Scarica Riassunto BALENA vol.2 - Istituzioni di diritto processuale civile e più Dispense in PDF di Diritto Processuale Civile solo su Docsity! CAPITOLO 1 MEDIAZIONE E NEGOZIAZIONE ASSISTITA La mediazione e la negoziazione assistita dovrebbero costituire degli strumenti deflattivi del contenzioso e spesso rappresentano un passaggio obbligatorio nell’avvio di tale processo. L’idea di deflazionare il numero delle cause non è del tutto nuova nel nostro ordinamento, considerando che in passato sono stati sperimentati vari tentativi di conciliazione da attuare prima della instaurazione del giudizio. Sebbene con l’art. 60 della L. n.69/2009, il legislatore non avessse fatto alcun cenno ad una nuova ipotesi di giurisdizione «condizionata», il d.lgs. n.28/2010, ha poi previsto un ricorso facoltativo alla mediazione per qualunque controversia civile e commerciale vertente su diritti disponibili, ma ne rese pure obbligatorio il previo esperimento in vasti settori del contenzioso civile. Per questi motivi, la Corte Costituzionale ha ritenuto illegittime -per eccesso di delega- le disposizioni relative alla mediazione obbligatoria; il d.lgs. n.69/2013 le ha reintrodotte con qualche modifica. L’avvocato dell’attore, al momento del conferimento dell’incarico è tenuto a informare il proprio assistito per iscritto e in modo chiaro, pena annullabilità del contratto di patrocinio, della possibilità di ricorrere a tale istituto e dei vantaggi fiscali che da questo potrebbero derivare. IL PROCEDIMENTO DI MEDIAZIONE: L’art. 1 del d.lgs. n.28/2010 definisce la mediazione come l’attività denominata svolta da un terzo imparziale e finalizzata ad assistere due o più soggetti nella ricerca di un accordo amichevole per la composizione di una controversia, anche con formulazione di una proposta per la risoluzione della stessa. La parte che intende accedere alla mediazione deve depositare la relativa istanza presso uno degli organismi abilitati, iscritti in un apposito albo istituito presso il Ministero della Giustizia, nel luogo del giudice territorialmente competente per la controversia, indicando: • L’organismo adito; • Le parti; • L’oggetto; • Le ragioni della pretesa. Se vi dovessero essere più domande che riguardano la stessa controversia, prevale quella anteriore. Se invece la mediazione dovesse essere obbligatoria allora è necessaria la presenza di un avvocato. Una volta presentata la domanda, il responsabile dell’organismo deve procedere con la scelta di un mediatore e fissa un primo incontro tra le parti entro un termine di 30 giorni dal deposito della domanda. La domanda e la data del primo incontro sono comunicate all’altra parte interessata con ogni mezzo idoneo ad assicurarne la ricezione, anche a cura della parte istante. Una volta comunicata, la domanda, sul piano sostanziale, produce gli stessi effetti della domanda giudiziale e se si tratta di un’azione soggetta ad un termine di decadenza, impedisce la decadenza per una sola volta, questo significa che nel caso in cui la mediazione dovesse fallire, il termine entro cui deve essere proposta domanda giudiziale prende a decorrere ex novo dal deposito presso la segreteria dell’organismo di mediazione del verbale con cui il mediatore da atto del raggiungimento di un accordo amichevole oppure della mancata riuscita della conciliazione. Per quanto concerne il procedimento, vi sono poche regole: • deve esservi un procedimento che si svolge senza formalità presso la sede dell’organismo di mediazione ed ha una durata non superiore a 3 mesi; • le parti devono partecipare agli incontri con la presenza di un avvocato; • al primo incontro il mediatore deve invitare le parti e i loro rispettivi avvocati ad esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione. Nel caso in cui la controversia dovesse essere di particolare complessità a causa della sua tecnicità, il mediatore designato può chiedere di essere affiancato da mediatori ausiliari oppure avvalersi di esperti che sono iscritti negli albi dei consulenti tecnici presso i tribunali. Per incentivare la presenza dei litiganti nel relativo processo, è previsto che se una delle parti non partecipa senza giustificato motivo al procedimento, questo comportamento consente al giudice dell’eventuale successivo giudizio di desumere argomenti di prova a suo danno ex art.116, co.2 c.p.c. Allo stesso modo se si tratta di mediazione obbligatoria. Per evitare che le parti possano sentirsi condizionate dal rischio di offrire all’avversario mezzi di prova utilizzabili, in caso di fallimento della mediazione, nel processo giurisdizionale, per un verso è imposto un dovere di riservatezza a chiunque presta la propria opera o il proprio servizio nell’organismo o nell’ambito del procedimento di mediazione, e per altro verso è sancita l’inutilizzabilità, nell’eventuale giudizio successivo, di tutte le dichiarazioni rese o informazioni acquisite nel corso del procedimento di mediazione. Se si tratta invece di mediazione obbligatoria e la parte si costituisce nel successivo giudizio, dimostrando così che la mancata presenza al procedimento di mediazione non era dipesa dalla mancanza di contestazioni riguardo la fondatezza della domanda, il giudice condanna al versamento di una somma di importo pari al contributo unificato dovuto per il giudizio, in favore del bilancio dello Stato. Per quanto riguarda le spese, la questione è regolata dall’art.16 d.m. n. 180/2010 da cui si desume che l’obbligo grava solidamente sulle parti che hanno prestato adesione al procedimento. LA CONCLUSIONE DEL PROCEDIMENTO E L’EVENTUALE FORMULAZIONE DI UNA PROPOSTA CONCILIATIVA Qualora le parti dovessero raggiungere un accordo amichevole, il mediatore redige un processo verbale sottoscritto dalle parti e dal mediatore che certifica altresì la autografia delle sottoscrizioni delle parti oppure la loro impossibilità di sottoscrivere. Se nell’accordo è però contenuto un contratto o un atto soggetto a trascrizione, a norma dell’art. 2643 c.c., quest’ultima è subordinata alla circostanza che le sottoscrizioni del verbale siano autenticate da un pubblico ufficiale autorizzato. Se però l’accordo non viene raggiunto, il mediatore può formulare una sua proposta di conciliazione, anzi è tenuto a farlo qualora le parti, in qualsiasi momento del procedimento, glielo richiedano concordemente. Questa proposta però non può contenere alcun riferimento alle dichiarazioni rese o alle informazioni acquisite nel corso del procedimento e assume un ruolo non secondario poiché dovrebbe mirare al buon esito della mediazione, anche perché la sua mancata accettazione può determinare delle conseguenze negative riguardo le spese processuali anche in danno alla parte che sia risultata vittoriosa nel successivo giudizio. Comunicata la proposta per iscritto alle parti queste hanno 7 giorni per far pervenire al mediatore l’accettazione o il rifiuto della stessa. Anche questa comunicazione deve essere fatta per iscritto e la mancata risposta si intende come rifiuto. La conclusione del processo di mediazione dovrebbe formalizzarsi con la redazione di un processo verbale nel quale si consacrerà l’eventuale accordo laddove tutte le parti abbiano aderito alla proposta del mediatore, oppure si darà atto della mancata riuscita della conciliazione quando la proposta non sia accettata da una o più parti e anche quando il mediatore non abbia ritenuto opportuno di formularne una. Nel caso di fallimento della mediazione, il mediatore deve indicare nel verbale l’eventuale proposta e deve dare anche atto della mancata presenza di una delle parti al procedimento. Sempre nel caso in cui le parti siano arrivate ad avere un accordo amichevole, si deve ricordare che gli effetti di questo accordo sono diversi a seconda che le parti siano state assistite o meno da un avvocato. In caso affermativo, gli avvocati devono attestare e certificare la conformità dell’accordo alle norme imperative e dell’ordine pubblico e il verbale costituisce un titolo esecutivo. Inoltre, l’accordo raggiunto • l’accordo che compone la controversia che deve essere ugualmente sottoscritto dalle parti e dagli avvocati che le assistono e costituisce titolo per l’avvio del processo esecutivo e anche per l’iscrizione di ipoteca giudiziale. Se l’accordo contiene un contratto o un atto soggetto a trascrizione, questa esige che le sottoscrizioni siano autenticate da un notaio o da un pubblico ufficiale. Non è detto che la procedura di negoziazione assistita debba comprendere formalmente tutti i tre passaggi indicati. L’art. 9 del d.l. impone alle parti e ai difensori un dovere di riservatezza ed esclude che le dichiarazioni rese e le informazioni acquisite nel corso di tale procedura possano essere utilizzate nel giudizio avente in tutto o in parte il medesimo oggetto. LA NEGOZIAZIONE OBBLIGATORIA: L’art. 3 del d.l. n. 132/2014 ha previsto che l’esperimento del procedimento di negoziazione assistita sia condizione di procedibilità della domanda giudiziale in materia di risarcimento del danno da circolazione di veicoli, al di fuori delle ipotesi di mediazione obbligatoria per tutte le domande di pagamento a qualsiasi titolo di somme non superiori a 50.000 €. Ne sono esentati: a) i giudizi in cui la parte può stare in giudizio personalmente, b) i procedimenti per ingiunzione e il relativo giudizio di opposizione, c) i procedimenti di consulenza tecnica preventiva finalizzati alla composizione della controversia, d) I procedimenti di opposizione o incidentali di cognizione relativi all’esecuzione forzata, e) I procedimenti in camera di consiglio indipendentemente dal relativo oggetto, f) L’azione civile esercitata nel processo penale, g) Le controversie concernenti obbligazioni contrattuali derivanti da contratti conclusi tra professionisti e consumatori. Come per la mediazione la concessione dei provvedimenti urgenti e cautelari e la trascrizione della domanda giudiziale sono svincolate dall’esperimento del procedimento di negoziazione assistita. Nell’ipotesi in cui la negoziazione assistita costituisce condizione di procedibilità della domanda, l’unica formalità richiesta alla parte che intende darvi corso consiste nell’invitare l’altra parte alla stipula di una convenzione di negoziazione assistita. Dopodiché la domanda diviene procedibilità se l’invito non è accettato oppure rifiutato entro i 30 giorni successivi alla sua ricezione, nonché quando è decorso il termine massimo concordato dalle parti per l'espletamento della procedura. Quanto alle conseguenze del mancato esperimento della negoziazione assistita, la disciplina è analoga a quella della mediazione già esaminata. L’improcedibilità può essere eccepita dal convenuto o rilevata dal giudice d’ufficio non oltre la prima udienza, ci sono due ipotesi distinte: 1. se la procedura di negoziazione assistita non è stata neppure avviata, il giudice assegna alle parti il termine di 15 giorni per la comunicazione del relativo invito e rinvia la causa a un’udienza successiva alla scadenza del termine massimo entro cui la procedura deve concludersi; 2. se invece la procedura è già iniziata, ma non si è conclusa il giudice si limita a fissare una nuova udienza successiva alla scadenza del predetto termine massimo CAPITOLO 2 L’ISTAURAZIONE DEL PROCESSO Il Libro II del codice, “Del processo di cognizione”, si apre con la disciplina del procedimento davanti al tribunale, artt. da 163 a 310. Il procedimento dinanzi al tribunale costituisce il modello di processo di cognizione, quello cui solitamente si allude quando si discorre di processo ordinario. Dopo la soppressione delle preture, il tribunale è rimasto il solo giudice c.d. togato competente in prima istanza. Questa disciplina può servire ad integrare la normativa dei vari altri processi a cognizione piena, detti speciali proprio per contrapporsi a quello ora esaminato: primo fra tutti quello del lavoro regolato dagli artt. 413 e ss. In questo ed in altre ipotesi la disciplina ordinaria serve a colmare le poche o molte lacune della disciplina speciale, anche se non di rado può suscitare dubbi circa la compatibilità di alcune norme ordinarie con le peculiarità del procedimento speciale. SEZIONE I: L’ATTO INTRODUTTIVO LA DOMANDA GIUDIZIALE E I SUOI EFFETTI PROCESSUALI E SOSTANZIALI: La domanda giudiziale è idonea a produrre importanti effetti sia sul piano processuale che su quello sostanziale. A. Gli effetti processuali ruotano intorno alla nozione di litispendenza, ricollegandosi appunto alle molteplici disposizioni di legge in cui si presuppone che una causa sia divenuta pendente. La proposizione della domanda, ad es., individua: a) il momento a partire dal quale nessun altro giudice, adito successivamente, potrà conoscere e decidere la medesima causa (art. 39); b) i mutamenti della legge o dello stato di fatto, incidenti sulla giurisdizione o sulla competenza del giudice adito, non potranno sottrarre la causa al giudice stesso (perpetuatio iurisdictionis); c) il trasferimento del diritto controverso non farà venir meno la legittimazione, ad agire o a contraddire, del suo originario titolare; d) si impediscono eventuali decadenze che operino sul terreno strettamente processuale, ad es. ai termini cui sono soggette le domande di impugnazione o la domanda di opposizione a decreto ingiuntivo. B. Gli effetti sostanziali si distinguono tra quelli che la domanda produce “di per sé”, indipendentemente dall'esito del processo, e quelli che invece presuppongono che il soggetto arrivi ad una sentenza. Alla prima categoria appartiene l'effetto interruttivo della prescrizione: per l'art. 2943 c.c. la proposizione della domanda giudiziale, anche se rivolta a giudice incompetente o privo di giurisdizione, vale ad interrompere la prescrizione del diritto azionato; tale effetto è conservativo, mira a paralizzare le conseguenze negative che la durata del processo potrebbe determinare rispetto al diritto che si è fatto valere. Non si tratta di un effetto interruttivo istantaneo, poiché la prescrizione, oltre ad essere interrotta, rimane sospesa fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio; e solo da questo momento prende a decorrere un nuovo periodo di prescrizione. Nella medesima categoria rientrano tra tali effetti anche tutti quelli che la domanda produce accidentalmente, quando cioè costituisce il mezzo di attuazione di un potere che il suo autore avrebbe potuto esercitare anche al di fuori del processo: si pensi ad es. al caso in cui il creditore utilizzi proprio la domanda giudiziale per operare la scelta fra le più obbligazioni alternative. Il secondo gruppo di effetti sostanziali – detti attributivi – è invece condizionato all'accoglimento della domanda, ma in ogni caso gli effetti della domanda retroagiscono al giorno in cui la domanda sia stata proposta, una volta intervenuta la sentenza di accoglimento. Ad es. è dalla domanda che gli interessi scaduti producono a propria volta interessi (art. 1283 c.c.), o che il possessore in buona fede risponde nei confronti del rivendicante dei frutti percepiti o percepibili (art. 1148). La trascrizione nei pubblici registri immobiliari delle domande giudiziali art. 2652 e 2653 c.c. ha, in genere, l'effetto di rendere inopponibili all'attore vittorioso i diritti acquistati da terzi con un atto trascritto o iscritto prima della sentenza ma dopo la trascrizione stessa. È poi possibile distinguere una terza categoria di effetti sostanziali intermedia, per i quali la domanda giudiziale è condizione necessaria e sufficiente, e che sono destinati a caducarsi quando la pendenza del processo, per qualunque motivo, venga meno e non sia possibile arrivare ad una sentenza; ad es. le preclusioni previste dall'art. 1453 c.c. per cui, una volta proposta domanda di risoluzione, per un verso l'attore non può più optare per la domanda di adempimento, e per altro verso il debitore non può più adempiere. I MODELLI DELL’ATTO INTRODUTTIVO: LA CITAZIONE E IL RICORSO: Secondo l'art. 163 co 1°, “la domanda si propone mediante citazione a comparire a udienza fissa”. In realtà la citazione non è l’unico modo in cui possono essere proposte le domande, ma rappresenta semplicemente la forma prescelta dal legislatore per l’instaurazione dell’ordinario processo di cognizione. L’art. 163 può giustificarsi tenendo presente che l’atto introduttivo del processo deve contenere almeno una domanda, ciò vale per qualunque processo, anche per quelli per i quali è previsto il modello del ricorso. La domanda può essere però proposta anche con ricorso, ad esempio nel rito del lavoro. L'atto di citazione si dirige essenzialmente e direttamente nei confronti del convenuto, deve quindi contenere, oltre agli elementi che si concretano nella c.d. edictio actionis, che cioè individuano le domande sottoposte al giudice (soggetti, petitum, causa petendi), quelli necessari per provocare e consentire la partecipazione del convenuto stesso al processo (la c.d. vocatio in ius), compresa l'indicazione dell'udienza in cui dovrà avvenire la prima comparizione delle parti. Il ricorso invece, ha come naturale e immediato destinatario il giudice e mira, col deposito in cancelleria, ad investire della causa l'ufficio giudiziario, sicché esige esclusivamente la determinazione della domanda. La vocatio in ius e l'instaurazione del contraddittorio fra le parti conseguono ad una distinta e successiva attività dello stesso giudice, che fissa con decreto la data dell'udienza di comparizione o l'audizione delle parti, nonché ad un'ulteriore attività dell'attore, che deve poi provvedere alla notificazione dell'atto introduttivo e del decreto di fissazione dell'udienza. Il principio del contraddittorio esclude che l'introduzione della causa con ricorso possa rendere inutile l'instaurazione del contraddittorio, eccezion fatta per i casi in cui la decisione inaudita altera parte sia prevista dal legislatore. LE CONSEGUENZE DELL’ERRORE SULLA FORMA DELL’ATTO INTRODUTTIVO: L’ordinamento conosce due diversi modelli per l’atto introduttivo del processo, ciò pone il problema di stabilire cosa accade qualora l’attore utilizza un modello diverso da quello prescritto dalla legge. Il problema investe l’atto introduttivo ma si estende al rito dell’intero processo, ricollegandosi più delle volte ad un’errata qualificazione della materia della causa: può accadere ad es. che si proponga con citazione una causa compresa tra quelle indicate nell’art. 409, per le quali dovrebbe adoperarsi rito del lavoro e dunque il ricorso. Nei casi in cui l'attore utilizzi un modello diverso da quello prescritto dalla legge, la giurisprudenza si mostra indulgente, ammettendo una certa equipollenza e fungibilità dei due modelli e dei diversi riti, ed escludendo che l'erronea adozione dell'uno in luogo dell'altro sia motivo di nullità o impedisca al processo di pervenire alla decisione di merito. Tale fungibilità trova un limite nel caso in cui l'instaurazione del giudizio fosse assoggettata ad un termine di decadenza, in questo caso la tempestività dell'atto introduttivo deve essere valutata non alla luce del modello erroneamente utilizzato, ma secondo quello che avrebbe dovuto correttamente impiegarsi. Quanto riguarda le modalità della costituzione essa si attua attraverso il deposito in cancelleria del fascicolo di parte contenente l’originale del primo atto processuale della parte stessa, le copie destinate al fascicolo d’ufficio, la procura e documenti eventualmente offerti in comunicazione. Stando alla disciplina del codice, il fascicolo è destinato a ospitare in sezioni separate e tutti gli altri atti compiuti dalla parte o ad essa notificati e tutti i documenti prodotti dalla stessa parte. A conferma dell’avvenuto deposito è previsto che ogni atto o documento sia riportato in un apposito indice del fascicolo, che il cancelliere, dopo aver controllato la regolarità anche fiscale dell’atto o del documento, e tenuto a sottoscrivere in occasione di ogni nuova inserzione o produzione. È previsto che nel corso del procedimento il fascicolo di parte rimanga custodito un’unica cartella col fascicolo d’ufficio. Con l’introduzione del processo telematico questa disciplina è stata in parte superata poiché per ciascuna causa è previsto accanto al tradizionale fascicolo d’ufficio cartaceo un fascicolo virtuale. LA COSTITUZIONE DELL’ATTORE: L'art. 165 disciplina la costituzione dell'attore, che deve avvenire entro i 10 giorni successivi alla notificazione della citazione, 5 se abbia usufruito dell'abbreviazione dei termini di comparizione ex art. 163-bis. Si effettua con il deposito in cancelleria del fascicolo, che dovrà contenere anche l'originale della citazione, comprovante l'avvenuta notificazione. Se la citazione deve essere notificata a più parti, il termine di costituzione decorre dalla prima notifica, ma l'originale della citazione può essere inserito nel fascicolo entro dieci giorni dall'ultima notifica. Quando l'attore si costituisce personalmente deve anche dichiarare la propria residenza o eleggere domicilio nel comune in cui ha sede il giudice adito. LA COSTITUZIONE DEL CONVENUTO: L'art. 166 disciplina la costituzione del convenuto, che deve costituirsi almeno 20 giorni prima dell'udienza di comparizione fissata nell'atto di citazione o, in caso di abbreviazione dei termini, almeno 10 giorni prima dell'udienza fissata. Anche quando la data dell'udienza dovesse essere posteriore a quella indicata dall'attore, il termine di costituzione deve essere calcolato in relazione a questa data; fa eccezione solo l'udienza di prima comparizione differita ex art. 168-bis co 5°, qui il termine si calcola con riferimento alla nuova data effettiva dell'udienza. Questo termine fa scattare importanti preclusioni, una costituzione tardiva impedirebbe al convenuto alcune attività difensive non trascurabili. La costituzione del convenuto si attua mediante deposito del fascicolo di parte che dovrà contenere anche la copia della citazione notificata al convenuto e la comparsa di risposta. IL CONTENUTO DELLA COMPARSA DI RISPOSTA: Nell’analizzare il contenuto della comparsa di risposta è opportuno distinguere gli elementi che, corrispondono ad attività difensive soggette a decadenza, possono essere contenuti solo in tale comparsa, a condizione che sia depositata in cancelleria entro il termine dell’art. 166, da quelli che potrebbero essere aggiunti successivamente. Le attività che in base al comb. disp. degli artt. 167,171 e 269 possono essere compiute dal convenuto solo con la comparsa di risposta sono: a. proposizione di domande riconvenzionali, comprese quelle formulate nei confronti di un altro convenuto, le domande di accertamento incidentale con cui il convenuto chiede che una questione pregiudiziale venga decisa con efficacia di giudicato; b. la proposizione di eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d'ufficio; c. la chiamata di un terzo, a norma dell’art.106; c’è da aggiungere che il convenuto laddove voglia chiamare in causa un terzo, è tenuto a dichiarare questa sua intenzione nella comparsa di risposta e anche, sempre a pena di decadenza, a chiedere al giudice istruttore lo spostamento della prima udienza allo scopo di consentire la citazione del terzo nel rispetto dei termini previsti dall’art.163-bis. Questo mira ad evitare un’udienza che si risolverebbe in un mero rinvio. E ulteriori attività per cui non è prevista alcuna specifica preclusione si ricavano dall’art. 167 co.1° il convenuto nella sua comparsa di risposta dovrebbe proporre, senza però subire preclusioni, tutte le sue difese prendendo posizione sui fatti posti dall'attore a fondamento della domanda, indicare le proprie generalità e il codice fiscale, i mezzi di prova di cui intende valersi e i documenti che offre in comunicazione, formulare le conclusioni. L’ISCRIZIONE DELLA CAUSA A RUOLO, LA DESIGNAZIONE DEL GIUDICE ISTRUTTORE E L’EFFETTIVA DETERMINAZIONE DELL’UDEINZA DI PRIMA COMPARIZIONE: Con l'iscrizione della causa a ruolo l'ufficio giudiziario adito prende formalmente in carico la controversia. Il cancelliere, su richiesta della parte che per prima si costituisce (e tenuta al pagamento del contributo unificato per le spese giudiziarie), deve presentare un'apposita nota di iscrizione della causa nel ruolo generale, contenete l'indicazione delle parti, del procuratore che si costituisce, dell'oggetto della domanda, della data di notifica della citazione e dell'udienza fissata per la prima comparizione. Il ruolo generale è un registro in cui ogni singola causa viene annotata secondo un ordine cronologico, assumendo in questo modo un proprio numero di ruolo generale che servirà a contrassegnarla in modo univoco. Contemporaneamente all’iscrizione a ruolo, il cancelliere deve formare il fascicolo d’ufficio della causa, in cui verranno inseriti la nota d'iscrizione a ruolo, una copia di carta libera dell'atto di citazione e degli altri atti di parte, i verbali di udienza, i provvedimenti del giudice, gli atti di istruzione e la copia del dispositivo delle sentenze. Formato il fascicolo, il cancelliere deve presentarlo al presidente del tribunale affinché questi designi con decreto il giudice istruttore. Questo deve avvenire entro il 2° giorno successivo alla costituzione della parte che ha chiesto l'iscrizione a ruolo. Il cancelliere quindi deve iscrivere la causa sul ruolo del giudice istruttore, cui viene trasmesso il fascicolo. Una volta noto il magistrato incaricato dell'istruzione della causa, si può determinare la data effettiva dell'udienza di prima comparizione. Può accadere però che questo giudice non tenga udienza nel giorno che era stato indicato dall’attore nell’atto di citazione e quindi in questa ipotesi la comparizione si intende rinviata d’ufficio alla udienza di prima comparizione immediatamente successiva tenuta dal medesimo magistrato senza che alle parti venga comunicato alcunché. Oggi sia l’attore che il convenuto possono verificare per via telematica il giudice designato e la data reale dell’udienza di comparizione senza dover accedere alla cancelleria. Questo slittamento della prima udienza non è utile per alcuna delle parti: né per l’attore, poiché il rispetto del termine minimo di comparizione assegnato al convenuto deve essere verificato con riguardo l’udienza che era stata indicata nell’atto di citazione; né per il convenuto il cui termine di costituzione si calcola in relazione all’udienza fissata nell’atto di citazione. LA COSTITUZIONE RITARDATA DELLE PARTI E LA CONTUMACIA: L’art.171 co.2 prevede che se una delle parti si è effettivamente costituita nel termine a lei assegnato, l’altra può costituirsi successivamente fino alla prima udienza. L’importanza di tale disposizione sta nella parte in cui precisa che se il convenuto utilizza tale possibilità, restano per lui ferme le decadenze previste dall’art. 167, quindi questo significa che egli non potrà più proporre domande riconvenzionali o eccezioni in senso stretto, né chiamare in causa terzi. Il convenuto che non debba svolgere alcuna attività difensiva può attendere e costituirsi direttamente all’udienza di prima comparizione senza dover temere conseguenza negative. Si parla di CONTUMACIA con riguardo alla situazione della parte che non si sia costituita in giudizio entro l’udienza di prima comparizione; in tal caso è previsto che il giudice la dichiari all’udienza stessa con ordinanza. Nel processo ordinario la contumacia può riguardare sia l’attore sia in convenuto. Se però è l’attore a non costituirsi, l’art. 290 fa dipendere la prosecuzione del giudizio dalla volontà del convenuto, che potrebbe avere egli stesso interesse alla sentenza di merito: se questi la richiede il giudice dà le disposizioni previste nell’art. 187, il che significa che ha subito inizio la trattazione ai sensi dell’art. 183, in caso contrario deve essere ordinata la cancellazione della causa dal ruolo e il processo si estingue immediatamente. LE NOTIFICAZIONI E LE COMUNICAZIONI NEL CORSO DEL PROCEDIEMENTO: Dal momento della costituzione in giudizio, il difensore-procuratore diviene il naturale destinatario di tutte le notificazioni e comunicazioni in luogo della parte rappresentata. Quando questo rappresenta più parti la notificazione o la comunicazione gli è validamente eseguita con la consegna di una copia soltanto dell’atto. L’avvocato è tenuto ai sensi dell’art. 82 r.d. n. 37/1934 ad eleggere il domicilio in cui ha sede il giudice adito onde evitare che le comunicazioni o le notificazioni possano eseguirsi presso la cancelleria dell’ufficio giudiziario. Se la parte è costituita personalmente, le notificazioni e le comunicazioni ad essa dirette si faranno nella residenza dichiarata o nel domicilio eletto al momento della costituzione. Per quanto riguarda la comunicazione delle comparse delle memorie fra le parti l’ult. co. dell’art. 170 prevede tre diverse modalità: il mero deposito in cancelleria, la notificazione ed infine lo scambio diretto, documentato attraverso la posizione di un visto del destinatario in calce o in margine sull’originale dell’atto. Quanto alla posizione del convenuto in seguito alla rinnovazione, è chiaro che egli, se si costituisce, si troverà in una situazione del tutto analoga a quella prospettata sub B), e pertanto, a seconda