisi. In questo passaggio di pontificato, segnato dalle dimissioni, c’è stato piuttosto silenzio, quasi la muta sensazione che la Chiesa fosse anch’essa un po’ dimissionaria, come il papa. Una Chiesa in crisi Il senso di crisi viene quasi personificato nella figura del papa dimissionario. La realtà della Chiesa appare irreformabile. La rinuncia di papa Benedetto, che i media hanno considerato un uomo onesto, sarebbe la definitiva conferma di una crisi che taluni hanno considerato gravissima. È la Chiesa degli scandali, ma soprattutto della scarsa rilevanza nella società. È anche la Chiesa che vede diminuire il numero dei suoi fedeli per la secolarizzazione. La poca credibilità del Vaticano si intreccia con la crisi della Chiesa alla base, con la disaffezione dei fedeli, espressa dal calo della pratica religiosa e della secolarizzazione, fenomeni che vengono da lontano. L’affermazione della modernità è stata accompagnata dalla riduzione dello spazio della Chiesa, considerata una realtà del passato inevitabilmente superata dal progresso della società. Il declino della Chiesa e la sua irrilevanza sono i sintomi del superamento del cristianesimo e della religione in una concezione della vita più positiva e razionale. Si è riscoperto, anche in un contesto di secolarizzazione, il bisogno di spiritualità e di religiosità della società moderna. C.2 - La sorpresa Il bisogno della profezia Nel 2005, alla morte di Giovanni Paolo II, il cattolicesimo sembrava esprimere una forte vitalità. I suoi funerali erano stati una manifestazione di attaccamento alla Chiesa e al suo capo. Il cattolicesimo, dopo gli anni di difficoltà postconciliari, aveva rilevato grandi energie e non solo nell’Est europeo. Eppure questa condizione felice si era incrinata nel volgere di qualche anno. Per taluni osservatori la forte personalità di papa Wojtyla avrebbe coperto i grandi problemi irrisolti della Chiesa cattolica. Nella Chiesa si era vissuta e forse si vive ancora una crisi di speranza. Non va trascurato un elemento importante, come la prossimità tra la crisi della Chiesa e quella dell’Europa, le cui speranze sono davvero ridotte. Nei nostri paesi europei si respira aria di declino, soprattutto 1 Era diffuso un forte pessimismo sul futuro della Chiesa. A questo pessimismo corrispondeva un diverso ma parallelo giudizio piuttosto negativo della Chiesa nei confronti della società. Le nostre società europee si stavano allontanando profondamente dalla fede e dai modelli di vita cristiani, mentre nel grande Sud prevalevano le sette e soprattutto l’islam. Il cristianesimo era sotto scacco nel mondo: bisognava resistere. Ma era una resistenza generalmente vissuta come un rallentamento del processo di secolarizzazione considerato ineliminabile. La critica progressista insisteva sul fatto che la Chiesa era in declino perché aveva perso tutti gli appuntamenti per aggiornarsi alla modernità. Ma la storia del declino di varie chiese evangeliche europee e di quella anglicana mostra che, adattandosi, non si esce dalla spirale negativa. La Chiesa non diventava attuale attraverso l’adattamento. L’attualità della Chiesa è infatti la fedeltà alla comunicazione del Vangelo in un rapporto vivo con le donne e gli uomini contemporanei. Papa Francesco ha marcato una rottura con i due pessimismi che caratterizzazione l’inizio di secolo: sulla Chiesa e sulla storia umana. Bergoglio è consapevole delle ambiguità del presente. La visione di Bergoglio, pur piena di speranza sul futuro, sente la forza del male. Il male e il peccato esistono. Sottovalutarli è la grande tentazione dei contemporanei. Ma parlare della presenza del signore del male non è demonizzare gli uomini. La vita degli uomini e delle donne non è prigioniera del male. La Chiesa non è condannata ad assistere impotente all’allontanamento dei fedeli da suo messaggio. C’è una rottura in Bergoglio con il pessimismo che aleggia nella Chiesa. Il peccato esiste, ma l’esistenza del peccato è anche un terreno su cui si sviluppa la speranza cristiana: perché sul terreno del peccato fioriscono il perdono e la speranza di una vita diversa. C.3 La cultura dell’incontro Sperare è incontrare L’incontro manifesta speranza, eppure non è sempre facile, quantomeno richiede di cambiare qualcosa in se stessi. Negli anni dell’ingrigimento, le comunità ecclesiali hanno vissuto la tentazione dell’autoreferenzialità, frutto del pessimismo sul mondo e sul loro futuro, che le spingeva a una certa inerzia. L’autoreferenzialità è una tentazione che viene da lontano, secondo papa Francesco: rende poco interessati al grande mondo, popolato da donne e uomini di ogni tipo. Il ministero pastorale di Bergolgio è impostato sull’incontro. L’arcivescovo di Buenos Aires è l’immagine di qualcuno che vuole incontrare e che si lascia incontrare. La priorità per il papa sta nella collocazione della Chiesa nel mondo, insomma nel suo rapporto con la gente e la vita quotidiana. Una Chiesa che vive in sé e per sé è spesso una comunità clericalizzata. Una Chiesa non clericale e non autoreferenziale sa uscire da sé. L’incontro con le persone è essenziale nella visione del papa. Questa era anche la via scelta da Giovanni Paolo II: incontrare e farsi incontrare. In questa stagione delle storia i cristiani debbono uscire dai loro recinti: i sacerdoti debbono uscire dalle parrocchie e dai circoli ecclesiastici (ma anche dal linguaggio interno a questi ambienti). L’uscita dai recinti ha determinato le stagioni più felici del cristianesimo, come quella del Duecento, quando il movimento francescano portò il Vangelo fuori dalle grandi cattedrali e dalle abbazie, che erano le fortezze della fede. Il Vangelo prese, per così dire, a camminare sulla strada e nella vita quotidiana della gente. Una Chiesa più attrattiva non è una comunità cedevole, ma una comunità dell’incontro. È una visione di Chiesa, come popolo di Dio, estroverso, missionario, capace di incontro. Questa è la proposta che papa Bergoglio fa alla Chiesa del XXI secolo: uscire per andare incontro alle donne e agli uomini, conoscerli, chiamarli per nome, comunicare la speranza che viene dalla fede. Miti e arditi nell’incontro La croce è il cuore della vita cristiana, segno del senso “belligerante” della vita cristiana. Sulla scorta degli Esercizi Spirituali, in particolare della meditazione dei Due Stendardi, Bergoglio afferma che “il Signore ci vede come suo popolo che muove il buon combattimento contro il nemico”. L’incontro e la misericordia sono qualcosa di molto serio e si inquadrano in una visione belligerante e militante della vita cristiana, che deve fare i conti con la paura di ciascuno. Bergoglio parla di una “tenerezza combattiva”. Aggiunge che nessuno può intraprendere la via del servizio