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Riassunto Calendario Civile Europeo, Appunti di Storia Contemporanea

Riassunto de "Calendario civile europeo" riguardante la parte da p. 3 a p. 165 per il corso di Storia Contemporanea

Tipologia: Appunti

2021/2022

Caricato il 20/12/2023

emilymin
emilymin 🇮🇹

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Scarica Riassunto Calendario Civile Europeo e più Appunti in PDF di Storia Contemporanea solo su Docsity! 26 agosto 1789 , La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino La Dichiarazione ha segnato una svolta nella storia dell’umanità e la nascita del mondo a noi contemporaneo. Tutti i grandi autori dell’Ottocento ne furono toccati e in particolare quel primo articolo proclamante l’uguaglianza sembra svettare come il pinnacolo semplice e nitido a indicare l’orizzonte della modernità: gli uomini nascono e rimangono liberi ed eguali. Gli Stati generali di Francia si dichiararono «Assemblea nazionale». Tre giorni più tardi la gran parte dei deputati si impegnò a non sciogliersi prima di aver adottato una costituzione e il 6 luglio venne formato un comitato di trenta membri incaricato di elaborarla. L’Assemblea nazionale divenne così Assemblea costituente. Il 9 luglio, un deputato del Terzo stato, propose di premettere alla costituzione una Dichiarazione dei diritti. E così fu deciso il 14 luglio, mentre a Parigi la folla attaccava la Bastiglia, e fu nominato un comitato di otto membri che preparasse il testo. Tra il 4 e l’11 agosto l’Assemblea emanò una serie di decreti che abolirono tutta l’impalcatura dell’antico ordine; furono cancellati i diritti feudali, la manomorta, le servitù personali e reali, i diritti di caccia, la giustizia signorile, le decime, le rendite fondiarie perpetue, la venalità degli uffici, le rendite pecuniarie ecc. Subito dopo, il 12 agosto, il compito di esaminare e fondere i diversi progetti di Dichiarazione fu affidato a una commissione di cinque membri. Approvati i primi 17 articoli della Dichiarazione, l’Assemblea si volse ad esaminare il progetto di costituzione. Era il 26 agosto, e i 17 articoli passarono alla storia come Déclaration des Droits de l’Homme et du Citoyen. L'importanza della Dichiarazione deriva dalla sua scrittura, operazione che segnò un passaggio epocale, corrispondente a un atto di fondazione, per la prima volta compiuta dagli americani nel 1776. Oltre alla Dichiarazione dei diritti, un preambolo al testo della Costituzione avrebbe contenuto una raffica di abolizioni irrevocabili con le quali era smantellato l’antico regime. Nei primi articoli della Costituzione francese si ribadivano e si precisavano i diritti e si gettavano le fondamenta dei pubblici poteri, affermando che l’essenza stessa di una costituzione, accanto alla garanzia dei diritti, era nel principio della divisione dei poteri, principio che apparteneva a una specifica tradizione britannica e che si riteneva teorizzata da Montesquieu. Questo fu lo schema adottato dalle costituzioni liberali dell’Ottocento. Molti temi del costituzionalismo e del liberalismo successivo erano già messi in campo nel 1789, ma una volta messa in capo a una Dichiarazione scritta, tale enunciazione veniva ad avere una potenziale carica eversiva di ogni ordine costituito, o per lo meno imponeva una sua riconfigurazione in chiave «moderna». Va sottolineato che nel 1789 la Dichiarazione era diretta contro avversari reali. Gli uomini nascono liberi ed eguali, si è detto, perciò non esistono differenze di nascita. La spinta rivoluzionaria era come prima cosa antiaristocratica. Era la forte pulsione distruttiva che aveva mosso la folla di Parigi e che il 14 luglio aveva portato alla presa della Bastiglia. Aspramente avversa a ogni privilegio, la rivoluzione non era però antimonarchica. Come molte rivoluzioni, l’89 voleva ripristinare diritti antichi più che configurare il futuro e quindi fare appello all’autorità suprema contro le nequizie dei poteri dominanti. La lotta a privilegi ormai insopportabili avvenne attorno alla figura del sovrano. La Dichiarazione francese, non diversamente da quella americana, riguardava «tutti gli uomini», da intendersi come singolarmente titolari di diritti prima di formare una società. Una società che nelle concezioni del tempo si formava attraverso un ideale contratto. Vennero riprese tre teorie da diversi filosofi con concezioni giusnaturaliste e contrattualistiche: ● Hobbes: contratto direttamente stabilito tra i singoli e il potere sovrano, con una delega completa e senza mediazioni ● Rousseau: nel contratto ciascun associato, in condizione di eguaglianza, aliena i suoi diritti a favore di tutta la comunità. tale linea contestava alla radice la teoria dei limiti al potere sovrano su cui poggiava il pensiero costituzionalista. ● Locke: la libertà dell’uomo consisteva nel non dipendere dalla volontà altrui ed era in funzione di ciò che individualmente egli possedeva, a cominciare dalla sua stessa persona e dalle sue capacità. Nella versione «lockiana» l’idea di eguaglianza era meglio associabile alla libertà, un altro grande principio dell’89. Ovviamente, di libertà si discuteva da secoli, ma nel contesto rivoluzionario a le antiche libertà, si sostituì un concetto singolo e onnicomprensivo, attributo dell’individuo e contrapposto al potere dello Stato; in questo senso della libertà si sarebbe molto parlato da allora in poi, variamente declinandola come assenza di impedimento o come libertà di agire. Non c’è dubbio che il 1789 fissi il momento germinale di un percorso che della democrazia come «governo del popolo» avrebbe fatto un giorno un regime politico universale, fonte primaria di legittimazione dei governi, fino al punto di denominare anche regimi profondamente antidemocratici, come sarebbe avvenuto nei regimi comunisti. Eppure, nel 1789 nessuno dei deputati che dichiararono l’eguaglianza era un democratico. Del resto sulla democrazia gravava un’antica opinione negativa, tanto che il regime democratico era considerato instabile, fonte di conflitti e di demagogia, destinato a condurre alla tirannide attraverso l’illimitata estensione del principio di eguaglianza. Si pensava poi che la democrazia non fosse un regime adatto ai grandi Stati. Attorno alla questione delle dimensioni del corpo politico si giocava il nesso tra la polis e lo Stato. Solo nella polis, dove era possibile riunirlo fisicamente, si poteva immaginare il governo diretto del demos, come era la comunità protestante di Ginevra o le comunità nordamericane. A differenza di quanto si verificava in America, «una moltitudine immensa» di francesi «era composta da uomini senza proprietà che si attendono dal governo più la sicurezza del lavoro, che li rende dipendenti. Ed in effetti, nelle loro visite sul continente, gli americani si dichiaravano colpiti dai profondi squilibri sociali. Dunque, se di democrazia si voleva parlare in un ampio Stato territoriale, essa avrebbe dovuto strutturarsi come una democrazia rappresentativa. Era questa forma di governo, la democrazia rappresentativa, che, denominata semplicemente democrazia, senza aggettivi, si sarebbe un giorno affermata come regime politico globale. Ma le profonde diversità, anzi il potenziale conflitto che poteva opporre il principio democratico e l’istituto della rappresentanza si erano manifestati già nel tornante rivoluzionario, quando l’astratto concetto di democrazia dichiarato nell’Encyclopédie acquistò una corposa realtà attraverso le diverse rivoluzioni che in parte si susseguirono, in parte si sovrapposero simultanee tra il 1789 e il 1794. Già nell’estate del 1789 il popolo di Parigi, spinto dalla crisi economica e dalle idee illuministe, aveva attaccato la Bastiglia reclamando pane ed eguaglianza, in ottobre le donne avevano marciato su Versailles e costretto i sovrani a tornare a Parigi, mentre le campagne ribollivano seminando incertezze e paura. Ben presto gli aristocratici spregiativamente presero a chiamare «sanculotti» i popolani di Parigi che portavano non le culottes ma i pantaloni. Il loro abbigliamento divenne un manifesto politico: denotava un’area sociale vasta e composita di quanti vivevano del proprio lavoro. Divennero un soggetto politico, animando clubs e sezioni, facendosi portavoce di una cultura basata sull’esaltazione del lavoro manuale , dell'egualitarismo e sulla fraternità. Reclamando il diritto al lavoro e all’assistenza, l’istruzione popolare e la regolamentazione dell’economia, facendosi sostenitori della democrazia diretta i sanculotti erano espressione di un utopismo radicale, che allo spirito borghese univa la nostalgia di un mitico passato egualitario. La «volontà generale» divenne allora ricerca di unanimità, di unanimità nazionale, e un unanimismo che era già vissuto nel sovrano si trasferì su un popolo senza sovrano. Si sperimentarono allora le prime forme di voto plebiscitario, nel doppio aspetto di un appello alle decisioni legittimanti del popolo e di una espressione di volontà nazionale e poi sempre in seguito in questo tipo di plebisciti. L’interesse comune appare sotto forma del nemico comune, cosicché l’unità di un popolo si manifesta in guerra, e provoca la guerra. La sfolgorante vittoria di Valmy ne fu l’apoteosi, quando, proclamata la leva in massa di uomini, donne, vecchi e bambini, il 20 settembre del 1792 le armate improvvisate ricacciarono gli eserciti di due potenze coalizzate come Austria e Prussia. La guerra durò anni, e incarnò la rivoluzione. Guerra alle frontiere, guerra continentale, ma anche guerra interna. Fu questa la missione di Maximilien Robespierre. Guadagnata l’egemonia nella Convenzione nazionale, nel 1793 Robespierre presentò una nuova Dichiarazione dei diritti e un nuovo «Atto costituzionale». Ne conseguiva che il popolo doveva essere indirizzato, educato e controllato con un’organizzazione centralizzata del potere e un ruolo direttivo dello Stato in ogni aspetto della vita sociale. Il fatto che la Costituzione del 1793, scavalcata dagli eventi, non sia mai entrata in vigore ne enfatizza il carattere radicale e ne fece un punto di riferimento per il futuro. Intanto, in quei mesi furiosi, dal luglio 1793 al luglio 1794, l’utopia giacobina costò migliaia di morti, pare fino a cento ogni giorno, fino a che fu giustiziato lo stesso Robespierre e il terrore finì. Metter fine alla rivoluzione fu da allora l’imperativo ritornante non solo della politica francese, ma di tutte le rivoluzioni. Ma intanto la rivoluzione aveva imboccato un’altra delle sue strade e l’eguaglianza si era separata dalla libertà. La rivoluzione si allontanò così dall’esperienza del 1789 e dai suoi nessi con i precedenti americani. Gemelle alla nascita, le due repubbliche ebbero sorte diversa. Secondo alcuni la distanza tra i due regimi era già percepibile alla nascita: i diritti francesi «miravano a stabilire diritti positivi primari, inerenti alla natura dell’uomo, mentre I bill of rights, al contrario, miravano a istituire controlli restrittivi permanenti su ogni potere politico e quindi presupponevano l’esistenza di uno stato