dello stato di avanzamento del processo, potrebbe dover patire delle preclusioni (salvo che non ottenga la rimessione in termini ex art. 294) IL REGIME DEI VIZI DELLA EDITIO ACTIONIS: La disciplina delle nullità riguardanti la domanda in senso stretto, editio actionis, invece stabilisce che A. L'eventuale costituzione spontanea del convenuto, indipendentemente dal momento in cui si realizzi, non è mai sufficiente, di per sé, a sanare il vizio della citazione, a tal fine è necessaria infatti un'attività dell'attore. Il giudice è quindi tenuto ad ordinare a questo l'integrazione della domanda, fissando per tale adempimento un termine perentorio e rinviando la causa ad un'altra udienza. Qualora l'attore ottemperi, il processo resta sanato, ma ex nunc, la domanda produce i propri effetti da questo momento e restano ferme le decadenze maturate e salvi i diritti quesiti. Se l'ordine di integrazione non viene eseguito, deve ritenersi che la nullità divenga insanabile e che il giudice sia tenuto, a seconda dei casi, a dichiarare l'estinzione o a definire il processo in rito; a meno che il vizio non riguardi alcuna soltanto delle più domande proposte. B. Quando il convenuto sia rimasto contumace, il giudice, in qualunque momento rilevi la nullità, deve ordinare all'attore di rinnovare la citazione. Se la rinnovazione avviene le conseguenze sono identiche a quelle indicate prima. In caso contrario il processo si estinguerà a norma dell’art. 307 co. 3°. quando il vizio riguarda l’unica domanda o tutte le domande oggetto del giudizio, oppure proseguirà per la sola trattazione delle domande validamente proposte. LA NULLITÀ DELLA DOMANDA RICONVENZIONALE: Muovendo evidentemente dal presupposto che fosse necessario trattare i vizi dell'eventuale domanda del convenuto in modo analogo ai vizi della domanda dell'attore, l'art. 167, 2° co., prevede che la domanda riconvenzionale sia nulla allorché ne sia stato omesso o ne risulti assolutamente incerto «l'oggetto o il titolo», ossia il petitum o la causa petendi. Anche in questo caso è previsto che il giudice debba assegnare al convenuto un termine perentorio per l'integrazione della domanda; che tuttavia opera solo ex nunc, lasciando «ferme le decadenze maturate e salvi i diritti acquisiti anteriormente». Analogamente all'art. 164, 5° co., l'art. 167 tace circa l'ipotesi dell'inosservanza dell'ordine d'integrazione; ma non v'è dubbio che anche qui la conseguenza sarà l'insanabilità del vizio e dunque la definizione della domanda riconvenzionale in mero rito. CAPITOLO 4 LA TRATTAZIONE DELLA CAUSA E LE PRECLUSIONI Le riforme del 1990 e del 2005 sono tornate a puntare su un modello di processo fortemente concentrato il cui nodo dovrebbe essere rappresentato dalla prima udienza. La concentrazione del rito ordinario, rispetto a quella del lavoro, è certamente più attenuata. L’obiettivo del legislatore del 1990 era stato quello razionalizzare ad ogni costo il processo tenendo il più possibile separate le attività dirette alla definitiva fissazione del thema decidendum, e quindi dell’oggetto del contendere individuato dalle contrapposte domande ed eccezioni delle parti, e del thema probandum, cioè dell’insieme dei fatti da provare, da quelle dell’offerta dei mezzi di prova e dell’istruzione probatoria in senso stretto. Questa scansione è stata poi attenuata dalle modifiche introdotte dalla riforma del 2005 le quali hanno previsto una parziale fusione delle attività difensive da cui potrebbe derivare una loro commistione. Nel processo del lavoro tutte le preclusioni sono ancorate agli atti introduttivi, mentre per il rito ordinario queste operano in modo graduale. In questo caso il legislatore ha evitato di riproporre l’incongruo divieto delle udienze di mero rinvio art. 420 ult. co. e l’omessa riproduzione di questo divieto lascia intendere che la concentrazione dei giudizi viene pur sempre perseguita nell’interesse delle parti. Oggi però prevale sia in dottrina che in giurisprudenza l’idea che le disposizioni in materia di preclusioni rispondano ad esigenze di ordine pubblico e debbano trovare applicazione indipendentemente dalla volontà delle parti. Si ritiene ad es. che laddove una delle parti proponga tardivamente una domanda o un’eccezione o una richiesta istruttoria nuova, il giudice sia comunque tenuto a dichiararla inammissibile. LA TENDENZIALE CONCENTRAZIONE DELLA TRATTAZIONE E L’EVENTUALE INTERROGATORIO LIBERO DELLE PARTI: La disciplina della prima udienza di trattazione è interamente contenuta nell'art. 183. Premesso che la trattazione della causa è, per principio, orale, anche se debba redigersene un processo verbale, l'art. 183 dispone che la causa abbia inizio nell'udienza di prima comparizione e si concluda, in principio, in quella stessa udienza. Si ha, eccezionalmente, un differimento dell'inizio della trattazione ad una nuova udienza quando a) il giudice, in seguito a verifiche preliminari, rilevi un vizio relativo alla costituzione delle parti o all'instaurazione del contraddittorio ed ordini le necessarie misure sananti; b) nonché quando debba procedersi a norma dell'art. 185, cioè quando il giudice, di propria iniziativa o su richiesta congiunta delle parti, disponga la comparizione personale di queste, al fine di interrogare liberamente ed eventualmente di tentarne la conciliazione → in questo secondo caso le parti dovrebbero comparire personalmente, salvo farsi rappresentare da un procuratore generale o speciale, munito di procura conferita con atto pubblico o scrittura privata autenticata comprensiva del potere di conciliare o transigere la controversia e sia a conoscenza dei fatti di causa. L’art. 185 inoltre non prevede nessuna sanzione per il caso in cui taluna delle parti ometta di comparire ma prevede la sola ipotesi in cui il procuratore eventualmente designato dimostri di non essere a conoscenza, senza giustificato motivo, dei fatti di causa, stabilendo che il giudice possa valutare tale comportamento ai sensi dell’art.116 co.2 desumendone cioè degli argomenti di prova in danno della parte rappresentata. Sebbene l'art. 183 riferisca le attività relative alla trattazione della causa alla prima udienza, è da ritenere che si tratti di un'indicazione tendenziale, la cui rigidità deve fare i conti con esigenze obiettive del processo, legate al principio del contraddittorio, le quali possono rendere talvolta ineludibile il frazionamento delle predette attività in più udienze, se non addirittura il differimento dell'inizio della trattazione. Il legislatore ha omesso di considerare che il convenuto, allorché non abbia da proporre domande riconvenzionali o eccezioni in senso stretto, né chiamare in causa terzi, può costituirsi direttamente alla prima udienza e l’attore in questo caso può avere un legittimo interesse a chiedere un rinvio dell’udienza al fine di esaminare la comparsa di risposta del convenuto e i documenti da esso prodotti. LE ATTIVITA’ DIRETTE A DEFINIRE L’OGGETTO DEL GIUDIZIO E I MEZZI DI PROVA DA ASSUMERE: Dopo le verifiche preliminari, concernenti la regolare instaurazione del processo e del contraddittorio, nonché dopo l'eventuale esperimento dell'interrogatorio libero e del tentativo infruttuoso di conciliazione, l'art. 183 prevede una serie di attività delle parti, talora sollecitabili dallo stesso giudice, dirette a pervenire ad una compiuta definizione dell'oggetto del giudizio (thema decidendum) e dei fatti sui quali, se del caso, dovranno poi assumersi prove (thema probandum). In dottrina si discute di collaborazione del giudice con le parti nella trattazione della causa, intendendo con questo riferirsi al complesso di poteri di direzione del processo che competono al giudice in questa fase preparatoria. L’art.183-bis introdotto con il d.l. n. 132/2014 consente al giudice, nelle cause in cui il tribunale giudica in composizione monocratica, di optare d’ufficio, all’udienza di trattazione per la prosecuzione del giudizio secondo le norme del rito sommario di cognizione, che rappresenta un modello processuale semplificato rispetto a quello ordinario e pertanto riservato alle cause meno complesse. L’ordinanza non impugnabile che disponga il passaggio al rito sommario potrebbe imprimere al processo una accelerazione poiché deve contestualmente invitare le parti ad indicare nella stessa udienza a pena di decadenza i mezzi di prova e i documenti di cui intendono avvalersi, nonché la relativa prova contraria. L’applicazione del rito sommario potrebbe implicare una decisione immediata della causa quando le parti non abbiano chiesto l’assunzione di prove o il giudice la ritenga superflua. Possibili tappe della trattazione della causa secondo disciplina ordinaria: A) In primo luogo è previsto che il giudice richieda alle parti sulla base dei fatti allegati i chiarimenti necessari. Questa attività dovrebbe servire a fare luce sulle rispettive posizioni difensive e a far emergere i fatti realmente controversi. B) In secondo luogo l’art.185bis attribuisce al giudice il potere-dovere di formulare ove possibile, avendo avuto riguardo della natura del giudizio, al valore della controversia e all’esistenza di questioni di facile soluzione di diritto, una proposta transattiva o conciliativa. La prima ipotesi fa riferimento alla transazione ex art.1965 c.c. lasciando intendere che il giudice può proporre un accordo risolutivo della controversia che rappresenti un ragionevole compromesso tra le posizioni litiganti. La seconda ipotesi potrebbe supporre che il giudice ritenga di poter già intuire l’esito del giudizio e quindi proponga alle parti una soluzione conciliativa che si adegui a questo prevedibile esito, rendendo superflua la decisione della causa ed evitando conseguenze negative sotto il punto di vista della condanna; C) Il giudice deve quindi indicare alle parti le questioni rilevabili d'ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione, al fine di tutelare l'effettività del contraddittorio e di impedire che il giudice stresso pronunci su una di tali questioni senza aver previamente sentito le parti. D) L'attore può proporre nella prima udienza di trattazione le domande e le eccezioni che sono conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto. Per quel che riguarda le domande, tale facoltà deroga al principio secondo cui l'oggetto del giudizio viene determinato dagli atti introduttivi e non può essere ampliato in corso di causa; per quel che riguarda le eccezioni, bisogna intendere le sole eccezioni in senso stretto, ossia non rilevabili d'ufficio, dell'attore (le eccezioni in senso stretto del convenuto decadono alla scadenza del termine di costituzione in cancelleria). Per entrambi i profili si tratta di una disposizione importante poiché senza guardare attentamente alla concentrazione del processo, consente all’attore di adattare e modulare le proprie domande ed eccezioni CAPITOLO 5 LA DISCIPLINA DELL’INTERVENTO DI TERZI In base agli artt. 267 e 268 l'intervento è ammesso finché non vengono precisate le conclusioni e si realizza attraverso la semplice costituzione in giudizio del terzo. L'interveniente deve depositare, col proprio fascicolo, una comparsa di risposta avente lo stesso contenuto previsto dall'art. 167 per la comparsa di risposta del convenuto, con le copie occorrenti per l'altra parte, i documenti offerti in comunicazione e la procura, quando sia conferita con atto separato. Tale deposito può avvenire direttamente in udienza, e quindi se ne darà atto nel relativo verbale, o in cancelleria, nel qual caso il cancelliere è tenuto a darne comunicazione alle altre parti. Secondo l'art. 268 co 2° il terzo, salvo quando intervenga per l'integrazione necessaria del contraddittorio (e sia quindi un litisconsorte necessario pretermesso), non può compiere atti che al momento dell'intervento non sono più consentiti ad alcuna altra parte, deve accettare il processo nello stato in cui si trova, con tutte le preclusioni fino a quel momento già maturate. Tenuto conto che la proposizione di (nuove) domande è possibile solamente nella fase introduttiva del processo o tutt' al più, a talune condizioni, nell'ambito dell'attività di trattazione della causa ex art. 183, la limitazione che precede ha indotto una parte della dottrina e della giurisprudenza a ritenere che l'intervento principale e l'intervento adesivo autonomo, che indubbiamente implicano la proposizione di un'autonoma domanda da parte del terzo siano ammessi esclusivamente entro la prima udienza di trattazione (o addirittura, secondo alcuni, entro il termine di costituzione del convenuto), e che, dopo tale momento, sia possibile soltanto l'intervento (adesivo dipendente, altrimenti detto ad adiuvandum) di colui che si limiti a sostenere le ragioni di una delle parti (art. 105, 2° co.). Alla base di tale orientamento vi è probabilmente anche la preoccupazione di non pregiudicare il terzo, ammettendolo a prender parte ad un giudizio nel quale, poi, potrebbe non essere in grado (in conseguenza delle preclusioni in esso già prodottesi) di far valere adeguatamente le proprie ragioni. La soluzione, tuttavia, non sembra corrispondere allo spirito dell'art. 268, ché, se il legislatore davvero avesse inteso limitare tanto drasticamente (dal punto di vista temporale) l'intervento, non avrebbe mancato di dirlo espressamente, come ha fatto in altre occasioni. È preferibile ritenere, dunque, che la proposizione della domanda, che costituisce l'essenza stessa dell'intervento principale o adesivo autonomo, sia sempre implicitamente consentita al terzo (in deroga al divieto di domande nuove, che vale per le parti) nel momento in cui interviene, e che le limitazioni cui allude il 2° co. dell'art. 268 siano, invece, solo quelle di natura istruttoria. Quanto a queste ultime, poi, v'è da considerare che esse dipendono da una libera determinazione del terzo, il quale, anziché far valere il proprio diritto in un separato giudizio opta per l'intervento in un processo già iniziato e pertanto consapevolmente si assoggetta alle preclusioni derivanti dal relativo stato di avanzamento (oltre che agli effetti della futura sentenza, cui altrimenti resterebbe di regola estraneo); il che, se per un verso non sottrae l'art. 268 a gravi critiche sotto il profilo dell'opportunità, nella misura in cui esso penalizza pesantemente il diritto d'azione e di difesa dell'interveniente, per altro verso può forse consentire di superare i relativi dubbi d'illegittimità costituzionale. Valutazioni ben diverse s'impongono, invece, quanto alla posizione delle parti originarie, le quali potrebbero trovarsi spiazzate dalla domanda (nuova) formulata dal terzo, specialmente quando l'intervento avvenisse in una fase avanzata del processo, e dunque in un momento in cui sarebbero loro precluse nuove eccezioni e nuove richieste istruttorie o nuovi documenti, diretti a contrastare la pretesa dell'interveniente. Per evitare, dunque, che tale disciplina si traduca in un grave attentato al diritto di difesa delle parti originarie, deve ammettersi, qualora l'intervento si realizzi successivamente alla prima udienza di trattazione, ch'esso determini, rispetto alla nuova causa introdotta dal terzo, un'ampia rimessione in termini delle parti stesse, seppure entro i limiti in cui essa è concretamente giustificata dalle nuove domande ed allegazioni dell'interveniente. Se poi le parti, usufruendo di tale facoltà, dovessero in qualche misura mutare le rispettive originarie allegazioni, sarebbe inevitabile consentire allo stesso interveniente, ai sensi dell'art. 153, 2° co. e nei limiti in cui ciò fosse indispensabile per assicurare un effettivo contraddittorio, il superamento delle preclusioni istruttorie già maturate MODALITÀ E TERMINI DELL’INTEREVENTO SU ISTANZA DI PARTE: Quando sussista una comunanza di causa o un'ipotesi di garanzia (art. 106), la chiamata del terzo costituisce un diritto per il convenuto, che può provvedervi mediante un normale atto di citazione, a condizione che: a) ne abbia fatto tempestiva dichiarazione, a pena di decadenza, nella propria comparsa di risposta; b) che richieda contestualmente al giudice istruttore lo spostamento della data della prima udienza, affinché sia possibile citare il terzo nel rispetto dei termini minimi di comparizione contemplati dall'art. 163-bis. Nel caso sia l'attore a volere l'intervento di un terzo, il legislatore esclude che egli possa tardivamente chiamare in causa chi avrebbe potuto citare, unitamente al convenuto, fin dal primo momento. A questo proposito, l'art. 269 co 3° stabilisce che in questo caso la citazione del terzo deve essere preventivamente autorizzata dal giudice, a condizione che: • l’interesse alla chiamata del terzo sia sorto a seguito delle difese svolte dal convenuto nella comparsa di risposta; • l’attore ne faccia richiesta, a pena di decadenza, nella prima udienza di trattazione. Se il giudice accoglie questa richiesta, fissa una nuova udienza, affinché il terzo possa essere citato nel rispetto dei termini di comparizione dell'art. 163-bis, nonché il termine perentorio entro cui l'attore deve provvedere a notificare la relativa citazione. Indipendentemente da chi abbia chiesto l'intervento del terzo, la parte che chiama in causa il terzo deve depositare la relativa citazione nel termine dell'art. 165, cioè entro 10 giorni dall'avvenuta notifica, mentre il terzo deve costituirsi entro il termine di cui all'art. 166, cioè almeno 20 giorni prima dell'udienza. MODALITA’ DELL’INTERVENTO IUSSU IUDICIS: L'intervento ordinato dal giudice ai sensi dell'art. 107 non è soggetto ad alcun termine, può essere disposto in qualunque momento del processo di primo grado. La chiamata si realizza con la notifica di un normale atto di citazione in cui viene fatta menzione del processo già pendente fra le parti ed è indicata, quale udienza di prima comparizione, quella fissata nel provvedimento del giudice. È sufficiente che la citazione avvenga in tempo utile per l'udienza cui la causa è stata rinviata, tenuto conto dei termini minimi di comparizione da concedere al terzo chiamato. Se a tale udienza nessuna delle parti ha ancora provveduto, il giudice dispone con ordinanza non impugnabile la cancellazione della causa dal ruolo; questo consente alle parti, entro 3 mesi da tale provvedimento, di ridare impulso alla causa, tramite riassunzione, adempiendo all'ordine del giudice. LA COSTITUZIONE DEL TERZO CHIAMATO E I POTERI DELLE PARTI ORIGINARIE: La costituzione del terzo in giudizio è disciplinata in maniera analoga a quella del convenuto, deve quindi rispettare il termine indicato nell'art. 166 (20 giorni prima dell'udienza fissata per la sua comparizione) e proporre, con la comparsa di risposta, le proprie domande riconvenzionali ed eccezioni in senso stretto. Circa la sua eventuale richiesta di chiamare a propria volta in causa un altro soggetto, l'art. 271 esige che il terzo dichiari tale intenzione, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta e si faccia poi autorizzare dal giudice alla prima udienza. Se l'intervento, essendo stato disposto iussu iudicis, si realizza a processo già da tempo iniziato si applicherà un'ampia rimessione in termini al terzo ma anche alle parti originarie, le quali avranno diritto di essere ammesse al compimento di ogni ulteriore attività, assertiva o probatoria, resa necessaria dalle deduzioni dell'interveniente. CAPITOLO 6 IL GIUDICE ISTRUTTORE Negli intenti del legislatore del 1940 la figura del giudice istruttore doveva rappresentare il cardine del processo e probabilmente doveva costituire una soluzione di compromesso rispetto all’idea di assicurare la piena coincidenza tra i giudici che istruivano la causa, assumendo le prove e quelli che l’avrebbero poi decisa. La logica del codice era quella di affidare ad un organo monocratico, che rimaneva lo stesso per tutte la durata del processo, per far intervenire poi il collegio (del quale avesse fatto parte il medesimo giudice istruttore) solo quando la causa fosse ormai pronta per essere decisa. Al posto di rendere il processo più agile, ne provocò la divisione in due fasi nettamente distinte, quella istruttoria e quella decisoria, introducendo un diaframma tra le parti ed il giudice collegiale, unico titolare del potere di pronunciare sentenza, e attribuendo all'istruttore ampi poteri. La riforma del 1950 aveva puntato ad attenuare la signoria del giudice istruttore nella fase preparatoria del processo accordando alle parti il potere di provocare l’intervento del collegio già nel corso dell’istruttoria per un controllo anticipato sui provvedimenti che stabiliscono quali prove ammettere e su quali fatti. La riforma del '90 risolve trasformando il tribunale da giudice collegiale ad organo monocratico, con la conseguenza che il giudice istruttore, escluse le ipotesi all'art. 50-bis, cumula in sé anche i pieni poteri decisori. IL POTERE DI DIREZIONE DEL PROCESSO E L’IMMUTABILITA’ DEL GIUDICE ISTRUTTORE: L'art. 175 attribuisce al giudice istruttore tutti i poteri intesi al più sollecito e leale svolgimento del procedimento. È a lui che spetta fissare di volta in volta l'udienza successiva, con un intervallo, tra un'udienza e l'altra, che per l'art. 81 disp. Att., non dovrebbe superare i 15 giorni, nonché gli eventuali termini ordinatori entro i quali le parti devono compiere determinati atti processuali. L'art. 187 ult.co. gli riconosce il potere di dare ogni altra disposizione relativa al processo. L'art. 174 enuncia il principio per cui egli, designato immediatamente dopo l'iscrizione a ruolo, resta investito di tutta l'istruzione della causa e della relazione al collegio; si potrebbe procedere alla sua sostituzione soltanto in caso di assoluto impedimento o di gravi esigenze di servizio, con un provvedimento scritto dal presidente. LE ORDINANZE DEL GIUDICE ISTRUTTORE: Tutti i provvedimenti del giudice istruttore rivestono a forma dell'ordinanza e, se pronunciati direttamente in udienza, si ritengono conosciuti sia dalle parti presenti sia da quelle che avrebbero dovuto comparirvi; se pronunciati fuori dall'udienza, il cancelliere ne dà comunicazione (di regola solo alle parti costituite) entro i 3 giorni successivi. Al giudice istruttore compete indeclinabilmente, ai sensi art. 183, l'ammissione e l'assunzione dei mezzi di prova, non solo quelli che le parti abbiano richiesto, ma anche quelli che lui stesso può disporre. Dovendo verificare se un determinato mezzo di prova è rilevante, si trova inevitabilmente ad affrontare in anticipo questioni di merito controverse, che saranno poi decise dal collegio. Si può quindi comprendere l'art. 177 secondo cui le ordinanze, comunque motivate, non possono mai pregiudicare la decisione della causa, e dunque non possono in nessun caso costituire giudicato sulle questioni, di rito o di merito, in esse affrontate; né tantomeno possono vincolare il collegio, davanti al quale le stesse questioni potranno essere, di regola, liberamente riproposte allorché la causa gli verrà rimessa. Le ordinanze del giudice istruttore o del collegio sono liberamente revocabili e modificabili, tanto dal giudice che le ha pronunciate, quanto dal collegio, allorché siano state rese dal giudice istruttore. Fanno eccezione, non essendo né revocabili né modificabili: a) le ordinanze pronunciate sull'accordo delle parti, in materia della quale esse possono disporre, in questo caso anche la revoca o modifica presuppone vi sia accordo di tutte le parti; b) le ordinanze che la legge dichiari espressamente non impugnabili; riferirsi cioè all'insieme di strumenti e procedimenti attraverso i quali il giudice deve formare il proprio convincimento circa l'esistenza o inesistenza di determinati fatti che egli debba utilizzare per la decisione. Altre volte il termine prova indica il risultato dell'iter logico-intellettivo attraverso cui il giudice è pervenuto ad accertare i fatti, a convincersi del loro verificarsi. Le fonti materiali di prova individuano il punto di partenza dell’attività conoscitiva del giudice che può essere costituito: 1. da una cosa il cui esame possono direttamente percepirsi i fatti oggetto dell’accertamento; 2. da un documento, e quindi da una cosa che ha la peculiarità d’essere rappresentativa di determinati fatti; 3. da una dichiarazione di scienza proveniente da una delle parti o da un terzo. Fonte di prova può essere anche un fatto dalla cui esistenza il giudice possa dedurre l’esistenza o l’inesistenza di un diverso fatto, che costituisca l’oggetto ultimo della prova. Tra le varie classificazioni concernenti le prove esaminiamo quelle più diffuse e significative: A. Prova diretta e prova indiretta. Secondo l’accezione più diffusa tale distinzione attiene alle modalità di conoscenza del fatto da parte del giudice, in relazione alla fonte materiale della prova: in questo senso l’unica prova realmente diretta sarebbe l’ispezione, che consiste nell’esame obiettivo di una cosa da cui il giudice può immediatamente percepire i fatti da provare. In tutti gli altri casi la conoscenza è solo mediata giacché si attua attraverso l’esame di un documento o di una dichiarazione di scienza rappresentativi del factum probandum. Stando ad una diversa accezione la distinzione riguarderebbe l’oggetto della prova: nel senso che sarebbe diretta la prova destinata ad accertare un fatto principale, indiretta quella che attiene a un fatto secondario dalla cui conoscenza il giudice possa poi risalire all’esistenza o inesistenza di un fatto principale. B. Prova diretta e prova contraria. Tale distinzione si riferisce semplicemente alla circostanza che la prova verta sulla esistenza o inesistenza di un determinato fatto. C. Prova precostituita e prova costituenda. La prova precostituita è quella che preesiste al processo, o che comunque si forma al di fuori di esso, e che pertanto si identifica con la prova documentale. La prova costituenda si forma direttamente nel processo grazie ad un’attività istruttoria che può essere a seconda dei casi più o meno complessa e dispendiosa. Tale differenza spiega perché mentre la prova precostituita viene acquisita al processo attraverso la mera sua produzione non c’è alcun sindacato preventivo da parte del giudice, la prova costituenda è subordinata a un provvedimento esplicito di ammissione che a sua volta presuppone la verifica dell’ammissibilità e della rilevanza della prova stessa. Il giudizio di ammissibilità si traduce in un controllo di legalità, mirante ad accertare che si tratti di un mezzo di prova consentito dall’ordinamento, non soltanto in via generale ma anche con specifico riguardo alle peculiarità del fatto da provare. Cosi ad es. La prova testimoniale non può avere ad oggetto l’esistenza di un contratto per cui sia richiesta la forma scritta (art. 2725 c.c.) Mentre il giuramento non può essere deferito su un fatto illecito (art. 2739 c.c.). Il giudizio di rilevanza invece attiene alla circostanza che la prova abbia effettivamente ad oggetto un fatto da utilizzare per la decisione della causa, esso può risultare a seconda dei casi particolarmente complesso e delicato. In tale verifica il giudice è costretto ad anticipare la decisione finale per individuare i fatti principali che gli serviranno nel decidere, non può fare a meno di determinare la fattispecie legale di riferimento, risolvendo ogni connessa questione giuridica. Ad es. spesso può accadere che sia controversa la qualificazione del rapporto oggetto del giudizio e allora dall’opzione per l’una o l’altra soluzione dipenderà la rilevanza di fatti diversi. Questa anticipazione è sempre consentita al giudice istruttore e perfino quando la definizione della controversia non spetti a lui bensì al tribunale in composizione collegiale, purché si tratti di un’anticipazione del tutto provvisoria tenuto conto che il relativo provvedimento riveste la forma dell’ordinanza e pertanto non può mai pregiudicare la decisione della causa rimanendo oltretutto revocabile e modificabile dal giudice istruttore e dal collegio. Questo sistema ha favorito l’inconveniente di una certa deresponsabilizzazione del giudice in questo delicatissimo giudizio, che richiederebbe un approfondito studio della controversia, con la conseguenza che non di rado nella prassi si assiste all’ammissione di prove su fatti che poi alla luce della decisione risulteranno del tutto irrilevanti. L’EFFICACIA DELLE PROVE E GLI ARGOMENTI DI PROVA Un'altra distinzione possibile è quella che si fonda sul diverso peso che la prova può avere nella formazione del convincimento del giudice. La dottrina distingue tra prova libera, prova legale e argomento di prova. La prova libera è quella corrispondente al principio generale in base al quale, salvo che la legge disponga diversamente, il giudice è tenuto a valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento (art. 116), facendo uso di canoni di logica e buon senso, oggettivamente verificabili tramite la motivazione. Es. alla prova testimoniale, rispetto alla quale è essenziale che il giudice adoperi le proprie capacità di discernimento per valutare l’attendibilità delle dichiarazioni rese dal teste. Questo è il cd. principio del libero convincimento del giudice, al quale la legge pone limiti più o meno incisivi, limitazioni che non di rado sono