cristiano se non ha speranza di vincere. Uscire dagli abituali recinti e incontrare è un passaggio che si nutre del desiderio di “vittoria” cristiana. Il sogno del cristiano è che il mondo e gli uomini possano cambiare. L’incontro con l’altro non è intellettuale o astratto, bensì è contatto con la sua carne e la sua sofferenza. La cultura dell’incontro con l’altro porta a responsabilizzarsi verso chi si è incontrato. Il samaritano si fa responsabile del ferito, si affatica e spende le sue risorse per lui. Incontrarsi lega l’uno all’altro. Non si tratta solo di causalità per il cristiano: è coinvolgersi in una responsabilità. La “custodia” manifesta la coscienza della responsabilità verso il creato, verso le persone con cui si è legati in un modo o nell’altro che si incontra. Nell’incontro con l’altro, si manifesta la scoperta che nessuno è estraneo agli occhi di un credente. I cristiani debbono ritornare a incontrare gli altri, i lontani, i diversi, gli indifferenti, gli ostili, gli estranei, guardandoli con simpatia e sincerità. La Chiesa non può essere chiusa in se stessa e autocentrata, distratta perché concentrata su di sé, disinteressata a chi è esterno al suo mondo. Il campo della Chiesa non è il suo mondo, quello ecclesiale o ecclesiastico, ma è il mondo intero. Il nemico stesso va amato, quindi non è un estraneo. Non ci sono confini alla terra dei credenti, se non quelli imposti dal loro sguardo. Il loro rapporto, con la terra che possono vedere, non è la proprietà o la sovranità, bensì la responsabilità. Tutto quello che è umano riguarda il discepolo di Gesù. La fedeltà non è tradizionalismo o fondamentalismo, bloccato alla lettera. Chi prega alza gli occhi incontro all’altro con maggiore apertura e perspicacia, uscendo da sé. Gesù insegna a vedere l’altro. Così il cristiano diventa responsabile di chi vede e chi incontra. Il suo “dominio” sulla terra si esercita attraverso una responsabilità piena di amore. Il possesso della terra da parte dei cristiani si ottiene con un mite senso di responsabilità. Il possesso della terra è dei miti. Questi, infatti, alzano il loro sguardo misericordioso e vedono l’altro, si legano a lui, se ne sentono affettuosamente responsabili. I miti sono coloro che affrontano la vita quotidiana con la mansuetudine del loro Maestro. Un “orizzonte utopico” Il cardinal Bergoglio ha molto insistito sul fatto che bisognava vedere in modo rinnovato la città. La pratica dello “sguardo della fede” sulla città diventa “fermento per uno sguardo civico”. È la proposta di quella che il cardinal Bergoglio chiama la cultura dell’incontro: così la Chiesa contribuisce al vivere comune. La storia del Novecento, secondo Bergoglio, con le sue proposte totalitarie, ha teso ad atomizzare la società. La chiave per la costruzione dell’unità è incontrarsi e camminare insieme. Si debbono affrontare i conflitti, senza restarne prigionieri. I cristiani sono davvero capaci di incontro e, per questo, sono costruttori di unità: il loro compito è “immergersi nel conflitto, compatire il conflitto, risolverlo e trasformarlo nell’anello di una catena, in uno sviluppo”. In questo i cristiani per Bergoglio hanno la loro funzione di “mediatori” e di artigiani di pace. Per l’Argentina la grande questione è “consolidare una cultura dell’incontro e un orizzonte utopico condiviso”. È vero che la storia argentina è complessa e le radici del paese sono molteplici. Ma, attraverso la cultura dell’incontro, è possibile costruire un’unità superiore. Il cardinale parla di un comune progetto nazionale da condividere. E usa l’espressione “orizzonte utopico”. “Le utopie” afferma Bergoglio “sono il frutto dell’immaginazione, la proiezione verso il futuro di una costellazione di desideri e di aspirazioni. L’utopia prende la sua forza da due elementi: da un lato… il malessere che genera la realtà attuale; dall’altro, l’incrollabile convinzione che un altro mondo è possibile. Da qui la sua forza mobilizzatrice”. Coltivare la storia di una comunità, aprirla utopicamente al futuro nella speranza, è compito di tutti. Per andarsi incontro, gli uomini e le donne hanno bisogno di essere consapevoli della storia che hanno alle spalle e, allo stesso tempo, necessitano di una speranza, di una visione utopica del futuro comune. Storia e speranza sono connesse tra di loro. Colorare la vita di amore e speranza Per Bergoglio cercare quello che unisce e mettere da parte quello che divide è una via maestra per realizzare un incontro vero. Proprio papa Wojtyla appare a Bergoglio un grande testimone del valore del dialogo. 1 La Chiesa di Bergoglio vive “una cultura dell’incontro che privilegi il dialogo come metodo, la ricerca condivisa di consensi, di accordi, di ciò che unisce invece di ciò che divide e contrappone…”. Incontrarsi e dialogare è ricostruire un tessuto comune di cultura. Il dialogo nasce autenticamente quando si crede che l’altro abbia da dire qualcosa di significativo, che insomma si possa imparare da lui. La mentalità utilitaristica accresce la mancanza di interesse per l’altro. C’è nel papa una ferma convinzione: ciascuno è portatore di un valore, di un motivo di interesse, di qualcosa di positivo. Non è un’affermazione teorica, quella che ogni uomo è immagine di Dio; ma è una sapienza di vivere, che ci fa scoprire il valore degli altri, che ci fa arricchire nei contatti, che esprime rispetto per il significato della vita altrui. Il valore dell’altro va scoperto nella propria esperienza esistenziale e non è un principio da proclamare. Se non si pratica il dialogo, si smarrisce il senso dell’altro. Nel mondo globale, nella città globale, a fronte della perdita di senso e dello smarrimento culturale, bisogna investire molto sul dialogo e sull’incontro. Un aspetto tanto trascurato del dialogo tra i cristiani è stato proprio quello dei “poveri”. L’amore per i poveri unisce i cristiani tra di loro, ma anche gli uomini di buona volontà. Francesco ha parlato espressamente di non cattolici o non cristiani che fanno il bene, suscitando la reazione negativa di taluni cattolici, perché loro non sono “dei nostri”. E il papa ha aggiunto: “fare il bene tutti, credo che sia una bella strada verso la pace”. Fare del bene insieme costruisce unità. Scoprire il valore del bene fatto da chi non è dei nostri ci fa crescere nella stima e nell’interesse. Il dialogo non è una strategia per ottenere qualcosa o per esercitare un dominio morale, bensì il riconoscimento che l’altro ha qualcosa da dare, che siamo destinati a vivere insieme, quindi prima di tutto a parlare. Attraverso il dialogo si ricostruisce nel quotidiano o su orizzonti più vasti il senso di un destino comune. Amicizia ed ebraismo L’incontro tra le religioni ha un valore tutto particolare