e il funzionamento di un potere politico. La Dichiarazione dei diritti dell’uomo promulgata in Francia doveva costituire la fonte di ogni potere politico, doveva stabilire non un controllo ma il fondamento stesso dello stato. Seguendo l’una o l’altra via, sarebbe toccato alle generazioni future attuare la progressiva integrazione di nuovi soggetti nell’eguaglianza e dare significato a quella fraternité, problematico termine di collegamento tra liberté e égalité che circolò tra le parole del momento rivoluzionarioche prima del 1848 non comparve mai nei testi ufficiali. Il 4 agosto 1789, quando era stata avviata la discussione sull’annunciata Dichiarazione dei diritti, più di un deputato di parte cattolica aveva proposto che fosse accompagnata da una proclamazione dei rispettivi doveri. Lungo questi tormentati percorsi procedette nella storia l’ampliamento delle libertà e dei diritti, che nel Novecento sarebbe poi stata oggetto di molteplici riflessioni: se nel Settecento erano stati sanciti i diritti civili, vennero poi i diritti entrambi la vita. A quel punto, la volontà austro-ungarica di punire i responsabili si combinò con le tensioni internazionali e le diffidenze reciproche tra le grandi potenze che accompagnavano l’età dell’imperialismo, tanto da mettere in moto il processo che avrebbe portato allo scoppio della prima guerra mondiale. Il 23 luglio fu inviato al paese balcanico un ultimatum di 48 ore in cui, tra le varie richieste, si esigevano la fine della propaganda anti-austriaca, l’arresto di alcuni sospetti, la partecipazione di ispettori asburgici alle indagini sull’attentato. La Serbia, con una risposta conciliante che accettava pressoché tutte le condizioni, ad eccezione di quelle che ledevano la sua sovranità, riuscì a passare da vittima, trasformando così l’Austria nell’aggressore agli occhi dell’opinione pubblica internazionale. Russia, Francia e Gran Bretagna restarono a lungo indecise sul da farsi. Il 28 luglio, a un mese esatto dalla morte di Francesco Ferdinando e di Sofia, annunciò così la dichiarazione di guerra al paese balcanico. Per la prima volta nella storia, per trasmettere questa decisione ci si servì di un telegramma. Il 29 Belgrado fu bombardata. A quel punto la situazione si fece convulsa. A complicare le cose ci si mise la tecnologia; il telegrafo e il telefono, infatti, rendendo possibili comunicazioni rapidissime, eliminavano una delle risorse indispensabili per poter giungere a un accordo e trovare un compromesso: il tempo. In seguito al bombardamento di Belgrado, si produsse un effetto a catena che vide entrare in guerra, tra fine luglio e i primi giorni di agosto 1914, tutti gli altri protagonisti della vicenda. La guerra del 1914-18 è stata uno dei momenti che più in profondità hanno plasmato non solo i decenni immediatamente seguenti, ma l’intero XX secolo. Alla fine del XIX secolo l’Europa esercitava in effetti un’incontrastata egemonia mondiale. Il Vecchio continente non solo aveva conquistato gran parte del pianeta, ma si era dimostrato capace di diffondere ovunque i suoi principi politici, i suoi valori, i suoi costumi, le sue lingue, le sue genti. Fino alla prima guerra mondiale, l’Europa si sentiva il centro del mondo. Modernizzarsi significava europeizzarsi, essere moderni voleva dire fare come gli europei. La travolgente crescita economica del continente era stata contraddittoriamente favorita sia dal lungo periodo di pace tra la guerra franco prussiana del 1870 e il 1914, sia dall’acuirsi delle tensioni internazionali legate alla gara imperialistica per espandersi negli altri continenti. La crescita economica e lo sviluppo scientifico erano infatti incoraggiati dall’intervento dei singoli Stati, che miravano a ottenere sempre maggiore prestigio e potere internazionali. La comparsa di nuove industrie, come quelle elettriche e chimiche, mise a disposizione degli Stati enormi quantità di prodotti farmaceutici, concimi, esplosivi, cemento, gomma, coloranti artificiali e conservanti alimentari. Tutte cose utili in tempo di pace, ma ancora più importanti in tempo di guerra. Un ruolo altrettanto importante lo ebbe lo sviluppo dei trasporti, per mare e per terra, che grazie ai perfezionamenti introdotti tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX avrebbe reso possibile l’afflusso di milioni di soldati dalle colonie anglo-francesi e poi dagli Stati Uniti, lo spostamento di altri milioni di uomini all’interno del continente europeo e l’arrivo dall’esterno di ciò che serviva ad alimentare le economie nazionali. Tra gli anni ottanta del XIX secolo e lo scoppio della prima guerra mondiale ogni aspetto della vita quotidiana fu in effetti investito dal prodigioso accumularsi di scoperte e di innovazioni che avrebbero svolto un ruolo fondamentale nella guerra mondiale. Le incredibili conquiste della scienza degli ultimi decenni, i grandi cambiamenti e la crescente difficoltà nel gestirli, spinsero molti a pensare che si stesse addirittura avvicinando l’estinzione della civiltà occidentale. Il rifiuto della modernità e il timore delle sue conseguenze incontrollabili si cominciarono presto ad accompagnare alla convinzione che solo tramite la guerra fosse possibile fermare il cammino dell’umanità verso l’inevitabile disastro. L’età del nazionalismo e dell’imperialismo aveva infatti potentemente rilanciato la convinzione che all’esperienza bellica spettasse il compito di svecchiare, di rigenerare e disciplinare una civiltà che molti giudicavano in piena decadenza. Solo dopo gli orrori che avrebbero accompagnato quest’ultimo conflitto, le rivelazioni sui campi di sterminio nazisti, le bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki, nella cultura europea si sarebbe affermata la convinzione che è la pace l’unico strumento in grado di garantire lo sviluppo e la tutela della civiltà. La guerra sembrava paradossalmente lo strumento più efficace per riportare l’ordine e restaurare la tradizionale gerarchia sociale, ed era d’altronde ritenuta un fatto assolutamente adeguato alle questioni poste dall’età presente. Dominava la convinzione tradizionale che lo scontro armato rappresentasse l’occasione migliore per un popolo di mostrare la propria superiorità morale attraverso la capacità di sacrificarsi e la volontà di vincere, a qualsiasi costo. Ma alla maggioranza degli osservatori sfuggiva che la tecnologia aveva acquisito una potenzialità distruttiva tale da rendere effettivamente devastante un conflitto tra le maggiori potenze mondiali. Nello stesso tempo, molti di coloro che sottovalutavano la capacità distruttiva della moderna tecnologia bellica, ne enfatizzavano paradossalmente le potenzialità costruttive, o almeno, quelle che così sembravano. Nei comandi tedeschi, ad esempio, era molto forte la convinzione che grazie all’osservazione dai dirigibili e alle fotografie scattate dall’alto, le truppe a terra potessero essere guidate e spostate lì dove servivano. Queste convinzioni contribuiscono a spiegare l’eccitazione per lo scoppio della guerra, i festeggiamenti che la accompagnarono i primi giorni di agosto 1914 e per alcune settimane ancora. Chi festeggiava lo scoppio della guerra esprimeva il profondo malcontento che covava sotto la superficie della Belle Époque. Il senso di isolamento individuale, di diffidenza reciproca, che accompagnava lo sviluppo della società moderna sembrò dissolversi improvvisamente. La guerra combattuta sarebbe stata però ben diversa da quella sognata. Proprio a causa della devastante potenza della tecnica ogni attacco si trasformava inevitabilmente in una carneficina. La capacità offensiva, o meglio distruttiva, che la tecnologia aveva acquisito impose dunque il passaggio alla nuova regola e una concezione di cui furono chiara espressione le trincee, i ripari e le caverne in montagna, le artiglierie posizionate ora a decine di chilometri dai loro bersagli, le divise dai colori neutri, la nascita di specifici corpi militari destinati alla mimetizzazione delle postazioni di artiglieria, di magazzini, navi e aerei. L’esempio più tristemente famoso della degenerazione introdotta dalle scoperte scientifiche è l’uso dei gas nervini. Aggressivi chimici e fumogeni erano usati da sempre nei combattimenti, ma ora vennero perfezionati a tal punto da renderli l’arma più temuta. Ciò contribuì a confermare uno dei caratteri più nuovi e inquietanti di questa guerra: la caduta nella totale irrilevanza dell’essere umano, la perdita di controllo sul proprio destino, la riduzione a ingranaggio, del tutto sostituibile, di un meccanismo anonimo e impersonale che soverchiava e annichiliva le vicende dei singoli come mai era accaduto prima di allora. Importante è anche il coinvolgimento dei civili, dove se da un lato, le dimensioni, la durata e i costi provocati dallo scontro spingevano a considerare ogni individuo, anche se non combattente, una preziosa risorsa per sostenere lo sforzo bellico nel «fronte interno», dall’altro, la stessa cosa valeva, però, per i paesi nemici. Il caso più drammatico, per quantità e livello di violenza, di coinvolgimento dei civili fu certamente lo sterminio degli armeni che vivevano nell’Impero ottomano. A causa sia della loro aspirazione all’indipendenza nazionale sia della vicinanza della loro regione alla Russia, essi vennero infatti considerati dai turchi potenziali quinte colonne al servizio di quest’ultima, contro cui l’Impero ottomano, alleato di Germania e Austria-Ungheria, era in guerra. Nel tentativo di eliminare questo pericolo, tra il 1915 e il 1916 fu deciso di trasferire l’intera popolazione armena alla periferia dell’Impero. Ma nel corso della deportazione, centinaia di migliaia di armeni (le cifre sono molto oscillanti, le più recenti parlano di 650000 vittime) furono sterminati dai turchi direttamente o attraverso la reclusione in campi di concentramento, dove fame e malattie mieterono vittime senza pietà. I pochi sopravvissuti furono eliminati una volta arrivati nel deserto della Mesopotamia. Alla fine della guerra, la crisi del Vecchio continente non fu quindi dovuta solo agli enormi costi economici che i suoi Stati avevano dovuto sostenere, né ai debiti contratti con gli altri paesi. Contò infatti anche il furore distruttivo che aveva attraversato l’Europa tra il 1914 e il 1918. Un furore distruttivo che aveva fatto crescere i dubbi che gli europei avevano su se stessi, sulla superiorità della loro civiltà. Da questo insieme, ne uscì radicalmente modificata la posizione dell’Europa nel mondo, come mostrava chiaramente l’affermazione sulla scena internazionale di due grandi potenze del calibro di Stati Uniti e Russia bolscevica. 