soggette a critiche da parte di chi vorrebbe che il principio del libero convincimento non subisse deroghe o condizionamenti. La prova legale è quella che vincola il giudice è vincolato a considerare per vero il risultato della prova stessa, ossia i fatti che ne sono stati oggetto, senza alcun margine per l'esercizio del suo prudente apprezzamento, poiché l’attendibilità del mezzo di prova è stata preventivamente valutata e appurata dal legislatore. Ad es. le prove documentali (atto pubblico, scrittura privata), la confessione, il giuramento. Gli argomenti di prova sono quelli che il giudice può desumere: a. dalle risposte che le parti gli danno in sede di interrogatorio libero; b. dal loro ingiustificato rifiuto a consentire l'ispezione o l'esibizione; c. dalle dichiarazioni rese dalle parti dinanzi al consulente tecnico, nonché da quelle proveniente da terzi, che non costituiscano una vera e propria testimonianza; d. dalle prove raccolte nel processo estinto; e. in generale dal contegno delle parti stesse nel processo. Secondo l'opinione tradizionale, gli argomenti di prova si distinguono nettamente dalle prove vere e proprie perché non sono mai sufficienti, pur quando siano più di uno, a fondare il convincimento del giudice, ma costituiscono elementi sussidiari cui il giudice stesso può attingere per valutare e comparare tra loro le prove soggette al suo prudente apprezzamento. Tale opinione muove dall’esigenza di porre dei limiti alla discrezionalità del giudice e di rendere più possibile verificabile l’iter logico di accertamento dei fatti. La giurisprudenza sembra disattendere questa distinzione, soprattutto con riguardo all’ipotesi di maggiore rilievo pratico ovvero in relazione alle risposte rese dalle parti in sede di interrogatorio libero. Una soluzione di compromesso è stata prospettata da alcuni autori secondo cui l’elemento distintivo tra prova e argomento di prova riguarderebbe la valutazione di sufficienza della prova cui fa riferimento l’art.209, il quale prevede che il giudice pur avendo ammesso una pluralità di mezzi di prova possa porre anticipatamente fine alla loro assunzione, allorché ravvisi superflua l’assunzione delle altre. Secondo questa dottrina gli argomenti di prova possono anche essere di per sé sufficienti per l’accertamento dei fatti ma solo a condizione che le parti non abbiano offerto altre prove con esse collidenti. In questo caso il giudice non potrebbe mai reputare decisivi gli argomenti di prova già disponibili, negando l’ingresso alle prove richieste. A questa tesi si è ribattuto che essa si fonda su un’esegesi tutt’altro che pacifica che dà per scontato che il giudice in base a tale norma sia libero di porre fine all’assunzione delle prove a sua discrezione; mentre secondo una diversa interpretazione l’assunzione di ulteriori prove può considerarsi superflua nel solo caso in cui esse mirano a un risultato pienamente conforme al convincimento che il giudice si è già formato. LA REGOLA DI GIUDIZIO FONDATA SULL’ONERE DELLA PROVA L'art. 2697 c.c. al co 1° “chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento” e, al co 2°, “chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti sui cui l'eccezione si fonda”. Tale principio può essere ricondotto a due esigenze diverse e connesse. In primo luogo non è pensabile che il giudice si sottragga al dovere di giudicare adducendo l'incertezza dei fatti controversi (c.d. divieto di non liquet), è necessario quindi che l'ordinamento gli fornisca un criterio oggettivo in base al quale egli possa decidere comunque, pur quando ritenga di non aver elementi sufficienti per accertare l'esistenza o l'inesistenza di taluno dei fatti a tal fine rilevanti, e che, nel contempo, permetta di verificare ex post la correttezza dell'iter logico da lui seguito nella ricostruzione dei fatti posta a base della decisione. In secondo luogo si ha l'esigenza di ripartire, in modo equo e ragionevole, tra le parti l'onere di dimostrare l'esistenza dei fatti controversi nonché le conseguenze negative derivanti dal mancato raggiungimento della prova. Per il primo profilo il principio dell’onere della prova opera come regola di giudizio in qualunque processo. Per il secondo aspetto invece questo può risultare attenuato a seconda dei poteri istruttori officiosi che il legislatore eventualmente conferisca al giudice, poteri che non mancano in nessun processo ma che quando il processo verta su diritti sottratti in tutto o in parte alla disponibilità dei litiganti, possono essere significativi e incisivi. In queste ipotesi il giudice può assumere un ruolo attivo nella ricerca della verità materiale che può interferire con l’astratta distribuzione degli oneri probatori risultante ex art.2697. L’applicazione dell’art.2697 c.c. presuppone e legittima la distinzione dei fatti principali in costitutivi, impeditivi, modificativi ed estintivi e quindi vi è l’onere di provare per il convenuto l’esistenza di uno di questi fatti che però sorge DOPO che l’attore abbia assolto l’onere di provare l’esistenza dei fatti necessario perché il diritto da lui vantato venga in vita. Possono esservi dei problemi riguardo l’applicazione del principio dell’onere della prova nelle azioni di mero accertamento negativo in cui la situazione è rovesciata, dove l’attore deduce l’inesistenza di taluno dei fatti costitutivi del diritto vantato dal convenuto oppure l’esistenza di un fatto estintivo, impeditivo o modificativo del diritto stesso. L’opinione tradizionale ritiene che la ripartizione degli oneri probatori debba aver riguardo alla posizione processuale delle parti e che sia comunque l’attore a dover fornire la prova dei fatti posti a fondamento della domanda. Di recente si è però osservato che questa soluzione finisce col far dipendere l’operare dell’art.2697 dalla parte che per prima ricorre al giudice, mentre ci si dovrebbe trovare in una situazione in cui la distribuzione degli oneri probatori dipenda dalla posizione sostanziale delle parti stesse rispetto al diritto controverso. I PROBLEMI LEGATI ALLA CLASSIFICAZIONE DEI FATTI PRINCIPALI La classificazione dei fatti principali da un lato da luogo a poche incertezze riguardo la contrapposizione tra fatti costitutivi e dall’altro fatti estintivi o modificativi dall’altro, può risultare problematico in relazione alla individuazione dei fatti impeditivi che operano simultaneamente ai fatti costitutivi, sebbene in direzione opposta rispetto a questi ultimi, quindi paralizzandone l’efficacia. Questo significa che ogniqualvolta una determinata fattispecie sostanziale indichi un determinato elemento come rilevante per la nascita del diritto, potrebbe trattarsi sia di un fatto costitutivo sia un fatto impeditivo, a seconda che lo si prospetti in una certa forma oppure nella posizione inversa. Esempio -> art 2103 c.c.: qualora il lavoratore sia stato assegnato a mansioni superiori, tale assegnazione, trascorso un certo periodo, diviene definitiva, ove la stessa non abbia avuto luogo per la sostituzione di un lavoratore con diritto alla conservazione del posto. Quindi, ove il lavoratore temporaneamente adibito alle mansioni superiori agisca per rivendicare la definitività della assegnazione, è lui che deve provare, quale fatto costitutivo, che il lavoratore sostituito non aveva diritto alla conservazione del posto? Oppure è il datore di lavoro che per contrastare la domanda deve fornire la prova del fatto inverso, qualificato come impeditivo, e che quindi il lavoratore sostituito aveva diritto alla conservazione del posto? Spesso è il legislatore sostanziale che interviene in vario modo sul piano degli oneri probatori, sia per chiarire il ruolo costitutivo o impeditivo di un determinato fatto, sia per derogare al criterio di ripartizione che sarebbe desumibile dai principi. In questa seconda ipotesi, può realizzarsi attraverso la cosiddetta inversione dell’onere della prova, l’intento è quello di agevolare una delle parti o comunque di distribuire i carichi probatori in modo equo per evitare che la prova di determinati fatti possa essere ardua per una delle parti. fatto allegato, pur quando tale prova non sarebbe consentita per il verificarsi delle preclusioni istruttorie. SEZIONE II: LE REGOLE GENERALI DELL’ISTRUZIONE PROBATORIA LUOGO E MODALITA’ DI ASSUNZIONE DEI MEZZI DI PROVA. ASSUNZIONE PER DELEGA O PER ROGATORIA Anche la fase istruttoria, quella destinata alla trattazione della causa, si snoda tra udienze, il cui intervallo, a norma art. 81 disp. att., non dovrebbe essere superiore a 15 giorni. Il giudice istruttore, quando dispone mezzi di prova (ci si riferisce alle prove costituende), salvo possa assumerli immediatamente, stabilisce il tempo, il luogo e il modo di assunzione, fissando solitamente un'udienza ad hoc, a meno che non si tratti di prova da assumere necessariamente fuori dall'udienza. In quest'ultimo caso, fermo restando che di regola è lo stesso giudice istruttore a dovervi provvedere, l'art. 203 prevede che, se l'assunzione deve avvenire fuori della circoscrizione del tribunale, venga delegato a procedervi il giudice istruttore del luogo, salvo che le parti chiedano concordemente e il presidente del tribunale lo consenta che vi si trasferisca lo stesso giudice procedente. Quando ricorra tale delega, l'ordinanza che la dispone deve fissare il termine massimo entro cui la prova deve essere assunta e la successiva udienza alla quale le parti dovranno poi comparire per la prosecuzione del processo. Il giudice delegato procede all'assunzione del mezzo di prova su istanza della parte interessata e quindi, d'ufficio, ne rimette il relativo processo verbale al giudice delegante prima dell'udienza da questi fissata per la prosecuzione del giudizio, anche se l'assunzione non si è ancora esaurita. La disciplina descritta è applicabile ai sensi dell’art. 204 anche nel caso in cui l’esecuzione di provvedimenti istruttorii debba attuarsi attraverso rogatoria ad autorità estere da trasmettersi per via diplomatica oppure quando la rogatoria riguarda cittadini italiani residenti all’estero tramite delega al console competente che provvede a norma della legge consolare (d.p.r 200/1967). La materia è regolata, all'interno dell'Unione, nel regolamento 1206/2001 del Consiglio, in generale dalla Convenzione dell'Aja del 1970. La disciplina convenzionale dispone che ciascuno Stato contraente designi una Autorità centrale con lo specifico incarico di ricevere le richieste di rogatoria provenienti dall'autorità giudiziaria di un altro Stato contraente e di trasmetterle all'autorità interna competente per darvi esecuzione. Il regolamento comunitario consente invece la trasmissione diretta di richieste di assunzione di prove tra autorità giudiziarie di diversi Stati membri e, a talune condizioni, l'assunzione diretta della prova all'estero, da parte dell'autorità giudiziaria richiedente. LE MODALITA’ DI ASSUNZIONE DELLA PROVA E LA SUA CHIUSURA Il giudice che procede all'espletamento della prova, pur quando sia stato a ciò delegato a norma dell'art. 203, è competente a risolvere ogni questione che dovesse sorgere in tale sede (art. 205). Le parti possono assistere personalmente all'assunzione dei mezzi di prova, per la quale si redige un processo verbale sotto la direzione del giudice. Nel processo verbale le dichiarazioni delle parti e dei testimoni sono riportate in prima persona e devono essere lette al dichiarante e da lui sottoscritte. È previsto che il giudice, quando lo ritenga opportuno, possa far descrivere nel verbale il contegno di chi ha reso la dichiarazione, al fine di mantenere traccia di elementi che potranno essergli d'aiuto nel valutare l'attendibilità della dichiarazione stessa. L'art. 208 stabilisce una decadenza dal diritto di far assumere la prova quando la parte, su istanza della quale dovrebbe iniziarsi o proseguirsi la prova stessa, ometta di presentarsi. Tale decadenza deve essere dichiarata d'ufficio dal giudice, a meno che non sia l'altra parte, presente, a chiederne l'assunzione. La decadenza non opera rispetto ai mezzi di prova che siano stati disposti d'ufficio dal giudice, nonché quando nessuna delle parti sia comparsa all'udienza. Quando sia stata dichiarata la decadenza, la parte interessata può chiedere al giudice, nell'udienza successiva, la revoca del provvedimento, allorché la sua mancata comparizione sia stata provocata da causa ad essa non imputabile. La chiusura della fase di assunzione delle prove viene dichiarata dal giudice istruttore: a) quando siano stati esauriti tutti i mezzi di prova ammessi; b) quando, essendo le parti decadute dal diritto di assumerne taluno, non ve ne siano altre da esperire; c) quando il giudice reputi superflua, per i risultati già raggiunti, l'assunzione di ulteriori prove originariamente ammesse. L’ipotesi c) è ovviamente quella più delicata dal momento che presuppone una valutazione complessiva dell’esito dell’istruttoria alla luce dell’inquadramento giuridico della fattispecie. Il potere del giudice non si risolve in una violazione del diritto alla prova, deve ritenersi che le prove ulteriori possano reputarsi superflue solo quando tendono a un risultato pienamente conforme al convincimento che il giudice abbia già raggiunto oppure quando hanno ad oggetto un fatto che sia divenuto rilevante alla luce di tale convincimento. CAPITOLO 8 I SINGOLI MEZZI ISTRUTTORI SEZIONE I: LA CONSULENZA TECNICA L'art. 61 consente al giudice, quando sia necessario, di farsi assistere per il compimento di singoli atti o per tutto il processo, da uno o più consulenti di particolare competenza tecnica, che il codice ricomprende nella categoria degli ausiliari del giudice. Secondo l'idea del legislatore del '40, la consulenza tecnica non era un vero e proprio mezzo di prova, deputato all'accertamento dei fatti, ma serviva essenzialmente a fornire al giudice le nozioni del sapere tecnico-scientifico eventualmente occorrenti per valutare ed interpretare correttamente le risultanze delle prove; per questo è uno dei mezzi istruttori di cui il giudice può avvalersi d'ufficio, pur non essendo obbligato a farlo. Diversamente da quanto previsto nel '40, nella prassi la consulenza è oggi spesso impiegata puramente e semplicemente per l'accertamento di fatti controversi, il consulente finisce coll'operare in sostituzione del magistrato, facendo acquisire al giudice, con la sua narrazione, la conoscenza di fatti che il giudice stesso non ha potuto percepire direttamente. La consulenza tecnica è quindi un vero e proprio mezzo di prova, soggetto, quanto all'efficacia probatoria, alla regola generale del prudente apprezzamento del giudice. I COMPITI E L’ATTIVITÀ DEL CONSULENTE La collaborazione del consulente tecnico può assumere due diverse forme, a seconda che si limiti ad una mera assistenza al giudice e alle parti, nelle udienze cui è invitato a partecipare, oppure implichi lo svolgimento di vere e proprie indagini, coll'intervento dello stesso giudice o in modo autonomo. Nel primo caso il suo compito consiste nel fornire in forma orale i chiarimenti richiesti, oppure, qualora il presidente del collegio lo ritenga opportuno, nell'esprimere il suo parere in camera di consiglio alla presenza delle parti. Nel secondo caso assume un ruolo attivo, soprattutto quando svolge le indagini da solo, in questo caso sarà tenuto a redigere relazione scritta in cui deve riassumere le operazioni eseguite ed i risultati ottenuti. LO SVOLGIMENTO DELLA CONSULENZA TECNICA E LA LIQUIDAZIONE DEL RELATIVO COMPROMESSO L'ordinanza di nomina del consulente tecnico deve già formulare i quesiti, cioè indicare l'oggetto specifico degli accertamenti e delle valutazioni che è chiamato a compiere, e deve essere a lui notificata, a cura del cancelliere, unitamente all'invito a comparire all'udienza fissata dal giudice. Con la stessa ordinanza di nomina, il giudice assegna alle parti un termine entro cui designare, con una dichiarazione ricevuta dal cancelliere, un loro consulente tecnico di parte che potrà assistere a tutte le operazioni del consulente del giudice e alle udienze cui questo partecipa. Il giudice, se le indagini del consulente devono aver luogo autonomamente e gli è richiesta una relazione scritta, fissa con ordinanza, nella stessa udienza, un primo termine entro cui il consulente deve trasmettere detta relazione alle parti costituite; un secondo termine entro cui le parti possono trasmettere al consulente le proprie osservazioni sulla relazione, sollecitandone eventualmente integrazioni o chiarimenti; e un terzo termine, sempre anteriore all'udienza successiva, entro il quale il consulente deve depositare in cancelleria la propria relazione, le osservazione delle parti e una sintetica valutazione delle stesse. La relazione del consulente resta in tal modo acquisita al processo e di essa il giudice potrà servirsi ai fini della decisione. L'esito di quell'indagine non vincola, però, in alcun modo il giudice, che potrà motivatamente discostarsene ove non persuaso dei risultati attinti dal consulente, ed anche disporne la rinnovazione, qualora stimi che la consulenza non sia stata correttamente o compiutamente eseguita. invece alle parti tramite richiesta congiunta, di pretenderne dal giudice l’esperimento, unitamente al tentativo di conciliazione). Nel caso dell’interrogatorio libero invece, una parte della dottrina lo considera come uno strumento di «chiarificazione» delle rispettive posizioni difensive delle parti diretti a far sì che i contendenti precisino le proprie versioni riguardi i fatti rilevanti per la decisione, contribuendo alla fissazione del thema probandum, ossia dei fatti realmente controversi e bisognosi di prova. Per questo ultimo aspetto questo rappresenterebbe uno strumento di collaborazione tra il giudice e le parti nella fase di trattazione della causa. Altri autori invece ritengono che nell’interrogatorio libero prevalga la funzione probatoria. Nel concreto è però difficile fare una scelta tra le diverse ricostruzioni anche perché l’interrogatorio libero adempie ad entrambe le funzioni a seconda di come il giudice intende utilizzarlo e questo dipende dalla conoscenza effettiva che il giudice abbia della causa nel momento in cui lo esperisce. Dal punto di vista sistematico non c’è dubbio che tale strumento mal si concilia con la parallela esistenza di un interrogatorio affidato alla piena disponibilità delle parti e circondato da precise garanzie: in primis la preventiva articolazione specifica dei fatti su cui verterà l’interrogatorio e l’assenza dell’obbligo dell’interrogato di dire la verità, ossia di dichiarare fatti a lui sfavorevoli. LA CONFESSIONE Per l'art. 2730 c.c. “la confessione è la dichiarazione che una parte fa della verità di fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli all'altra parte”; una dichiarazione cui la legge attribuisce normalmente valore di prova legale, idonea a vincolare il convincimento del giudice. La confessione può essere giudiziale, quando si forma nel processo (ed è quindi prova costituenda), oppure stragiudiziale, quando preesiste o si realizza fuori da questo. In caso di confessione stragiudiziale la dichiarazione confessoria, se contestata, dovrà essere essa stessa, preliminarmente, oggetto di prova (documentale se sia contenuta in uno scritto, testimoniale se sia resa oralmente), affinché il giudice possa poi dedurne le conseguenze probatorie previste dalla legge. La confessione ha ad oggetto dei fatti, e può considerarsi una species del genus delle ammissioni, definibili come il riconoscimento, espresso o tacito, di fatti allegati dall'altra parte. Sul piano delle conseguenze, la confessione può essere revocata solamente quando si provi che è stata determinata da errore di fatto (cioè l'erronea convinzione che i fatti dichiarati fossero veri) o da violenza, l'ammissione può essere ritrattata in ogni momento. La circostanza che la confessione abbia ad oggetto dei fatti consente di distinguerla ad esempio dal riconoscimento del diritto vantato dall’altra parte o comunque dalla fondatezza della domanda avversa. Quest’ultima ipotesi si ritiene che non possa condurre automaticamente all’accoglimento della domanda poiché in considerazione del principio iura novit curia, non può ammettersi che vincoli il giudice rispetto alle valutazioni giuridiche che gli competono. Tornando alla confessione, spesso si afferma che essa presupporrebbe un elemento soggettivo rappresentato dall’animus confitendi (letteralmente volontà di confessare). Nella confessione stragiudiziale invece vi è un maggiore spazio per l’indagine da parte del giudice delle motivazioni che potrebbero aver spinto la parte ad affermare come veri fatti potenzialmente a lei sfavorevoli che invece veri non sono. Per quel che attiene alla capacità, la dichiarazione contra se non può valere come una era confessione se non proviene da persona capace di disporre del diritto a cui i fatti confessati si riferiscono. LA CONFESSIONE GIUDIZIALE Nell'ambito del giudizio la confessione può essere spontanea, quando sia la stessa parte, di propria iniziativa, a dichiarare fatti a sé sfavorevoli, oppure provocata mediante interrogatorio formale (art. 228). La confessione spontanea può essere contenuta in qualunque atto processuale firmato dalla parte personalmente, salvo il caso dell'art. 117, nel senso che le eventuali dichiarazioni “contra se” rese dalla parte in sede di interrogatorio libero, pur se racchiuse in un verbale sottoscritto dalla parte stessa, non possono considerarsi vera e propria confessione, ma mere ammissioni. Indipendentemente che sia intervenuta spontaneamente o nel corso dell'interrogatorio formale, la confessione giudiziale forma piena prova, di regola, contro colui che l'ha resa, ed è quindi idonea a vincolare il giudice circa la verità dei fatti confessati. A tale principio l'art 2733 c.c. deroga in due casi: • quando i fatti riguardano diritti non disponibili dalle parti (es. accertamento della paternità oppure motivi di annullamento del matrimonio); • quando, ricorrendo un'ipotesi di litisconsorzio necessario, la confessione proviene da alcuni soltanto dei litisconsorti; in questo caso la confessione è liberamente apprezzata dal giudice, degradando da prova legale a prova libera nei confronti di tutti. Solitamente colui che confessa non si limita ad una confessione contra se, ma accompagna l'affermazione di altri fatti o circostanze a sé favorevoli tendenti ad infirmare l'efficacia del fatto confessato ovvero a modificarne o a estinguerne gli effetti (art. 2734). Si parla di “confessione complessa” quando l'aggiunta sia rappresentata da un fatto del tutto distinto, idoneo a modificare o ad estinguere gli effetti del fatto sfavorevole al dichiarante; oppure “qualificata”, quando la dichiarazione pro se riguardi un fatto strettamente connesso a quello confessato, tale da reagire sulla qualificazione stessa della fattispecie. In entrambi i casi l'efficacia probatoria delle dichiarazioni, nel complesso, dipende dall'atteggiamento dell'altra parte: se questa non contesta la verità dei fatti o delle circostanze aggiunte, esse fanno piena prova, vincolando il giudice nella loro integrità, senza distinguere tra fatti sfavorevoli e fatti favorevoli al loro autore; se invece l'altra parte contesta, è rimesso al giudice apprezzare secondo le circostanze, l'efficacia probatoria delle dichiarazioni. Si parla a riguardo di inscindibilità della confessione. Si è soliti parlare di inscindibilità delle dichiarazioni la quale ex art. 2734 sembrerebbe valere in entrambi casi, sia quando le dichiarazioni abbiano efficacia di prova legale in toto sia quando le stesse dichiarazioni vengano rimesse all’apprezzamento del giudice e pertanto costituiscono prova libera. In questa seconda ipotesi la confessione complessa o qualificata sarebbe idonea a provare allo stesso modo tutti i fatti dichiarati. La soluzione appare insoddisfacente poiché rischia di risolversi in un’inammissibile deroga al principio dell’onere della prova. LA CONFESSIONE STRAGIUDIZIALE Nel caso di confessione stragiudiziale, il legislatore esclude la prova per testi ogniqualvolta la confessione verta su fatti che, a loro volta, non potrebbero essere provati in tal modo. Bisogna anche distinguere se la dichiarazione confessoria è rivolta all'altra parte o ad un rappresentante di questa, essa avrà la stessa efficacia che compete alla confessione giudiziale (di regola prova legale); se invece è diretta ad un terzo oppure contenuta in un testamento, è liberamente apprezzata dal giudice (art. 2735). Ovviamente la confessione stragiudiziale può essere solo spontanea. L’INTERROGATORIO FORMALE E IL SUO RAPPORTO CON LA CONFESSIONE A norma dell'art. 230, la parte che intende far sottoporre l'avversario ad interrogatorio formale è tenuta a dedurre tale interrogatorio per articoli separati e specifici. L'interrogando deve essere messo in condizione di conoscere in anticipo i fatti su cui dovrà riferire. Le domande non potranno vertere su fatti diversi da quelli formulati nei capitoli, a meno che non si tratti di domande sulle quali le parti concordano e che il giudice ritiene utili, rilevanti, e salvo il potere del giudice stesso di chiedere in ogni caso i chiarimenti opportuni sulle risposte date. La parte interrogata non ha alcun obbligo, giuridicamente sanzionabile, di dire la verità contro i propri interessi; ciò non toglie che abbia il dovere di presentarsi a rendere l'interrogatorio e di rispondere personalmente alle relative domande, senza potersi servire di scritti preparati, ad eccezione delle note e degli appunti che il giudice le abbia consentito di utilizzare, quando deve fare riferimento a nomi o a cifre, o quando particolari esigenze lo consigliano (art. 231). La mancata comparizione, al pari del rifiuto a rispondere, produrrebbe come conseguenza, in assenza di un giustificato motivo, la possibilità valutato ogni elemento di prova, di ritenere come ammessi i fatti dedotti nell'interrogatorio (art. 232). Il comportamento omissivo costituisce una prova libera, soggetta al prudente apprezzamento del giudice. Scopo dell'interrogatorio formale è ottenere la confessione della parte cui esso è deferito. Nella pratica però questo serve piuttosto a costringere la parte a dichiararsi, cioè ad assumere una specifica posizione circa i fatti allegati dall'avversario, al fine di selezionare quelli effettivamente bisognevoli di prova. SEZIONE V: LA PROVA DOCUMENTALE Si può definire documento un qualunque oggetto idoneo a rappresentare un certo fatto. Dal punto di vista materiale il documento si compone di un supporto di varia natura destinato a conservare traccia, attraverso le modalità più disparate di un certo fatto naturale o umano. Il documento può avere una rilevanza sostanziale sebbene costituisca la forma attraverso la quale viene in vita un contratto o un altro negozio giuridico, ma comunque sul piano processuale rileva sempre un fatto accaduto nel passato. La tipologia di documenti muta coll’evolversi delle tecniche di comunicazione e di archiviazione dei dati. Per i documenti, a differenza che per le prove costituende, l'acquisizione al processo avviene con la relativa produzione, senza passare attraverso un preventivo giudizio di ammissibilità o rilevanza ad opera del giudice, dovendo solo rispettare le limitazioni temporali risultanti dall'art. 183. I documenti prodotti al momento della costituzione in giudizio devono essere indicati nei rispettivi atti introduttivi; quelli successivi possono essere prodotti o mediante deposito in cancelleria, dandone avviso alle parti attraverso un apposito elenco, da comunicare secondo le forme dell'art. 170, oppure direttamente in udienza, facendo menzione di essi nel relativo verbale. Al contumace deve notificarsi il verbale in cui si dà atto della produzione di una scrittura non indicata in atti precedentemente a lui notificati. L’ATTO PUBBLICO Il legislatore del 1942 ha dedicato maggiore spazio al documento più diffuso, cioè quello scritto su supporto cartaceo. A norma dell'art. 2699 c.c., si definisce atto pubblico il documento redatto, con le richieste formalità, da un notaio o da un altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede nel luogo dove l'atto è formato. Devono quindi concorrere un elemento soggettivo, cioè la qualità del notaio o del pubblico ufficiale in colui dal quale l'atto proviene, ed un elemento oggettivo, costituito dal complesso di formalità prescritte per quel determinato tipo di atto, anche in ragione del suo contenuto. L'efficacia probatoria è quella tipica della prova legale: vincola il giudice a ritenere veri i fatti risultanti dall'atto stesso, con la peculiarità che può essere superata solo attraverso il vittorioso esperimento, ad opera della parte interessata, di un'apposita impugnazione del documento, la querela di falso. In base all'art. 2700 c.c. l'atto pubblico fa piena prova, fino a querela di falso: • della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che l'ha formato→ per quello che riguarda il primo punto la norma allude all’estrinseco del documento e quindi alla sua consistenza materiale. Per questo aspetto potrebbe aversi una falsità materiale, allorché l’atto pubblico fosse stato interamente contraffatto