per la realizzazione della coscienza di un comune destino dell’umanità. Si realizza in tanti distinti percorsi. Il libro-dialogo del cardinal Bergoglio con il rabbino argentino Abraham Skorka mostra uno di questi percorsi. In questo testo si percepisce la vibrazione amicale che accompagna lo scambio personale tra due uomini con storie e tradizioni religiose differenti, mentre due itinerari umani e spirituali si incrociano. Infatti uno dei grandi limiti dei dialoghi, intessuti dopo il Concilio, chiaramente non di tutti, è stata la riduzione alla dimensione teorica e accademica, con una penalizzazione di quella personale. C’è un’amicizia tra credenti di diverse religioni che si risolve nel dialogo spirituale. Senza amicizia è difficile far progredire il dialogo a tutti i livelli. L’amicizia non è negoziare le diverse identità religiose per creare una sintesi, ma camminare vicini alla presenza di Dio “con rispetto e affetto”. Il dialogo non può ridursi solo alle questioni teologiche o religiose; dialogare vuol dire guardare insieme la società, il futuro, i problemi. Dialogo è anche guardare assieme il mondo e non solo guardarsi in modo più benevolo tra chi parla. L’amicizia tra due leader religiosi fa scaturire una comprensione comune, anche se differenziata, della realtà umana. L’amicizia è una dimensione vitale nella pratica di un dialogo, che non sia un negoziato ideologico o un’occasione accademica. La parola crea l’amicizia. Tutti i grandi processi “unitivi” tra cui quelli ecumenici, sono in difficoltà e soprattutto non suscitano grande interesse. Il fine del dialogo è la costruzione di una vera amicizia tra credenti. Questo cambia la cultura e la mentalità, creando legami. Tanti incontri, tante amicizie fanno crescere il “calore” umano e religioso dell’ambiente in cui si vive e del mondo stesso. Il senso di comune appartenenza all’umanità, la partecipazione alle vibrazioni spirituali e alla profondità della fede altrui fanno crescere l’amicizia tra chi dialoga. Tale amicizia diventa una rete preziosa in tante situazioni di tensione. Bergoglio ha chiaro il grande dolore che ha segnato la storia ebraica, la predicazione del disprezzo nei loro confronti, l’odio, fino alla drammatica vicenda dell’antisemitismo nazista. Il cardinale sottolinea l’aspetto idolatrico del nazismo. Non ci furono ragioni politiche o militari per lo sterminio degli ebrei ma fu una sfida al Dio d’Israele, alla fede in lui e all’identità del suo popolo che andava cancellato. Il tema dell’idolatria è molto caro a papa Francesco. Auschwitz non è stato solo il punto più tremendo della storia europea o del mondo, bensì la svolta in cui si è rivelata definitivamente la capacità umana (e industriale) di uccidere senza Per padre Congar le tre realtà, Eucarestia, comunità e servizio ai poveri, stanno insieme, si sostengono o invece languiscono quando una di esse si deteriora o si distacca. Se non si amano i poveri, c’è poca fede eucaristica. L’amore per i poveri rende la comunità cristiana più coesa e piena d’amore. Liberare i poveri La storia della Chiesa con i poveri, dopo il Vaticano II, è ricca e complessa: Jorge Bergoglio ha attraversato in Argentina e in America Latina le fasi più tempestose della teologia della liberazione e dell’impegno cristiano per i poveri. Il clima incandescente degli anni Sessanta-Ottanta è stato superato. Ritorna il rischio di una visione minimalistica dell’impegno per i poveri, che lo riduca alla beneficenza o all’organizzazione assistenziale. Ma soprattutto con la crisi economica mondiale siamo entrati in una stagione in cui l’interesse per i poveri è in calo. Forse c’è una coscienza vittimistica dei propri bisogni, troppo diffusa, per cui non sembra più il tempo di pensare agli altri. Questo è un atteggiamento che si riscontra nella vita personale, ma anche nelle politiche delle grandi istituzioni o degli Stati, che riducono i bilanci della cooperazione allo sviluppo o dell’impegno sociale. Un elemento importante della crisi è il declino di una sinistra, socialista o comunista, impegnata per decenni nelle lotte sociali, la cui azione era stata anche di stimolo per i cristiani, perché non abbandonassero il campo sociale. La sinistra è oggi tendenzialmente più concentrata sulle lotte per i diritti civili che nel contrasto alla povertà. Del resto la coscienza sociale ha perso sensibilmente il senso di indignazione morale di fronte ai casi drammatici. L’indignazione morale si indirizza sullo sperpero delle risorse dello Stato o sugli sprechi, più che sul dramma e il dolore dei poveri. Papa Bergoglio sostiene che le persone vengono scartate, come se fossero rifiuti. Questa “cultura dello scarto” tende a diventare una mentalità comune. È avvenuta quella che Zoja chiama nel libro La morte del prossimo: “entratati nel XXI secolo sembra invece che i bisogni individuali siano l’aspirazione universale e la solidarietà l’eccezione”. Per Zoja lo svuotamento delle chiese è un aspetto fisico della morte metafisica di Dio, mentre lo svuotamento delle associazioni sociali lo è della morte del prossimo. Anche Bergoglio insiste sul concetto di “debito sociale”: “In tutti i casi di beneficio economico bisogna considerare la dimensione del debito sociale”. Si può pensare che le difficoltà economiche siano a monte di questo atteggiamento, ma c’è sicuramente anche lo smarrimento profondo del senso di solidarietà. C’è una coscienza sociale da rifondare. Non si può indulgere a credere che il mercato porti provvidenzialmente il benessere e la giustizia per tutti. Oggi il dramma del mondo contemporaneo è la forbice tra inclusione ed esclusione, che rischia di allargarsi sempre di più, facendo aumentare il numeri degli esclusi. La dittatura dell’economia, secondo il papa, va rimessa in discussione, perché “riduce l’uomo a una sola delle sue esigenze: il consumo”. Il rifiuto di Dio è a monte del rifiuto dell’etica e della solidarietà: “Proprio come la solidarietà, l’etica dà fastidio! È considerata controproducente: come troppo umana, perché relativizza il denaro e il potere; come una minaccia, perché rifiuta la manipolazione e la sottomissione della persona”. Sarebbe auspicabile realizzare una riforma finanziaria che sia etica e che produca a sua volta una riforma economica salutare per tutti”. I politici debbono riprendersi le loro responsabilità di fronte all’economia, di fronte a una “tirannia invisibile”. La proposta di papa Francesco è che la fede generi una cultura condivisa della giustizia. Se la fede non diventa cultura della giustizia, è irrilevante. La fede vissuta genera una cultura ma è anche creatrice di un senso condiviso di giustizia. Questa è la grande differenza dalle “culture idolatriche”, centrate sul culto di sé e del proprio