9 novembre 1918 , Proclamazione della Repubblica tedesca Nel settembre del 1918 colui che di fatto era a capo del comando supremo dell’esercito tedesco, il quartiermastro generale Erich Ludendorff, era pronto ad ammettere che la Germania avesse perso la guerra. Ma a suo parere la responsabilità della sconfitta non sarebbe dovuta ricadere sui comandi militari, bensì sui «partiti di maggioranza» del Reichstag, che nel luglio del 1917 si erano espressi con una risoluzione a favore di una pace negoziata, senza annessioni territoriali. Da un cambio di regime a Berlino, dalla trasformazione della monarchia costituzionale del Reich in una democrazia parlamentare, si aspettavano di esercitare un’azione positiva sul presidente americano Woodrow Wilson, nel quale vedevano il possibile promotore di una pace equilibrata. I socialisti di maggioranza raccolti intorno a Friedrich Ebert e Philipp Scheidemann, che a differenza del nuovo Partito socialdemocratico indipendente rimanevano ancorati all’accordo del 1914 di un «Burgfrieden», ovvero una tregua interna tra le parti sociali in nome dello sforzo bellico Il 3 ottobre 1918 alcuni esponenti di spicco dei partiti di maggioranza entrarono a far parte del governo del nuovo cancelliere imperiale, il principe Max von Baden, che aveva assunto l’incarico quello stesso giorno. Tre settimane e mezzo più tardi, il 28 ottobre, la Costituzione del Reich del 1871 veniva modificata in un punto decisivo: da quel momento in avanti, il cancelliere doveva ricevere la fiducia della maggioranza del parlamento. Tuttavia questa riforma rimase fondamentalmente sulla carta. Gran parte degli ambienti militari non pensarono neppure per un momento di piegarsi alle direttive del nuovo governo, sostenuto dalla maggioranza del Reichstag. La risposta all’ostruzionismo di una parte dei vertici militari nei confronti della riforma costituzionale di ottobre fu la rivoluzione dal basso, che cominciò con l’ammutinamento di alcuni marinai nei porti di Wilhelmshaven e Kiel e in pochi giorni dilagò fino a diventare una vera e propria sollevazione di massa contro il vecchio sistema monarchico. Il 9 novembre 1918, il cancelliere Max Von Baden annunciò l’abdicazione dell’imperatore Guglielmo II, e lo stesso giorno Baden cedette la carica di cancelliere a Ebert. Nacque così la repubblica tedesca. La rivoluzione tedesca del 1918-19 non è entrata nella storia come una delle grandi rivoluzioni democratiche dell’Occidente. Essa fu segnata da «un riflesso anti-caos»: la paura, tipica di società industriali altamente sviluppate e incentrate sulla divisione del lavoro, del crollo dei servizi pubblici quotidiani, dunque dell’ordine e della sicurezza. Nel suo libro Die deutsche Revolution von 1918/19. Geschichte der Entstehung und ersten Arbeitsperiode der deutschen Republik, uscito nel 1921, il socialdemocratico Eduard Bernstein indicava un’ulteriore differenza fondamentale tra Germania e Russia: dal punto di vista politico, alla fine della prima guerra mondiale la Germania era in condizioni ben più avanzate della Russia, quindi nel 1918 non si trattava di praticare una politica della tabula rasa, bensì di realizzare più democrazia, e introdurre il suffragio femminile e il diritto di voto in ciascuno degli Stati, circoscrizioni e comuni che componevano l’impero e giungere alla piena parlamentarizzazione del sistema politico. I socialdemocratici, che erano stati i più decisi sostenitori della democratizzazione del Reich, avrebbero perduto ogni credibilità se nel 1918 avessero abbandonato questa linea e fossero tornati al credo marxista ortodosso della lotta di classe. I più moderati tra i socialisti indipendenti non erano sostanzialmente di opinione diversa da quella dei socialdemocratici maggioritari. Tuttavia intendevano posticipare sia pure di poco l’elezione di una Costituente per prevenire eventuali contrattacchi di tendenza reazionaria e capitalista, e mettere dunque preventivamente al sicuro la fragile democrazia. Nel corso del primo congresso generale dei Consigli degli operai e dei soldati, tenutosi a Berlino tra il 16 e il 21 dicembre 1918, la maggioranza dei delegati proveniva dalla Mspd e soltanto un centinaio dal Partito socialdemocratico indipendente. La mozione che proponeva di fissare le elezioni di un’assemblea nazionale costituente al 19 gennaio 1919, venne approvata con un’ampia maggioranza. In altre due votazioni emerse chiaramente che la maggioranza del congresso si collocava a sinistra del governo rivoluzionario. In tema di nazionalizzazione delle industrie, i leader della Mspd non intendevano anticipare i lavori della Costituente; inoltre temevano che gli alleati avrebbero guardato alle industrie statalizzate come a un pegno per le loro richieste di riparazione. Dal dilemma si uscì con una soluzione di compromesso su cui il Consiglio dei rappresentanti del popolo si era accordato già il 18 novembre: l’insediamento di una commissione indipendente che avrebbe preso in esame gli aspetti connessi alla nazionalizzazione di specifici settori industriali. La delibera riguardante la politica militare rappresentò invece una reazione alle lacune mostrate dal governo rivoluzionario, che al momento della smobilitazione aveva lavorato in stretto accordo con il comando supremo dell’esercito, ma che ancora non aveva intrapreso alcuna iniziativa per costituire una milizia fedele alla repubblica: una negligenza, questa, che sarebbe stata pagata a caro prezzo, al pari della rinuncia a riformare l’apparato della pubblica amministrazione proprio là dove era più necessario, ossia in tutti i territori a est dell’Elba, roccaforte dei funzionari nemici della Repubblica tedesca. Il 30 dicembre, nella sede del parlamento prussiano cominciava il congresso di fondazione del Partito comunista tedesco (Kpd). Nonostante i pressanti moniti di Rosa Luxemburg, i delegati approvarono a netta maggioranza una mozione che invitava a boicottare le elezioni per l’Assemblea costituente. Pochi giorni dopo la chiusura del congresso comunista, il 4 gennaio 1919, il primo ministro prussiano Paul Hirsch, un socialista di maggioranza, destituiva il capo della polizia di Berlino Emil Eichhorn, che apparteneva all’ala sinistra della Uspd. Di conseguenza i delegati rivoluzionari dell’industria metallurgica della capitale dettero il via agli scontri di gennaio, ovvero a quella che spesso viene definita come «l’insurrezione spartachista». Che i rappresentanti del popolo dovessero assolutamente fermare il putsch era evidente a tutti, non solo a loro. Se l’insurrezione berlinese di gennaio non fosse stata soffocata, non si sarebbero potute svolgere le elezioni per l’Assemblea costituente. Quanto avviato dai seguaci tedeschi dei bolscevichi rappresentava infatti il tentativo di andare oltre il risultato raggiunto dai sostenitori di Lenin l’anno precedente con lo scioglimento della Costituente russa; si trattava, in Germania, di impedire lo svolgimento di libere elezioni per la fondazione, su basi costituzionali, di una repubblica. Dalle elezioni del 19 gennaio 1919 i socialisti maggioritari uscirono vincitori, con una percentuale del 37,9%. L’11 febbraio Friedrich Ebert venne eletto presidente provvisorio del Reich; il giorno seguente questi incaricò Philipp Scheidemann di comporre il nuovo governo: ne uscì una coalizione formata dai partiti di maggioranza dell’ultimo parlamento imperiale. Con la costituzione della cosiddetta «prima coalizione di Weimar» terminava quel vuoto parlamentare cominciato il 9 novembre 1918 con la caduta della monarchia. Tuttavia la rivoluzione tedesca non era affatto terminata; entrava solo in un nuovo stadio. Ai dirigenti del Partito socialdemocratico di maggioranza importava essenzialmente arrivare a una rapida smobilitazione, al passaggio veloce da un’economia di guerra a una di pace e, il prima possibile, alle elezioni di una costituente che gettasse le basi per una piena legittimazione democratica del nuovo sistema, onde evitare il caos, la guerra civile e un eventuale intervento alleato, che avrebbe reso la Germania mero oggetto passivo delle volontà dei vincitori. Di fronte a tutto ciò diventava secondario quanto invece andavano reclamando a ragione i socialdemocratici indipendenti moderati. La Repubblica di Weimar non sarebbe mai nata se i socialdemocratici si fossero arroccati sulle posizioni di anteguerra fissate dalla Seconda Internazionale del 1900, secondo cui le coalizioni con i partiti borghesi rappresentavano «un esperimento pericoloso» ed erano ammissibili solo quale «strumento provvisorio in una situazione senza via di uscita». La frattura creatasi all’interno della socialdemocrazia rappresentò così, in modo paradossale, un’eredità pesante per la prima democrazia tedesca, e al contempo uno dei presupposti della sua nascita. La nascita della democrazia tedesca dalla sconfitta nella prima guerra mondiale fu l’ipoteca più pesante per la Repubblica di Weimar. I nemici del nuovo sistema ebbero gioco facile nel denunciare la forma democratica parlamentare come una costruzione imposta dalle potenze vincitrici, e pertanto come un sistema non tedesco. I tre partiti «weimariani» persero la maggioranza parlamentare già dopo le prime elezioni del 1920. Dopo il fallimento dell’ultima Grande coalizione, nel marzo del 1930 la Germania sarebbe passata a un regime presidenziale semi-autoritario che avrebbe governato solo grazie a decreti di emergenza emessi dal presidente rapporto tra i coniugi, ● questioni nuove nel merito del significato di una cittadinanza capace di comprendere la diversità dei corpi e delle esperienze, come nel caso delle legislazioni sulla regolamentazione dell’aborto, con tutte le contraddizioni legate al complesso confine tra autodeterminazione e intervento dello Stato. Gli anni ottanta del Novecento si presentarono dunque per i movimenti delle donne in questa complessa articolazione a cui si deve aggiungere lo sviluppo o il rafforzamento di reti e scambi internazionali favoriti dalla proclamazione da parte delle Nazioni Unite nel 1975 del decennio dedicato alle donne scandito dai grandi incontri di Città del Messico, Nairobi e Pechino. Questo complesso movimento si trovò a misurarsi con le trasformazioni dell’ultimo ventennio del secolo. Tra queste, il transito a una nuova Europa politica e culturale nata dalla fine dei regimi autoritari e dalla conclusione della guerra fredda con l’unificazione tedesca. L’Unione europea favorì e sostenne un’intensa fase di scambi tra le diverse regioni d’Europa sul piano dell’approfondimento delle politiche e degli studi, si realizzarono progetti a sostegno della gender equality sotto il profilo del welfare, della rappresentanza politica, delle rappresentazioni culturali. Ma, negli anni novanta, una ferita nel cuore del continente riportò in primo piano l’intreccio tra diritti delle donne e diritti umani. In un tragico paradosso, mentre a Vienna femministe di differenti paesi facevano risuonare la loro voce per chiedere il pieno riconoscimento dei diritti delle donne come diritti umani a partire dalla vulnerabilità specifica di vite femminili esposte a violenze e abusi, lo stupro etnico perpetrato dalle milizie serbe nei confronti delle donne bosniache e musulmane riappariva, come arma di guerra, nei contemporanei nazionalismi europei. I passaggi successivi, vale a dire la Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne promulgata nello stesso anno dalle Nazioni Unite, l’istituzione di Tribunali internazionali che perseguissero i colpevoli di crimini commessi in violazione dei diritti umani compresa la violenza a sessuale e il pieno riconoscimento dei diritti delle donne come diritti umani avvenuto nel 1995 con la Dichiarazione di Pechino potrebbero essere considerati l’approdo della vicenda dei movimenti delle donne attraverso la modernità politica con le sue conquiste e con i suoi scacchi. 