oppure alterato dopo la sua formazione; • delle dichiarazioni delle parti e gli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti→ gli elementi relativi a questo punto attengono invece all’intrinseco del documento e quindi al suo contenuto rappresentativo rispetto al quale l’atto pubblico potrebbe essere effetto da falsità ideologica (se il notaio ad es. attesta fatti non veri oppure fatti ai quali non ha assistito). dichiarazioni a quanto le parti avevano effettivamente pattuito: nella prima ipotesi non potrebbe prescindersi dalla querela di falso; nel secondo caso la querela non sarebbe neppure ammissibile e si tratterebbe di fornire la prova delle difformità tra le dichiarazioni contenute nella scrittura e quelle che le parti avevano concordato, ossia la violazione del patto di riempimento. LA DISCIPLINA PROCESSUALE DELLA QUERELA DI FALSO La querela di falso incidentale è proponibile in qualunque stato e grado del giudizio, finché la verità del documento non sia stata accertata con sentenza passata in giudicato (art. 221), ed è ammessa anche nei confronti di una scrittura che si abbia per riconosciuta in conseguenza del suo mancato disconoscimento entro il termine dell'art. 215. L'atto con cui si propone la querela, che può essere un atto di citazione o una dichiarazione da unirsi al relativo verbale d'udienza, deve contenere, a pena di nullità, l'indicazione degli elementi e delle prove dell'asserita falsità; la querela deve essere proposta dalla parte personalmente o a mezzo di un suo procuratore speciale, non è sufficiente a procura conferita per il giudizio. Nel solo caso in cui la procura sia proposta in via incidentale, l'art. 222 impone al giudice istruttore una duplice verifica: • deve chiedere alla parte che aveva prodotto il documento se intende ancora valersene, nonostante l'avvenuta proposizione della querela (c.d. interpello); • se la risposta all'interpello è positiva, deve controllare che il documento sia realmente rilevante ai fini della decisione. Solo se ricorrono entrambi i presupposti, il giudice dà il via libera alla presentazione della querela, nella stessa udienza o in una successiva, ed ammette i mezzi istruttori che ritiene idonei, disponendo modi e termini della loro assunzione. Tramite il deposito in cancelleria, con apposito processo verbale, il documento impugnato non può essere sottratto o materialmente alterato durante le attività istruttorie che ne accerteranno la genuinità o la falsità (artt. 223 e 224). La pronuncia della sentenza compete sempre al collegio, ma è possibile che sia investito della sola decisione circa la querela, indipendentemente dal merito (rimessione parziale), e che, su istanza di parte, il giudice istruttore possa disporre la continuazione della causa davanti a sé limitatamente alle domande che possono essere eventualmente decise indipendentemente dal documento contestato. Se la querela sia proposta, in via incidentale, in un giudizio davanti al giudice di pace o alla Corte D'appello, non potendosi derogare alla competenza per materia del tribunale, è necessario sospendere il processo principale in attesa della decisione sulla causa concernente la querela di falso. Il giudicato sulla querela ha valore assoluto, efficacia erga omnes, indipendentemente dalla circostanza che abbia ritenuto falso o genuino il documento impugnato ed anche quando sia stato reso nei confronti di alcuni soltanto dei soggetti legittimati. L’EFFICACIA PROBATORIA DELLE COPIE Accade che nel processo, in luogo dell’originale dell’atto pubblico o della scrittura privata, se ne produca una copia o perché quella originale non è nelle mani della parte o per ragioni di prudenza. L’efficacia probatoria delle copie è disciplinata negli art. 2714 ss c.c. Per l’atto pubblico, la consueta efficacia compete alle copie di atti pubblici originali spedite nelle forme prescritte da pubblici depositari autorizzati e, analogamente, per la scrittura privata, le copie di scritture depositate presso pubblici uffici e spedite da pubblici depositari autorizzati hanno la stessa efficacia della scrittura originale da cui sono estratte a meno che, in entrambi i casi, queste non prevedano delle cancellature, abrasioni, ecc. L’ipotesi più frequente, nel caso di scrittura privata, è rappresentata dalla sua produzione in fotocopia e a tal proposito, l’art. 2719 dispone che la fotocopia ha la stessa efficacia di una copia autentica quando la sua conformità con l'originale è attestata da pubblico ufficiale competente o non è espressamente disconosciuta. IL TELEGRAMMA, TELEX O TELEFAX Altra forma documentale a cui il legislatore dedica una certa attenzione, contrapponendola alla scrittura privata, è il telegramma. Il telegramma può essere sottoscritto dal mittente, limitatamente all'originale consegnato all'ufficio postale, e la relativa sottoscrizione potrebbe essere anche autenticata, in questo caso equivale in tutto e per tutto ad una scrittura privata autenticata. L'art. 2705 c.c. attribuisce al telegramma la stessa efficacia probatoria della scrittura privata, anche quando non sia stato sottoscritto dal mittente, ma sia stato consegnato o fatto consegnare dal mittente stesso. In questo modo però non può soddisfare il requisito della forma scritta, laddove questa sia essenziale per la validità dell'atto stesso. L'art. 2706 c.c. prevede una mera presunzione di conformità tra l'originale e la copia pervenuta al destinatario, superabile attraverso prova contraria. Primo documento nuovo di cui si sono dovute occupare dottrina e giurisprudenza è stato il telex, che consente all’utente munito di un apposito terminale ed abbonato al relativo servizio, di collegarsi alla rete telegrafica pubblica per scambiare direttamente messaggi telegrafici con un altro utente che disponga di un analogo collegamento. IL DOCUMENTO INFORMATICO Il documento informatico è definito dal d.lgs. 82/2005 (codice dell'amministrazione digitale) come la “rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti”. Si tratta di un documento che nasce come versione codificata, espressa in forma digitale, di un documento convenzionale ed è sempre decodificabile nel documento di partenza, l'unico che possa essere di fatto utilizzato sia sul piano sostanziale che probatorio. Per firma elettronica qualificata si intende quella ottenuta attraverso una procedura informatica che garantisce la connessione univoca al firmatario e la sua univoca autenticazione informatica, creata con mezzi sui quali il firmatario può conservare un controllo esclusivo e collegata ai dati ai quali si riferisce in modo da consentire di rilevare se i dati stessi siano stati successivamente modificati. Sul piano sostanziale, il documento informatico soddisfa il requisito legale della forma scritta quando sia sottoscritto con firma elettronica qualificata o digitale e sia formato nel rispetto delle regole tecniche che garantiscano l'identificabilità dell'autore, l'integrità e immodificabilità del documento. Fuori da tali presupposti, l'idoneità del documento informatico a soddisfare il requisito della forma scritta resta liberamente valutabile in giudizio. Sul piano probatorio il giudice può liberamente valutare anche il documento informatico sottoscritto con firma elettronica non qualificata, tenuto conto delle sue caratteristiche oggettive di qualità, sicurezza, integrità e immodificabilità. LE SCRITTURE CONTABILI DELLE IMPRESE Gli arti. 2709 e 2710 c.c. considerano l'efficacia probatoria dei libri e delle scritture contabili delle imprese, distinguendo a seconda che debbano utilizzarsi contro l'imprenditore da cui provengono o a suo favore. Se sono contro l'imprenditore, è sufficiente che si tratti di libri o scritture contabili di imprese soggette a registrazione e che dal loro contenuto sia possibile dedurre fatti contrari all'interesse della parte che ne è autrice, col solo limite che chi invoca a proprio vantaggio tali scritture non può scinderne il contenuto ma deve accettarlo per quello che complessivamente possono dimostrare. SEZIONE VI: IL GIURAMENTO Il giuramento è il mezzo istruttorio in cui una delle parti è chiamata ad affermare in forma grave e solenne la verità di fatti a sé favorevoli, che in tal modo si hanno per definitivamente accertati nel processo, senza alcuna possibilità di prova contraria. L'art. 2736 c.c. distingue due tipi di giuramento: quello decisorio, che una parte deferisce all'altra per farne dipendere la decisione totale o parziale della causa; e quello suppletorio, che è deferito d'ufficio ad una qualunque delle parti, al fine di decidere la causa quando la domanda o le eccezioni non sono pienamente provate, ma non sono del tutto sfornite di prova, oppure per stabilire il valore della cosa domandata, se non si può accertare altrimenti (giuramento di estimazione). IL GIURAMENTO DECISIORIO: FUNZIONI E PRESUPPOSTI Il giuramento è decisorio perché deve vertere su fatti decisivi, idonei a portare all'immediata definizione, totale o parziale, della causa; costituisce una prova legale, che prevale sempre e comunque su tutte le altre prove, sia nell'ipotesi in cui venga prestato che nel caso in cui la parte si rifiuti di renderlo. Attraverso il deferimento del giuramento ciascuna parte ha la possibilità di sfidare l'altra ad affermare la verità di fatti ad essa favorevoli, ponendola di fronte all'alternativa tra rendere la dichiarazione giurata, ottenendo che la verità dei fatti resti definitivamente accertata in suo favore, senza possibilità di prova contraria, oppure rifiutarsi di giurare, rimanendo soccombente rispetto alla domanda o al punto relativamente al quale il giuramento era stato ammesso (art. 239). Si impone alla parte alla quale è stato deferito il giuramento il divieto di mentire. Questa, quando i fatti siano comuni all'altra parte, può sottrarsi al tale alternativa solo attraverso il “riferimento” del giuramento, chiedendo che a giurare sia proprio la parte che glielo aveva deferito. La capacità richiesta alla parte per deferire o riferire il giuramento è il poter disporre del diritto controverso, il che esclude la legittimazione del sostituto processuale. Quanto all’oggetto, il giuramento può essere de veritate e cioè quando riguardi un fatto proprio della parte a cui si deferisce; oppure de scientia e cioè quando verte sulla conoscenza che essa ha di un fatto altrui. Il legislatore esclude la possibilità di avvalersi di tale mezzo di prova nei seguenti casi: • nelle cause relative a diritti di cui le parti non possono disporre, es. ad un giudizio di divorzio; • quando esso dovrebbe vertere sopra un fatto illecito, da intendere però come ogni fatto da cui possa dipendere un giudizio di riprovazione sociale a carico della parte; • quando sia diretto a provare l’esistenza di un contratto per la validità del quale sia richiesta la forma scritta, che evidentemente sarebbe nullo se non fosse stato consacrato in un documento. Questa limitazione la si ha solo nel caso in cui sia richiesta una forma scritta ad probationem; • quando il giuramento mirerebbe a negare un fatto che da un atto pubblico risulti avvenuto nella presenza del pubblico ufficiale che ha formato l’atto stesso. DEFERIMENTO E RIFERIMENTO; PRESTAZIONE E CONSEGUENZE DELLA MANCATA PRESTAZIONE Il giuramento decisorio può essere deferito in qualunque stato della causa davanti al giudice istruttore e fino alla precisazione delle conclusioni e in deroga al divieto di nuovi mezzi di prova in appello e nel giudizio di rinvio. Può riguardare fatti già accertati attraverso altre prove anteriormente assunte, tenuto conto che prevale su ogni altra prova. Il deferimento (ed il riferimento) deve essere compiuto personalmente dalla parte, con atto scritto da essa sottoscritto o con dichiarazione resa all'udienza, oppure dal difensore munito di procura ad hoc con dichiarazione in udienza (art. 233). Al momento del deferimento il giuramento deve essere formulato in articoli separati, in modo chiaro e specifico. In caso di riferimento, tale formula verrà invertita, al fine di riprodurre la tesi difensiva della parte che aveva originariamente deferito il giuramento e che viene in tal modo chiamata essa stessa a giurare. Sia il deferimento che il riferimento sono di regola revocabili solo fino a quando l'avversario non si sia dichiarato pronto a prestare giuramento (o abbia a sua volta riferito); se però il giudice, nell'ammettere la prova, abbia modificato la formula indicata dalla parte, essi potranno essere revocati anche dopo tale momento, fino all'effettiva prestazione. Quando sorgano contestazioni circa l'ammissibilità del contraente ha senza sua colpa perduto il documento che gli forniva la prova (art. 2724 co 3°). Limite analogo quando l'atto scritto sia richiesto ad probationem, ossia per provarne l’avvenuta stipulazione; 2. gli art. 2722 e 2723 c.c. limitano la testimonianza che abbia ad oggetto patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento, in particolare quando si assuma che la stipulazione di tali patti è stata anteriore o contemporanea rispetto alla formazione del documento, la prova testimoniale è esclusa. Quando invece si alleghi che i patti aggiunti o contrari siano stati stipulati dopo la formazione del documento, il giudice ha il potere di ammettere la prova per testi solamente se, avuto riguardo alla qualità delle parti, alla natura del contratto e a ogni altra circostanza, appare verosimile che siano state fatte aggiunte o modificazioni verbali; 3. l'art. 2721 c.c. prevede che la prova per testi non è ammessa quando il valore dell'oggetto sia superiore a 2,58 euro, e al co 2° consente al giudice di ammettere la testimonianza al di là del limite, tenuto conto della qualità delle parti, della natura del contratto e di ogni altra circostanza. Accanto a queste limitazioni, sono previste delle eccezioni e quindi delle ipotesi in cui la prova testimoniale è sempre ammessa. Tali eccezioni risultano dall’art.2724 c.c. e ricorrono quando: a) sussista un principio di prova scritta, qualsiasi scritto, proveniente dalla persona contro la quale è diretta la domanda o il suo rappresentante, che faccia apparire verosimile il fatto allegato; b) il contraente sia stato nell'impossibilità morale o materiale di procurarsi una prova scritta; c) la parte abbia perduto senza sua colpa il documento che le forniva la prova. LE MODALITA’ DI DEDUZIONE E DI ASSUNZIONE DELLA PROVA La prova testimoniale ricade nella disponibilità delle parti e deve essere richiesta attraverso l'indicazione specifica dei testi, nonché dei fatti, formulati in articoli separati, sui quali ciascuno di essi sarà interrogato (art. 244). Il giudice può disporre d'ufficio, formulandone egli stesso i capitoli, la testimonianza di persone alle quali le parti si sono riferite nell'esposizione dei fatti e che appaiono in grado di conoscere la verità (art. 281-bis). La preventiva formulazione dei capitoli di prova serve essenzialmente a valutare l'ammissibilità e la rilevanza della prova stessa. Con l'ordinanza di ammissione il giudice può eliminare dalla lista dei tesi, oltre a quelli incapaci di testimoniare a norma dell'art. 246, anche quelli che reputi semplicemente sovrabbondanti. La parte che aveva indicato i testi può invece rinunciare alla loro audizione solo a condizione che alla rinuncia aderiscano le altre parti ed acconsenta il giudice. Una volta che la prova sia stata ammessa, la parte interessata ha l'onere di provvedere alla citazione dei testi, deve chiedere all'ufficiale giudiziario che provveda ad intimare ai testi (con atto scritto che viene loro notificato), almeno 7 giorni prima dell'udienza fissata, di comparire in detta udienza, indicando luogo, giorno e ora fissati, nonché il giudice che dovrà assumere la testimonianza e la causa cui essa si riferisce. Quando la parte onerata non provveda all'intimazione, decade dalla prova (salvo sussista giusto motivo per l'omessa citazione) e la decadenza è dichiarabile d'ufficio. L'altra parte può però evitarla dichiarando di essere interessata all'audizione del testimone. Il testimone ha l'obbligo di comparire. Le deroghe riguardano esclusivamente le ipotesi in cui si trovi nell'impossibilità di presentarsi o ne sia esentato dalla legge o da convenzioni internazionali, in questo caso è previsto che il giudice si rechi ad assumere la deposizione presso l'abitazione o l'ufficio del teste, oppure deleghi a procedervi il giudice del luogo. Fuori dalle deroghe, se il teste regolarmente citato non si presenta, il giudice può ordinare una nuova intimazione oppure l'accompagnamento coattivo alla stessa udienza o ad altra successiva, e può condannare il teste ad una pena pecuniaria compresa tra 100 e 1000 euro. Se, nonostante tale sanzione, il teste omette nuovamente di comparire senza giustificato motivo, il giudice ne dispone l'accompagnamento coattivo e lo condanna al pagamento di un'ulteriore pena pecuniaria compresa tra 200 e 1000 euro. I testimoni devono essere esaminati separatamente. Prima di interrogare il teste, il giudice istruttore deve avvertirlo circa l'obbligo di dire la verità e le conseguenze penali previste per la testimonianza falsa o reticente, e deve invitarlo a rendere una precisa dichiarazione di impegno a dire tutta la verità e a non nascondere nulla di quanto è a sua conoscenza (art. 251). Il giudice chiede al teste nome e cognome, luogo e data di nascita, età e professione, invitandolo a dichiarare se ha rapporti di parentela, affinità, affiliazione o dipendenza con alcuna delle parti, o se ha interesse nella causa; le parti possono fare osservazioni sull'attendibilità del testimone, il quale è tenuto a fornire in proposito i chiarimenti necessari, di cui si fa menzione nel processo verbale prima di dar corso all'audizione del teste (art. 252). L'art. 253 regola la deposizione: il giudice esclusivamente ha il potere di interrogare il teste sui fatti per i quali era stata ammessa la prova nonché di rivolgergli, di propria iniziativa o su istanza di parte, tutte le domande che ritenga utili a chiarire i fatti stessi. Le parti ed il pubblico ministero non possono interrogare direttamente i testimoni. Il teste non può servirsi, per le proprie risposte, di scritti preparati, salvo che sia stato autorizzato dal giudice a valersi di note o appunti. Il giudice può disporre, anche d'ufficio, il confronto tra più testimoni, quando nelle rispettive deposizioni siano emerse divergenze (art. 254); ordinare d'ufficio che siano chiamate a deporre le persone cui alcuno dei testimoni abbia fatto riferimento per la conoscenza dei fatti (art. 257); decidere di sentire i testi ritenuti in un primo momento sovrabbondanti o dei quali aveva consentito la rinuncia; disporre la rinnovazione dell'esame di testi già escussi, al fine di chiarire la loro deposizione o di correggere eventuali irregolarità nel precedente esame. LA TESTIMONIANZA SCRITTA La riforma del 2009 ha introdotto l'art. 257-bis relativa alla testimonianza scritta, cioè alla possibilità di assumere la deposizione del testimone per iscritto e al di fuori dell'udienza, attraverso la compilazione di un apposito modello, anziché mediante l'interrogatorio ad opera del giudice e nel contraddittorio delle parti. Tale possibilità è subordinata all'accordo delle stesse parti costituite, e rimessa ad una valutazione discrezionale del giudice, che tenga conto della natura della causa e di ogni altra circostanza. Il giudice nell'ammettere la testimonianza scritta deve fissare il termine entro cui il testimone è tenuto a rispondere ai quesiti, ordinando alla parte che ne aveva richiesto l'assunzione di predisporre il modello di testimonianza in conformità agli articoli ammessi, e di notificarlo al testimone. Il giudice deve fissare anche il termine per la notifica del modulo al teste, la cui inosservanza determinerebbe la decadenza della parte dalla prova. Quando la testimonianza abbia ad oggetto documenti di spesa già depositati dalle parti, sicché si tratta solo di far confermare dal testimone quanto già risulti dai predetti documenti, si può prescindere dalla compilazione del modulo e la disposizione può rendersi mediante dichiarazione scritta e sottoscritta, trasmessa direttamente al difensore della parte, nel cui interesse è stata ammessa la prova testimoniale. Rimane necessario comunque l'accordo delle parti. Il giudice, dopo aver esaminato le risposte o le dichiarazioni scritte del teste, tenendo conto degli eventuali rilievi delle parti, può optare per il suo interrogatorio diretto in udienza, disponendo che sia chiamato a deporre davanti a lui ovvero davanti al giudice delegato del luogo. SEZIONE VIII: LE PRESUNZIONI E LE C.D. PROVE ATIPICHE L'art. 2727 ss c.c. definisce le presunzioni come le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire ad un fatto ignorato, e data la collocazione, se ne deduce che apparterrebbero al novero dei mezzi di prova. Tale classificazione è impropria in relazione alle presunzioni legali, che servono solo a ripartire l'onere della prova tra le parti in modo razionale. L'art. 2728 c.c. precisa che l'effetto delle presunzioni è dispensare da qualunque prova coloro in favore dei quali sono stabilite, sarà l'altra parte a dover provare il contrario, ossia l'inesistenza del fatto oggetto della presunzione legale (si discorre a riguardo di presunzioni legali relative perché ammettono prova contraria). Le presunzioni legali assolute escludono invece la possibilità di qualunque prova contraria, ma sono estranee al tema della prova, essendo una tecnica che il legislatore utilizza per meglio definir una fattispecie sul piano sostanziale. LE PRESUNZIONI SEMPLICI Le presunzioni semplici, quelle cioè lasciate alla prudenza del giudice (art. 2729 c.c.), più che un vero e proprio mezzo di prova, sono un modo di ragionare, un procedimento logico che potrebbe definirsi induttivo, al quale il giudice è costretto a ricorrere frequentemente nella formazione del proprio convincimento circa i fatti rilevanti per la decisione e nella valutazione stessa delle prove. Spesso accade che l’esistenza o inesistenza di un certo fatto, principale o secondario, non venga dimostrato direttamente ma sia desumibile invia indiretta, muovendo da uno o più fatti che possono considerarsi noti (o perché notori o perché già provati). Il giudice, partendo da un fatto noto, risale al fatto ignoto da provare tramite l'applicazione delle massime d'esperienza, le quali indicano l'insieme delle regole e dei principi offerti dalla logica nonché dalle scienze naturali e sociali, o semplicemente desumibili dall'osservazione empirica dei comportamenti umani; regole che il giudice ricerca autonomamente e che devono avere valenza oggettiva, essendo generalmente riconosciute o percepibili e condivisibili dall'uomo di media cultura. La presunzione si riferisce alle ipotesi in cui l'applicazione della massima d'esperienza consente solamente di formulare un giudizio di probabilità circa l'esistenza del fatto da provare. Il giudice deve ammettere solo presunzioni gravi, precise e concordanti, quindi il convincimento del giudice deve sempre rispondere a criteri razionali e deve far ricorso solo a massime d'esperienza in grado di fornire risultati altamente attendibili. È escluso l'uso delle presunzioni quando debba provarsi un fatto per cui non sarebbe ammessa la prova per testimoni. PROVE ATIPICHE E PROVE ILLECITE Le prove atipiche non sono comprese nel catalogo risultante dal codice civile e dal codice di procedura civile. Possono anche corrispondere a prove che pur trovandosi nei codici, siano state assunte con modalità diverse da quelle prescritte dalla legge. Le più frequenti sono la dichiarazione di scienza contenuta in uno scritto proveniente da un terzo; la perizia stragiudiziale; le prove raccolte o i fatti accertati dalla sentenza pronunciata in un diverso processo; le nuove prove create dal progresso delle scienze e della tecnologia quando non siano assimilabili alle prove tipiche. In dottrina prevale l'idea che la possibilità di far ricorso a mezzi di prova diversi da quelli tipici sia confermata, in via generale e indiretta, dall'art. 2729 c.c., da cui può desumersi la atipicità degli indizi utilizzabili per risalire da un fatto noto a un fatto ignoto. In base a tale premessa, l'utilizzazione della prova atipica incontra delle limitazioni: • non sembra ammissibile che, invocando a sproposito il principio del libero convincimento del giudice, trovino ingresso nel processo prove che altrimenti risulterebbero in concreto sostitutive di quelle disciplinate dalla legge; • non è pensabile che il giudice fondi il proprio convincimento (valutandola come prova atipica) su una prova tipica che sia stata assunta irritualmente, ossia in violazione delle disposizioni ad essa relative; • deve sempre essere assicurato il rispetto del principio del contraddittorio, tanto nella fase di formazione della prova quanto nel momento della sua valutazione. Questo dovrebbe far preliminare ed egualmente idonea a definire il giudizio; il giudice istruttore può scegliere se investire immediatamente della questione il collegio oppure completare l'istruttoria è far decidere la questione stessa alla fine, unitamente al merito. In tutti i casi che precedono la rimessione è totale, il collegio viene investito di tutta la causa (art. 189 co 2°), cosi che, pur quando la rimessione fosse stata occasionata dal sorgere di una questione preliminare o pregiudiziale, il collegio potrebbe pronunciare sul merito della causa, qualora reputasse matura per la decisione senza bisogno di assumere delle prove. LA PRECISAZIONE DELLE CONCLUSIONI E GLI SCRITTI DIFENSIVI FINALI Quando il giudice istruttore decida di rimettere la causa al collegio, deve invitare le parti a precisare davanti a lui le conclusioni che intendono sottoporre al collegio, nei limiti di quelle formulate negli atti introduttivi. La prassi riserva a tale incombenza un'udienza ad hoc, la c.d. Udienza di precisazione delle conclusioni, che viene fissata a distanza considerevole di tempo da quella in cui il giudice ha disposto la rimessione al collegio. La precisazione delle conclusioni ha una duplice utilità: fare il punto circa le eventuali modificazioni apportate alle conclusioni iniziali in sede di trattazione della causa, e procedere a qualche ulteriore aggiustamento, sia in senso riduttivo sia nel senso della precisazione di domande ed eccezioni anteriormente proposte. In concreto però si risolve in una mera formalità, le parti si limitano a richiamare genericamente tutte le conclusioni prospettate nei propri anteriori scritti difensivi. Dopo la precisazione delle conclusioni, la causa passa effettivamente al collegio, al quale non resta, di regola, che deciderla. Le parti devono scambiarsi le comparse conclusionali (scritti in cui si sviluppano, alla luce dei risultati dell'eventuale istruttoria, le tesi difensive della parte) e le memorie di replica (scritti che contraddicano le comparse conclusionali, senza poter ampliare il tema controverso). L'art. 190 prevede che le comparse conclusionali debbano essere depositate in cancelleria entro il termine perentorio di 60 giorni dalla rimessione della causa al collegio, e le memorie di replica nei 20 giorni successivi; salva la possibilità per il giudice istruttore di abbreviare fino ad un minimo di venti giorni il solo termine per il deposito delle conclusionali. La scadenza del termine per il deposito delle memorie di replica rappresenta il momento in cui la causa entra nella fase decisoria vera e propria, da tale data prende a decorrere il termine di 60 giorni entro cui la sentenza collegiale dovrebbe essere depositata in cancelleria (art. 275). L’EVENTUALE UDIENZA DI DISCUSSIONE DINANZI AL COLLEGIO Fino alla riforma del '90 il giudice istruttore, nel rimettere la causa al collegio, fissava in ogni caso un'udienza davanti al collegio stesso, destinata alla discussione della causa, che precedeva l'inizio della fase decisoria. Oggi tale udienza viene fissata solo se una delle parti ne fa espressa istanza. L'art. 275 co 2° stabilisce che ciascuna delle parti, al momento della precisazione delle conclusioni, può chiedere che la causa sia discussa oralmente davanti al collegio; tale richiesta deve essere riproposta al presidente del tribunale alla scadenza del termine per il deposito delle memorie di replica. Il presidente provvede con decreto, di cui non è necessaria alcuna comunicazione alle parti, fissando la data dell'udienza di discussione entro 60 giorni. A tale udienza il giudice istruttore tiene la relazione orale della causa agli altri componenti del collegio; dopo di che il presidente ammette le altre parti alla discussione orale. Al termine la causa passa nella fase decisoria e la sentenza deve essere depositata in cancelleria entro i 60 giorni successivi. LE ALTRE IPOTESI DI RIMESSIONE AL COLLEGIO Oltre alle ipotesi di rimessione totale esistono altre di rimessione parziale, in cui il collegio non viene investito di tutta la causa, ma soltanto della decisione di alcune questioni particolari: • delle questioni concernenti l'ammissione al giuramento decisorio: in questo caso poiché la risoluzione delle eventuali contestazioni sorte tra le parti è riservata al collegio, e poiché il giuramento