interesse, i vari tipi di relativismo. La cultura della giustizia ha al centro l’uomo, anzi ha un rapporto privilegiato con i poveri. Il senso di giustizia guida a liberare i poveri dalla loro condizione periferica e di esclusione sociale. Una Chiesa amica dei poveri La cura dei poveri diventa simile a quella che si presterebbe a qualcuno della propria famiglia. Nel cristianesimo l’attitudine nei confronti della povertà e del povero è di autentico impegno. L’amore per i poveri è una storia di contatto personale – “corpo a corpo” dice Bergoglio - e non solo di impegno istituzionale o organizzativo. Questo contatto personale diventa legame e 1 amicizia. Ogni cristiano deve essere amico dei poveri, e di un povero come persona concreta. Questa familiarità impegna i credenti a liberare il povero dall’esclusione. La Chiesa dei poveri è una comunità che include i poveri come una famiglia, insomma una comunità che non solo parla dei poveri, ma è loro amica. Una Chiesa amica dei poveri, che considera i poveri come suoi fratelli, sceglie di realizzare la sua missione con mezzi poveri. Privilegiare i mezzi poveri non è negarsi a grandi imprese di liberazione o di servizio, ma è capire quale sia la forza, umile e debole, del cristianesimo. È la forza debole del Vangelo, che cambia i cuori e il mondo, ma non si impone e non domina. Il volto di questo papa, il suo aspetto, i suoi gesti, divengono una proposta di pastoralità alla Chiesa, in particolare ai vescovi. Papa Francesco insiste sulla “mondanità spirituale”, che significa “mettere al centro se stessi”. La mondanità spirituale nella vita ecclesiastica diventa carrierismo. Una Chiesa amica dei poveri è lontana dalla mondanità spirituale. I poveri aiutano la Chiesa, i preti e i vescovi a essere migliori e a vivere meglio il loro ministero. Aiutano chi si avvicina per aiutarli. I poveri portano vicino al dolore della croce. I poveri, secondo Gilson, ricordano ai ricchi e alla Chiesa che questo mondo è incompiuto. Richiamano alla fragilità della vita umana, da cui è impossibile fuggire, nonostante i tentativi di cosmesi e di eternizzazione del presente. La cultura della rottamazione La Chiesa, ingrigita negli anni, è anche una comunità che non ha saputo affrontare il tema della vecchiaia e dell’aumentato numero di anziani. La vita degli anziani diventa difficile con il passare degli anni, segnata dal marchio dell’inutilità. Si crea quel popolo di vecchi che, tristemente, affolla gli istituti dove si aspetta di morire. La società non riesce a gestire in modo adeguato il gran numero degli anziani, aiutandoli a restare a casa. Spesso la pastorale ecclesiale ha preferito dedicarsi ai giovani, voltando le spalle agli anziani che sono “vecchi clienti” della Chiesa. Il mondo degli anziani resta non evangelizzato. Spesso non accolto nella Chiesa. È un grande e doloroso problema. Questo atteggiamento negativo è il frutto di un cambiamento umano, dell’aumento del numero dei vecchi e di una profonda interpretazione culturale e sociale. Per Bergoglio la società non si divide in oppressi e oppressori come voleva una certa visione marxista: oggi ci sono gli inclusi e gli esclusi. I primi e più evidenti sono gli anziani. Il disprezzo degli anziani è sintomo di una vita sociale non più concepita nella misura delle famiglie, come storia e continuità tra generazioni. La questione degli anziani è rivelatrice della malattia profonda della società. Ricostruire il rapporto con gli anziani vuol dire sanare questo male profondo. Un problema nel rapporto con gli anziani è proprio la paura della loro debolezza, ossia il timore di vedere e toccare i deboli, quasi possa avvenire un contagio che ruba la giovinezza o la salute. Gli anziani sono rivelatori del limite e della fragilità: meglio allontanarli. Invece chi li avvicina ne scopre il valore. Una società privata dei suoi anziani è senza storia e senza famiglia. Il cardinale ha un’espressione efficace: la nostra è diventata la “cultura della rottamazione”. La Chiesa deve parlare alla gente, anche perché è la voce dei senza voce. E gli anziani, nella loro debolezza e povertà, rivelano la disumanità della nostra società. Una comunità cristiana non riconciliata con i suoi anziani non è certo amica dei poveri. L’amicizia con gli anziani è una proposta di umanesimo che la Chiesa può fare alla città. Bisogna praticare l’attenzione personale agli anziani, per combattere il messaggio di morte che viene loro inviato. La vera considerazione per un anziano è parlargli con attenzione. E si scopre il valore della memoria assieme a una grande capacità di affetto. Una Chiesa povera è anche una comunità che si serve dell’impegno degli anziani, scartati dalla società, la cui preghiera sorregge tutti i credenti. Un uomo come tutti La povertà della Chiesa deve riflettersi nello stile povero della Chiesa stessa e del vescovo. È un tema toccato, durante il Vaticano II, dal gruppo di lavoro dei vescovi sulla Chiesa e i poveri. Al termine del Concilio, un nutrito gruppo di padri conciliari firmò un documento, frutto di questo lavoro, che voleva essere una proposta alla Chiesa e un impegno personale. È un testo chiamato “Patto delle catacombe”: questo testo includeva un impegno a insistere presso i governi per la promozione dei più poveri. L’esercizio della solidarietà veniva considerato come un aspetto della collegialità episcopale. Lo stile di vita dei vescovi pur semplificato dalle riforme e dalle scelte personali, ha conservato alcuni tratti che forse quei vescovi del “Patto delle catacombe” intendeva invece cambiare. La Chiesa del postconcilio ha cercato di identificare il significato della povertà nello stile e nei mezzi per la sua missione. La semplicità nella vita da papa mostra un uomo che non vuole perdere il contatto umano, smettere di essere uno tra gli altri. La semplicità della sua vita e la sobria residenza a Santa Maria vogliono consentire al papa di essere uno come tutti. La libertà di comunicare il Vangelo non è difesa dalle forme della sovranità o dall’isolamento, ma è protetta dalla semplicità. Francesco o cambiare il mondo Jorge Bergoglio conosce il dolore che si annida nelle pieghe della città globale e del mondo. Ha affermato: “Il dramma è nelle nostre strade, nei quartieri, nelle nostre case, e ancora nel nostro cuore. Conviviamo con la violenza che uccide, distrugge famiglie, alimenta guerre e conflitti in tanti paesi del mondo”. “Il dominio del denaro con i suoi effetti demoniaci, come la droga, la corruzione, la tratta delle persone – e anche dei bambini – e insieme la miseria morale e materiale, sono diffusissimi”. Notava come la povertà dei bambini non suscitasse più indignazione. L’abitudine alla misera altrui è per il cardinale la