4 giugno 1920 , Il Trattato del Trianon e i nodi di Versailles La prima guerra mondiale non aveva mutato radicalmente solo le società, ma anche la geografia del continente europeo, in particolare della sua parte centrale. Pertanto, le delegazioni dei vari Stati riunite a Parigi a partire dal 1919 non avevano soltanto il compito di siglare la pace, ma anche quello di tracciare nuovi confini. In Occidente è diffusa la convinzione che la guerra finì nel novembre del 1918; di fatto però l’instaurazione del nuovo ordine postbellico non fu un processo conclusosi all’interno delle sedi diplomatiche della periferia parigina, con firme apposte sotto i trattati e linee tirate sulle carte geografiche. Mentre a Occidente si negoziava, a Oriente si combatteva ancora. Nell’Europa centrale, orientale e sud-orientale dai campi di battaglia del conflitto mondiale erano spuntati nuovi Stati, che si trovarono indisaccordo a proposito delle modalità di spartizione degli ex territori imperiali. Nel corso del XIX secolo, erano nati movimenti nazionali che aspiravano a una propria indipendenza statuale. Tuttavia i nuovi Stati nazionali finivano necessariamente per dissentire su singole porzioni di territorio, e nessuno era intenzionato a cedere in nome degli interessi del proprio vicino. Per risolvere e definire i vari conflitti sulle frontiere nazionali non si attese, tuttavia, un verdetto da Parigi. Un ulteriore problema era costituito dal fatto che i vari movimenti nazionali presenti nelle aree centrali, orientali e sud- orientali dell’Europa avvocavano ciascuno a sé il diritto di parlare a nome di una parte degli ex sudditi imperiali, che veniva definita in termini culturali, etnici e linguistici. Ma in ragione della mescolanza etnica caratteristica di questi territori era del tutto impossibile tracciare confini precisi su queste basi. Di conseguenza, all’interno dei nuovi Stati si trovavano popolazioni diverse con interessi diversi, e che addirittura talvolta avevano combattuto le une contro le altre durante la guerra. Tali premesse resero impossibile per i diplomatici riuniti a Parigi siglare la pace e delineare confini senza deludere milioni di persone che vivevano nei territori oggetto di negoziati. Dal trattato di pace stilato nella capitale francese non emersero soltanto nuove linee di frontiera, ma anche di conflitto. I trattati siglati a Parigi portano come noto i nomi altisonanti dei luoghi in cui vennero sottoscritti. Il più celebre di essi, da una prospettiva occidentale, è naturalmente il Trattato di Versailles del 28 giugno 1919, anche perché le dure condizioni imposte alla Germania vengono spesso messe in relazione retrospettivamente con l’ascesa al potere del nazionalsocialismo e con la catastrofe della seconda guerra mondiale. Tutti gli altri trattati, già al momento della loro ratifica si collocarono all’ombra dell’impresa monumentale compiuta con il Trattato di Versailles, che parve davvero sfiancare le potenze vincitrici alleate. Il Trattato del Trianon, tuttavia, ebbe conseguenze ben più profonde soprattutto per la costellazione di Stati dell’Europa centrale, ovvero Ungheria, Cecoslovacchia, Romania e Bulgaria. Al pari della Germania, l’Ungheria aveva perso la guerra a fianco degli Imperi centrali, e pertanto il 4 giugno 1920 dovette accettare condizioni di pace. Le ex «Terre della Corona di Santo Stefano» conservarono soltanto «un terzo della loro regione storica, due quinti della popolazione d’anteguerra e due terzi del popolo magiaro». Questi territori e queste popolazioni si trovavano, o meglio vivevano ora oltrefrontiera, in Austria, in Cecoslovacchia, in Romania e in Jugoslavia. Due dei trattati di pace firmati in Occidente – il Trattato di Sèvres (10 agosto 1920) e il Trattato di Losanna (24 luglio 1923) – riguardavano direttamente la procedura fallimentare nei confronti dell’ex Impero ottomano, ma due guerre diverse. Il primo trattato si collocò sotto il segno dell’armistizio del 1918, in quanto vi si dichiarava ufficialmente la fine del conflitto tra gli alleati e il Sultanato. Il secondo avrebbe dovuto siglare la fine di una delle tante carneficine che anche dopo il 1918 continuarono a scatenarsi in Europa. L’inchiostro delle firme in calce al testo di Sèvres non si era ancora asciugato che l’esercito greco già marciava in territorio turco. Il conflitto greco-turco che ne scaturì venne condotto con estrema brutalità da entrambe le parti. Alla fine l’avventura militare greca sfociò in un fallimento, e Atene finì col perdere territori sia al di là che al di qua del Bosforo. I Trattati di Sèvres e di Losanna mostrano chiaramente come gli alleati a Parigi non avessero quale unico obiettivo la fine dei conflitti che ancora perduravano a Oriente. Le cessioni territoriali che nel 1920 erano state imposte al Sultanato furono determinanti nel provocare la destabilizzazione della regione e rafforzare il movimento nazionalista di Mustafa Kemal, che grazie ai successi militari ottenuti durante la guerra greco-turca poté rapidamente assumere la guida del nuovo governo di Istanbul. L’accordo internazionale del 1923, tuttavia, non segnò la fine del disumano esodo di intere popolazioni; piuttosto, questo venne sanzionato dall’accordo stesso, che si limitò semplicemente a regolarlo affinché avvenisse in modo controllato. Nel carosello di trattati siglati agli inizi degli anni venti, dunque, alcuni tra gli sconfitti poterono uscire alla fine come vincitori. Ciò non vale solo per la Turchia, ma anche per la Cecoslovacchia, che riuscì a staccarsi del tutto dall’eredità asburgica e a decidere a proprio favore quasi tutte le questioni relative ai nuovi confini. Il contrario accadde per l’Italia, che aveva combattuto scontri sanguinosi, con gravissime perdite, sulle Alpi e sull’Isonzo. Con il Trattato di Saint-Germain-en-Laye emerse con chiarezza il rapporto diretto che esisteva tra gli accordi diplomatici e l’azione armata, ossia il nesso che univa Parigi ai focolai dei conflitti postbellici: infatti, già la mattina dopo la firma del Trattato Gabriele D’Annunzio mosse con una formazione paramilitare di duecento volontari per occupare il porto adriatico di Fiume. Quella che D’Annunzio aveva proclamato come la «Reggenza italiana del Carnaro» durò quindici mesi, fin quando lo stesso governo di Roma mise fine all’impresa. Con il Trattato di Rapallo, siglato con la Jugoslavia, venne costituito lo Stato libero di Fiume, e la Marina italiana cacciò dalla città le milizie proto-fasciste dannunziane. Tuttavia, neppure due anni dopo, veri fascisti, con a capo Benito Mussolini, sarebbero andati al potere a Roma. In Ungheria il Trattato del Trianon mobilitò in maniera analoga formazioni paramilitari di destra, le quali dopo la firma confluirono nella regione occidentale del Burgenland, ora appartenente all’Austria. Nel corso di un anno i corpi franchi ungheresi divennero così influenti nella zona da giungere di fatto a comandare la regione sotto la guida di Pál Prónay, un ufficiale senza scrupoli nonché criminale di guerra che si era fatto le ossa nella prima guerra mondiale e in seguito nella guerra civile. Sull’esempio di D’Annunzio, il 4 ottobre 1921 Prónay proclamò dunque nel Burgenland il «Banato di Leithania» , ma anche l’avventura di Prónay terminò con una rapida sconfitta In misura ancora maggiore le decisioni originarie relative a confini nazionali furono deformate e modificate da conflitti condotti da milizie regolari o da eserciti ombra. Nei censimenti effettuati anteguerra, tra i vari dati era stata chiesta qui anche la nazionalità; gli storici ritengono che nel 1918 ancora l’80% della popolazione non avesse nessuna coscienza nazionale. Questo aspetto non soltanto sfuggì a molti politici dell’epoca, ma è stato trascurato anche da gran parte della storiografia fino ad oggi. Sono infatti soprattutto le nuove forme di violenza a imporre una distinzione categorica tra i conflitti prima e dopo il 1917- 18; prima abbiamo guerre convenzionali, dopo guerre civili. Ciò che però la guerra svoltasi tra il 1914 e il 1917-18 portò con sé in tutta Europa con la mobilitazione totale fu il progressivo sgretolamento di quella che in precedenza era stata una chiara distinzione tra popolazione civile e combattenti. E ciò si sarebbe rivelato fatale nel momento in cui i rappresentanti delle nuove ideologie mondiali ebbero in mano le redini del potere. Entrambe le ideologie avevano in comune il fatto di non distinguere più tra civili e militari. Da molte parti esse si intrecciarono dando vita a costrutti ideologico politici oggi pressoché incomprensibili. I costruttori della pace da Parigi guardavano con crescente orrore verso est, dove il loro lavoro diplomatico, in apparenza così raffinato, veniva sabotato dalla violenza bruta. Era evidente che a ovest si era erroneamente convinti che dalle rovine dei grandi imperi sarebbero nate democrazie che avrebbero funzionato in maniera automatica. Inoltre si trascurava volentieri il fatto che lo stesso Occidente in parte perseguiva a est i propri interessi, e che anche a ovest la democrazia non godeva dappertutto di ottima salute. D’altro canto, però, i nuovi Stati nazionali dipendevano dal riconoscimento internazionale, e, pur con tutte le loro pecche e con le reazioni negative che necessariamente suscitarono, i trattati costituirono un passo in avanti nella stabilizzazione dell’Europa postbellica. Ma poiché al tempo stesso era impossibile in uno spazio multietnico soddisfare esigenze di autodeterminazione etnico-nazionale in concorrenza tra loro, essi avevano in sé già anche il germe della sua distruzione. In tal modo, infatti, in Europa vennero spalancate le porte al revisionismo. Le clausole a garanzia dei diritti delle minoranze che furono inserite nei trattati rimasero solo sulla carta, dato che alla Società delle nazioni mancavano gli strumenti per richiederne l’applicazione. In tutta l’Europa centrale, orientale e sud- orientale presto si assisté all’avanzata di populisti revisionisti, e le democrazie si trasformarono in autocrazie. Novembre 1924, Esce a Berlino Der Zauberberg di Thomas Mann Il paradosso di Weimar è un fenomeno culturale prima ancora che politico e consiste nel persistere del sentimento della fine di un’epoca in un’epoca nuova o che, almeno, nuova avrebbe voluto e dovuto essere. Questo senso o sentimento della fine è un fenomeno nato e cresciuto, nel clima culturale dei decenni a cavallo del secolo, dalle grandi diagnosi della decadenza riportate in vita dall’epilogo della guerra. Thomas Mann offre un ritratto sintetico della propria condizione intellettuale e di quella della sua generazione che illustra assai bene lo stato di sospensione o di stallo delle istanze costruttive e propulsive emerse dopo la guerra