è idoneo a condurre all’immediata decisione della causa, il giudice istruttore dovrà rimettere immediatamente la questione al collegio senza attendere la conclusione dell’istruttoria; • delle questioni relative all'ammissibilità dell'intervento, volontario o coatto, che di regola sono decide insieme col merito, salvo che il giudice istruttore disponga a norma dell'art. 187 co 2°; • della decisione sulla querela di falso; • della decisione sull'istanza di verificazione proposta in via incidentale. In questi casi, le parti non sono tenute a proporre le proprie conclusioni di merito né a scambiarsi comparse conclusionali e memorie di replica, e il collegio non potrebbe decidere la causa, o questioni diverse da quella che ha dato luogo alla rimessione. LA FASE DECISORIA IN SENSO STRETTO: LA DELIBERAZIONE DELLA SENTENZA E L’EVENTUALE RILIEVO D’UFFICIO IN QUESTIONI NUOVE Con lo spirare del termine per il deposito delle memorie di replica, o quando sia stata chiesta l’udienza di discussione, con la conclusione della stessa, inizio la fase propriamente decisoria. La deliberazione della sentenza, la tappa del relativo iter, avviene in segreto nella camera di consiglio e si conclude con la redazione e la sottoscrizione del solo dispositivo da parte del presidente del collegio. È importante comprendere come si stabilisce per ciascuna causa l’effettiva composizione del collegio che deve deciderla, tenuto conto che fino alla rimessione del processo l’unico magistrato noto è il giudice istruttore. Il meccanismo è semplice qualora debba fissarsi un’udienza ad hoc dinanzi al collegio. Di solito comunque, il numero dei magistrati chiamati a partecipare a ciascuna udienza è superiore a quello di 3 richiesto per deliberare e in queste ipotesi è previsto che il collegio per ogni singola causa sia formato dal presidente, dal relatore (ossia lo stesso giudice istruttore) e dal giudice più anziano tra gli altri. Si ha qualche dubbio nel caso in cui non sia stata chiesta la discussione orale, per questa ipotesi è previsto che il presidente di ciascuna sezione all’inizio di ogni trimestre, determini con decreto i giorni in cui si terranno le camere di consiglio per deliberare e la composizione dei relativi collegi. Quel che non viene precisato, è come si determina per ciascuna causa la data della camera di consiglio in cui il collegio dovrà deliberare. Per evitare però dubbi di legittimità costituzionale, la data di deliberazione dovrebbe coincidere con quella della prima camera di consiglio utile, successiva alla scadenza del termine per il deposito delle memorie di replica. L'art. 101 co 2°, introdotto dalla riforma del 2009, a garanzia dell'effettività del contraddittorio, prevede che il giudice, quando ritenga di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d'ufficio, debba a pena di nullità, nel riservarsi la decisione, assegnare alle parti un termine, non inferiore a venti e non superiore a quaranta giorni dalla comunicazione del provvedimento, per il deposito in cancelleria di memorie contenenti osservazioni sulla questione stessa. LA FORMA DEI PROCEDIMENTI DEL COLLEGIO La rimessione al collegio può sempre condurre alla definizione dell’intero giudizio con una decisione a seconda dei casi di merito oppure di rito. In entrambe le ipotesi il provvedimento che pone fine al processo riveste, di regola, la forma della sentenza. In base all'art. 279 co 2° nn. da 1 a 3, la pronuncia con sentenza è prescritta: • quando viene deciso totalmente il merito, cioè quando vengono accolte o rigettate l'unica domanda oppure tutte le domande cumulate nel processo; il rigetto di una domanda nel merito può anche derivare dall’accoglimento di un’eccezione di merito avente carattere preliminare che magari aveva indotto il giudice istruttore ad una rimessione anticipata al collegio. Il rigetto di una siffatta eccezione lascerebbe ovviamente in pregiudicata la decisione sulla fondatezza della domanda. • quando viene definito il giudizio in seguito alla decisione di una questione di giurisdizione oppure di un'altra questione pregiudiziale attinente al processo diversa dalla competenza. Anche in questi casi la chiusura del processo deriva dall’accoglimento della questione pregiudiziale di rito, ma qui il merito della causa resta in pregiudicato e la domanda potrebbe essere riproposta in un nuovo giudizio. In questi casi la sentenza è definitiva perché conclude il processo davanti al giudice adito. La pronuncia con sentenza non definitiva ricorre invece, ai sensi dell'art. 279 co 2° n 4: • quando il collegio si limita a decidere, dichiarandola infondata, una questione pregiudiziale di rito (diversa dalla competenza) oppure una questione preliminare di merito; nei quali casi il processo dovrà proseguire per accertare se la domanda sia o no fondata nel merito; • quando il collegio decide parzialmente il merito, accogliendo o rigettando alcune soltanto delle più domande cumulate nel processo. In entrambi i casi la pronuncia della sentenza non definitiva si accompagna inevitabilmente alla pronuncia di distinti provvedimenti, resi con ordinanza, con i quali lo stesso collegio impartisce disposizioni circa l'ulteriore istruzione della causa, che deve tornare necessariamente davanti al giudice istruttore. La pronuncia della sentenza è prescritta, ai sensi dell'art. 279 co 2° n 5, quando il collegio decisa alcune soltanto delle cause fino a quel momento riunite e con distinti provvedimenti disponga la separazione e la prosecuzione dell'istruzione per le altre. Si ha una decisione parziale del merito, ma il cumulo di cause viene definitivamente scisso in conseguenza di un'ordinanza di separazione. La decisione con ordinanza è prevista quando il collegio provvede soltanto su questioni relative all'istruzione della causa, senza definire il giudizio, nonché quando decide esclusivamente sulla competenza. LA SENTENZA DI CESSAZIONE DELLA MATERIA DEL CONTENDERE La cessazione della materia del contendere è un istituto finalizzato a dar rilievo ad alcuni eventi, di natura processuale o sostanziale, sopravvenuti nel corso del giudizio che impedirebbero di accogliere la domanda nella sua formulazione originaria, es. il caso in cui il convenuto paghi il proprio debito. Per evitare conseguenze incongrue si ammette che il giudice possa dichiarare cessata la materia del contendere e pronunciare sulle spese in base al criterio della soccombenza meramente virtuale o potenziale, valutando quello che sarebbe stato l’esito del giudizio senza il sopravvenire di quel determinato fatto. La cessazione della materia del contendere rappresenta un peculiare contenuto della sentenza definitiva. Le fattispecie di natura sostanziale che più frequentemente vengono ricondotte a tale istituto sono quelle da cui deriva la piena realizzazione del diritto per cui era stata invocata la tutela giurisdizionale, oppure la sua estinzione non derivante dalla volontà delle parti. Sul piano processuale la pronuncia di cessazione della materia del contendere viene spesso adoperata in caso di concorso di impugnazione nei confronti della stessa sentenza poiché l’accoglimento dell’una impugnazione rende inutile la prosecuzione dell’altra. La natura di questo provvedimento è molto controversa, la tesi più persuasiva è che si tratti di una sentenza di merito che peraltro pronuncia su un oggetto diverso rispetto a quello originario, solitamente limitato al mero accertamento del diritto dedotto in giudizio. LA FORMULAZIONE DELLA SENTENZA-DOCUMENTO Dopo la deliberazione apre il procedimento interno diretto alla stesura della sentenza vera e propria ossia del documento contenente gli elementi prescritti dall’art.132. definisce il giudizio. Per tutte le impugnazioni diverse dall’appello la norma di riferimento è costituita dall’art. 373 co 1 che si riferisce al ricorso per cassazione e poi anche alla revocazione e all’opposizione di terzo. In questo caso l’inibitoria può consistere stando alla lettera dell’articolo nella sola sospensione della cessazione il che farebbe pensare ad un’esecuzione necessariamente già iniziata. Non sembra impossibile intendere estensivamente tale disposizione ammettendo che la richiesta di sospensione possa essere avanzata in via preventiva e possa riguardare l’efficacia esecutiva in sé. I presupposti dell’inibitoria sono diversi sebbene sia inevitabile che il giudice guardi anche alle ragioni sulle quali si fonda l’impugnazione, assume rilievo specifico è prevalente la circostanza che dall’esecuzione possa derivare un grave e irreparabile danno. L’EFFICACIA DI ACCERTAMENTO E COSTITUTIVA Gli effetti di accertamento o costitutivi presuppongono il passaggio in giudicato della sentenza. Dopo la riforma del 1990, tenuto conto che l’art. 282 si riferisce genericamente alla sentenza di primo grado e non alla condanna, una parte della dottrina ha sostenuto che la possibilità che la esecutività provvisoria si estenda, se non alle sentenze di mero accertamento, quanto meno a quelle costitutive. La tesi però non si può condividere poiché la versione originaria dell’art.282 menzionava le sole sentenze di condanna e perché essa si tradurrebbe in un abrogazione dell’art. 2909 c.c, preparando l’esecutività provvisoria della sentenza una vera e propria anticipazione degli effetti del giudicato. Deve ritenersi che la sentenza, non possa fare stato né possa essere invocata in un diverso giudizio prima che sia passata in giudicato. Questo però non esclude che essa all’interno del processo in cui sia pronunciata, sia invece idonea sebbene non ancora passata in giudicato, a fondare ulteriori provvedimenti che trovino la propria ragion d’essere nel rapporto oggetto del mero accertamento oppure nella modificazione sostanziale recata dalla sentenza costitutiva. LA SENTENZA CONDIZIONALE Per ragioni di economia processuale, la figura della sentenza condizionale (accertamento condizionato al verificarsi di un evento futuro ed incerto) ha trovato frequentemente riconoscimento nella giurisprudenza, particolarmente in relazione alle statuizioni di condanna, la cui efficacia si ammette che possa essere subordinata ad un evento futuro e incerto, oppure al sopravvenire di un termine o all'adempimento di una controprestazione; purché si tratti di una circostanza che non richieda ulteriori accertamenti giudiziali e sia invece verificabile, all'occorrenza, in sede di opposizione all'esecuzione. Non mancano ipotesi in cui espressamente previsto che l’efficacia esecutiva di una sentenza di condanna sia subordinata, per legge o in virtù di un provvedimento del giudice, a un determinato adempimento. La condanna condizionale è caratterizzata dalla circostanza che l’obbligo accertato nella sentenza non può comunque dirsi realmente attuale, non essendosi verificati tutti i fatti dei quali esso dipende. Presupposto è che la condanna, pur rimanendo subordinata ad un evento futuro, sia almeno compiutamente specificata nel quantum. La sentenza condizionale non sembra configurabile al di fuori della condanna, essendo difficile ammettere che una modificazione giuridica, che dovrebbe prodursi in virtù del provvedimento del giudice, possa essere da quest’ultimo differito al verificarsi di un fatto futuro incerto che lo stesso giudice rinuncerebbe ad accertare e che è indispensabile affinché quella modificazione giuridica possa prodursi. 1 CAPITOLO 10 LA CONCLUSIONE DEL PROCESSO SENZA DECISIONE SEZIONE I: LA CONCILIAZIONE Accanto alle ipotesi in cui si pervenga ad una sentenza definitiva, il processo può concludersi in altri due modi: per conciliazione o per estinzione. La conciliazione giudiziale (diversa da quella che si svolge al di fuori del processo) presuppone un accordo, solitamente transattivo, diretto a porre fine alla controversia. Non accade però spesso che le parti, pur avendo raggiunto un tale accordo, lo formalizzino davanti al giudice per farlo inserire in un apposito verbale, soprattutto per conseguenze di ordine fiscale. Alla conciliazione si ricorre solamente quando le parti abbiano un preciso interesse a munirsi di un titolo esecutivo, giacché il verbale di conciliazione ha tale efficacia, oppure a rendere inoppugnabile l'accordo raggiunto sul piano sostanziale. Il tentativo di conciliazione è esperibile su richiesta congiunta delle parti o per iniziativa dello stesso giudice, solitamente all'inizio della trattazione, e può essere rinnovato in qualunque momento dell'istruzione (art. 185) e anche in appello (art. 350 co 3°). L'art. 88 disp. att. prevede che la conciliazione possa intervenire, a titolo provvisorio e precario, tra i procuratori delle parti che non siano stati espressamente autorizzati a conciliare: il giudice ne prende atto nel verbale di udienza e fissa un'udienza successiva, in cui potranno comparire le parti al fine di redigere il vero e proprio verbale di conciliazione. Sebbene la legge non lo precisi, è opinione diffusa che la redazione del verbale di conciliazione debba essere seguita da un provvedimento di cancellazione della causa dal ruolo, che serve a sancire il definitivo esaurimento del giudizio e il conseguente venir meno della litispendenza. SEZIONE II: L'ESTINZIONE DEL PROCESSO Il legislatore reputa normale che il processo, quando non è possibile conseguire la conciliazione delle parti, si concluda con una decisione di merito o di rito. Molte cause invece non arrivano a quella decisione, bensì si estinguono per diverse ragioni. Il codice prevede che l'estinzione possa aversi per rinuncia agli atti del giudizio oppure per inattività delle parti. In entrambi i casi il processo può concludersi formalmente con un provvedimento del giudice che si limita a dare atto dell’avvenuta estinzione. LA RINUNCIA DEGLI ATTI DEL GIUDIZIO Fino a quando la causa non perviene alla fase decisoria, l'attore può rinunciare agli atti del giudizio, ovvero dichiarare di non volerlo proseguire. Perché la rinuncia agli atti possa condurre all'estinzione, è necessario che sia accettata da tutte le parti costituite che potrebbero avere interesse alla prosecuzione del giudizio (art. 306), in quanto l'estinzione non pone al riparo il convenuto dal rischio di dover affrontare un nuovo processo, laddove la stessa domanda sia successivamente riproposta, pertanto è possibile che egli, specialmente dove sia sufficientemente sicuro delle proprie ragioni, preferisca perseguire una sentenza di merito a lui favorevole (cioè il rigetto della domanda). L'accettazione è sicuramente necessaria quando il convenuto abbia a sua volta proposto una domanda riconvenzionale. Non è richiesta da parte del contumace né da parte del convenuto che abbia già reso palese di non avere interesse ad una pronuncia di merito, ad es. eccependo un difetto di competenza o giurisdizione. Sia la rinuncia che l'accettazione esorbitano i poteri attribuiti al difensore con la procura ad litem, e quindi devono provenire dalle parti personalmente o da un loro procuratore speciale. Le relative dichiarazione possono essere rese verbalmente all'udienza oppure possono essere inserite in atti scritti, sottoscritti e notificati alle altre parti. 2 L'accettazione non può contenere, pena l'inefficacia, riserve o condizioni. Il co. 4° prevede che il rinunciante sia tenuto a rimborsare le spese del processo alle altre parti, salvo il caso di diverso accordo, si deduce che l'efficacia della rinuncia possa essere subordinata all'accettazione di una determinata proposta di ripartizione delle spese. Appurato che la rinuncia e l'accettazione siano regolari, il giudice dichiara l'estinzione e liquida le spese con ordinanza non impugnabile. Segue. LA RINUNCIA AL DIRITTO, ALL’AZIONE, O AD UNA O PIU’ DOMANDE. Dopo aver delineato le caratteristiche della rinuncia agli atti, è opportuno distinguere da tale istituto altre figure ad esso contigue e diverse per presupposti ed effetti, che sono prive di un’espressa disciplina: la rinuncia al diritto dedotto in giudizio, la rinuncia all’azione e la rinuncia ad una determinata domanda. Dalla rinuncia agli atti del giudizio si distinguono: 1. la rinuncia al diritto, nei limiti in cui sia consentita dall'ordinamento, è un atto abdicativo unilaterale che opera sul piano sostanziale, senza bisogno di accettazione di soggetti diversi dal titolare da cui promana, e può avere effetti meramente indiretti sul processo, determinando ad es. una pronuncia di cessazione della materia del contendere. 2. La rinuncia all'azione, investe il diritto d'azione impedendo che la domanda possa essere in futuro riproposta in un altro processo; non esige l'accettazione delle altre parti. 3. La rinuncia ad una soltanto delle più domande cumulativamente proposte ha effetti meramente endoprocessuali, interni al processo, non esclude che la stessa domanda venga poi riproposta in un nuovo processo, a meno che non trovi ostacolo nel giudicato formatosi nel primo giudizio. Rientra, secondo l'orientamento prevalente, nei consueti poteri del difensore-procuratore, e prescinderebbe dall'accettazione delle altre parti. È però preferibile ritenere che, se la domanda resta impregiudicata, la sua rinuncia per un verso è svincolata dalle prescrizioni dell'art. 306, poiché non richiede l'accettazione espressa delle altre parti, ma dall'altro non può impedire all'avversario, che ne abbia concretamente interesse, di pretendere egualmente una decisione di merito, cioè l'accertamento negativo del diritto posto a fondamento della domanda rinunciata. L’ESTINZIONE PER INATTIVITA’ DELLE PARTI E LA RIASSUNZIONE DEL PROCESSO QUISCENTE. Le fattispecie di inattività delle parti che possono condurre all’estinzione, a norma dell’art. 307, sono molteplici; si distinguono in particolare quelle che hanno come conseguenza l'estinzione immediata e quelle che invece determinano una sorta di quiescenza del processo, una situazione intermedia nella quale il processo, pur non essendo sul ruolo dell'ufficio giudiziario, è ancora giuridicamente pendente e può essere riattivato attraverso la semplice riassunzione; in questo secondo gruppo di fattispecie l’estinzione si verifica solamente con la scadenza del termine per la riassunzione. È opportuno sottolineare che questo meccanismo di “recupero” (la riassunzione) può operare una volta soltanto, infatti l'art. 307 co 2° prevede che, se dopo una prima riassunzione si verifica nuovamente una delle ipotesi di inattività, il processo si estingue direttamente e immediatamente. La riassunzione è un nuovo atto di impulso, destinato a rimettere in moto, previa ricostituzione del contraddittorio, una causa che era entrata in una situazione di quiescenza, dovuta ad es. alla sua cancellazione dal ruolo, alla sospensione o all'interruzione del processo, ad una traslatio iudicii, cioè alla sua rimessione ad un diverso ufficio giudiziario. Essa consente la continuazione del processo e dunque la conservazione degli effetti sostanziali e processuali prodotti dall'atto introduttivo del giudizio. In mancanza di norme ad hoc la riassunzione deve essere fatta con una comparsa (da notificare al difensore-procuratore della parte costituita, oppure personalmente a quella non costituita), con elementi analoghi a quelli necessari per l'atto di citazione iniziale, tra cui l'indicazione dell'udienza di comparizione, nel rispetto dei termini dell'art. 163-bis, fatte salve alcune peculiarità: non è indispensabile reiterare la formulazione della domanda nei suoi elementi oggettivi, ma è sufficiente il mero richiamo 5 si è verificata e che il giudizio deve pertanto proseguire, oppure una sentenza, impugnabile attraverso le vie ordinarie, allorché rigetti il reclamo confermando l'estinzione. Nelle cause che invece spettano alla decisione del giudice istruttore in funzione di giudice unico la pronuncia di estinzione riveste la forma della sentenza, sia perché egli è qui investito di tutti i poteri del collegio, sia perché, trattandosi di un provvedimento definitivo del processo, alle parti deve esser dato il diritto di impugnarlo. Il legislatore non ha direttamente disciplinato la forma del provvedimento che rigetti l’eccezione di estinzione. Tenendo conto del regime ordinario dei provvedimenti del giudice istruttore, è da ritenere che tale pronuncia debba essere assunta con ordinanza, non soggetta a reclamo né ad altra autonoma impugnazione e pertanto revocabile e modificabile, fermo restando che se il giudice avesse sbagliato nel negare l’avvenuta estinzione, il vizio potrebbe essere sempre dedotto attraverso l’impugnazione proponibile nei confronti della sentenza di merito. GLI EFFETTI DELL’ESTINZIONE L'art. 310 disciplina alcuni effetti dell'estinzione del giudizio di primo grado, comuni all’estinzione per rinuncia agli atti e a quella per inattività delle parti. Il primo punto da considerare riguarda gli effetti sull’azione. In base al co. 1 l'estinzione del processo non estingue l'azione, non osta alla riproposizione della stessa domanda in un nuovo processo, né può direttamente pregiudicare il diritto che era stato dedotto nel giudizio estinto; Non vanno trascurati però gli effetti negativi indiretti che l’estinzione potrebbe determinare in relazione alla prescrizione e alla decadenza del diritto azionato. La domanda giudiziale produce un effetto interruttivo-sospensivo della prescrizione, che riprende a decorrere, di regola, dal momento in cui passa in giudicato la sentenza definitiva del giudizio. Se però il processo non arriva alla sentenza definitiva e si estingue prima, l'effetto sospensivo viene cancellato e sopravvive il solo effetto interruttivo: il nuovo periodo di prescrizione prende a decorrere dalla data in cui quell'effetto interruttivo si era verificato, cioè dal giorno stesso della notifica della domanda giudiziale. Non è quindi escluso che l'estinzione del processo provochi, anche solo di riflesso, l'estinzione del diritto che vi era stato fatto valere; Meno pacifiche sono, in mancanza di una disposizione ad hoc, le relazioni tra l’estinzione del processo e la decadenza. La decadenza non può essere interrotta né sospesa, ma solamente impedita mediante il compimento dell'atto previsto dalla legge o dal contratto. Si discute se nell’ipotesi in cui l’esercizio del diritto è soggetto a un termine di decadenza, la tempestiva proposizione della domanda giudiziale sia idonea ad impedire una volta per tutte la decadenza del diritto medesimo, oppure se l’impedimento della decadenza resti travolto dall’eventuale estinzione del processo. L’orientamento prevalente rifiuta la prima soluzione, la quale paralizzerebbe gravemente le esigenze di certezza giuridica che sono alla base dell’istituto della decadenza. Ritiene pertanto che l'effetto impeditivo della decadenza, prodotto dalla domanda giudiziale, opera, in linea di principio, solo all'interno del processo in cui la domanda stessa è proposta, restando caducato ogni volta il processo si concluda senza una decisione di merito. Fanno eccezione le ipotesi in cui per evitare la decadenza non sia indispensabile una domanda giudiziale, ma sia sufficiente un atto stragiudiziale, in questi casi la domanda giudiziale altro non è se non l’occasione per una dichiarazione di volontà che poteva essere manifestata al di fuori del processo. L’INEFFICACIA DEGLI ATTI DEL PROCESSO ESTINTO Gli atti processuali sono normalmente privi di una propria autonoma funzione, diversamente dal provvedimento finale, cui sono strumentali. Pertanto essi perdono ogni efficacia qualora la decisione non possa più intervenire per essersi il processo estinto. Tale principio è ribadito dall’art. 310 co.2. Ci sono però delle eccezioni: 6 1. In primo luogo si ritiene che non possa valere per i provvedimenti che, pur traendo origine e occasione dal processo estinto, abbiano una propria autonoma ragion d’essere (es. decreto con di liquidazione del compenso dovuto al consulente tecnico); 2. In secondo luogo ci sono norme specifiche che stabiliscono la sopravvivenza all’estinzione dei provvedimenti sommari anticipatori resi nel corso del processo: in tal senso dispongono gli artt. 186 bis, 186 ter e 186 quater, nonché i provvedimenti temporanei urgenti nell’interesse dei coniugi. La riforma del 2005 ha previsto che conservino efficacia in deroga dell’art. 310, pure i provvedimenti anticipatori cautelari. 3. L'art. 310 co. 2 prevede che le sentenze di merito pronunciate nel corso del processo e le pronunce che regolano la competenza conservino l'efficacia, pur dopo l'estinzione. a. Per quanto riguarda le sentenze di merito, la norma non pone alcun problema quando si tratta di una decisione, ovviamente non definitiva, su domanda, ossia di una sentenza che abbia accolto o rigettato almeno una delle più domande cumulate nel processo: rispetto a questo tipo di sentenze la sopravvivenza all’estinzione può spiegarsi tenendo presente che si tratta di provvedimenti destinati a produrre effetti di natura extraproscessuale e dunque sul piano sostanziale ex art. 2909 c.c. b. Per quanto riguarda le pronunce che regolano la competenza è chiaro che il legislatore ha inteso riferirsi alle ordinanze con cui la Cassazione, adita con istanza di regolamento di competenza, statuisce sulla competenza indicando il giudice che deve occuparsi della causa. A tale decisione compete un’efficacia c.d. panprocessuale, nel senso che risolvendo una volta per tutte le questioni di competenza è idonea a vincolare e, salvo il caso di ius superveniens, che il giudice del nuovo processo in cui dovesse essere eventualmente riproposta la medesima domanda. L’opinione prevalente non solo interpreta estensivamente tale disposizione applicandola anche alle sentenze sulla competenza rese dalla Corte Suprema in sede di ricorso ordinario per Cassazione, ma concede uguale efficacia alle decisioni pronunciate dalla stessa corte su una questione di giurisdizione. c. Quanto riguarda le altre decisioni su questioni processuali (anche sulla competenza o giurisdizione rese non dalla Cassazione, ad esse compete efficacia meramente endoprocessuale ovvero gli effetti si avranno all’interno del processo in cui sono state pronunciate ma non vincoleranno alcun altro giudice. d. I maggiori dubbi riguardano le sentenze su questioni preliminari di merito ad esempio quelle che rigettano un’eccezione di prescrizione o di decadenza, che sono sentenze sul merito e non sul processo ma non possono considerarsi di merito in relazione all’art. 310 co. 2 tenendo conto che lasciano in pregiudicata la sorte della domanda. LA SORTE DELLE PROVE GIÀ RACCOLTE Nell’ambito degli atti nel processo estinto una disposizione specifica, art. 310 co. 3, disciplina l’efficacia delle prove ivi raccolte stabilendo che qualora la domanda venga successivamente riproposta, è valutata dal giudice a norma dell'art. 116 co 2°. Visto che il termine raccolte allude alle sole prove costituende, ovvero quelle formatesi nel processo estinto, giacché è pacifico che quelle precostituite mantengano l’efficacia loro peculiare, la norma sembra dunque declassare tutte le prove al rango di argomenti di prova. Tale conclusione è parsa eccessiva da una parte della dottrina che pertanto a cercato di limitare la portata di tale disposizione negando che essa possa applicarsi alle prove legali, pertanto è ragionevole ritenere che tale declassamento non riguarda la confessione. 