rassegnazione al fatto che si può far poco, mentre i problemi sono immensi. C’è un’“impotenza della solidarietà”. Si può dire che il legame cristiano con i poveri esprime una rivolta del gratuito contro l’egemonia economica, sociale e culturale, del mercato. Si può cominciare a discutere e pensare un modo diverso di vivere. E per cambiare il mondo si incomincia dal cambiare se stessi vivendo con “una mente aperta e un cuore credente”. Bergoglio crede che il mondo possa essere cambiato, è convinto che ogni uomo possa trasformare il mondo a partire dalla sua esistenza: “la capacità di creare può cambiare la vita”. La capacità di generare lavoro è una delle migliori risposte alla crisi. C’è poi da recuperare il compito dello Stato per “assicurare la giustizia e un ordine sociale giusto al fine di garantire ad ognuno la sua parte di beni comuni, rispettando il principio di sussidiarietà e di solidarietà…”. Insomma l’arcivescovo di Buenos Aires chiede una più forte responsabilità sociale dello Stato, ma pensa anche che la società deve fare la sua parte. La credibilità dello Stato si gioca su questo: creare solidarietà e lottare contro la povertà. Il cardinale afferma: “Lo Stato e la società devono lavorare insieme per rendere possibili questi cambiamenti e modificare alla radice il modo con cui si affrontano i problemi della diseguaglianza e distribuzione”. La pazienza non si risolve nell’immobilismo, ma nel caricarsi il peso della storia alla ricerca del futuro. Caricarsi la storia sulle spalle richiede di “transitare nella pazienza” e di accettare di misurarsi con il tempo. Le rivoluzioni più vere e i cambiamenti più grandi vengono realizzati dagli spirituali e hanno radici nello spirito. Francesco non ha cambiato la storia del suo tempo con la politica o le armi, ma è partito dalla predicazione del Vangelo, che ha generato un movimento di spirituali, donne e uomini: sono loro che hanno portato il Vangelo per strada, nella vita quotidiana. Il movimento francescano è portatore di novità: il ritorno al Vangelo, un nuovo rapporto con le Scritture (che potrebbe essere definito “lo spirito della lettera”), la predicazione della pace in un mondo violento, la conciliazione con la natura. Il movimento di Francesco attestava che “un nuovo tipo di rapporto tra gli uomini era possibile”. Il papa ha la convinzione che il Vangelo vissuto incida profondamente nella società e scriva una nuova storia. La conversione di san Francesco, che vive la povertà come apertura e quindi ricchezza umana, ha portato un grande cambiamento nei suoi discepoli e nel mondo cristiano. Chiesa povera e madre La Chiesa, libera nella sua povertà, capace di fare spazio agli altri, non è un’organizzazione filantropica o irenista. Il papa ha insistito proprio sulla dimensione femminile della Chiesa. Il santo di Assisi ha dato un decisivo contributo alla “femminizzazione del cristianesimo”. Nella visione di Bergoglio, una Chiesa più femminile avrà meno paura. 1 L’appuntamento con le periferie è decisivo per la Chiesa di domani. La Chiesa è chiamata ad uscire da se stessa e andare nelle periferie, non solo geografiche, ma anche nelle periferie esistenziali. Essere popolo e costruire città vanno di pari passo; e così pure essere popolo di Dio e abitare nella città di Dio. Bisogna collocare il cristianesimo nello scenario urbano. Il cristiano è spinto verso la periferia, perché è uomo di incontro e di dialogo. Chi vive il mondo solo dal centro è spesso prigioniero di una visione egemonica o astratta. Il cristiano e il vescovo vanno al di là dei muri e delle distanze, fuori dal recinto ecclesiastico, tra la gente. Dio vive nella città e la Chiesa vive nella città. Il grande problema della città è la chiusura del spazi, che diventa chiusura umana dei cittadini. La città è anche un luogo dove imparare a stringere legami. Per Bergoglio la “porta chiusa” è il simbolo della città spaventata, che sente l’altro come un estraneo. È un atteggiamento tipico della mentalità urbana, che costruisce spazi di sicurezza dove abitare protetti. La città delle porte chiuse è quella odierna, popolata di diffidenze, paure, ostilità. La Chiesa non è un insieme di comunità chiuse. La Chiesa deve interessare un dialogo con gli uomini e le donne per strada. Dobbiamo andare a seminare speranza, dobbiamo uscire per strada. Dobbiamo uscire a cercare. La porta chiusa e la strada sono i due poli dell’esperienza cristiana: la Chiesa può chiudere le porte come tutte le case oppure aprirle, uscire per strada e incontrare le persone. L’apertura evangelica si gioca nei luoghi dell’entrata: nella porta delle chiese che non possono restare molte ore chiuse. Talvolta ci si spaventa e si chiudono le chiese, temendo il disordine o i furti. Così diventano un luogo funzionale solo alle celebrazioni liturgiche, quasi fossero aule destinate unicamente a questo servizio. Le chiese parlano a cristiani e non cristiani di un’altra città che “scende dal cielo”; ma invitano anche a credere che sia possibile trasfigurare la città in cui si vive. Le chiese possono essere uno spazio differente, di silenzio, di incontro, di presenza di Dio. Un aspetto decisivo della presenza cristiana è soprattutto il volto dei fedeli: “l’altra porta che è il nostro volto, che sono i nostri occhi, il nostro sorriso”. Quando l’arcivescovo parla di “missione come opzione pastorale permanente”, si riferisce anche al modo quotidiano di vivere e di rapportarsi dei cristiani. La vita cristiana è sale di fede, di speranza e di carità. Il sale del Vangelo rende gli uomini e le donne più buoni, più sapidi, più umani, “perché l’originalità cristiana non è uniformità, prende ciascuno come è, con la sua personalità e le sue caratteristiche, con la sua cultura. Il Vangelo dà sapore all’uomo, anche se “ciascuno è come è, con i doni che il Signore gli ha dato, perché Dio è il Signore della varietà”. Città dell’uomo o di tanti dei? La città è divenuta non solo secolare, ma soprattutto religiosamente pluralista. Città, con un passato cattolico, si trovano a fare i conti con importanti minoranze non cattoliche. La città globale è pluralista e secolarizzata. Questo non significa che la Chiesa non abbia voce nella città o che la religione si riduca a gruppi chiusi nelle nicchie della vita urbana. Non si tratta di cattolicizzare la città attraverso manifestazioni ufficiali. Ma la Chiesa, guardando la città e incontrando i suoi abitanti, sa che essa non è stata abbandonata da Dio, pur nelle sue contraddizioni, nella sua corruzione, nella sua inumanità. La Chiesa sa che è difficile essere umani nella città e nelle sue periferie; conosce la condizione di tanti condannati a una vita dura. Eppure è la città dell’uomo, che può divenire più umana. Nell’immagine di