laddove Mann stesso si dichiara figlio della décadence al pari di tutti quegli intellettuali europei che, costretti dalla realtà delle cose a divenirne i cronisti, si scoprono incapaci di dare forma all’ambizione di emanciparsene e lasciarsela alle spalle insieme al nichilismo che ne costituisce il necessario correlato. Agli occhi degli intellettuali approdati nella terra incognita della pace dopo la sconfitta, la nascita della Repubblica di Weimar poteva rappresentare né più né meno che il velleitario tentativo di arginare con un’arbitraria forzatura istituzionale il dissolvimento sempre più veloce delle illusioni passate. A fungere da pietra di paragone era ancora il caos patito dalla Francia ancor prima della sconfitta del 1871 e il ricordo della crisi politica e civile conseguente alla proclamazione della Repubblica. Le discriminanti ideologiche e ideali hanno poco valore, ad esempio, proprio se le si commisura alla natura dei rapporti che i loro rappresentanti intrattennero con la repubblica, la quale, come si sa, ebbe quasi solo oppositori e fra gli intellettuali e scrittori dell’epoca l’atteggiamento critico, se non distruttivo fu addirittura dominante. Mai forse più che negli anni di Weimar, le contrapposizioni ideologiche furono relativizzate dal comune fine della contrapposizione al presente. Ancora oggi è facile, per gli studiosi della cultura di Weimar, scorgere fili nascosti che collegano le posizioni politiche e filosofiche di Carl Schmitt o Ernst Jünger a quelle di Walter Benjamin o dei francofortesi: sul piano del metodo e dell’analisi i contrasti fra orientamenti diametralmente opposti si riducevano fino a scomparire del tutto. In questo contesto mancano quasi completamente, fra gli intellettuali, i sostenitori della repubblica. Immaginare la nascita di qualsiasi orizzonte futuro senza la completa scomparsa del presente sembra un esercizio sterile, privo di fascino e quasi certamente destinato a fallire. L’ormai definitiva affermazione avanguardistica dell’unità indissolubile di creazione estetica e azione politica relegava anche gli autori impolitici alla marginalità. Non sarebbero mancati, in realtà, gli autori neutrali o, addirittura, favorevoli alla democrazia repubblicana; ma la loro voce era debole, e il potere di suggestione dei loro scritti infinitamente inferiore a quello dei grandi creatori di affreschi del tramonto. I sostenitori della repubblica non avevano argomenti persuasivi e il loro orizzonte appariva straordinariamente limitato e privo di futuro. La «cultura di destra» offriva pochi spunti ai sostenitori della repubblica, appariva assai più compatta e coerente nella proposizione dei suoi temi e irriducibile a compromessi con un assetto politico percepito come un prodotto di laboratorio scaturito dalle tardive conseguenze di un pensiero sorto con la Rivoluzione francese. Mancava la fantasia per immaginare che dalla tradizione culturale e letteraria tedesca, dalle profondità della riflessione antirivoluzionaria che aveva animato l’età di Goethe, il romanticismo e il pensiero di Schopenhauer, Wagner e Nietzsche potessero derivare argomenti favorevoli alla repubblica parlamentare e alla democrazia. Thomas Mann aveva considerato le potenzialità di una «politica estetica», descrivendola e analizzandola con straordinario acume e individuando in essa il carattere precipuo del parlamentarismo, come confronto, sempre parziale, fra prospettive politiche egualmente legittime e rappresentabili. Nondimeno le Considerazioni erano state unanimemente riconosciute come un testo di riferimento del nazionalismo conservatore, piene com’erano di critiche alla ragione politica di matrice francese e illuminista, di argomentazioni a sostegno della guerra tedesca sempre giustificata come guerra difensiva, di critiche rivolte ai pacifisti e ai detrattori della politica imperiale. Nessuno quindi, o quasi, avrebbe potuto immaginare che dopo l’assassinio di Walther Rathenau, Thomas Mann si sarebbe apertamente schierato per Weimar e, per primo, avrebbe saputo conferire alla scelta repubblicana il fascino di un’utopia democratica. o di tre anni prima avesse così decisamente e improvvisamente cambiato opinione. Mann aveva sviluppato la sua difesa della repubblica chiamando in causa e accostando un autore di culto del pensiero reazionario tedesco come Novalis, a un poeta democratico americano come Walt Whitman, aveva sovrapposto romanticismo e modernità e aveva scorto il legante originario della democrazia nell’omosessualità delle trincee sfruttando tacitamente i risultati della psicoanalisi. Ogni riga del discorso, coltissimo e sicuramente poco digeribile per il pubblico, sembrava diretta alla contraddizione o, almeno, alla relativizzazione del messaggio politico enunciato nel titolo. L’idea che sottende a tutta la sua argomentazione è che la politica è parte indivisibile della poesia, della cultura e, più precisamente, della poesia e della cultura come espressioni totali della natura umana. Non si dà, secondo Mann, vero ragionamento politico che non consideri se stesso come parte di un discorso universale e cosmopolita nel quale il pensiero del nuovo possa attingere alle più alte espressioni artistiche e intellettuali della storia umana. Thomas Mann sa che il rischio non è l’imbarbarimento dell’uomo, ma la rinuncia entusiastica alla propria identità intellettuale e razionale in favore di un’azione dettata da impulsi ciechi e da istanze utopiche sganciate da qualsiasi rapporto con il passato. Per questa ragione la repubblica appariva dunque degna di essere sostenuta: in quanto conseguenza dell’irrinunciabile identità intellettuale della storia e della tradizione tedesche e del bisogno di un sentimento di unità nutrito dalle recenti esperienze della guerra. A nutrire quel paradosso weimariano che è l’utopia repubblicana di Mann è l’idea che la politica sia uno strumento di crescita individuale e civile e, insieme, il svolse la votazione, il cui esito fu una maggioranza di 512 voti contro 42 a favore della sfiducia a Papen. Fu la più clamorosa sconfitta di un governo in tutta la storia parlamentare della Germania. Göring dichiarò non valido l’ordine di scioglimento firmato da Hindenburg, dato che era stato proposto da un governo già sfiduciato. Tuttavia, dopo lunghe trattative la maggioranza del Reichstag si dichiarò d’accordo con lo scioglimento, aprendo in tal modo la strada a nuove elezioni, da tenersi nel novembre del 1932. Il 12 settembre 1932 si assisté così a una farsa che segnò la fine del parlamentarismo in Germania. La situazione creatasi con la seduta del Reichstag non aveva più nulla a che vedere con lo spirito della Costituzione di Weimar. 24 settembre 1932, Insediamento del primo governo socialdemocratico in Svezia Il 24 settembre 1932 nasce il primo governo guidato dal vincitore delle elezioni politiche, il leader socialdemocratico Per Albin Hansson (1885-1946). In alleanza con i liberali di Felix Hamrin, esso durerà quattro anni e aprirà la grande stagione della socialdemocrazia svedese. Il Partito socialdemocratico svedese aveva vinto le elezioni del 1932, terzo anno di grave crisi economica e sociale in Svezia, come in Usa ed Europa, con un programma che fissava come priorità l’occupazione e lo Stato sociale. La durata e solidità dell’esperimento svedese non soltanto contagiò i vicini norvegese e danese , ma venne rapidamente identificato dai leader della scienza politica internazionale come la «Middle way» tra pianificazione comunista e il modello capitalistico americano. La Svezia fu il laboratorio più avanzato, che anticipa l’Europa del compromesso socialdemocratico del secondo dopoguerra: il primo paese nella costruzione non soltanto di una nuova politica congiunturale anti-crisi, ma di un modello europeo di modernizzazione, che combina in modo originale economia e società, gli imperativi di crescita e competitività con la riforma sociale. Consapevolmente, la Svezia rappresenta sin dal 1932, la punta di diamante del rinnovamento socialdemocratico: un modello che ispirerà le riforme sociali dell’intero continente dopo il 1945. Ernst Wigforss (1881-1977), ministro delle Finanze del governo Hansson dal 1932, nella sua formazione teorica combinava liberalismo con la corrente del marxismo revisionista della Seconda Internazionale incarnata nei decenni precedenti. Egli seppe costituire un solido ponte tra il governo e i giovani economisti innovatori della «Scuola di Stoccolma». Tre furono i pilastri del modello emergente: politica congiunturale attiva, concezione del welfare state, istituzionalizzazione della concertazione sociale. Sulla base della critica del pensiero neoclassico di Wicksell e della sua teoria dell’equilibrio, si era formato questo gruppo di economisti tra cui primeggiava Gunnar Myrdal. Nel 1932, fu incaricato dal governo di Per Hansson di redigere il testo che forniva la motivazione teorica del primo bilancio statale della storia basato sull’idea del deficit spending come necessario vettore di una politica congiunturale e occupazionale attiva in senso anticiclico, mentre, una volta che la congiuntura si fosse ripresa, il bilancio statale poteva e doveva ricostruire l’equilibrio. Myrdal difese la propria originalità come teorico dell’economia rispetto a Keynes: le politiche della domanda devono essere orientate nel senso dell’investimento sociale per equità e giustizia, le sole davvero produttive sul lungo periodo (qualificato welfare state). Infatti, la costruzione e la riforma di un welfare state generoso e sostenuto da imposizione fiscale fortemente progressiva costituiscono l’anima del modello svedese, dagli anni trenta a oggi. Gunnar Myrdal e sua moglie Alva sostenevano energicamente che le politiche di welfare e l’accesso della donna al mercato del lavoro fossero le sole capaci di limitare il declino demografico e i problemi conseguenti a un’immigrazione massiccia. Gli «accordi di Saltjöbaden» del 1938, tra la confederazione sindacale LO e l’organizzazione degli imprenditori, la Saf, segnano il passaggio del sindacato, altamente rappresentativo dei lavoratori dall’azione sociale conflittuale precedente all’azione politica, al condizionamento dell’agenda politica del governo e alla co-gestione responsabile di settori importanti dell’intervento pubblico nel sociale. La pace sociale svedese, la democrazia del consenso sono dunque tutt’altro che un’eredità tradizionale o antropologica, ma una nuova costruzione basata su duri negoziati bilaterali, facilitati dal governo, che non firma gli accordi tra le parti sociali, ma li promuove, anche con la minaccia di intervento legislativo a difesa dei cittadini-consumatori, se i patti a due non dovessero essere raggiunti e rinnovati regolarmente. Questa è l’anima del compromesso socio- economico svedese, della democrazia organizzata e consensuale. Durante i 44 anni di governo, grazie a un significativo learning process, il modello socialdemocratico svedese diventerà sempre più sofisticato e socialmente radicato.Questa strategia sindacale e politica di compensazione ha come obiettivo di limitare le