1 CAPITOLO 11 LE ORDINANZE ANTICIPATORIE DI CONDANNA LA CATEGORIA DEI PROVVEDIMENTI SOMMARI (NON CAUTELARI) ANTICIPATORII I provvedimenti sommari non cautelari anticipatorii, secondo la dottrina, mirano ad anticipare gli effetti della sentenza di accoglimento della domanda in favore della parte che, nel corso del processo, risulti aver ragione sulla base degli elementi probatori fino a quel momento acquisiti. Questa categoria però risulta molto eterogenea sia per quanto riguarda i presupposti e al contenuto del provvedimento sia per il fatto che non sempre costituiscono titolo esecutivo e dunque consentono di avviare immediatamente il processo di esecuzione forzata. Le fattispecie più significative sono: • le ordinanze agli arti 186-bis, 264 co 3°, 423 co 1° e 648 che presuppongono la parziale non contestazione del diritto di credito ad una somma di denaro; • l'ordinanza all'art. 423 co. 2, fondata sulla convinzione del giudice che ritenga accertato il diritto nell'an e già raggiunta la prova per una parte della somma richiesta; • l'ordinanza di ingiunzione ex art. 186-ter, fondata sull'esistenza di una prova scritta del credito; • l'ordinanza di rilascio dell'immobile locato, all'art. 665; • l'ordinanza con cui il giudice, in caso di opposizione non fondata su prova scritta o di pronta soluzione, può concedere l'esecuzione provvisoria del decreto ingiuntivo ai sensi art. 648; • l'ordinanza di condanna alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, nel caso in cui il giudice, in qualunque momento del giudizio di merito, ritenga irrilevanti o insufficienti gli elementi di prova forniti dal datore di lavoro; • l'ordinanza successiva alla chiusura dell'istruzione, all'art. 186-quater. L’ORDINANZA DI PAGAMENTO DELLE SOMME NON CONTESTATE: I PRESUPPOSTI L'art. 186-bis prevede che il giudice istruttore, su istanza di parte e fino al momento della precisazione delle conclusioni, possa disporre con ordinanza il pagamento di somme non contestate dalle parti costituite. Tale ordinanza vale come titolo esecutivo, è revocabile e modificabile sia dal giudice istruttore che dal collegio, conserva la propria efficacia anche in caso di estinzione del processo. È un provvedimento anticipatorio avente natura sommaria non cautelare, utilizzabile solamente quando, in relazione ad una domanda avente ad oggetto il pagamento di una somma di denaro, il debitore si sia costituito in giudizio e non abbia contestato una parte dell'avversa pretesa. La rilevanza pratica dell’istituto è più limitata di quello che potrebbe pensarsi e i problemi che questo pone all’interprete sono 2: stabilire se per oggetto della non contestazione debbano intendersi fatti specifici e quindi i fatti costitutivi del diritto di credito, oppure la domanda (o il diritto) nel suo complesso: il problema riguardo questo punto è teorico e potrebbe incidere prevalentemente sui poteri del giudice. Alcuni autori partono dalla premessa che se la norma non alludesse ad un vero e proprio riconoscimento parziale del diritto non residuerebbe spazio per l’apprezzamento da parte del giudice della fondatezza della domanda; mentre se si assumesse che il riconoscimento riguarda i fatti costitutivi del diritto di credito, sarebbe possibile ammettere che il giudice conserva il potere di negare l’ordinanza anticipatoria allorché rilevi d’ufficio un fatto impeditivo, modificativo o estintivo oppure reputi la domanda infondata per ragioni giuridiche. Nel nostro ordinamento però, mancando una disposizione che disciplini espressamente il riconoscimento totale o parziale della domanda, si ritiene che quest’ultimo non possa vincolare automaticamente il giudice all’accoglimento della domanda stessa, bensì operi sul piano della fissazione dei fatti come se si trattasse di una ammissione implicita avente ad oggetto tutti i fatti posti a base della domanda. Dunque, l’art.186-bis allude ad un vero e proprio riconoscimento parziale della domanda ma al contempo non esclude il potere-dovere del giudice di verificare d’ufficio la fondatezza della domanda per ogni altro aspetto. 4 Segue: IL CONTENUTO E L’EFFICACIA DEL PROVVEDIMENTO L'ordinanza di ingiunzione è soggetta alla disciplina delle ordinanze revocabili, di cui agli art. 177 e 178, il che implica che si tratti di un provvedimento tendenzialmente provvisorio, destinato ad essere assorbito dalla sentenza di merito, che dovrà conseguentemente statuire sulla domanda di condanna per la quale era stata pronunciata l'ingiunzione, e inidoneo a pregiudicare in alcun modo tale successiva decisione. Se però il giudizio si estingue, il provvedimento sommario non soltanto sopravvive all'estinzione, ma anzi, qualora non ne sia già munito dall'origine, acquista efficacia esecutiva ai sensi dell'art. 653; per questo l'ordinanza di ingiunzione deve contenere la liquidazione delle spese e delle competenze del giudizio. Anche qui si ripropone il problema di precisare l’efficacia e la stabilità dell’ordinanza successivamente all’estinzione del processo in cui era stata pronunciata. Però comunque in questo caso il rinvio che viene fatto all’art. 653 (che disciplina l’efficacia del decreto ingiuntivo) induce a ritenere che il legislatore abbia assimilato l’efficacia dell’ordinanza di ingiunzione a quella generalmente riconosciuta nelle corrispondenti situazioni al decreto ingiuntivo che l’opinione prevalente equipara a quella di sentenza di condanna passata in giudicato. Se si accoglie questa soluzione si deve concludere che l’ordinanza di ingiunzione una volta divenuta immutabile in seguito all’estinzione del processo preclude l’esistenza del credito posto a base dell’ingiunzione. Segue: L’INGIUNZIONE RESA NEI CONFRONTI DEL CONTUMACE Nel caso in cui l'ordinanza d'ingiunzione sia pronunciata nei confronti di una parte contumace, deve essergli notificata, a pena di inefficacia, entro il termine previsto dall'art. 644 (solitamente 60 giorni) e deve contenere l'espresso avvertimento che, ove la parte non si costituisca entro il termine di 20 giorni dalla notifica, diventerà esecutiva ai sensi dell'art. 647. Il persistere della contumacia dell'intimato, alla scadenza del termine di 20 giorni dalla notifica dell'ingiunzione, non soltanto renderebbe esecutiva l'ordinanza che non fosse già tale, ma precluderebbe ogni ulteriore reazione da parte del debitore, facendo divenire l'ordinanza stessa virtualmente immutabile. Prima della scadenza di tale termine l'intimato ha la possibilità, costituendosi in giudizio, di chiedere la modifica o la revoca del provvedimento e/o la revoca della sua provvisoria esecuzione. L'ordinanza di ingiunzione pronunciata a carico del contumace ha una portata tendenzialmente definitiva; quando l'intimato non si costituisca nel termine, il giudice resta privato del potere-dovere di decidere, con l'eventuale sentenza successiva, la domanda di condanna a fronte della quale era stata pronunciata l'ordinanza in esame, quanto meno per la parte in cui tale domanda era stata accolta nel provvedimento anticipatorio. Il debitore ingiunto che abbia omesso di costituirsi nei 20 giorni successivi alla notificazione dell'ordinanza, può proporre, entro 10 giorni dal compimento, da parte del creditore, del primo atto dell'esecuzione forzata, un'opposizione tardiva, instaurando all'occorrenza un nuovo e autonomo procedimento davanti al medesimo ufficio giudiziario, a condizione che provi di non aver avuto tempestiva conoscenza dell'ingiunzione per irregolarità della relativa notifica o per caso fortuito o forza maggiore, o comunque di non essersi potuto costituire per caso fortuito o forza maggiore. L’ORDINANZA DI CONDANNA SUCCESSIVA ALLA CHIUSURA DELL’ISTRUZIONE: RILIEVI INTRODUTTIVI L'art. 186-quater prevede che il giudice istruttore, una volta esaurita l'istruzione, possa, su istanza di parte, disporre con ordinanza il pagamento di somme oppure la consegna o il rilascio di beni, «nei limiti per cui ritiene già raggiunta la prova», provvedendo pure sulle spese processuali. L'ordinanza costituisce titolo esecutivo, è revocabile con sentenza che definisce il giudizio e si converte automaticamente in sentenza in 2 ipotesi: • quando la parte intimata non manifesti, entro un breve termine, la volontà che sia pronunciata sentenza, • quando, successivamente alla pronuncia, il processo si estingua. 5 È un provvedimento anticipatorio che, pur essendo normalmente provvisorio, ha in sé l'attitudine a divenire definitivo quando si verifichino i presupposti per la sua trasformazione in sentenza; per questo non dovrebbe essere un provvedimento sommario, essendo pronunciato al termine dell'istruzione, e dunque sulla base di una cognizione piena ed esauriente. Per comprendere la ratio dell’istituto bisogna tener presente che uno dei sintomi più evidenti della crisi della giustizia civile è stata la dilatazione del tempo occorrente, dopo la conclusione dell’istruzione, perché la causa pervenga effettivamente dalla decisione. Oggi infatti gli uffici giudiziari sono pieni di lavoro e per questo può accadere che l’udienza di precisazione delle conclusioni che segna l’inizio della fase decisiva, venga fissata anche a due o tre anni di distanza dall’esaurimento della fase istruttoria o comunque dal momento in cui il giudice istruttore ha ritenuto che la causa sia matura per la decisone. Fin ora però il successo pratico dell’istituto è rimasto al di sotto delle aspettative del legislatore forse anche a causa della lacunosità della disciplina e anche perché ci sono stati dei dubbi circa i vantaggi della sua utilizzazione. Innanzitutto bisogna capire che la richiesta dell’ordinanza rischia di “sconvolgere” l’ordine che il giudice si era dato nella definizione delle controversie a lui affidate e ormai mature per la decisione, soprattutto ove si ritenga che il giudice abbia un vero e proprio dovere di provvedere su tale richiesta. In secondo luogo, la formulazione originaria dell’art.186-quater che esigeva una rinuncia espressa alla sentenza da parte dell’intimato, rendeva frequente l’eventualità che il magistrato, dopo essersi già studiato la causa per pronunciare l’ordinanza, fosse poi dopo costretto a studiarsela nuovamente per pronunciare e stendere sentenza. Segue: IL POSSIBILE OGGETTO L'art. 186-quater prevede che il giudice istruttore (competente anche quando è una causa di decisione del collegio), una volta esaurita l'istruzione, possa, su istanza di parte, disporre con ordinanza il pagamento di somme oppure la consegna o il rilascio di beni, nei limiti per cui ritiene già raggiunta la prova, provvedendo pure sulle spese processuali. La norma però presenta diversi problemi, uno abbastanza serio, per ciò che concerne il possibile oggetto della ordinanza, riguarda l’eventualità che una domanda di condanna di pagamento, consegna o rilascio sia condizionata, anche solo sul piano processuale, dall’accoglimento o dal rigetto di una diversa domanda che non potrebbe essere oggetto di analogo provvedimento anticipatorio: es. l’ipotesi in cui una domanda di condanna al rilascio d un immobile dipenda dall’accoglimento di una domanda di esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre assunto in un contratto preliminare di compravendita. In casi del genere si esclude che possa trovare applicazione l’art. 186-quater poiché non è pensabile che il giudice, sovvertendo l'ordine logico delle domande cumulate, pronunci su quella dipendente, con ordinanza, prima di decidere, con sentenza, su quella pregiudiziale; e per altro verso non è possibile ammettere che l'ordinanza decida, implicitamente o esplicitamente, sulla domanda latu sensu principale o pregiudiziale. Alcuni autori comunque, tenendo conto della circostanza che l’art. 186-quater impone al giudice anche la pronuncia sulle spese, ritengono, che l’ordinanza in esame possa utilizzarsi solo quando, in presenza di cumulo di cause, essa sia potenzialmente idonea a definirle tutte. Segue: I PRESUPPOSTI Perché si arrivi alla pronuncia di tale ordinanza è necessario, oltre all'istanza della parte che aveva proposto la domanda di condanna, che «sia stata esaurita l'istruzione». Questo implica: • che il provvedimento non potrà aversi prima che il giudice istruttore abbia invitato le parti alla precisazione delle conclusioni; • che esso non dovrebbe aver nessun aspetto di sommarietà poiché presuppone una causa già matura per la decisione e si fonda dunque su una cognizione piena sia da un punto di vista dei fatti cui si estende l’accertamento del giudice (ampiezza) sia da un punto di vista della profondità e cioè che tale accertamento si basa su prove raccolte e valutate secondo regole ordinarie. Si deve ritenere che il fatto per cui il pagamento o la consegna possano disporsi nei limiti per cui il giudice ritenga già raggiunta la prova, potrebbe far pensare a un provvedimento pronunciabile anche nel corso dell’istruzione. Questa interpretazione sarebbe però in contrasto con la ratio della norma e anche con il suo inciso iniziale e quindi bisogna pensare che il legislatore abbia inteso alludere al caso in cui 6 l’istruzione sia stata esaurita solo rispetto a taluna di più domande cumulate. In questo caso può succedere anche che il giudice, se vi sono le condizioni, disponga la separazione delle cause e ordini la precisazione delle conclusioni solo rispetto a quelle già completamente istruite e provveda nei confronti di queste ex art. 186-quater. Questa ordinanza non può chiedersi dopo la rimessione della causa al collegio o dopo che la stessa, al termine dell'udienza di precisazione delle conclusioni, sia passata nella fase decisoria, sia perché in tale fase non c'è spazio per ulteriori attività delle parti, sia perché questo non consentirebbe all'altra parte alcun contraddittorio. Punto delicato è quello che riguarda l’esistenza di un obbligo per il giudice istruttore di provvedere sull’istanza e dunque pronunciare ordinanza ogni volta che ne sussistano i presupposti. A tal riguardo quello che spinge a scegliere una soluzione negativa è la circostanza che si tratta di vincolare il giudice, eventualmente ad adottare un determinato iter per la decisione. Segue: L’EFFICACIA E IL REGIME DI STABILITÀ In base all'art. 186-quater co. 2, l'ordinanza in esame costituisce titolo esecutivo ed è revocabile solo con la sentenza che definisce il giudizio. Successivamente alla pronuncia è possibile che l'ordinanza acquisti automaticamente l'efficacia della sentenza impugnabile sull'oggetto dell'istanza: viene integralmente assimilata, anche per quel che concerne l'idoneità al giudicato, ad una sentenza di accoglimento della domanda, e può quindi essere appellata, nei consueti termini, sia dall'intimato sia dallo stesso attore, la cui domanda sia stata in parte disattesa. Quando la parte intimata, entro i 30 giorni successivi alla pronuncia dell'ordinanza o alla relativa comunicazione, non manifesti espressamente, con ricorso notificato all'altra parte e depositato in cancelleria, la propria volontà che il giudice pronunci sentenza, l'ordinanza verrà assimilata ad una sentenza. L’art.186-quater prende in considerazione esclusivamente i poteri dell’intimato lasciando intendere che l’intimante non ha alcun diritto di pretendere la pronuncia della sentenza neppure quando la sua domanda di condanna sia stata accolta solo parzialmente. Seconda ipotesi di «conversione» si ha nel caso in cui l'intimato abbia optato per la pronuncia della sentenza e successivamente il processo si sia estinto. Dottrina e giurisprudenza sono equamente divise circa la possibilità che la trasformazione da ordinanza in sentenza trovi applicazione anche quando il provvedimento abbia integralmente rigettato la domanda di condanna-> tale soluzione presupporrebbe il potere-dovere del giudice di liquidare le spese anche in questo caso. 3 • In altri casi la sospensione facoltativa e discrezionale si ricollega a valutazioni di mera opportunità, concernenti il coordinamento tra processi diversi, oppure tra procedimenti di grado diverso aventi origine dal medesimo processo. LA SOSPENSIONE PER PREGIUDIZIALITÀ CIVILE: L’IMPOSTAZIONE TRADIZIONALE L'art. 295 prevede che “Il giudice dispone che il processo sia sospeso in ogni caso in cui egli stesso o altro giudice deve risolvere una controversia, dalla cui definizione dipende la decisione della causa”. Il problema centrale è proprio quello di stabilire quand’è che la decisione di una causa dipende dalla definizione di un’altra controversia di cui sia investito lo stesso giudice. La connessione di cause presupposta nell’art. 295 è rappresentata dalla pregiudizialità-dipendenza di natura sostanziale, ossia da una particolare relazione fra rapporti giuridici caratterizzata dal fatto che l'esistenza o l'inesistenza di un diritto o di uno status dipende dall’esistenza o inesistenza di un diverso rito o status che si profila, in relazione alla fattispecie dedotta in giudizio, quale fatto costitutivo oppure, al contrario, quale fatto impeditivo, modificativo o estintivo del primo. La decisione intervenuta sul rapporto pregiudiziale, una volta passata in giudicato, sarebbe idonea a fare stato ad ogni effetto, ai sensi dell'art. 2909 c.c. e sempre che ne ricorrano le ulteriori condizioni (in particolare l'identità dei soggetti titolari dei due rapporti), sull'esistenza o inesistenza di tale rapporto, anche per ciò che può interessare il rapporto dipendente. Non vi è concordia però circa la ratio dell’istituto e neppure riguardo le condizioni che dovrebbero concorrere perché il processo possa essere sospeso. In base ad una tesi più tradizionalistica, questa conferisce il più ampio spazio alla sospensione in esame e in questo caso l’intento del legislatore sarebbe stato quello di assicurare l’armonia dei giudicati, evitando, laddove il rapporto pregiudiziale e dipendente siano contemporaneamente oggetto di diversi processi, che la definizione del giudizio dipendente, in cui sia sorta la questione circa l’esistenza del rapporto pregiudiziale, avvenga PRIMA della decisione del processo sul rapporto pregiudiziale e diverga da quest’ultima. Es. -> ipotizziamo che Tizio, adducendo di essere erede di Caio, abbia agito contro Sempronio per il pagamento di un debito che questi aveva verso il de cuius e che, al contempo, penda un altro processo tra le stesse parti aventi ad oggetto proprio l’accertamento della qualità di erede Tizio. Bene, se i due giudizi pendessero autonomamente e separatamente, potrebbe avvenire che il primo giudice accolga la domanda dopo aver riconosciuto (incidenter tantum) la qualità di erede in capo all’attore e che successivamente, quando la prima decisione è divenuta inoppugnabile, la sentenza pronunciata nell’altro giudizio dia ragione a Sempronio, escludendo, con efficacia di giudicato, che Tizio è erede di Caio. Seguendo questa impostazione, la sospensione si renderebbe necessaria ogniqualvolta, in presenza di una connessione fra due cause contemporaneamente pendenti, non fosse possibile, per qualunque ragione, la loro trattazione unitaria, sia ab origine, sia in seguito a riunione o fusione dei due processi ex art. 274 e 40. Oggi però con la soppressione delle preture e la particolare disciplina della connessione fra cause di competenza del tribunale e cause spettanti al giudice di pace rendono meno frequente l’ipotesi che il simultaneus processus tra cause connesse non possa realizzarsi. L’ambito di applicazione dell’art. 295 inoltre, si restringe qualora si condivida una nozione estensiva di continenza ex art. 39 co.2, tale da ricomprendervi anche il caso delle domande contrapposte e incompatibili aventi ad oggetto il medesimo rapporto giuridico. [APPUNTI: la sospensione opera solo in caso di pregiudizialità tecnica (cioè quando una domanda è elemento di un'altra domanda), nel caso di pregiudizialità logica (caso in cui un diritto riguarda un rapporto giuridico complesso identificato come maggiore nel quale possono confluire cause minori) si ricorre alla continenza e quindi si applica l’art.39 co.2. (quindi riunione davanti allo stesso giudice) 4 Per riassumere il processo sospeso bisogna aspettare il passaggio in giudicato che definisce la controversia (causa 2). ALTRE LIMITAZIONI: se la causa pregiudiziale e dipendente pendono nello STESSO processo, opera l’art.34 c.p.c.; se le cause pendono dinanzi a due uffici giudiziari DIVERSI queste si possono riunire e opera l’art.40 c.p.c. (tranne nel caso in cui sono in fasi troppo diverse e quindi può operare la sospensione)] SEGUE: LE TESI RESTRITTIVE La sospensione ex art.295 come sopra riportata, ben si presta a essere adoperata a fini strumentali, traducendosi in temporaneo diniego di giustizia. Questa inoltre, ci fornisce diversi interrogativi: tenuto conto che il giudice, in base al principio desumibile dall’art. 34, ha il potere-dovere di risolvere, seppur incidenter tantum e cioè al solo fine di decidere sulla domanda a lui sottoposta, qualunque questione pregiudiziale, indipendentemente dalla circostanza che essa abbia eventualmente ad oggetto un diritto o uno status di cui non potrebbe conoscere principaliter, perché questo potere-dovere dovrebbe venir meno per il solo fatto che tale diritto o status pregiudiziale e divenuto oggetto, magari dopo l’inizio del processo, di un diverso e autonomo giudizio? Se è vero che in questo diverso giudizio potrà pervenirsi ad un giudicato sull’esistenza o inesistenza del rapporto pregiudiziale, che di certo potrà fare stato ex art. 2909 c.c., per il futuro, per quale ragione il legislatore dovrebbe imporre l’arresto del primo processo in attesa che tale giudicato si riformi? Come si concilia tale soluzione con gli artt. 274 e 40, dai quali emerge implicitamente che ogniqualvolta non sia possibile realizzare il simultaneus processus per cause connesse, queste proseguono autonomamente? Prescindendo dalla soluzione più riduttiva, secondo la quale l’art. 295 non avrebbe una autonoma portata ma rinvierebbe alle sole fattispecie di sospensione espressamente previste dalla legge, bisogna dare spazio anche a opinioni secondo cui i limiti applicativi della sospensione per pregiudizialità si trarrebbero implicitamente dall’art. 34, ricollegandosi alle ipotesi di accertamento incidentale ivi previste. Secondo una prima tesi (CIPRIANI), la sospensione ex art. 295 può operare solo nei casi in cui la causa pregiudiziale abbia avuto origine all’interno di quella dipendente e quindi quando, essendo sorta e art.34 una questione pregiudiziale che per legge o per esplicita domanda di una delle parti deve decidersi con efficacia di giudicato, le due cause che ne derivano non possano essere trattate congiuntamente per ragioni connesse alla inderogabilità della competenza prevista per taluna di esse. La sospensione sarebbe esclusa allorché la causa pregiudiziale fosse nata autonomamente, non importa se prima o dopo l’instaurazione di quella dipendente. Altri autori invece (TRISORIO, LIUZZI, MENCHINI), hanno circoscritto la possibilità della sospensione alle sole ipotesi in cui l’accertamento incidentale del rapporto pregiudiziale sia necessario per legge e cioè quando, una volta determinata la contemporanea pendenza di distinti giudizi sulla causa pregiudiziale e su quella dipendente, ed essendo controversa nel secondo processo dipendente l’esistenza del rapporto pregiudiziale, per un verso non potrebbe consentirsi al giudice di risolvere incidenter tantum la relativa questione poiché si sta ipotizzando che la legge glielo impedisca, e per altro verso neppure sarebbe lecito fargliela decidere con efficacia di giudicato, per l’evidente ostacolo derivante dalla litispendenza, giacché vi è già un giudice previamente investito della medesima causa tra le stesse parti. Questo atteggiamento di maggiore cautela della dottrina sembra aver influito positivamente anche sulla giurisprudenza che in passato oltre a non seguire indirizzi interpretativi univoci circa la sospensione necessaria ex art. 295, si era inventata una sospensione facoltativa di cui il giudice avrebbe potuto disporre, per ragioni di mera opportunità, al di fuori di qualunque specifica legge. Negli ultimi anni però la Corte Suprema ha fatto chiarezza riconoscendo che nell’ordinamento non c’è spazio per fattispecie atipiche di sospensione. LA SOSPENSIONE PER PREGIUDIZIALITÀ PENALE. CENNI SULL’EFFICACIA DEL GIUDICATO PENALE NEL PROCESSO CIVILE Il codice del 1930, ispirato al principio della preminenza della giurisdizione penale, prevedeva all'art. 3, co 2° la sospensione necessaria del processo civile o amministrativo ogni volta che, essendo stata iniziata l'azione penale, la cognizione del reato fosse potenzialmente influente sulla decisione della causa. Il nuovo codice del 1988 ha modificato tale assetto, realizzando un'ampia autonomia delle relative giurisdizioni. 5 Per ciò che attiene alla potenziale efficacia vincolante del giudicato penale, il mutamento risulta molto evidente in relazione al giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno conseguente al reato. Oggi il legislatore distingue nettamente tra giudicato di condanna e giudicato d'assoluzione: mentre il primo fa stato quanto all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all'affermazione che l'imputato l'ha commesso (art. 651 c.p.p.), il secondo fa egualmente stato, in linea di principio, quanto all'accertamento che il fatto non sussiste o che l'imputato non l'ha commesso o che il fatto è stato compiuto nell'adempimento di un dovere o nell'esercizio di una facoltà legittima, ma con due importanti limitazioni: l'efficacia del giudicato di assoluzione presuppone che il danneggiato si sia costituito o sia stato posto in condizione di costituirsi parte civile nel processo penale, essa non si produce allorché il danneggiato dal reato abbia esercitato l'azione in sede civile a norma dell'art. 75 c.p.p. Se ne può dedurre che l'azione civile risarcitoria, allorché non venga successivamente trasferita nel processo penale o sia promossa quando non è più ammessa in quella sede la costituzione di parte civile, può e deve procedere autonomamente, non essendone consentita la sospensione; in tale situazione, quando l'azione civile sia proseguita autonomamente davanti al giudice civile, la sentenza penale successivamente intervenuta farà stato secundum eventum litis, cioè solo quando sia di condanna, potrà operare solamente a favore del danneggiato e non anche a suo svantaggio. L'unica ipotesi in cui il giudizio civile risarcitorio resta subordinato a quello penale, dovendo essere sospeso in attesa della sua definizione, ricorre quando esso sia stato promosso, nei confronti dell'imputato, dopo la costituzione di parte civile nel processo penale o addirittura dopo che nel processo penale era già stata pronunciata sentenza di primo grado. Negli altri giudizi civili o amministrativi, l'art. 654 c.p.p. prevede che la sentenza penale irrevocabile, tanto di condanna quanto di assoluzione, possa fare stato soltanto nei confronti di chi abbia effettivamente partecipato al relativo processo, allorché nel giudizio civile o amministrativo si controverte intorno a un diritto o un interesse legittimo il cui riconoscimento dipende dall'accertamento degli stessi fatti materiali che furono oggetto del processo penale, purché i fatti accertati siano stati ritenuti rilevanti ai fini della decisione penale e purché la legge civile non ponga limitazioni alla prova della posizione soggettiva controversa. La dottrina prevalente ritiene che debba oggi considerarsi un principio generale quello dell'autonomia del processo civile e amministrativo rispetto al processo penale. Tenuto conto che la riforma del 1990 ha espunto dall’art.295 c.p.c., il riferimento all’art.3 del vecchio c.p.p., deve escludersi che la sospensione del processo civile oggi possa trovar causa nella contemporanea pendenza di un processo penale, al di fuori delle ipotesi in cui essa è prevista. IL PROVVEDIMENTO DI SOSPENSIONE, LA SUA DURATA E LA RIPRESA DEL PROCESSO Sebbene la sospensione rappresenti nella maggior parte dei casi un provvedimento molto serio, giacché si risolve in un vero e proprio rifiuto di giudicare, il legislatore del 1940 non ne aveva disciplinato la forma e nemmeno i possibili rimedi. In passato si riteneva che la sospensione non avendo un contenuto decisorio né ponendo fine al processo, dovesse dichiararsi con ordinanza, revocabile dal giudice che l’ha pronunciata ex art.177, ma sottratta a qualunque impugnazione. Il legislatore del 1990 però, ha introdotto un’eccezione non di poco conto, prevedendo che i soli provvedimenti che dichiarano la sospensione del processo ai sensi dell'art. 295, sono immediatamente e autonomamente impugnabili in Cassazione, attraverso il regolamento necessario di competenza (art. 42); la giurisprudenza recente, adottando un’interpretazione estensiva dell’art. 42, ammette che tale impugnazione può utilizzarsi ogniqualvolta il giudice, indipendentemente dalla disposizione normativa richiamata, abbia di fatto sospeso il processo al di fuori delle ipotesi tassative in cui gli è consentito. 