Abramo, che intercede nella preghiera per Sodoma, il cardinal Bergoglio vede la figura del cristiano che spera con decisione nella “salvezza” della città e prega per essa. La Chiesa cattolica, anche se minoritaria, si pone sempre come la Chiesa della città. Bergoglio parla dell’esistenza di una “cultura del basso”, che omogeneizza sentimenti e comportamenti: “stiamo in un tempo di “miopia spirituale e di appiattimento morale”, che fa sì che si cerchi di imporre come normale una “cultura del basso”, in cui pare non esserci posto per la trascendenza e la speranza”. La Chiesa conosce la forza della mentalità relativista: “Il relativismo che, con la scusa del rispetto delle differenze, omogeneizza nella trasgressione e nella demagogia: permette tutto per non assumere la contrarietà che impone il coraggio maturo di sostenere valori e principi”. Così il relativismo non significa pratica del rispetto: “Il relativismo è, curiosamente, assolutista e totalitario…”. Il pluralismo non si deve necessariamente risolvere nel relativismo. Bergoglio afferma che la Chiesa è “un soggetto che si trova immerso in un cocktail di culture ibridate subendone l’influenza e l’impatto”: per questo “è necessario ricollegarsi con lo “specifico cristiano”, per poter dialogare con tutte le culture. Nella città, la Chiesa sa che ogni giorno deve condurre una lotta pacifica contro una diffusa cultura del vuoto. Bergoglio parla di “conversione pastorale” della Chiesa. La città non è quella di Dio, la città sacra, nemmeno quella del confessionalismo. Eppure Dio non ha abbandonato la città secolare e pluralista, relativista e talvolta vuota di senso. La città non sarà mai una città sacra, dominata dalla religione con le sue leggi. Non sarà mai un paradiso. È una città mista, plurale, ambigua, in cui la condizione cristiana è di lotta, ma anche di simpatia per le tante vicende umane che si intrecciano tra loro. Il mondo delle città è anche quello della Chiesa. Anche se la città è il luogo della corruzione, Dio vive in essa, seppure i suoi abitanti non lo conoscono. La Chiesa è il segno del fatto che Dio abita nella città. Per questo i suoi figli debbono “guardare” la città nella sua interezza. Il cardinale fissa tre atteggiamenti concreti di guida al cristiano nel suo cammino nella città: L’uscire da se stessi incontro all’altro si risolve nella vicinanza, in atteggiamenti di prossimità. Il nostro sguardo deve essere sempre capace di uscir fuori e di farsi prossimo. Non dev’essere autoreferenziale, ma trascendente. Il fermento e il seme della fede si risolvono sempre nella testimonianza… È la dimensione martiriale della fede. L’accompagnamento si risolve nella pazienza, nella hypomené, che segue passo passo i processi senza bistrattare i limiti. Oggi il vissuto di tanti cristiani, dentro la condizione urbana, sta scrivendo percorsi di spiritualità rinnovata. La Chiesa guarda alla città del futuro. Papa Bergoglio ripropone la missione come la collocazione normale della Chiesa nella città. La missione è anche una pacifica demitizzazione di tanti idoli della vita urbana, di una visione economista totalizzante, della potenza dei media globalizzanti. Il cardinale parla di un “incantamento” ella tecnica sugli uomini nella promessa di cose sempre migliori, di un’economia dalle possibilità illimitate, del consumismo materiale ma anche di quello religioso con la sua teologia della prosperità: questo coacervo di influssi convergono nella grande illusione di rappresentare le vere risposte a tutti i bisogni umani. Il “disincanto escatologico” della fede evangelica richiama al valore delle cose ultime di fronte all’idolatria di sé o delle cose prossime. L’”idolo a me stesso” è la condizione di un uomo “disidratato” di spirito. Il nemico, il serpente, suggerisce di distaccarsi da Dio e dalla sua parola. L’uomo e la donna, illudendosi di vedere, credono di poter diventare come Dio. Dei a se stessi. Autoidolatria diventa la separazione da Dio. L’individuo si autodivinizza. Il peccato è “misurarsi” in se stessi e nella propria identità, nel proprio io. Ne consegue che l’individuo si irrigidisce e si polverizza, incorrendo sia nella durezza di cuore che nel gioco degli specchi del proprio narcisismo. Mentre la società spesso si scompone in un insieme di io senza speranza comune, senza coesione. La missione della Chiesa è, allo stesso tempo, una profezia contro gli idoli e l’autoidolatria, ma anche un richiamo al risveglio di un cuore spento. Nella città “pagana” vive una religione popolare che non è un residuo del passato o un compromesso con la superstizione. La religiosità popolare è una realtà che è stata considerata con sufficienza, quasi fosse espressione di un passato da cancellare. Per Bergoglio la devozione popolare ha un valore, sebbene sia un aspetto parziale della vita: è una scintilla che va aiutata a svilupparsi. Bergoglio critica un mondo di “regole troppo rigide da seguire”. Così si inibisce l’incontro con la misericordia di Dio, a cui tanti cuori anelano. Papa Francesco si scaglia contro un “riduzionismo ignobile”, che sminuzza o trascura il kerygma in favore della catechesi, della precettistica, del moralismo. Il cardinale critica una certa pastorale ecclesiastica. Bergoglio non promuove piani pastorali né fissa stili di vita generale per la Chiesa. Ha anzi polemizzato con quanti vogliono erigersi controllori del popolo, quasi innalzando una “dogana pastorale”. La missione vuol dire uscire nella città, incontrare, parlare di Gesù, ascoltare le persone, non tenere le porte chiuse, vivere responsabilmente sulla strada. Niente è semplice nella città contemporanea. Occorre cambiare, mettendosi nuovamente sulla strada. Vedere il lontano Il cristiano, tra mondo locale e mondo globale, è interpellato da tanti fatti. È interrogato sulla solidarietà: chi è il prossimo? Indubbiamente il vicino. Eppure i media ci portano a contatto con tragedie lontane. La solidarietà internazionale nasce proprio dal sentire “prossimo” chi soffre geograficamente lontano da noi. Forse oggi ci siamo quasi assuefatti a questa realtà. L’inflazione di informazioni ha un effetto deresponsabilizzante. Così, tra impotenza e dimenticanza, ci si rinchiude nella propria vita. 1 Con la crisi economica e di fronte a tante situazioni drammatiche, la solidarietà internazionale si è parzialmente appannata. Oggi nessuno nel mondo si sente responsabile di questo. La cultura del benessere che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone. In questo mondo della globalizzazione siamo caduti nella globalizzazione dell’indifferenza. Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro! Visione e storia Il mondo si è allargato e il grande problema oggi è avere una visione. La visione ha una dimensione geografica, ma pure una dimensione storica e di prospettiva del futuro. Il cardinal Bergoglio ha parlato di “congiunturalismo”, di “una visione a breve termine”: si fissa così “il presente come unica dimensione di tempo, che non consente visione e sguardo strategico e pone l’occupazione di spazi come fine ultimo dell’attività politica, sociale ed economica”. Si tratta della ricerca dell’interesse individuale, dell’esaltazione del particolarismo e della frammentazione. Diviene una mentalità per tanti, che finiscono per agire in modo solitudinario. Questo impedisce la maturazione di un progetto comune sul futuro. Ormai la politica ha compiuto un’alleanza strutturale con i media, mentre l’invasione del digitale sta mettendo in discussione ogni mediazione politica con l’illusione della democrazia diretta. Dice Bergoglio: la riduzione della politica a spettacolo o a pura immagine è un fenomeno più recente che promuove personaggi privi di contenuto e di proposte, senza capacità di gestione né soluzioni per affrontare situazioni complesse come quelle che si trovano a vivere le società contemporanee. La crisi della solidarietà, la mancanza di visione, il congiunturalismo, il divorzio della politica dalla cultura sono espressioni di una società in cui viene a mancare la profondità della storia, ma anche la speranza di scriverne una rinnovata per il futuro. La crisi della cultura, come il suo ripiegamento rabberciato sul presente, è una delle grandi povertà dei paesi europei. La globalizzazione appiattisce la visione su di un presente senza confini che ruota attorno all’ego, creando piccole soddisfazioni in un quadro, però, di grande smarrimento. Del resto anche la storia è in crisi e non ha più l’importanza culturale e politica di ieri. Ma la storia è una componente decisiva della cultura umanistica. Un popolo ha un’eredità di cui farsi carico. Una famiglia e un popolo che fanno memoria sono una vera famiglia e un popolo con un futuro. Senza senso della storia, senza storia, una comunità non ha futuro. La mutilazione della storia mette in crisi la speranza e le visioni del futuro. Hobsbawm ha parlato della “distruzione del passato, o meglio la distruzione dei meccanismi sociali che connettono l’esperienza dei contemporanei a quella delle generazioni precedenti. Il cardinal Bergoglio ha parlato degli uomini e delle donne come di “persone storiche”. Nazione e politica hanno bisogno di coscienza storica. Lo stesso cristianesimo è una religione storica e i suoi testi sacri sono anche libri di storia. Bergoglio rifiuta che la storia possa essere “tribunalizzata”, per giudicare persone, vicende, popoli. L’analisi storica va sempre effettuata con i parametri dell’epoca, con la sua ermeneutica. Non per giustificare i fatti, ma per comprenderli. Uscire da sé, incontro, simpatia ritornano anche nel lavoro dello storico, pur in modo molto particolare. La storia aiuta la comprensione della realtà, ad andare più in profondità nelle situazioni, senza limitarsi a reazioni emotive, ridotte al presente. La globalizzazione ha una storia e non produce un modo senza tempo, fatto di economia, appiattito sul presente. Infatti frequentare la storia fa crescere la coscienza umanistica della vicenda dei popoli e delle persone. C.6 Un papa dalla fine del mondo Fuori dall’autoreferenzialità Nel 1978 l’elezione di un papa non italiano apparve come una svolta radicale. Per Giovanni Paolo II il fatto saliente era la provenienza da un paese comunista. Bergoglio invece viene dal Sud del mondo. C’è un papa che non proviene dall’Europa o dal mondo mediterraneo, le prime aree di evangelizzazione del cristianesimo. Oggi un figlio della “Terza Chiesa” non è più “alle porte”, ma siede sulla cattedra del papa di Roma. Il collegio dei cardinali ha scelto un papa non europeo. Questa è la grande novità. I cardinali non hanno affidato a un europeo la leadership del cattolicesimo mondiale. fede. Così la Parola cresce nel corpo della Chiesa anche con l’”intelligenza spirituale” del popolo cristiano. Per la salvezza e la felicità Bergoglio conosce l’infelicità degli uomini e delle donne del nostro tempo. Anche le persone “realizzate” sono, per lui, condannate all’infelicità. Le difficoltà e le infelicità sono motivo per far crescere una mentalità vittimistica, tanto diffusa ai nostri tempo e accresciuta dalla crisi economica. “Il male si compie quando un uomo o una donna non vedono che i loro impedimenti e non pregano, ma si lamentano. In questo modo l’uomo si trasforma in vittima. Si canonizza in sé”. In un tempo fortemente emozionale, la categoria delle “vittime” ha avuto un’incredibile estensione, tanto che la vittima in qualche modo diventa un soggetto di rilievo nella società contemporanea. Da qui la diffusione di un atteggiamento vittimistico che impone la concentrazione dell’attenzione prioritariamente su di sé. La nostra società occidentale è imbevuta di una cultura terapeutica: questo diffonde “un senso di vulnerabilità, impotenza, e dipendenza”. All’uomo che è consapevole di non poter mai raggiungere la felicità con i suoi propri mezzi, con la sua ascesa spirituale, resta un’unica cosa dare fare… realizzare la felicità di un altro, degli altri. Bergoglio mostra di comprendere la loro infelicità, i loro dolori reali. Il papa affronta il tema della tristezza e del pessimismo, proponendo l’incontro con Gesù. Il problema dell’uomo contemporaneo non è lamentarsi, ma riconoscersi peccatore. C’è un’inversione profonda nella concezione dell’uomo vittimista che si sente in credito verso la società: il peccatore può cambiare. La trasgressione ci rende umili, perché consapevoli del bisogno di Dio. Chi si riconosce peccatore è un uomo che ha speranza. La terapia psicologica o psicanalitica sta prendendo il posto del cristianesimo: al Cristo salvatore si sostituisce il Cristo consigliere psicologico. Bergoglio conosce bene e apprezza il mondo della psicologia. La terapia non è però la salvezza. Nella coscienza del peccato si nascondono in profondità una domanda di salvezza e un radicale bisogno di Dio. Quando prendiamo coscienza che siamo peccatori e siamo salvati da Gesù, confessando questa verità a noi stessi scopriamo la perla nascosta, il tesoro sepolto. La coscienza di essere giusti, di aver ragione, di essere vittime della vita, non è solo autoassoluzione, ma ci indurisce nei confronti degli altri e sopprime in noi il bisogno di Dio. Non si tratta di sviscerare la vita delle differenti persone, mettendole a nudo. Jorge Bergoglio è sensibile alla riservatezza della coscienza di ciascuno. Dio stesso fece delle vesti per i primi peccatori. Mettere a nudo è un’operazione cinica; e anche il cinico si atteggia a onesto o si presenta come fanatico della