sperequazioni tra settori industriali, e tra pubblico e privato, affinché eventuali cambiamenti di occupazione non penalizzino i lavoratori. Il modello svedese di combinazione di competitività economica e welfare state, definito «Welfare capitalism» o «compromesso socialdemocratico», influenzerà non solo il Labour Party di Clement Attlee e Ernest Bevin, ma anche la Spd e l’intera socialdemocrazia europea per decenni, nonché le tendenze riformiste della sinistra italiana. Il modello svedese aveva prosperato in un contesto in cui gli obiettivi apparentemente contraddittori della liberalizzazione e della costruzione di robusti sistemi di welfare e piena occupazione erano stati compatibili grazie all’iniziativa Usa di costruire le istituzioni multilaterali di Bretton Woods (1944), anche se successivamente venne messo in questione a causa dell’affermazione politica neoconservatrice, guidata da Reagan e Thatcher. La Svezia risponde inizialmente con una radicalizzazione a sinistra verso la democrazia economica, pur se con maggiore attenzione alle politiche dell’offerta: il «Piano Meidner» del 1976 (proposta di costituzione di Fondi collettivi dei salariati, che rafforzino il potere dei lavoratori nelle imprese e nell’economia) viene adattato alle nuove circostanze, risultato possibile grazie alla vittoria di Palme. Il governo Palme inaugura una nuova stagione socialdemocratica, noto anche per l’attivismo pacifista di esso, che combina la riforma del modello interno con l’impegno per lo sviluppo sostenibile. Ma è in questa tempesta che lentamente matura un’alternativa europeista alla precedente strategia riformista nazionale. Oltre al nazionalismo di destra, la nostalgia per l’orgoglioso modello nazionale del Sap trattiene una parte della sinistra dall’adesione all’europeismo. Tra europeismo liberale e nazionalismo di sinistra, i governi e il personale politico svedese impegnato nelle istituzioni comunitarie riescono tuttavia a sviluppare una terza via, un originale apporto svedese alla Ue. La non adesione all’euro segnala tuttavia una difficoltà persistente. La scarsa sensibilità alle grandi poste geopolitiche che fanno dell’euro un progetto politico internazionale, rischia di fare del pacifismo svedese uno strumento inadatto alle sfide mondiali del mondo multipolare del XXI secolo. Tuttavia la Svezia diventa un attivo Stato membro e, oltre ai tratti direttamente proposti, due altre importanti innovazioni sociali della Ue sono indirettamente influenzate dal modello svedese: ● la pratica della concertazione sociale tripartita (tra parti sociali e Commissione): ogni accordo tra le parti sociali vincola la Commissione ad elaborare una proposta di direttiva da avanzare a Parlamento e Consiglio. È una via per la costruzione, nella Ue, di un’unione sociale che bilanci l’unione economica e monetaria. ● La «Strategia di Lisbona» di modernizzazione economico-sociale lanciata dal Consiglio europeo del marzo 2000, segna il punto di massima influenza del modello socio-economico svedese/scandinavo sull’Unione europea. Le dimensioni tecnologica, sociale e ambientale di un grande progetto di modernizzazione sono armonizzate secondo una visione strategica di lungo termine. Se esiste un modello sociale europeo riconosciuto nel mondo, la Svezia è il suo centro ispiratore: un nucleo politico e di pensiero socialdemocratico europeo influenza per decenni la direzione centrale della Ue. 24 marzo 1933, Decreto dei pieni poteri a Hitler Il 23 maggio 1933 venne approvata dal Reichstag della Repubblica tedesca il 23 marzo una legge che conferiva i pieni poteri al governo presieduto dal capo del Partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi Adolf Hitler, che il 30 gennaio dello stesso anno, a 44 anni, aveva assunto la carica di cancelliere, conferitagli dal presidente maresciallo Paul von Hindenburg. Fondato da Hitler nel 1920, la Nsdap era un partito antidemocratico pangermanista, razzista, antisemita, antimarxista. Il partito nazista fu subito affiancato da un apparato paramilitare, costituito dalle squadre d’assalto (SA), cui si aggiunsero nel 1925 le squadre di protezione (SS). Per tutto il decennio dopo la sua costituzione, la Nsdap rimase un partito marginale nell’arena politica della Repubblica tedesca, governata da coalizioni di socialdemocratici, liberali e cattolici. Un tentativo di colpo di Stato, fatto da Hitler il 9 novembre 1923 a Monaco, per impadronirsi del potere e organizzare una marcia su Berlino, fallì miseramente, e provocò la messa fuori legge della Nsdap e la condanna a cinque anni di prigione del suo capo. Scarcerato dopo pochi mesi, Hitler ricostituì il suo partito, che negli anni successivi rafforzò ed estese l’organizzazione paramilitare in Germania. Il trauma del fallito colpo di Stato convinse Hitler ad avvalersi del sistema democratico per giungere al potere. Oratore carismatico, politico astutissimo, sostenuto da un’efficiente organizzazione di mobilitazione, che raccoglieva il suo seguito fra tutti i ceti travolti dalla crisi, e soprattutto i giovani affascinati dall’apparato paramilitare e dagli appelli fanatici del razzismo e dell’antisemitismo, Hitler seppe presentarsi alle masse come il salvatore del popolo tedesco, che avrebbe eliminato i suoi peggiori nemici: il bolscevismo, l’ebraismo, la democrazia. Nominato cancelliiere nel novembre del 1932, con i partiti della destra nazionalista, Hitler formò un governo di coalizione, nel quale i ministri nazionalsocialisti erano soltanto tre, ma nello stesso tempo aveva chiesto e ottenuto dal presidente Hindenburg lo scioglimento del parlamento e nuove elezioni, fissate per il 5 marzo. Con i metodi della democrazia, Hitler iniziò a far saltare i pilastri del governo parlamentare. Il nuovo parlamento si riunì il 23 marzo nel teatro Kroll, adibito a sede temporanea del Reichstag, presidiato dalle SA e dalle SS. La legge sui pieni poteri fu approvata con 441 voti; votarono contro soltanto i 94 socialdemocratici. Il 1° aprile, con il boicottaggio dei negozi ebrei lanciato dal partito nazista, ebbe inizio la persecuzione antisemita, seguita sei giorni dopo dalla legge sulla riforma della burocrazia che licenziava i «non ariani». Il partito socialdemocratico e quello comunista furono sciolti. Migliaia di oppositori politici furono arrestati e chiusi in campo di concentramento, ove molti morirono per le torture. Gli altri partiti e il Centro cattolico si sciolsero. In Russia, dopo il 1918, il partito bolscevico, sotto la guida di Lenin, aveva instaurato la «dittatura del proletariato», iniziando a costruire, con mezzi terroristici, il primo Stato socialista, incitando il proletariato mondiale alla guerra civile contro la borghesia per realizzare una rivoluzione socialista mondiale. Ma i pochi tentativi di seguire l’esempio bolscevico in Europa fallirono dopo pochi mesi. Dal 1921 Lenin stesso rinunciò ad attizzare rivoluzioni comuniste in Europa. Tuttavia, nel corso degli anni venti, la paura del bolscevismo e soprattutto le difficoltà interne, economiche, sociali e politiche, delle nuove democrazie, favorirono la nascita di governi e regimi autoritari nazionalisti, anticomunisti e antiliberali in Ungheria, Italia, Spagna, Grecia, Turchia, Polonia, Jugoslavia. Nel marzo del 1933, mentre il cattolico Hitler sradicava il governo parlamentare in Germania, in Austria il cattolico Engelbert Dollfuss assunse i pieni poteri per instaurare un regime autoritario, affiancato da una sorta di partito unico, il Fronte patriottico, con un’ideologia nazionalista corporativa cattolica. Il partito socialdemocratico fu messo fuori legge, ma Dollfuss osteggiò egualmente i nazionalsocialisti che volevano annettere l’Austria alla Germania. L’anno successivo, il 25 luglio, i nazisti austriaci tentarono un colpo di Stato, che fallì, ma assassinarono Dollfuss. L’indipendenza dell’Austria fu allora garantita dal capo del governo italiano, Benito Mussolini, che ordinò la mobilitazione di quattordici divisioni presso il confine del Brennero, per ammonire minacciosamente il cancelliere tedesco a non tentare l’annessione dell’Austria. Mussolini era divenuto capo del governo italiano alla fine del 1922, come duce del partito nazionale fascista, un partito armato che professava un’ideologia nazionalista antidemocratica, antiliberale, antimarxista, e pretendeva di essere l’unico interprete della nazione, e di conseguenza trattava ogni avversario del fascismo come un nemico della nazione, contro il quale ogni violenza era lecita. Per giungere al potere, il partito fascista iniziò il 28 ottobre 1922 un’insurrezione minacciando di marciare sulla capitale, e in tal modo costrinse il re Vittorio Emanuele III a nominare presidente del Consiglio Mussolini, che a 39 anni era il più giovane presidente del Consiglio nella storia dello Stato italiano. Il nuovo governo, formato da una coalizione di fascisti, liberali, nazionalisti, popolari e democratici, ottenne la fiducia del parlamento. Tali novità indussero alcuni esponenti antifascisti a coniare, all’inizio del 1923, una parola nuova, «totalitario», per definire il sistema di dominio politico imposto da un partito armato, che si attribuiva il monopolio del potere e considerava tutti i partiti avversari nemici da abbattere. Infatti, nonostante la fiducia del parlamento e la conquista di una maggioranza assoluta alla Camera con le elezioni del 1924, la violenza fascista contro socialisti, comunisti, popolari, repubblicani, liberali proseguì fino all’uccisione del deputato socialista Giacomo Matteotti il 10 giugno 1924. Nei due anni successivi una nuova ondata di violenze accompagnò l’attuazione di una «rivoluzione legale», che concentrò il potere esecutivo nelle mani di Mussolini. Tutti i partiti antifascisti furono sciolti, sindacati e associazioni poste sotto l’egida del partito fascista, che dal novembre 1926 divenne il partito unico di un nuovo regime Sorse così un nuovo regime a partito unico con una complessa rete di organizzazioni che irreggimentavano la popolazione di ogni età, e con un nuovo stile politico, esibito in divise, riti, simboli e miti, che identificavano il fascismo con la nazione, e la nazione con il duce, esaltato come una figura sovrumana. Tutto ciò suscitò molti imitatori in Europa e nel resto del mondo, che nel fascismo videro un’alternativa al comunismo e alla democrazia liberale. In quasi tutti i paesi europei si formarono movimenti organizzati come milizie, che adottarono la violenza squadrista, lo stile fascista e un’ideologia basata sulla concezione mistica della nazione come entità sacralizzata, sull’anticomunismo, l’antiliberalismo, il disprezzo per la democrazia parlamentare e sul culto del capo. Di fronte alla sfida del fascismo, la democrazia sembrava destinata a soccombere come un regime invecchiato e logoro. Tuttavia, le democrazie nei paesi dell’Europa settentrionale e occidentale non furono travolte dai movimenti fascisti. Il duce mantenne ostentatamente le distanze da Hitler anche dopo la sua ascesa al potere nel gennaio del 1933, soprattutto allarmato dalle mire hitleriane sull’Austria. Fu l’aggressione italiana all’Etiopia e la comune partecipazione alla guerra civile spagnola nel 1936 a favorire l’avvicinamento fra i due regimi. Il 24 ottobre Germania e Italia firmarono un accordo che prevedeva la collaborazione fra i due governi su varie questioni, come l’indipendenza dell’Austria, la lotta contro il bolscevismo, il sostegno al generale Franco. L’anno successivo il governo italiano aderì al Patto Anticomintern stipulato il 25 novembre 1936 fra Germania e Giappone, che si impegnavano alla più stretta collaborazione per contrastare l’attività dell’Internazionale comunista. Infine, dopo l’adozione in Italia, alla fine del 1938, di una legislazione razzista e antisemita, che accorciava le distanze ideologiche fra i due regimi, il 22 maggio 1939 il ministro degli Esteri italiano Galeazzo Ciano e il ministro degli Esteri tedesco Joachim von Ribbentrop firmarono a Berlino un patto di amicizia e di alleanza fra l’Italia e la Germania. Con i due aggettivi, affiancati al nome dei due paesi, si intendeva precisare che si trattava non solo dell’alleanza fra due Stati, bensì di un «patto d’acciaio» fra due regimi totalitari. I due regimi proclamavano di voler marciare fino in fondo per difendere e rigenerare la civiltà europea, con una forte dose di totalitarismo razzista e antisemita, e per costruire, con la guerra, una Nuova Europa, un Nuovo Ordine, una Nuova Civiltà. In fondo alla marcia dei due regimi, ci furono le carneficine immani di una nuova guerra mondiale, il genocidio degli ebrei, lo sterminio di altre popolazioni considerate di razza inferiore, la distruzione totale dell’Europa. 