8 • Quando uno dei fatti indicati nel primo punto, ad eccezione della dichiarazione di fallimento, si verifica in danno di una parte contumace, in questa situazione l'interruzione si produce solamente se e quando l'evento viene notificato alle altre parti da chi deve subentrare al contumace, ovvero è documentato dall'altra parte, oppure quando dovendosi notificare personalmente al contumace uno degli atti di cui all'art. 292, l'ufficiale giudiziario lo certifica nella relazione di notificazione. Quando non si verifichino tali condizioni il processo va avanti regolarmente; • Gli eventi riguardanti il difensore con procura determinano sempre l'interruzione automatica, dal giorno stesso in cui si verificano (art. 301). Perché l'interruzione si produca, tali eventi devono avverarsi o essere notificati entro la chiusura della discussione davanti al collegio, e, qualora non sia stata chiesta la discussione orale, entro il termine per il deposito delle memorie di replica. In caso contrario l'interruzione potrebbe tornare ad operare solo nell'ipotesi di riapertura dell'istruzione. La giurisprudenza, in contrasto con una parte della dottrina, ha sempre escluso che la disciplina dell’interruzione trovi applicazione nel giudizio di cassazione. GLI EFFETTI DELL’INTERRUZIONE E LA RIPRESA DEL PROCESSO, ANCHE IN RELAZIONE AI GIUDIZI CON PLURALTÀ DI PARTI Gli effetti dell'interruzione sono, a norma dell'art. 304: o il divieto di compiere atti del processo, pena la nullità degli atti stessi; o l'interruzione dei termini processuali in corso, che riprendono a decorrere ex novo dal giorno della nuova udienza fissata in seguito alla ripresa del processo. Tali effetti si producono anche quando le parti dovessero essere all'oscuro dell'interruzione, questo per comprensibili esigenze di tutela della parte danneggiata dall’evento interruttivo. La pausa determinata dall'istruzione è sempre temporanea, e la ripresa del processo può avvenire, a seconda dei casi, tramite la prosecuzione dello stesso, da parte di coloro cui spetti di subentrarvi in luogo della parte colpita dall'interruzione, oppure tramite riassunzione, ad opera di una delle altre parti. La prosecuzione può avvenire, a norma dell'art. 302, attraverso la costituzione in cancelleria o direttamente all'udienza, quando l'interruzione non sia stata ancora dichiarata o rilevata dal giudice. In caso contrario la parte deve proporre ricorso al giudice istruttore o al presidente del tribunale, provvedendo successivamente a notificare il ricorso stesso, insieme al decreto di fissazione dell'udienza, alle altre parti. La riassunzione si attua attraverso la richiesta di fissazione dell'udienza e a successiva notifica del ricorso e del decreto a coloro che devono proseguire in luogo della parte originaria, nonché alle altre parti. Il ricorso per riassunzione deve contenere il mero richiamo all'atto introduttivo. Se però l'interruzione è dipesa da morte della parte, dovrà contenere anche gli estremi della domanda, la notifica del ricorso e del decreto, entro un anno dalla morte, potrà esser fatta collettivamente e impersonalmente agli eredi nell'ultimo domicilio del defunto (art. 303). La ripresa del processo deve avvenire entro il termine perentorio di 3 mesi dall'interruzione (art. 305), ossia dal momento in cui l'interruzione ha prodotto i propri effetti, pena l'estinzione a norma dell'art. 307 co 3°. Tale disciplina in passato aveva creato vari inconvenienti in relazione alle ipotesi in cui l’interruzione opera ipso iure, indipendentemente dalla conoscenza che ne abbiano le parti e il giudice. Spesso infatti avveniva che il giudizio, in questi casi, proseguisse senza che le altre parti avessero conoscenza della avvenuta interruzione e che questa venisse scoperta quando ormai era scaduto il termine per la prosecuzione o riassunzione. In seguito ad un duplice intervento della Corte costituzionale, l'art. 305 va inteso nel senso che, quando l'interruzione si produce automaticamente, il termine per la prosecuzione o la riassunzione decorre non dal momento dell'interruzione stessa, ma dal giorno in cui le parti ne abbiano avuto conoscenza, intesa 9 come conoscenza legale, risultante da una dichiarazione della parte stessa o da una comunicazione o notificazione ad essa diretta. È stato a lungo controverso il modo di operare dell’interruzione nei processi litisconsortili, discutendosi se essa investisse unitariamente l’intero processo oppure producesse i propri effetti limitatamente alla parte e alle cause direttamente coinvolte dall’evento interruttivo. Dottrina e giurisprudenza più recenti non dubitavano che nell’ipotesi in cui il litisconsorzio corrisponde ad un cumulo di cause scindibile, il processo potesse proseguire per le cause non interessate dall’interruzione ma ci si chiedeva se tale prosecuzione fosse o meno subordinata ad un provvedimento di separazione da parte del giudice. Una decisione delle Sezioni Unite parrebbe aver risolto il problema accedendo alla tesi secondo cui gli effetti previsti dall’art. 305, in caso di cumulo scindibile, non toccano le cause alle quali sia estranea la parte colpita dall’evento interruttivo che pertanto dovrebbe proseguire regolarmente. 1 CAPITOLO 14 IL GIUDICATO E L’AUTORITÀ DELLE SENTENZE IL GIUDICATO E IL SUO RAPPORTO CON LE IMPUGNAZIONI. GIUDICATO FORMALE E SOSTANZIALE; GIUDICATO INTERNO ED ESTERNO Più volte si è fatto riferimento al concetto di «giudicato» e quindi ora bisogna chiarire cosa si intende per giudicato e quando esso si formi. In astratto, nulla impedisce di immaginare che il provvedimento del giudice, nasca già con l'attitudine al giudicato, e dunque sia senz'altro idoneo a produrre quella peculiare certezza menzionata nell'art. 2909 c.c., facendo stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa. Dal punto di vista lessicale, il termine giudicato parrebbe semplicemente indicare il risultato del giudicare, sicché ben si presta ad essere riferito a qualunque provvedimento, o quanto meno a quelli che abbiano deciso sulla fondatezza della domanda. Sempre sul piano logico inoltre, non è impossibile immaginare un sistema in cui contro la pronuncia del giudice non sia dato alcun rimedio, facendo in tal modo gravare interamente sulle parti il rischio di qualunque errore commesso dal giudice medesimo. Quest'ultima soluzione, è però ripudiata da tutti gli ordinamenti moderni, i quali predispongono un complesso più o meno articolato di rimedi, ossia le impugnazioni, nei confronti di tutti i provvedimenti giurisdizionali più incisivi; quelli suscettibili di determinare un effettivo pregiudizio per la parte che li subisce. L'obiettivo essenziale delle impugnazioni, infatti, è quello di porre riparo agli errori eventualmente commessi dal giudice; il che non esclude che in qualche caso esse possano anche consentire alle parti di correggere gli errori nei quali siano incorse nelle precedenti fasi del processo, perseguendo in tal modo l'ulteriore finalità, tipicamente pubblicistica, di assicurare che il risultato del processo sia il più possibile giusto: conforme, cioè, alla soluzione concretamente desumibile dal diritto sostanziale. La circostanza che i provvedimenti giurisdizionali siano impugnabili pone il problema, comunque, di stabilire quale rapporto corra tra le impugnazioni ed il giudicato, cioè in quale misura l'impugnabilità condizioni il formarsi del giudicato; problema che non può certo risolversi in astratto, com'è confermato dalla varietà delle soluzioni che ad esso riservano i diversi ordinamenti. Un apparato organico di impugnazioni è previsto nei confronti delle sole sentenze, ossia dei provvedimenti dal contenuto tipicamente decisorio. Alcune di queste impugnazioni, sono di più frequente utilizzazione e sono esperibili esclusivamente entro termini ben definiti e piuttosto brevi. Altre, invece, possono essere proposte anche a considerevole distanza di tempo dalla pronuncia, talora addirittura sine die, ma nel contempo hanno un carattere più o meno eccezionale, sicché il legislatore muove dal presupposto ch'esse non rappresentino una grave minaccia per la stabilità della sentenza. Il concetto di giudicato formale, desumibile dall'art. 324, serve a stabilire quando una sentenza si intende passata in giudicato e fa genericamente riferimento a tutte le sentenze che non siano più soggette, per scadenza dei relativi termini o per qualunque altra ragione, alle impugnazioni ordinarie. Serve quindi ad indicare la stabilità della decisione, impropriamente descritta come immutabilità. Il concetto di giudicato sostanziale, all'art. 2909 c.c., è invece l'idoneità della sentenza a fare stato, per l'accertamento in essa contenuto, nei rapporti sostanziali tra le parti, i loro eredi o aventi causa. Deve trattarsi di una pronuncia contenente un accertamento, e quindi di una sentenza che abbia deciso sulla fondatezza della domanda. Qualunque sentenza passa formalmente in giudicato quando non sia più impugnabile con i mezzi ordinari, mentre il giudicato sostanziale riguarda esclusivamente le sentenze di merito in senso stretto. Il passaggio in giudicato condiziona, in linea di principio, il prodursi di tutti gli effetti della sentenza. Si è soliti distinguere tra giudicato interno ed esterno, a seconda che la sentenza da cui esso deriva sia 4 concernenti l'esistenza, la validità e il modo stesso di essere del rapporto fondamentale, alla duplice condizione che 1. tali questioni siano state effettivamente discusse nel giudizio in cui si è formato il giudicato, e 2. la soluzione delle questioni stesse abbia concretamente costituito un elemento portante della decisione, ossia possa considerarsi in rapporto di causa-effetto rispetto a questa. La seconda condizione può risultare notevolmente limitativa quando si tratti di un giudicato di rigetto della domanda. Per capire quest’aspetto bisogna ricordare il diverso ambito che può avere la cognizione del giudice, a seconda che la domanda sia accolta o respinta, infatti poiché la sentenza di rigetto può essere indifferentemente fondata sull'inesistenza di un qualunque fatto costitutivo oppure sull'esistenza di un qualunque fatto impeditivo, estintivo o modificativo, è chiaro che i limiti oggettivi del giudicato risentiranno del motivo che ha determinato il rigetto della domanda. Questa tesi ha l'innegabile vantaggio di arginare il rischio di giudicati gravemente contraddittori relativi allo stesso rapporto giuridico fondamentale evitando, ad es., che, dopo una prima sentenza che abbia accolto la domanda del compratore diretta ad ottenere la consegna del bene, il medesimo compratore, convenuto dal venditore in un successivo giudizio per il pagamento del prezzo, possa difendersi invocando la nullità del contratto di compravendita. Essa inoltre non è priva di inconvenienti, poiché, seppure con tutte le limitazioni, presuppone che il giudicato si formi non soltanto sull'esistenza o sull'inesistenza del diritto dedotto in giudizio, ma pure sui motivi che hanno condotto il giudice all'accoglimento o al rigetto della domanda; il che può determinare conseguenze incongrue, tenuto soprattutto conto del concreto interesse che ciascuna delle parti potrebbe avere a contestare i presupposti logici della decisione. La tesi fondata sulla distinzione tra pregiudizialità tecnica e pregiudizialità logica è sicuramente più vicina alle posizioni della giurisprudenza prevalente, riprende espressamente tale distinzione e comunque intende in termini assai ampi l'operare del giudicato nei successivi giudizi aventi ad oggetto il medesimo rapporto giuridico. Inoltre la giurisprudenza parrebbe più propensa nell' estendere i limiti del giudicato, poiché non di rado lascia intendere che l'autorità di quest'ultimo, relativamente al rapporto giuridico oggetto del giudizio, investirebbe implicitamente la soluzione di qualunque questione, di fatto o di diritto, che abbia costituito una premessa indispensabile della decisione. In molti casi poi la nozione di giudicato implicito viene utilizzata modestamente e cioè per proteggere la concreta utilità che a una delle parti sia derivata da un anteriore giudicato, evitando che questo possa essere vanificato dalla deduzione di questioni nuove che avrebbero potuto e dovuto trovare ingresso nel precedente giudizio. IL C.D. FRAZIONAMENTO DELLA DOMANDA Un punto sul quale si è discusso molto negli ultimi anni è quello che riguarda la possibilità di frazionare in più processi una domanda, solitamente di condanna, relativa ad un diritto di credito che appaia essenzialmente unitario: es. si pensi all'ipotesi in cui il lavoratore chieda in un primo giudizio il pagamento di alcune soltanto delle mensilità della retribuzione già scadute, per poi agire separatamente per le altre. Il problema evidentemente ha le sue radici sul piano sostanziale, poiché occorrerebbe anzitutto stabilire quando, a fronte di fatti costitutivi non perfettamente coincidenti, si configuri un diritto di credito effettivamente unitario. Se lo si considera esclusivamente dal punto di vista dei limiti del giudicato, l'orientamento prevalente è nel senso che il suddetto frazionamento non sia precluso, anche in ossequio al principio per cui l'oggetto del processo, e del conseguente giudicato, si determina essenzialmente in base alla domanda. L'attore, dunque, nel proporre la domanda, ben potrebbe esplicitare la propria volontà di circoscrivere l'oggetto del giudizio ad una parte soltanto del credito, riservandosi la possibilità di agire successivamente per la parte residua, alla sola condizione che risultino oggettivamente individuati e distinti, il diritto dedotto in giudizio e quello a cui si riferisce la riserva di azione successiva. 5 Spesso però questo comportamento dell'attore potrebbe dipendere da esigenze pratiche tutt'altro che trascurabili o da legittime opzioni connesse all'individuazione dello strumento processuale più comodo ed efficace. Si pensi ad es. all'ipotesi in cui per una parte soltanto del credito sussista una prova documentale, che consente all'attore di utilizzare il procedimento per ingiunzione in luogo di quello ordinario a cognizione piena. È vero anche che questo fenomeno in alcune materie il fenomeno ha assunto dimensioni patologiche, derivando esclusivamente dall'intento del difensore dell'attore di moltiplicare i giudizi per lucrare i relativi onorari. Il legislatore infatti, nella materia previdenziale ha sentito la necessità di intervenire con una disposizione ad hoc che prevede l’obbligatoria riunificazione delle più domande che frazionino un credito relativo al medesimo rapporto, comprensivo delle somme eventualmente dovute per interessi, competenze e onorari e ogni altro accessorio. Per reprimere questi comportamenti la giurisprudenza più recente, a partire da una decisione delle Sezioni unite del 2007, li riconduce all'ipotesi del c.d. abuso del processo, ravvisandovi una violazione dei principi del giusto processo e di quelli di correttezza e buona fede, e ne deduce addirittura l'inammissibilità di tutte le domande frazionate, a meno che non sussista un interesse oggettivamente apprezzabile che giustifichi tale scelta processuale dell'attore. In mancanza di una disposizione ad hoc, non sembra che la violazione dei principi di correttezza e buona fede possa pregiudicare l'esame del merito della causa o possa addirittura determinare, qualora si arrivi al giudicato su taluna delle domande indebitamente frazionate, la definitiva compromissione del diritto d’azione rispetto alle altre. Né sembra lecito ammettere, che l' ammissibilità delle plurime domande frazionate sia subordinata ad una valutazione, da parte del giudice, circa la meritevolezza dell'interesse concretamente perseguito dall'attore, poiché, tenuto anche conto delle molteplici esigenze pratiche che potrebbero rendere oggettivamente opportuna una siffatta opzione processuale, ciò si tradurrebbe inevitabilmente in una limitazione del diritto d'azione che potrebbe investire situazioni del tutto estranee al problema di partenza e cioè al frazionamento più o meno artificioso di un credito unitario. Appare a questo punto preferibile sanzione questi abusi esclusivamente sul piano delle spese processuali, tenendo presente che la trasgressione del dovere di lealtà e probità ex art.88, può giustificare la condanna della parte vittoriosa al rimborso delle spese sopportate dall’altra parte. I LIMITI SOGGETTIVI DEL GIUDICATO L'art. 2909 c.c., secondo cui la cosa giudicata fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa, non fornisce elementi univoci quanto ai soggetti che subiscono l'autorità della sentenza, discorrendo di parti non chiarisce se tale concetto viene adoperato in senso sostanziale, con riferimento ai soggetti titolari del rapporto oggetto della decisione, oppure in senso processuale, alludendo esclusivamente a coloro i quali abbiano partecipato al giudizio. Bisogna preliminarmente distinguere tra l'efficacia diretta della sentenza, che riguarda il diritto o status oggetto immediato della decisione, e l'efficacia riflessa, che invece investe tutti i diversi rapporti giuridici latu sensu dipendenti dal primo, sia quando riguardino le medesime parti, sia quando facciano capo a soggetti in tutto o in parte differenti. 1. Per quel che concerne il primo profilo, ossia l'efficacia diretta, i dubbi sono nel complesso limitati, giacché dottrina e giurisprudenza escludono che essa possa prodursi in danno di chi non ha assunto formalmente la qualità di parte nel processo. Il problema ragionando in astratto, potrebbe porsi in due ipotesi: a) allorché fosse stato dedotto in giudizio un rapporto sostanzialmente unico, ma plurisoggettivo; b) quando la domanda fosse stata proposta in virtù di una legittimazione straordinaria. In entrambi i casi è pacifico che la sentenza non potrebbe pregiudicare i contitolari del rapporto plurisoggettivo oppure il legittimato ordinario, vero titolare del rapporto oggetto della decisione, che fossero rimasti estranei al processo in cui si è formato il giudicato. Il giudicato possiede un valore tendenzialmente assoluto, imponendosi a tutti come affermazione di obiettiva verità in ordine all'esistenza e al modo di essere del rapporto giuridico oggetto della 6 decisione, anche se non può certamente operare a discapito di coloro che non abbiano partecipato al relativo giudizio. Il terzo contitolare del rapporto giuridico oggetto della decisione può avvantaggiarsi del giudicato intervenuto tra le parti, allorché tale giudicato investa il rapporto nel suo complesso. Hanno invece carattere eccezionale le ipotesi in cui l'efficacia della sentenza possa prodursi indiscriminatamente ultra partes, vincolando soggetti che non siano stati parti del relativo giudizio, ad es. all'art. 111 co 4° riguardo al successore a titolo particolare in ogni caso assoggettato agli effetti della sentenza pronunciata nei confronti dell'alienante o del successore universale. Segue: I TERZI CHE POTREBBERO SUBIRE, IN ASTRATTO, L’EFFICACIA RIFLESSA DELLA SENTENZA 2. Si pongono dei dubbi riguardo l’efficacia rilessa della sentenza, quando questa investa dei terzi. In relazione a tale problema si è soliti anzitutto distinguere le diverse situazioni in cui un terzo potrebbe essere coinvolto da un giudicato intervenuto inter alios (ossia fra altre persone). In particolare, la massima divisione vede da un lato i soggetti che, in mancanza di un vero collegamento giuridico tra un proprio diritto e quello controverso tra le parti, possono essere interessati esclusivamente in via di fatto alla sentenza resa tra queste ultime, e dall'altro lato i terzi che invece sono titolari di rapporti giuridici connessi a quello oggetto del giudicato. a. Nella prima ipotesi si ritiene che il terzo sia tenuto a riconoscere il giudicato formatosi tra le parti, come se si trattasse di un qualunque atto giuridico di cui egli deve tener conto e dal quale, a seconda dei casi, potrebbe derivargli un vantaggio o un pregiudizio per l'appunto in via di fatto. Es. se il locatore nega la rinnovazione del contratto alla prima scadenza, adducendo la sopravvenuta necessità di utilizzarlo direttamente e come fatto costitutivo del suo diritto, invoca la sentenza che a sua volta lo ha condannato a rilasciare ad un diverso soggetto un altro immobile di cui egli era fino a quel momento detentore, il conduttore subisce certamente, in concreto, un pregiudizio da tale sentenza, rispetto alla quale è terzo, senza poterla contestare. b. Con riferimento, poi, alla seconda situazione, caratterizzata da un vero e proprio collegamento giuridico tra un diritto del terzo e quello oggetto del giudicato, si è soliti escludere che il terzo titolare di un diritto autonomo possa risentire pregiudizio alcuno dal giudicato, sicché il problema può prospettarsi solamente quando il predetto collegamento giuridico si atteggi in termini di dipendenza, nel senso che l'esistenza o l'inesistenza del diritto del terzo annoveri tra i propri fatti costitutivi l'esistenza o l'inesistenza del diritto sul quale si è formato il giudicato tra le parti. Si pensi, ad es., alla posizione dell'ente previdenziale, rispetto al giudicato che abbia accertato l'esistenza o l'inesistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra determinati soggetti. c. Un'altra categoria di terzi che merita autonoma menzione è quella degli aventi causa, ossia di coloro i quali hanno acquistato a titolo derivativo il medesimo diritto oggetto del giudicato, ovvero un diverso diritto che da quello tragga origine. La posizione degli aventi causa è caratterizzata da una vera e propria dipendenza giuridica rispetto al diritto del loro dante causa. La peculiarità è data dalla circostanza che essi al pari degli eredi vengono assoggettati dall’art.2909 c.c., all’autorità del giudicato inter partes. Comunque, gli acquisti avvenuti nel corso del processo sono disciplinati specificamente dall'art. 111, ancorché attraverso un'analoga estensione dell'efficacia della sentenza nei confronti del successore a titolo particolare sembra preferibile ritenere che l'art. 2909 si riferisca esclusivamente agli aventi causa il cui acquisto si sia compiuto successivamente alla formazione del giudicato contro il dante causa e che nessuna efficacia pregiudizievole si produca, invece, nei confronti di coloro i quali hanno acquistato il diritto controverso, o un diverso diritto da questo dipendente, prima dell'inizio del processo nei confronti del loro dante causa. 1 CAPITOLO 16 LE IMPUGNAZIONI IN GENERALE SEZIONE I - NOZIONI GENERALI VIZI DELLA SENTENZA E MEZZI DI IMPUGNAZIONE: RILIEVI INTRODUTTIVI. Tradizionalmente, i vizi da cui può essere affetto un provvedimento giurisdizionale sono essenzialmente di due categorie, a seconda che discendano dalla violazione delle norme che disciplinano lattività delle parti e del giudice (errores in procedendo), oppure ineriscano al contenuto stesso della decisione, in relazione alle conclusioni cui è pervenuta vuoi in quanto alla ricostruzione dei fatti, vuoi quanto allindividuazione e allinterpretazione delle norme giuridiche ad essa applicate ( errores in iudicando). I vizi in procedendo possono determinare linvalidità del provvedimento: - invalidità propria quando sia causata dal difetto di elementi formali o extraformali della stessa decisione (es. sentenza priva di motivazione), - invalidità derivata quando sia conseguenza dellinvalidità di un atto pregresso ai sensi dell’art. 159 co1 (es. sentenza fondata su una prova invalidamente assunta), oppure della circostanza che il giudice ha deciso il merito della causa in assenza di un presupposto processuale. (es. fosse privo di competenza). I vizi in iudicando possono invece determinare la ingiusta decisione, cioè la sua difformità rispetto alle conclusioni che avrebbero dovuto trarsi da una corretta valutazione delle prove e/o dallesatta applicazione delle norme sostanziali pertinenti alla fattispecie. A livello terminologico la predetta distinzione torna sicuramente utile, sebbene sia meno netta ed univoca di quanto potrebbe apparire. È ben possibile configurare, infatti, anche una terza categoria di vizi, in un certo senso intermedia, che potrebbero definirsi in iudicando de iure procedendi; che consistono nell’errore circa la (in)sussistenza di un presupposto processuale o comunque in ordine alla possibilità di pervenire alla trattazione del merito della causa: si pensi al caso in cui il giudice si è a torto ritenuto incompetente o privo di giurisdizione. Come già si ha avuto modo di dire a proposito del giudicato, l’individuazione di un punto di equilibrio tra l’esigenza di certezza e stabilità dei rapporti giuridici e la possibilità di impugnare la decisione del giudice, è inevitabilmente rimessa alla discrezionalità del legislatore; ci sono però dei limiti costituzionali che condizionano questa scelta: Un primo limite deriva dal comb. disp degli artt. 3 co. 2 e 24 co. 1 e 2 Cost., i quali prescrivono un dovere di coerenza interna al sistema positivo: il principio di eguaglianza, letto in relazione al diritto di azione e di difesa, impedisce di discriminare irragionevolmente, dal punto di vista dellimpugnazione, situazioni e/o vizi sostanzialmente analoghi. Un secondo limite ex art. 24 co. 2 e 111 co. 2 Cost discende dal principio del contraddittorio, che impone che la parte, la quale sia stata danneggiata, in qualunque stato e grado del giudizio, da un vizio in procedendo suscettibile di incidere sulleffettività del contraddittorio o comunque di rendere deteriore la posizione processuale della parte stessa, abbia sempre a propria disposizione un rimedio concretamente idoneo a far valere la nullità e ad ottenere una revisione della decisione che ne è affetta. Prescindendo da questi limiti tutti gli ordinamenti moderni prevedono un sistema di impugnazioni, nei confronti dei provvedimenti che decidono il merito della causa, e consentono un doppio grado pieno di giurisdizione: nel senso che riconoscono alle parti la possibilità, dopo aver ottenuto una prima sentenza, di denunciarne qualunque vizio ad un secondo giudice munito di poteri analoghi a quelli del primo, per ottenere una nuova decisione che eventualmente sostituisca, in tutto o in parte, quella impugnata. Ovviamente nulla può assicurare che questa seconda decisione sia più corretta della prima. La maggiore attendibilità della sentenza resa dal giudice dell’impugnazione deriva dalla circostanza che decide per secondo, ovvero si trova in una posizione più vantaggiosa, poiché gli consente di occuparsi di 2 un minor numero di questioni e può valutare criticamente l’operato del primo giudice anche alla luce delle censure proposte dall’impugnante. Indipendentemente dall’ampiezza dei poteri attribuiti al giudice ad quem, comunque, si può dire che ogni razionale sistema di impugnazione è orientato verso una progressiva selezione e riduzione delle questioni deducibili, destinata a rendere sempre più remota, pur senza poterla mai escludere in assoluto, l’eventualità di una caducazione della decisione. TIPICITÀ E CLASSIFICAZIONE DEI MEZZI DI IMPUGNAZIONE Art. 323. (Mezzi di impugnazione). I mezzi per impugnare le sentenze, oltre al regolamento di competenza nei casi previsti dalla legge, sono: lappello, il ricorso per cassazione, la revocazione e lopposizione di terzo. I rimedi consentiti nei confronti dei provvedimenti giurisdizionali hanno natura tipica e nominata, sono ammessi nei soli casi previsti dalla legge. Il legislatore ha previsto un sistema articolato ed organico di impugnazioni esclusivamente nei confronti delle sentenze, cioè dei provvedimenti muniti di una particolare stabilità e normalmente idonei ad acquisire lautorità propria del giudicato. Per le ordinanze e i decreti, pur essendo ammessi rimedi simili o comunque con funzione analoga, il principio è quello della non impugnabilità, indipendentemente dal contenuto del provvedimento nonché dalla circostanza che esso sia o no revocabile e modificabile. I mezzi di impugnazione delle sentenze aventi carattere generale, a norma dellart. 323, sono: - l’appello; - il ricorso per cassazione; - la revocazione; - lopposizione di terzo; - il regolamento di competenza. A tale elenco va aggiunta, sebbene non si tratti propriamente di unimpugnazione, poiché da vita ad un processo nuovo ed autonomo, la c.d. actio nullitatis, cioè lazione di accertamento negativo eccezionalmente ammessa nei confronti della sentenza priva della sottoscrizione del giudice. Le impugnazioni si possono classificare come: A. Impugnazioni ordinarie e straordinarie. Tale distinzione è correlata alla nozione di giudicato formale ricavabile dall’art. 324. Sono ordinarie le impugnazioni che impediscono, finché sono proponibili, che la sentenza passi in giudicato: lappello , il ricorso per cassazione, il regolamento di competenza e, limitatamente ad alcuni dei motivi per cui è ammessa, la revocazione (ordinaria). Sono straordinarie lopposizione di terzo e la revocazione (straordinaria) per uno dei rimanenti motivi contemplati agli artt. 395 e 397, che non interferiscono col passaggio in giudicato della sentenza e sono esperibili anche contro una sentenza formalmente passata in giudicato. Le impugnazioni ordinarie sono assoggettate a termini certi nella durata ma anche nella decorrenza (dies a quo); le impugnazioni straordinarie, essendo consentite per vizi che potrebbero emergere in un momento successivo alla pubblicazione della sentenza, oppure a soggetti che sono estranei al processo, sono esperibili entro termini la cui decorrenza non è determinabile a priori, o senza alcun limite temporale. B. Impugnazione a critica libera e a critica vincolata. Questa distinzione attiene alla circostanza che i vizi per i quali l’impugnazione è ammessa siano o meno predeterminati dalla legge. Sono impugnazioni a critica libera lappello , che può fondarsi su qualunque errore, in iudicando o in procedendo, attribuito al primo giudice, il regolamento di competenza e lopposizione di terzo dellar t. 404 co. 1. 