verità, egli trascura tuttavia la verità decisiva, quella cioè che dal peccato originale in poi devono esistere anche velo e segreto. Il velo deve essere tolto solo nella confessione, cioè dinnanzi a Dio. La coscienza del peccato è la ferita del proprio essere. Il peccatore non è chiuso nel proprio ego, nell’arroganza verso gli altri o nell’autosufficienza verso Dio. Il peccato ammesso onestamente è un luogo privilegiato di incontro personale con Gesù Cristo Salvatore e permette la riscoperta del senso profondo che Lui ha per me. Rappresenta la possibilità di vivere lo stupore di essere salvato. La sfida di un cristianesimo spirituale I tempi dell’ateismo e del materialismo dialettico del marxismo sono tramontati. Se restano consistenti settori dell’ateismo, più vasta è la domanda di risposte religiose però fuori dai quadri istituzionali delle religioni storiche e del cristianesimo stesso. Ormai i “prodotti religiosi” offerti dal grande mercato delle religioni sono innumerevoli. La secolarizzazione è avanzata ma la religione e la religiosità non sono scomparse. Vannini sostiene la tesi che il cristianesimo non regga più all’analisi scientifica, si sia impoverito di contenuti interiori e abbia divorziato dalla mistica, sola capace di superare il “dualismo” cristiano tra l’io e Dio. Il cristianesimo è in una condizione di decadenza simile all’antico paganesimo. Per Vannini bisogna costruire un cristianesimo protoreligioso come “superamento di tutto il cristianesimo di venti secoli”. Un tempo postcristiano non sarebbe un’età senza religione, ma il superamento della “sclerosi” delle istituzioni, delle contraddizioni tra vita e spirito. L’Oriente asiatico ha giocato un ruolo decisivo, come patria di tanti viaggi alla ricerca delle fonte genuine dello spirito. È uno storia che sale dall’Ottocento e diviene nel XX secolo un entusiasmo di massa verso l’Oriente asiatico, simile a quello per l’antichità greco-latina vissuto nel Rinascimento. 1 Pascal Bruckner ha parlato di una folla di europei “in cerca di credo sostitutivi, sospinta sulle strade da uno spirito violentemente negatore dell’Europa e delle sue religioni”, smarrendo ogni senso critico di fronte a un maestro orientale e immergendosi in uno spirito di sottomissione. La spiritualità orientale rappresenta un’alternativa al cristianesimo. Oggi la Chiesa è sfidata dal mercato dei prodotti religiosi e da una spiritualità postcristiana, mentre, qualche decennio fa, subiva la sfida dell’ateismo di massa. Forse, per i cristiani, c’è il problema di avere cuori troppo svuotati, che trasmettono poco il senso della ricerca di Dio e sono così poco attrattivi. Il cristianesimo che Bergoglio propone non è svuotato della dimensione interiore o solo preoccupato di alcuni valori o di talune opere da realizzare. L’espansione dell’ego in una vita autocentrata smorza la dimensione anteriore. L’invito del cardinale è questo: “All’uomo dico di non conoscere Dio per sentito dire. Il Dio vivo è quello che vedrà con i propri occhi all’interno del proprio cuore”. Non si tratta di vie particolari per un’aristocrazia spirituale. Troppo è stata diffusa la convinzione che la spiritualità sia per specialisti. La spiritualità elevata si connette alla pietà del semplice popolo di Dio. Bergoglio parla di una fede vissuta dai semplici. Papa Bergoglio insiste su una “dimensione apofatica”, che parla di Dio dicendo più quello che non è, piuttosto che affermando con sicurezza quello che è. Bisogna tornare a un cristianesimo evangelico: riprendere il filo delle proprie radici cristiane e andare spiritualmente più in profondità. Bergoglio, uomo di preghiera, spiega come pregare sia uscire da sé, compiere un esodo dal mondo dell’ego, anche se si prega per sé. La preghiera del cristiano è segnata dalla vita e dai suoi dolori. La preghiera non è avulsa dagli echi della propria e dell’altrui esistenza umana, non è priva di domande e di bisogni. D’altra parte chi si mette al servizio dei poveri e si avvicina alla carne sofferente, si prepara alla preghiera. Il cristianesimo evangelico di Bergoglio ha una dimensione spirituale profonda e semplice, ma anche una dimensione di amicizia con gli uomini, specie con i più poveri. Il papa sostiene che bisogna parlare alla gente anche attraverso le chiavi della “cultura materna”. Bergoglio è diffidente nei confronti del miracolismo, del profetismo e del culto del prodigioso. Il papa è convinto che la preghiera non sia una terapia per la tranquillità, ma una lotta nella compassione e nella fede. La preghiera può cambiare il mondo, perché sposta le montagne. Anche un incredulo può negare con forza. La preghiera è anche un atto di responsabilità da parte dei cristiani. “Fatica e pace vanno insieme nel cuore di chi prega” conclude il cardinale. La rivolta dello spirito Nonostante il generale consenso verso il papa, qualche dubbio si affaccia sulla concretezza del suo programma. Egli vuole essere prima di tutto pastore e il suo primo ministero è la parola. La sua parola identifica gli “idoli” del mondo contemporaneo e della stessa Chiesa con un taglio profetico. Vuole guidare a un incontro con Dio e a un cammino di progresso spirituale e umano. Più il papa parla in questo modo, più la gente si avvicina. Niente si impone in lui o appare precettistico. Anche all’interno della Chiesa, il suo è un modello di “pastoralità” che può essere recepito o rifiutato dai vescovi e da tutti gli altri responsabili. Ci si chiede oggi, però, se la Chiesa, oltre agli appelli, non debba condurre una politica “concreta”. La grande sfida di Francesco è però palare al cuore degli uomini e delle donne, perché la Parola di Dio tocchi e cambi la loro vita. Solo uomini e donne rinnovati nel cuore potranno inaugurare una stagione diversa della storia. Il mondo vive anche in una condizione tragica. Francesco non è il papa semplice di un mondo liquido, in cui è possibile fare poco e bisogna limitarsi allo spirituale. Egli vuole cambiare il mondo, specialmente perché c’è troppa gente che sta male e il male è troppo forte. Bisogna parlare di Dio agli uomini, perché dal loro vissuto e dal pensiero rinasca o si rafforzi un umanesimo “umano”, non esclusivista, non chiuso all’esperienza religiosa. Dio è il vero medico della condizione umana. Bergoglio indica una via alternativa all’egocentrismo. Mostra la via della felicità del dare agli altri, di chi apre il cuore. La conversione a Dio ingenera una rivolta dello Spirito, un percorso di umanesimo che, anche se nascosto, ha un significativo valore per l’umanità proprio per l’amore che semina. È un percorso creatore di umanità nuova, perché consapevole che non tutto si riduce alla tragedia dell’uno o alla commedia dell’altro. La gente riprende a camminare con Dio.