7 marzo 1936, Rimilitarizzazione della Renania Alla luce degli orrori della seconda guerra mondiale, e del pericolo che essa si potesse concludere con l’instaurazione di un’Europa nazista, può apparire che la rimilitarizzazione della Renania, sia stata una grande opportunità per sventare quella catastrofe attraverso un’immediata reazione militare, soprattutto da parte della Francia. È molto probabile che la superiorità di uomini e mezzi che i paesi democratici avrebbero potuto mettere in campo allora avrebbe portato alla sconfitta della Germania e alla caduta della sua nefasta dittatura. Occorre piuttosto valutare tutte le ragioni che impedirono alle potenze democratiche di cogliere l’occasione più favorevole per attuare una politica di assoluta fermezza nei confronti della Germania nazista, anche attraverso l’uso della forza. Se si ripercorrono le tappe che precedettero e poi scandirono i progressivi cedimenti all’aggressività hitleriana da parte di Gran Bretagna e Francia, si vedrà che il fatto di essere appunto due potenze, nazionaliste e imperialiste, ma al tempo stesso democratiche costituì la premessa dello sprofondamento dell’intero continente nell’abisso della guerra e degli anni bui della dominazione nazista. È noto quanto punitive furono le condizioni imposte alla Germania dal Trattato di Versailles, e tra queste in particolare quella delle sanzioni economiche, che prevedevano onerosi risarcimenti a scadenze prestabilite. Per diversi anni la condotta della Francia fu in proposito inflessibile e raggiunse il suo culmine nel 1923, quando per alcuni mesi la Ruhr fu occupata da truppe prevalentemente francesi per costringere ai pagamenti il governo tedesco, benché esso fosse alle prese con una crisi economico-finanziaria segnata da un’iperinflazione. funzione vedranno l’inasprirsi della repressione nei confronti di molti dirigenti comunisti ritenuti «inaffidabili» e la messa in difficoltà, soprattutto in Francia, dei militanti comunisti spiazzati dal voltafaccia nei confronti del nemico nazista. Alla base di questi comportamenti ondeggianti vi è la ricerca di una stabilità interna e di un rafforzamento del proprio potere cui Stalin sembra subordinare ogni altra indicazione. Il timore di un nemico interno accelera e radicalizza l’individuazione dei «nemici del popolo» che aveva costituito un elemento di continuità, concretizzata però in modi diversi e contraddittori nella politica sovietica degli anni venti e trenta. 1° settembre 1939, Invasione nazista della Polonia La seconda guerra mondiale cominciò in Europa con una spudorata menzogna: la dichiarazione di Hitler alla radio con cui annunciava che «si rispondeva al fuoco» di un presunto attacco sferrato da militari polacchi. Hitler sapeva che gran parte della popolazione tedesca non era entusiasta all’idea di una guerra e speravano di non dover fronteggiare un conflitto di vaste dimensioni, già evitato in precedenza con l’Anschluss e l’occupazione dei Sudeti . Non fu così, la Polonia oppose resistenza e le potenze occidentali, Francia e Gran Bretagna, rispettarono il patto di alleanza, imponendo a Hitler di ritirare la Wehrmacht entro il 3 settembre. Quando Hitler non reagì, le due nazioni dichiararono lo stato di guerra con la Germania. Quella che definiamo come seconda guerra mondiale, che si configurò come una serie di guerre in Europa, in Nord Africa, nell’Atlantico, in Asia orientale e nel Pacifico, dall’altra parte del globo era già cominciata nel 1937, con l’attacco giapponese alla Cina. A un primo sguardo, quelle che Hitler aveva rivolto alla Polonia e che il governo polacco aveva respinto erano richieste politiche circoscritte: riguardavano infatti l’annessione al territorio tedesco della libera città di Danzica, che si trovava sotto l’amministrazione della Società delle nazioni, e un collegamento extraterritoriale ferroviario e stradale verso la Prussia orientale. Hitler aveva volutamente limitato le proprie richieste; da un lato per poter accusare la Polonia di corresponsabilità nello scoppio del conflitto una volta che queste fossero state respinte, dall’altro per smorzare la volontà degli alleati di correre in aiuto della Polonia. I polacchi non intendevano subire lo stesso destino vissuto dalla Cecoslovacchia l’anno precedente, e dunque, essi opposero una decisa resistenza. La Polonia aveva però valutato male le proprie probabilità di successo, sia dal punto di vista politico che militare, e per tale ragione pagò un prezzo terribile. I polacchi avevano calcolato che Francia e Gran Bretagna avrebbero adempiuto al loro patto di alleanza aprendo un’offensiva lungo la frontiera occidentale tedesca, ma così non fu. I polacchi non potevano immaginare che la Germania nazista e l’Unione Sovietica avrebbero stretto un patto di non aggressione tra le cui clausole segrete figurava un accordo sulla quarta spartizione della Polonia. Infine, la Polonia aveva decisamente sopravvalutato le proprie capacità militari. Nel calendario politico europeo il 1° settembre segna l’inizio della seconda guerra mondiale, ma anche l’inizio di un nuovo sviluppo della strategia hitleriana. Fin da subito l’ordine fissato dai Trattati di pace di Parigi si era poggiato su basi molto fragili. Nelle regioni dell’Europa centro- e sud-orientale e in Asia Minore, infatti, all’indomani del crollo dei grandi imperi multinazionali e multiconfessionali che avevano regnato fino al 1917-18, il diritto all'autodeterminazione dei popoli proclamato dal presidente Usa Woodrow Wilson si era potuto attuare solo fino a un certo punto. D’altro canto, la stabilizzazione dell’ordine postbellico sancito con i Trattati di Versailles, di Saint-Germain e del Trianon non poteva contare sull’appoggio di nazioni quali la Germania, l’Unione Sovietica e l’Italia, che anzi molto presto cominciarono a riflettere sulla possibilità di una loro revisione. A ciò si aggiunse il fatto che la cintura di Stati creata a Parigi era tutt’altro che solida e stabile, in quanto all’interno dello spazio geopolitico da essi occupato venivano avanzate richieste territoriali del tutto differenti, e molte tra le neonate nazioni esigevano di inglobare anche quelle minoranze nazionali rimaste fuori dai loro nuovi confini politici. Perciò nel corso degli anni venti scoppiarono conflitti armati tra Polonia e Unione Sovietica e tra Ungheria e Romania, nonché una guerra tra Grecia e Turchia che terminò con un’immane deportazione forzata di intere popolazioni, ovvero in quella che oggi chiamiamo pulizia etnica. È anche grazie a questi precedenti che la politica di revisione territoriale avviata da Hitler con l’Anschluss dell’Austria al Reich tedesco nel marzo del 1938 poté essere portata avanti con relativa facilità e senza che le venissero opposte particolari resistenze. Per le élites politiche e militari tedesche degli anni trenta l’esperienza della prima guerra mondiale rappresentò la traccia da cui partire per pianificare la revisione dei Trattati di Parigi, includere nella propria riflessione strategica anche la possibilità del conflitto armato quale strumento per imporre la propria volontà politica. Tre furono le «lezioni» fondamentali della prima guerra mondiale, le quali poi avrebbero avuto un’importanza decisiva anche nella prima fase della seconda: ● evitare una guerra su due fronti ● evitare l’isolamento economico della Germania ● sviluppare al massimo e in fretta le capacità militari allo scopo di evitare che il conflitto armato si trasformasse in una guerra di logoramento Già prima dell’inizio della prima guerra mondiale la più grossa sfida politica per la Germania era stata il profilarsi di un’alleanza franco-russa, la quale nel caso di una guerra europea avrebbe costretto il Reich tedesco ad affrontare una guerra su due fronti, uno occidentale e uno orientale. Bismarck aveva sempre tenuto presente tale pericolo e aveva cercato di contrastarlo stringendo legami con la Russia. I suoi successori alla carica di cancelliere imperiale, tuttavia, non avevano rinnovato il trattato. La strategia hitleriana mirava a evitare il ripetersi di tale situazione, e il patto di non aggressione siglato con Stalin alla fine dell’agosto 1939 rappresentò il passaggio più importante di questo nuovo impianto strategico. Esso consentì la conquista e la spartizione della Polonia e in seguito l’avvio della campagna contro Francia e Inghilterra senza minacce alle spalle. Ma tutto cambiò nel luglio 1944 con lo sbarco alleato in Normandia. Da quel momento in poi per la Germania la guerra fu persa definitivamente. Il secondo grande problema tedesco riguardava l’approvvigionamento di materie prime per l’industria e di generi alimentari per la popolazione. Il blocco marittimo da parte britannica delle linee di collegamento atlantiche era stato un fattore determinante della sconfitta tedesca. Per scongiurare questo scenario i piani bellici di Hitler prevedevano l’occupazione della Norvegia, da dove avere un accesso incondizionato all’Atlantico settentrionale che sarebbe stato a sua volta supportato dall’occupazione dei porti atlantici francesi. Ma sarebbero stati soprattutto il controllo sull’Europa centro- e sud-orientale e un’offensiva tesa a impossessarsi delle riserve petrolifere del Mar Caspio a provvedere alla costituzione di quel vasto spazio egemonico tedesco con cui la Grande Germania avrebbe potuto affermarsi definitivamente quale potenza mondiale. I tedeschi avevano tratto dalle vicende belliche una lezione di tipo militare, ed erano impegnati nel tentativo di compensare quei deficit emersi più volte nel corso della prima guerra mondiale: non poter sfruttare il vantaggio ottenuto con lo sfondamento di un fronte per penetrare più in profondità in territorio nemico, poiché occorrevano corpi motorizzati e corazzati. Crearono così i primi carri armati ,impiegati per la prima volta durante la «campagna di Polonia» del settembre 1939. Tramite lo sforzo congiunto di carri armati e bombardieri fu possibile elaborare la «guerra lampo» applicata per la prima volta nell’attacco alla Polonia .La situazione mutò soltanto in Russia, quando la guerra non riuscì ad essere conclusa mediante una serie di battaglie decisive e si trasformò in una guerra di logoramento. Nella guerra contro Gran Bretagna, Urss e soprattutto contro gli Usa Hitler fallì per questo motivo. Anche la sottovalutazione della capacità di resistenza dell’Unione Sovietica fu una conseguenza delle esperienze vissute durante la prima guerra mondiale: si partì dunque dal presupposto che in ragione delle «epurazioni» staliniste all’interno del corpo ufficiali dell’Armata rossa tutto ciò si sarebbe verificato di nuovo, trascurando però che in quel 1917 erano state due rivoluzioni, quella di febbraio e quella di ottobre, a fiaccare il morale dell’esercito dello zar, cosa che non accadde all’interno dell’impero di Stalin. 