3 Sono impugnazioni a critica vincolata il ricorso per cassazione e la revocazione, nonché lopposizione di terzo c.d. revocatoria, ammessa quando la sentenza è leffetto di dolo o collusione delle parti a danno del terzo (art. 404 co. 2). C. Impugnazioni sostitutive o rescindenti. In teoria tutte le impugnazioni possono condurre alla sostituzione della sentenza impugnata con una nuova decisione che abbia il medesimo oggetto e dunque pronunci, entro i limiti dellimpugnazione, sulla stessa domanda che era stata formulata davanti al giudice a quo. Nella maggior parte dei casi per, la fase rescissoria, quella deputata alla pronuncia di una nuova decisione, presuppone che si sia positivamente conclusa una prima fase rescindente, destinata alla verifica dei vizi denunciati dallimpugnante e dunque allannullamento o alla caducazione del provvedimento impugnato; tali impugnazioni si dicono rescindenti, perché hanno come primo obiettivo leliminazione del provvedimento impugnato. Solamente lappello deroga a tale schema, in quando conduce sempre e comunque alla diretta sostituzione della decisione impugnata, anche quando si concluda col rigetto dellimpugnazione e la piena conferma della sentenza di primo grado, che viene anche in questo caso rimpiazzata da quella del giudice ad quem. Lappello appartiene al novero delle impugnazioni sostitutive. Art. 395. (Casi di revocazione). Le sentenze pronunciate in grado dappello o in unico grado possono essere impugnate per revocazione: 1) se sono leffetto del dolo di una delle parti in danno dellaltra; 2) se si è giudicato in base a prove riconosciute o comunque dichiarate false dopo la sentenza oppure che la parte soccombente ignorava essere state riconosciute o dichiarate tali prima della sentenza; 3) se dopo la sentenza sono stati trovati uno o più documenti decisivi che la parte non aveva potuto produrre in giudizio per causa di forza maggiore o per fatto dellavversario; 4) se la sentenza è leffetto di un errore di fatto risultante dagli atti o d ocumenti della causa. Vi è questo errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta linesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e tanto nelluno quanto nellaltro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare; 5) se la sentenza è contraria ad altra precedente avente fra le parti autorità di cosa giudicata, purché non abbia pronunciato sulla relativa eccezione; 6) se la sentenza è effetto del dolo del giudice, accertato con sentenza passata in giudicato. Art. 397. (Revocazione proponibile dal pubblico ministero). Nelle cause in cui lintervento del pubblico ministero è obbligatorio a norma dellarticolo 70 primo comma, le sentenze previste nei due articoli precedenti possono essere impugnate per revocazione dal pubblico ministero: 1) quando la sentenza è stata pronunciata senza che egli sia stato sentito; 2) quando la sentenza è leffetto della collusione posta in opera dalle parti per frodare la legge . Art. 404. (Casi di opposizione di terzo). Un terzo può fare opposizione contro la sentenza passata in giudicato o comunque esecutiva pronunciata tra altre persone quando pregiudica i suoi diritti. Gli aventi causa e i creditori di una delle parti possono fare opposizione alla sentenza, quando è leffetto di dolo o collusione a loro danno. LA QUALIFICAZIONE DEL PROVVEDIMENTO AL FINE DELLA SUA IMPUGNAZIONE L’individuazione dei rimedi esperibili nei confronti di un determinato provvedimento giurisdizionale dipende innanzitutto dalla forma che esso riveste e anche dall’oggetto della controversia. Dal punto di vista dellimpugnazione, se il giudice pronuncia sentenza in luogo di unordinanza o di un decreto, o viceversa, prevale il principio della prevalenza della sostanza sulla forma, secondo cui lelemento determinante, anche in vista dellindivid uazione dei rimedi appropriati, sia rappresentato dal contenuto effettivo del provvedimento. Se lerrore conduce alla pronuncia di una sentenza in luogo di unordinanza o di un decreto non sorgerà problema, in quanto la parte soccombente ha la possibilità di avvalersi delle impugnazioni 6 C. Lart. 326 co . 2 prevede, con specifico riferimento allipotesi in cui la sentenza sia stata resa nei confronti di più parti in cause scindibili, che limpugnazione proposta contro una parte fa decorrere nei confronti dello stesso soccombente il termine per proporla contro le altre parti. La notifica dellimpu gnazione viene equiparata, per colui che lha proposta, alla notifica della sentenza. D. Stando alla giurisprudenza in caso di concorso di impugnazioni, la notificazione di una prima impugnazione equivarrebbe alla notificazione della sentenza e farebbe decorrere il termine breve per la proposizione dell’impugnazione successiva. Deduzione non convincente poiché dall’art 326 si evince che la conoscenza legale della sentenza è di per sé irrilevante e la notificazione della sentenza al di fuori dell’ipotesi sub C non ammette equipollenti. I termini brevi dellart. 325 restano interrotti quando, durante la loro decorrenza, sopravvenga uno degli eventi contemplati dallart. 299, cioè morte o perdita della capacità processuale della parte, morte, radiazione o sospensione dallalbo del procuratore costituito. Lart. 328 prevede che il nuovo termine decorra dal giorno in cui la notificazione della sentenza è rinnovata a chi è subentrato alla parte: gli eredi o il rappresentante legale. Art. 325. (Termini per le impugnazioni). Il termine per proporre lappello, la revocazione e lopposizione di terzo di cui allarticolo 404, secondo comma, è di trenta giorni. È anche di trenta giorni il termine per proporre la revocazione e lopposizione di terzo sopra menzionata contro la sentenza delle corti di appello. Il termine per proporre il ricorso per cassazione è di giorni sessanta. Art. 328. (Decorrenza dei termini contro gli eredi della parte defunta). Se, durante la decorrenza del termine di cui allarticolo 325, sopravviene alcuno d egli eventi previsti nellarticolo 299, il termine stesso è interrotto e il nuovo decorre dal giorno in cui la notificazione della sentenza è rinnovata. Tale rinnovazione può essere fatta agli eredi collettivamente e impersonalmente, nellultimo domicilio del defunto. Se dopo sei mesi dalla pubblicazione della sentenza si verifica alcuno degli eventi previsti nellarticolo 299, il termine di cui allarticolo precedente è prorogato per tutte le parti di sei mesi dal giorno dell’evento. Art. 285. (Modo di notificazione della sentenza). La notificazione della sentenza, al fine della decorrenza del termine per limpugnazione, si fa, su istanza di parte, a norma dellarticolo 170 ((...)). Art. 299. (( (Morte o perdita della capacità prima della costituzione). )) ((Se prima della costituzione in cancelleria o alludienza davanti al giudice istruttore, sopravviene la morte oppure la perdita della capacità di stare in giudizio di una delle parti o del suo rappresentante legale o la cessazione di tale rappresentanza, il processo è interrotto, salvo che coloro ai quali spetta di proseguirlo si costituiscano volontariamente, oppure laltra parte provveda a citarli in riassunzione, osservati i termini di cui allart. 163 -bis)). IL TERMINE DI DECADENZA SEMESTRALE Le impugnazioni ordinarie sono soggette anche ad un ulteriore termine di decadenza (termine lungo) che scade inevitabilmente 6 mesi dopo la pubblicazione della sentenza, indipendentemente dalla notifica a norma dell’art. 133, e mira ad evitare che, non essendo questa stata notificata, la strada dellimpugnazione resti aperta senza limite, impedendo il formarsi del giudicato. Tale termine si riferisce allappello, a l ricorso per cassazione e alla revocazione ordinaria per i motivi indicati nei n. 4 e 5 dell art. 395, ma si ritiene valga anche per il regolamento di competenza, qualora sia mancata la comunicazione dell’ordinanza da cui prende a decorrere il termine di 30 gg. Tale termine semestrale concorre con quelli brevi e, quando venga a scadere prima di quelli, fa in ogni caso passare in giudicato la sentenza. Lunica ipotesi in cui tale disposizione non si applica ricorre quando la parte contumace dimostra di non aver avuto conoscenza del processo per nullità della citazione o della notificazione, e per nullità della notificazione degli atti di cui allart. 292 . Per far sì che l’impugnazione sia consentita al di là dei 6 mesi è quindi necessario: - che sia nulla la citazione introduttiva o la relativa notificazione; 7 - che sia nulla anche la notifica degli altri atti eventualmente notificati al contumace, tra cui potrebbe esserci la sentenza; - che tali nullità abbiano impedito realmente al contumace di avere conoscenza del processo. In questo caso il termine semestrale prende a decorrere dal giorno in cui il contumace acquisisca la conoscenza effettiva del processo o della sentenza stessa, fermo restando che laltra parte potrebbe pur sempre notificargli nuovamente la sentenza, con leffetto di far decorrere il termine breve dellart. 325. LA NOTIFICA DELL’ATTO D’IMPUGNAZIONE L art. 330 regola il luogo e il modo della notificazione dellatto di impugnazione: a. se nellatto di notifica della sentenza la parte destinataria dellimpugnazione aveva dichiarato la propria residenza o eletto domicilio nellambito della circoscrizione del giudice da cui la sentenza proviene, limpugnazione deve essere notificata alla parte in tali luoghi; b. fuori dal caso precedente, si notifica ai sensi dell’art. 170 presso il procuratore costituito o nella residenza dichiarata o nel domicilio eletto per il giudizio. Il destinatario effettivo della notificazione può essere, indifferentemente, tanto il procuratore costituito nel precedente grado di giudizio, quanto la parte stessa, e due modalità sono fungibili; c. se manca la dichiarazione di residenza o lelezione di domicilio oppure è trascorso un anno dalla pubblicazione della sentenza, la notifica deve eseguirsi personalmente alla parte. La concreta applicazione di tali disposizioni è spesso fonte di dubbi ed incertezze. Per fortuna, però, leventuale violazione dellordine di priorità indicato dal legislatore è fonte di mera nullità, sanabile con effetto retroattivo (ex tunc) attraverso la costituzione dellappellato o tramite la rinnovazione della notifica ai sensi dellart. 291 . Si noti, inoltre, che lart. 330, 2° co., consente che la notifica sia eseguita, presso i luoghi indicati sub a) e b), «collettivamente e impersonalmente agli eredi della parte defunta dopo la notificazione della sentenza». Il che parrebbe escluderne lapplicazione allorché la morte della parte fosse avvenuta prima della notificazione della sentenza (o magari prima ancora della sua pubblicazione). In realtà, secondo la giurisprudenza più recente, la notifica in forma collettiva ed impersonale agli eredi sarebbe sempre consentita, entro un anno dalla pubblicazione della sentenza, indipendentemente dal momento in cui è avvenuto il decesso della parte originaria, purché essa sia effettuata nellultimo domicilio del defunto; fermo restando, peraltro, che, se la parte è venuta a mancare dopo la notifica della sentenza, l impugnazione-ne potrebbe notificarsi agli eredi, con le medesime modalità, (anche) in uno dei luoghi pocanzi indicati sub a) e b). Infine, se la parte originaria era rimasta contumace oppure, essendosi costituita personalmente, aveva omesso di dichiarare la propria residenza o di eleggere domicilio, si ritiene che limpugnazione debba essere comunque notificata ai singoli eredi, nominativamente indicati, secondo le disposizioni generali di cui agli artt. 137 ss. L’ACQUIESCENZA Lacquiescenza è una manifestazione di volontà che ha per oggetto laccettazione della sentenza e come effetto quello di escludere la proponibilità delle impugnazioni, salvi i casi di cui ai nn. 1, 2, 3 e 6 dellart. 395, ossia le i potesi in cui la parte soccombente venga successivamente a conoscenza di un motivo di revocazione straordinaria. Lacquiescenza opera come una rinuncia al diritto di impugnare, determinandone lestinzione, e presuppone che la sentenza sia già venuta giuridicamente in vita, tramite la pubblicazione, e che limpugnazione non sia stata ancora proposta. Può essere espressa, quando si traduca in una dichiarazione ad hoc, unilaterale e non recettizia, oppure tacita, quando risulti indirettamente da atti incompatibili con la volontà di avvalersi delle impugnazioni previste dalla legge (art. 329). In concreto, però, le ipotesi di acquiescenza tacita sono piuttosto rare, poiché non è facile che un determinato comportamento sia univocamente interpretabile come accettazione della sentenza (dare esecuzione alla sentenza di condanna ≠ acqu. tacita→ si evita esecuzione forzata, pignoramento, ecc.). In base allart. 329 co 2°, limpugnazione parziale importa acquiescenza alle parti della sentenza non impugnate (acquiescenza tacita qualificata), e presuppone che nella sentenza siano individuabili una pluralità di capi e che taluno soltanto di essi sia investito dallimpugnazione. Correlato con lart. 336, si evince che tale principio può valere solo per i capi che s iano autonomi ed indipendenti da quello impugnato, se infatti si trattasse di capi da esso dipendenti, limpugnazione 8 parziale per un verso non potrebbe considerarsi acquiescenza e dallaltro potrebbe condurre, in caso di accoglimento, alla loro caducazione. Art. 329. (Acquiescenza totale o parziale). Salvi i casi di cui ai numeri 1, 2, 3 e 6 dellarticolo 395, lacquiescenza risultante da accettazione espressa o da atti incompatibili con la volonta di avvalersi delle impugnazioni ammesse dalla legge ne es clude la proponibilita. Limpugnazione parziale importa acquiescenza alle parti della sentenza non impugnate. Art. 336. (Effetti della riforma o della cassazione). La riforma o la cassazione parziale ha effetto anche sulle parti della sentenza dipendenti dalla parte riformata o cassata. La riforma o la cassazione estende i suoi effetti ai provvedimenti e agli atti dipendenti dalla sentenza riformata o cassata. L’INAMMISSIBILITÀ E IMPROCEDIBILITÀ DELL’IMPUGNAZIONE. LA C.D. CONSUMAZIONE DEL POTERE D’IMPUGNAZIONE Si ha inammissibilità nei casi in cui limpugnazione non poteva essere proposta e improcedibilità nei casi in cui limpugnazione non può essere proseguita, e deve quindi essere definita con un a pronuncia meramente processuale. Linammissibilità può derivare da svariate ragioni, tutte attinenti alla fase genetica dellimpugnazione, al momento in cui è stata proposta, ad es. limpugnazione era esclusa per legge, difetto di legittimazione o interesse ad impugnare. Nulla esclude che possa ricollegarsi a vizi di forma-contenuto dellatto di impugnazione, ma in questo caso le fattispecie di inammissibilità hanno natura tassativa, perché in assenza di un’esplicita previsione normativa, i vizi di forma-contenuto sono inevitabilmente assoggettati alla disciplina delle nullità. Le ipotesi di improcedibilità invece si collocano in una fase successiva allinstaurazione del processo di impugnazione, attengono solitamente al mancato compimento di determinate attività di parte e devono considerarsi tassative. La pronuncia di improcedibilità, a differenza di quella di estinzione, investe solo una determinata impugnazione, mentre lestinzione riguarda inevitabilmente il processo nella sua interezza. Gli artt. 358 e 387 prevedono, esclusivamente con riguardo allappello e al ricorso per cassazione, che limpugnazione dichiarata inammissibile o improcedibile non possa essere riproposta, anche se non è ancora decorso il termine previsto dalla legge. Tali disposizioni sarebbero espressione del principio del c.d. di consumazione del potere di impugnazione. La consumazione dellimpugnazione non deriva solo dallesercizio del relativo potere, ma dalla circostanza che linammissibilità e limprocedibilità siano già state dichiarate dal giudice, fino a quel momento, nulla impedisce di proporre una nuova impugnazione, a condizione che ci avvenga nel rispetto dei termini di decadenza previsti dalla legge. La dichiarazione di inammissibilità, quando dipenda dal non essere limpugnazione ancora proponibile non può precludere la reiterazione dellimpugnazione stessa nel momento in cui si verifichino le condizioni richieste dalla legge. Art. 358. (Non riproponibilità dappello dichiarato inammissibile o improcedibile). Lappello dichiarato inammissibile o improcedibile non può essere riproposto, anche se non è decorso il termine fissato dalla legge. Art. 387. (Non riproponibilità del ricorso dichiarato inammissibile o improcedibile). Il ricorso dichiarato inammissibile o improcedibile non può essere riproposto, anche se non è scaduto il termine fissato dalla legge. GLI EFFETTI DELLA PRONUNCIA D’IMPUGNAZIONE. EFFETTO ESPANSIVO INTERNO Gli effetti della pronuncia del giudice dellimpugnazione, sostitutiva o rescindente, in vestono in via diretta le sole parti della sentenza che erano state effettivamente impugnate. 11 L art. 332 prevede che se limpugnazione, di cause scindibili, è stata p roposta soltanto da alcuna delle parti o nei confronti di alcuna di esse, il giudice ne ordina la notificazione alle altre in confronto delle quali limpugnazione non è preclusa o esclusa , fissando il termine entro il quale deve provvedersi alla notifica e, se necessario, ludienza di comparizione. Rispetto allart. 331: a) il giudice non ordina in nessun caso lintegrazione del contraddittorio, di estendere il giudizio alle parti che non erano state coinvolte dallimpugnazione, ma solo di notificare loro lim pugnazione: tale notifica non serve a far partecipare il suo destinatario al processo di impugnazione equivale a una sorta di litis denuntiatio, facendo sì che la parte che la riceve, se voglia impugnare a propria volta la sentenza, debba farlo necessariamente nella forma dellimpugnazione incidentale, facendo salva lesigenza di unitarietà del giudizio di gravame; b) coerentemente con la ratio della norma in esame, la notifica che precede è prescritta solamente nei confronti delle parti per le quali l’impugnazione non sia già “preclusa o esclusa” e che, conseguentemente, potrebbero ancora concretamente impugnare; c) qualora lordine del giudice non venga rispettato si avrà la sospensione del processo dimpugnazione fino al momento in cui scadranno, per tutte le parti soccombenti, i termini di decadenza degli artt. 325 e 327, ossia fino a quando sarà definitivamente esclusa la possibilità di altre impugnazioni. Gli articoli 331 e 332 non escludono del tutto l’eventualità che nei confronti della stessa sentenza siano proposte, tra parti diverse, impugnazioni autonomi e separate. Ciò può verificarsi in relazione a cause scindibili anche, quando si incrociano le impugnazioni contemporaneamente proposte da diversi soccombenti. Lart. 335 prevede che tutte le impugnazioni proposte separatamente contro la stessa sentenza debbono essere riunite, anche dufficio, in un solo proces so. Art. 331. (Integrazione del contradittorio in cause inscindibili). Se la sentenza pronunciata tra più parti in causa inscindibile o in cause tra loro dipendenti non è stata impugnata nei confronti di tutte, il giudice ordina lintegrazione del contradittorio fissando il termine nel quale la notificazione deve essere fatta e, se è necessario, ludienza di comparizione. Limpugnazione è dichiarata inammissibile se nessuna delle parti provvede allintegrazione nel termine fissato. Art. 332. (Notificazione dellimpugnazione relativa a cause scindibili). Se limpugnazione di una sentenza pronunciata in cause scindibili e stata proposta soltanto da alcuna delle parti o nei confronti di alcuna di esse, il giudice ne ordina la notificazione alle altre, in confronto delle quali limpugnazione non è preclusa o esclusa, fissando il termine nel quale la notificazione deve essere fatta e, se è necessario, ludienza di comparizione. Se la notificazione ordinata dal giudice non avviene, il processo rimane sospeso fino a che non siano decorsi i termini previsti negli articoli 325 e 327 primo comma. Art. 335. (Riunione delle impugnazioni separate). Tutte le impugnazioni proposte separatamente contro la stessa sentenza debbono essere riunite, anche dufficio, in un solo processo. Art. 327. (Decadenza dallimpugnazione). Indipendentemente dalla notificazione, lappello, il ricorso per cassazione e la revocazione per i motivi indicati nei numeri 4 e 5 dellarticolo 395 non possono proporsi dopo ((decorsi sei mesi)) dalla pubblicazione della sentenza. Questa disposizione non si applica quando la parte contumace dimostra di non aver avuto conoscenza del processo per nullità della citazione o della notificazione di essa, e per nullità della notificazione degli atti di cui allarticolo 292. LE FATTISPECIE DI CAUSA INSCINDIBILE L’art. 331 parla di cause tra loro dipendenti, l’art. 332 parla di cause scindibili. È definita causa inscindibile ogni fattispecie in cui alla pluralità di parti corrisponda un litisconsorzio necessario originario, a norma dellart. 102 , giacché in questi casi, pur quando si tratti, in realtà di più cause connesse, è lo stesso legislatore ad imporre un accertamento uniforme rispetto a tutti i litisconsorti, come fosse ununica causa. 12 La giurisprudenza suole estendere lo stesso principio alle ipotesi di litisconsorzio necessario c.d processuale, che ricorrerebbe sia quando, nel corso del processo, la parte fosse morta e fossero subentrati, in suo luogo, più eredi, sia in tutti i casi in cui il giudice avesse disposto lintervento coatto di un terzo, art. 107. L’ipotesi della (unica) causa inscindibile, prescindendo dalle fattispecie di litisconsorzio necessario cosiddetto sostanziale, ai sensi dell’art. 102, e da quella in cui più eredi siano subentrati all’unica parte originaria, parrebbe ricorrere: 1. In caso di successione a titolo particolare nel diritto controverso, sempre che il successore abbia partecipato al precedente grado di giudizio e l’alienante non sia stato estromesso prima della pronuncia della sentenza; 2. Nelle fattispecie che una parte della dottrina riconduce alla figura del litisconsorzio c.d. unitario, caratterizzata da un cumulo di domande connesse per identità dell’oggetto e del titolo, in quanto relative ad un rapporto giuridico sostanzialmente unico rispetto ai più contitolari: in queste ipotesi, allorché questi ultimi, pur non essendo litisconsorti necessari ex art. 102, abbiano partecipato al precedente grado di giudizio, deve ritenersi esclusa la possibilità di scissione del cumulo, seppure in fase d’impugnazione, prevalendo l’esigenza di un accertamento unitario ed uniforme nei confronti di tutti; 3. In caso di intervento di un terzo titolare di un rapporto giuridico dipendente da quello oggetto del giudizio: in quest’ultima situazione, la causa è innegabilmente una soltanto, tenuto conto che l’intervenente non propone una propria domanda e, secondo l’opinione tradizionale, neppure potrebbe impugnare autonomamente la sentenza; sicché se non gli si riconoscesse il diritto di partecipare al giudizio d’impugnazione instaurato da una delle parti originarie, le finalità stesse dell’intervento rimarrebbero inevitabilmente frustrate. LE CAUSE TRA LORO DIPENDENTI E LE CAUSE SCINDIBILI Dubbia è l’individuazione delle cause tra loro dipendenti. Si potrebbe pensare che il legislatore non si sia riferito all’ipotesi di pregiudizialità-dipendenza, bensì ad una connessione ancora più intensa tra le varie cause, nella quale non sia possibile distinguere una causa pregiudiziale da un’altra causa dipendente. Se così fosse l’art. 331 dovrebbe applicarsi alle fattispecie caratterizzate da un’interdipendenza reciproca o all’ipotesi di alternatività e incompatibilità tra le diverse cause. Se invece si ammette l’applicazione nell’ipotesi di pregiudizialità-dipendenza dell’art. 331 già in caso di intervento adesivo dipendente, cioè quando il titolare del rapporto giuridico dipendente abbia preso parte al processo solamente in virtù di una legittimazione c.d. secondaria, senza essere autore né destinatario di alcuna domanda, parrebbe contraddittorio escludere tale applicazione nelle ipotesi in cui egli è stato parte a pieno titolo, poiché (anche) il rapporto che a lui fa capo è stato oggetto del processo litisconsortile. Pure in questi casi, dunque, è lecito pensare che laccertamento del rapporto pregiudiziale debba essere unico rispetto a tutti i litisconsorti. Al di fuori delle ipotesi che precedono, comunque, il processo cumulativo dovrà considerarsi liberamente scindibile in fase dimpugnazione. Ciò signif ica che ricadranno senzaltro sotto il regime dellart. 332, in particolare, il litisconsorzio c.d. improprio (per mera comunanza di questioni) e quello derivante da connessione per identità della causa petendi. Un limite per le cause inscindibili e per quelle tra loro dipendenti si può individuare nelloggetto dellimpugnazione concretamente proposta: lintegrazione del contraddittorio si renderà necessaria, art. 331, solamente quando limpugnazione, da chiunque proposta, verta sullesistenza o sul modo d i essere, rispettivamente, dellunico rapporto dedotto in giudizio o del rapporto pregiudiziale; non anche quando essa investa esclusivamente la posizione di taluno dei litisconsorti oppure il solo rapporto dipendente. IN PARTICOLARE LE CAUSE DI GARANZIA E LE OBBLIGAZIONI SOLIDALI Tra le fattispecie più discusse, in relazione alla scindibilità o inscindibilità del cumulo in fase dimpugnazione, vè senzaltro il rapporto tra la causa principale e quella di garanzia, che normalmente si instaura attraverso l a chiamata in causa del garante. Si è già avuto modo di far cenno alla tradizionale distinzione, fermissima, fino a poco tempo fa, nella giurisprudenza tra garanzia propria e garanzia impropria; la quale ultima, essendo fondata su un rapporto giuridico diverso da quello posto a base della domanda principale, denoterebbe una connessione 13 meno intensa tra le rispettive cause, sì da escludere la deroga degli ordinari criteri di competenza prevista dallart. 32. Tale distinzione riecheggiava spesso anche in relazione al problema del litisconsorzio in fase di gravame, laddove si affermava che, in caso di garanzia impropria, le cause sarebbero rimaste distinte e scindibili, ricadendo comunque sotto il regime dellart. 332. Si trattava, peraltro di una distinzione poco persuasiva, in quanto le fattispecie che si è soliti ricondurre al concetto di garanzia impropria corrispondono, non diversamente dalle ipotesi di garanzia propria, al consueto schema della pregiudizialità-dipendenza - giacché la chiamata in garanzia parrebbe comunque implicare una domanda (seppure subordinata) di accertamento del rapporto pregiudiziale nei confronti (anche) del garante. Con la conseguenza che, indipendentemente dalla natura (propria o impropria) della garanzia, deve trovare applicazione lart. 331 ogniqualvolta limpugnazione, da chiunque proposta (anche dal solo garante nei confronti del convenuto), investa il rapporto pregiudiziale - ossia lesistenza e/o la misura dellobbligo del debitore -garantito - e rischi concretamente di condurre, in caso di mancata integrazione del contraddittorio, ad un accertamento difforme di tale rapporto pregiudiziale rispetto ai più litisconsorti. Una specifica attenzione merita dessere poi riservata, nellambito del tema in esame, al vasto ed eterogeneo settore delle obbligazioni solidali (al cui regime gli artt. 1316 ss. c.c. assimilano quello delle obbligazioni indivisibili). Per quanto concerne le obbligazioni solidali, che la dottrina suole definire ad interesse comune, contraddistinte dalla sostanziale identità della fattispecie costitutiva, potrebbero ricondursi alle ipotesi di causa inscindibile qualora, riconoscendo prevalente l’esigenza di un accertamento uniforme dell’eadem causa obligandi nei confronti di tutti i concreditori o condebitori, si aderisse all’opinione che vi ravvisa delle ipotesi di litisconsorzio cosiddetto unitario. L’opinione prevalente, tuttavia, muovendo dal presupposto che la scindibilità sia una caratteristica essenziale di tali obbligazioni ritiene che ad esse debba sempre applicarsi l’art. 332; con la conseguenza che l’eventuale impugnazione, separatamente proposta da o nei confronti di taluno soltanto condebitori (o concreditori), produrrebbe i propri effetti esclusivamente per costoro, senza impedire il passaggio in giudicato della sentenza rispetto agli altri, i quali non potrebbero neppure giovarsi dell’eventuale riforma loro favorevole. SEZIONE III - LIMPUGNAZIONE INCIDENTALE IL DIVIETO DI REFORMATIO IN PEIUS E L’IMPUGNAIONE INCIDENTALE Limpugnazione può giovare esclusivamente a chi lha proposta, quindi, quando vi sono più parti soccombenti oppure ricorra una soccombenza parziale reciproca, non è possibile che limpugnante veda riformare la sentenza in senso a sé sfavorevole (divieto c.d. di reformatio in peius), a meno che tale esito non derivi dallaccoglimento dellimpugnazione proposta da unaltra parte. La proposizione di una pluralità di domande contro la medesima sentenza è un’ipotesi molto frequente, se ciascuna delle impugnazioni desse vita ad un autonomo procedimento, implicherebbe una vera e propria ramificazione del giudizio, che era stato unico nel precedente grado. Per evitare ciò e assicurare l’unicità anche del processo in fase di impugnazione, il legislatore ha previsto l’impugnazione incidentale. Limpugnazione incidentale serve a far confluire in un unico processo tutte le impugnazioni proponibili contro la stessa sentenza. Il processo di impugnazione, come quello di primo grado, viene instaurato, a seconda dei casi, con citazione o con ricorso. La parte che impugna per prima deve rispettare le forme prescritte per limpugnazione c.d. principale, che dà inizio al processo. L art. 333 prescrive invece che le parti che abbiano già ricevuto la notifica di tale impugnazione principale e vogliano a loro volta impugnare la sentenza, sul presupposto che siano a loro volta soccombenti, debbono proporre, a pena di decadenza, le loro impugnazioni in via incidentale nello stesso processo, devono cioè rispettare per la loro impugnazione, successiva a quella principale, le forme specificamente previste per le impugnazioni incidentali. Ciò che distingue l’impugnazione incidentale da quella principale è soltanto la forma, che deve essere coerente rispetto allo scopo di inserirsi nell’ambito di un processo già avviato dall’impugnazione principale. Le sorti dellimpugnazione incidentale e dellimpugnazione principale non sono in alcun modo legate. Un nesso tra le due impugnazioni potrebbe derivare semmai dalla volontà stessa dellimpugnante incidentale che subordini espressamente la sua impugnazione allaccoglimento o al rigetto dellimpugnazione principale.