1° agosto 1944, Insurrezione di Varsavia Sullo svolgersi della Resistenza, nelle sue diverse forme, influiscono in profondità le differenti fasi della guerra. Ben prima della Resistenza armata si diffondono ovunque forme di Resistenza civile. ● Nella Praga occupata le hanno precedute le mobilitazioni del 28 ottobre 1939 e dei giorni successivi, sino alla feroce stretta repressiva del 17 novembre ● In Norvegia le associazioni sportive non aderiscono alle organizzazioni filonaziste obbligatorie e gli insegnanti disertano il nuovo sindacato ● In Olanda i medici rifiutano di seguire i dettami del nazismo ● Nasce lo «Stato clandestino polacco», che ridà vita anche all’insegnamento scolastico, proibito dall’occupante e decisivo nel preservare l’identità nazionale. Iniziano presto anche scioperi e manifestazioni in cui le rivendicazioni materiali si intrecciano a proteste più generali (dal Belgio alla Francia, dai Paesi Bassi alla Grecia e sino all’Italia). La dimensione globale del conflitto è dunque centrale ma lo sono anche le grandi differenze che lo attraversano. In primo luogo le differenze dell’occupazione nazista, pur segnata ovunque dal saccheggio massiccio delle risorse e degli uomini e da una ferocia di cui sono diventate simbolo le stragi di Marzabotto in Italia o di Oradour-sur-Glane in Francia. Ma l’occupazione nazista dell’Europa occidentale non è neppure comparabile alla «germanizzazione» – cioè alla deportazione e allo sterminio delle popolazioni slave – perseguita ad oriente. Un profondissimo solco fra Europa occidentale e orientale è scavato inoltre dalla diversa natura e dal diverso agire degli Alleati. Indubbiamente gli angloamericani tendono a contenere l’espansione comunista, e l’iniziativa inglese favorisce con più decisione le forze conservatrici e monarchiche, ma nella loro area di influenza però la Liberazione coincide largamente con processi di ricostituzione o di rifondazione della democrazia, e la cultura dell’antifascismo diventa portatrice di valori irrinunciabili. Tutt’al contrario, nell’area di influenza sovietica la liberazione sarà seguita da una nuova «occupazione», con la progressiva imposizione di regimi dittatoriali. E già nel 1944 l’insurrezione di Varsavia – repressa dai nazisti in un bagno di sangue mentre le truppe sovietiche assistono passivamente sull’altra sponda della Vistola – «rivela alcune verità fondamentali della Seconda guerra mondiale». Una Varsavia che un anno prima aveva già conosciuto la rivolta senza speranza del ghetto, e una Polonia cui le fosse di Katyn «rivelano» non solo uno spaventoso eccidio ma anche la menzogna come sistema di dominio dell’Urss, che per decenni lo attribuisce ai nazisti. Molte altre differenze si innestano poi in questo scenario: in primo luogo la diversità dell’opposizione al nazismo e al fascismo nei paesi che li hanno generati rispetto a quelli invasi. È possibile poi cogliere un'ulteriore differenza fra l’area nord-occidentale, segnata da democrazie stabili, e un’«area dell’inquietudine» che dalla Francia e dall’Italia si estende con intensità crescente a Jugoslavia e Grecia. In Norvegia, in Belgio, in Olanda, in Danimarca sembra esservi una resistenza volta a restaurare le istituzioni e i valori della democrazia travolti dall’occupazione nazista. Per differenti ragioni il ritorno puro e semplice all’anteguerra non è possibile né in Francia né in Italia, e lo è ancor meno in Jugoslavia e in Grecia, ove il mancato radicamento delle democrazie parlamentari alimenta ipotesi di rifondazione radicale. In entrambi i paesi inoltre la componente comunista ha una visione del «Fronte nazionale antifascista» che prevede il progressivo e talora brutale ridimensionamento delle altre componenti, sino alla loro tendenziale soppressione dopo la liberazione. In Francia e in Italia invece la politica comunista dell’«unità antifascista» non è lo strumento per imporre la propria supremazia ma l’asse di fondo per la costruzione o ricostruzione della democrazia parlamentare. Influisce anche qui l’andamento generale del conflitto: in Francia meno radicalmente che in Italia ma comunque in modo decisivo. 27 gennaio 1945, La liberazione del campo di Auschwitz All’inizio del terzo millennio, l’Europa unita avrebbe istituito la Giornata della Memoria perché tutti ricordassero i disastri del nazionalismo, dell’antisemitismo e della Shoah. Una giornata fissata per il 27 gennaio, in ricordo di quel 27 gennaio 1945 in cui le truppe dell’Armata rossa entravano nel campo di Auschwitz e lo liberavano. Di quella giornata abbiamo molte memorie. La guerra non era ancora finita, ma le truppe sovietiche avanzavano da est. Gli altri campi di sterminio, tutti situati in territorio polacco, Bełżec, Sobibór, Chełmno, Treblinka, erano già stati smantellati, la loro attività si era fermata già precedentemente, fra l’estate e l’autunno del 1943, anche in seguito alle rivolte dei prigionieri. Dopo quella data era rimasto solo Birkenau a far funzionare le camere a gas e i forni crematori. E là, fra la primavera e l’estate del 1944, erano arrivate le ultime comunità destinate allo sterminio: gli ebrei del Sud della Grecia e poi quelli ungheresi. I trasporti furono fermati da Himmler nell’ottobre 1944 e subito dopo fu impartito l’ordine di smantellare le camere a gas a Birkenau. Tra il dicembre e la prima metà di gennaio, quasi tutti i prigionieri del campo furono evacuati. Il campo di Auschwitz era una immensa città concentrazionaria dove secondo le stime trovarono la morte oltre un milione di ebrei, la stragrande maggioranza dei deportati. Quando i sovietici vi arrivarono, nel campo i deportati erano rimasti in pochi, circa sette-ottomila. Si poneva fine quel giorno, con la liberazione da parte dell’Armata rossa, allo sterminio nazista nel campo di Auschwitz. Ma mentre il campo veniva liberato, la guerra continuava in Europa e con essa continuava lo sterminio degli ebrei, quasi i nazisti volessero ucciderne il maggior numero possibile prima di essere sconfitti. Il 27 gennaio ricorda ogni anno quegli eventi. Oggi Auschwitz rappresenta il simbolo stesso della Shoah, la metafora del male. Un processo iniziato con grandi lentezze e divenuto un pilastro della memoria storica del Novecento solo dopo l’inizio degli anni ottanta. Alcuni testi ne scandiscono il percorso ma anche i monumenti hanno la loro parte nella costruzione memoriale e sono rivelatori delle difficoltà e dei conflitti di questa memoria. Mentre il processo memoriale si sviluppava,l’antisemitismo sopravviveva nel continente, per lo più affidato all’estrema destra neonazista e ai gruppi cattolici più tradizionalisti. In tutti gli anni cinquanta, l’antisemitismo appare davvero come un fenomeno marginale, e solo all’inizio degli anni settanta, dopo la guerra dei Sei giorni, l’antisionismo inizierà a modificare il quadro, inserendovi le tematiche del conflitto israelo-palestinese e identificando nel sionismo una forma di colonialismo. Il periodo compreso tra il 1970 e il 1990 è cruciale per la costruzione della memoria. Cresce la memorialistica, si estende e diffonde ovunque la testimonianza dei sopravvissuti, portata per la prima volta sotto i riflettori della storia con il processo Eichmann, nel 1961. crea film e documentari fondamentali. Nasce e si afferma, tranne che nell’area anglofona, la denominazione stessa di Shoah, strettamente legata al discorso sull’unicità dello sterminio degli ebrei. Cresce anche l’antisemitismo, che trova in questo momento la sua maggiore espressione nel negazionismo, già emerso nell’immediato dopoguerra ma ora in forte ripresa ovunque in Europa. Si attenua invece, fino a sopravvivere solo in frange lontane dalla Chiesa, l’antisemitismo cattolico, sull’onda della riflessione postconciliare. Ma il punto di vera svolta nell’elaborazione della memoria della Shoah si realizza soltanto con il 1989 e la caduta del comunismo. Fu allora, con la fine della divisione dell’Europa in blocchi, infatti, che si pose il problema non soltanto della riunificazione entro i confini dell’Unione europea dell’Europa dell’Est e di quella dell’Ovest, ma anche della costruzione di una memoria comune, di un’etica condivisa dalle due Europe. I valori che l’Europa unita affermava come suoi si presentavano in diretto conflitto con quelli della guerra di Hitler, diametralmente opposti alle ideologie che avevano portato allo sterminio degli ebrei d’Europa, al razzismo, all’antisemitismo. L’istituzione della Giornata della Memoria, a ricordare la liberazione del campo simbolo della Shoah, riaffermava con forza questa prospettiva. La memoria del terribile secolo dei genocidi, con dominante e centrale la Shoah, divenne la memoria comune della nuova Europa e ne espresse i valori. Dopo Maastricht, infatti, l’Unione europea si impegnò a fondo sulle politiche della memoria. La memoria della Shoah diventava così una religione civile atta ad esprimere i valori fondamentali dell’Europa: democrazia, pace e difesa dei diritti umani. Il 27 gennaio è divenuta pertanto, nel 2006, Giornata europea della Memoria. Questa decisione dell’Europa era stata preceduta da numerosi Stati europei, prima fra gli altri l’Italia nel 2000, e dalla decisione nel 2005 dell’Assemblea generale dell’Onu di designare il 27 gennaio come Giornata internazionale di commemorazione in memoria delle vittime dell’Olocausto. La sua memoria doveva guardare al futuro, non soltanto al passato. Se lo sterminio degli ebrei restava centrale, il rifiuto che esso si ripetesse diveniva rifiuto di tutti i genocidi, il rigetto dell’antisemitismo comportava quello del razzismo e della xenofobia, il superamento delle frontiere implicava il rifiuto di ogni nazionalismo.