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Riassunto Cardini Montesano. , Sintesi del corso di Storia Medievale

Riassunto completo e molto dettagliato del libro Cardini Montesano per svolgere esame di storia medievale. si può sostituire tranquillamente al manuale.

Tipologia: Sintesi del corso

2023/2024

Caricato il 07/05/2024

Gastani-Frinzi
Gastani-Frinzi 🇮🇹

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Scarica Riassunto Cardini Montesano. e più Sintesi del corso in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! STORIA MEDIEVALE CARDINI MONTESANO STORIA MEDIEVALE Introduzione Spesso si usa il termine medioevo in senso negativo, con un’accezione polemica. Però, nel corso della storia è capitato di frequente di assistere a frequenti rivalutazioni del Medioevo, ad esempio, come l’età delle cattedrali, della fede religiosa, dei sentimenti e dell’amore, della libertà della fantasia, dell’eroismo cavalleresco e di figure come Giotto o Dante Alighieri. Ci si chiede però perché la polemica riguardante il medioevo sia più forte rispetto agli altri periodi storici. Per capirlo bisogna precisare che:  La categoria ‘Medioevo’ appartiene solo alla storia dell’Occidente euro-mediterraneo e solo in senso metaforico la si può adattare ad altri contesti geostorici;  L’età medievale non corrisponde a un dato storicamente obiettivo ma a una serie di scelte culturali, quindi varia a seconda dell’approccio ideologico e storiografico di chi la studia  Non esiste possibilità di trattare tutto il periodo medievale nello stesso modo dal momento che è un periodo di lunga durata, in cui istituzioni, strutture, condizioni di vita, ecc. sono mutati profondamente in tutta Europa. Quindi è molto difficile parlare di qualcosa e dargli l’accezione ‘medievale’, anche perché si rischia di cadere nella generalizzazione. Il termine Medioevo significa età di mezzo, questo perché esso funge da ponte tra l’antichità greco-romana da una parte, il Rinascimento e l’età moderna dall’altra. Questo però riguarda solo l’occidente perché la frattura con l’antichità è stata avvertita solo in quella parte dell’impero che, dopo la scissione voluta dall’imperatore Teodosio nel IV secolo, prese il nome di pars Occidentis. La stessa frattura non è, invece, avvenuta nella pars Orientis. L’impero bizantino nato dalla pars Orientis rappresenta una perfetta continuità con il mondo <<antico>>. Quando, nel Quattro-Cinquecento, la cultura greco-rmana <<rinacque>> in Europa (Rinascimento) lo stesso non avvenne in Oriente perché lì non si erano avvertite <<rotture>> fra una civiltà e l’altra. Considerare il medioevo una fase di transizione significa, implicitamente, non considerarlo una civiltà ma un periodo di decadenza e di barbarie tra una civiltà e un’altra: questa definizione nasconde un giudizio di merito ampiamente negativo. Così considerata, questa sarebbe stata l’età della superstizione, dominata dall’egemonia della Chiesa, dalla prepotenza della nobiltà guerriera di origine barbarica e dall’ignoranza della plebe. In particolare, questa è l’immagine che ne ebbe l’Illuminismo, immagine completamente opposta a quella romantica. SOTTOPERIODIZZAZIONE DEL MEDIOEVO:  Alto (secoli V-X) e Basso (secoli XI-XV) Medioevo (periodizzazione che noi abbiamo ereditato)  Alto (secoli V-IX), Medio o Pieno (secoli X-XIII) e Tardo (secoli XIV-XV) Medioevo (periodizzazione propria soprattutto dell’area germanica). Anche queste sono ormai sentite come insufficienti, mentre si delineano nuove proposte. Ad esempio, il medioevo si fa tradizionalmente finire con il chiudersi del secolo XV, quando Cristoforo Colombo scopri un nuovo mondo oltre l'Atlantico con ciò distruggendo le certezze d'una millenaria cosmografia; ma, più di recente, si è proposto come termine di esso la meta del XIV, quando la situazione demografica e sociale d’Europa muta profondamente, mentre altri hanno ritenuto di poter far continuare il medioevo sino alla fine dell'età preindustriale, cioè grossomodo fino al chiudersi del XVIII secolo. È la tesi del << lungo medioevo>>, che ha attratto molti studiosi, specie provenienti dalla cosiddetta scuola francese della <<Nouvelle Histoire>>. Si tratta evidentemente di di proposte convenzionali che mutuano a seconda della diversa prospettiva della quale si considera il medioevo, per questo vanno ritenute tutte valide. Secondo la tradizione manualistica, il discorso sul medioevo prende avvio dalla ‘’decadenza’’ dell’Impero romano. Se è vero, però, che a Occidente l’impero vide una destrutturazione demografica, istituzionale e sociale con un conseguente spostamento del suo centro a Oriente, sulle rive del Bosforo, è vero anche che esso sopravvisse per un millennio dopo questa crisi come impero romano d’Oriente (fino al 1453). La decadenza dell’impero romano, quindi, fu irreversibile solo a Occidente. Per quanto riguarda, invece, l’inizio del Medioevo, essa si fa risalire al V secolo sulla base di dati istituzionali che riportano un destrutturarsi istituzionale della parte occidentale dell’impero e la conseguente costituzione di una serie di piccole monarchie in mano a sovrani barbari. Ma, il medioevo, potrebbe considerarsi avviato già alla fine del III secolo in quanto la fine delle istituzioni centrali di governo della pars occidentis era stata già prevista se non preparata dalla divisione dell’impero promossa prima da Diocleziano e poi da Teodosio. Inoltre, e stato notato che la caduta dell'impero d'occidente non muto granché le strutture profonde del mondo antico e poco incise sulle stesse istituzioni periferiche municipalistiche, Le quali sopravvissero più o meno a lungo e in molti casi, più che scomparire, andarono facendosi gradualmente meno visibili, ma si modificarono e restarono in qualche modo in vita fino a risorgere fra IX e X secolo. In realtà, si può dire che quella del 476 In Occidente sia stata, come l'ha definita un grande storico dell'antichità, Arnaldo momigliano, << una caduta senza rumore>>. Parte prima: Dall’antichità al medioevo Capitolo 1: il Tardoantico: continuità o rottura 1 La decadenza dell’impero romano Perché scompare la Pars Occidentis dell’impero romano? Gli storici hanno costantemente discusso sulla scomparsa della Pars Occidentis dell’impero romano, cercando una causa unica o la causa principale della decadenza. Ad oggi si ritiene che tutto fu causato da numerosi agenti, nessuno dei quali volontariamente impegnato in un’azione di smantellamento. I popoli del nord e dell'est che si insediarono nei territori dell'impero erano attratti dalle sue ricchezze e dalla sua gloria, avevano rapporti spesso di antica data con Roma e la loro prima intenzione era entrare a far parte di quel sistema per trarne gli stessi vantaggi dei quali i cittadini dell'impero godevano; gli arabi della prima espansione, tra VII e VII secolo, provenivano da una cultura commerciale che facilmente si sarebbe integrata nella rete di scambio dell’impero. Il problema risiedeva nella struttura economica dell’impero che non era flessibile. Come suggerisce Wickham, Roma era un ‘’gigante centralizzato’’, il cui funzionamento era basato sulla capacità di prelevare tasse (spesso sotto forma di derrate alimentari) per ridistribuirle in ogni angolo dell’impero. Inoltre l’assenza di barriere per la circolazione delle merci era garantita dall’unità del territorio: una volta che tale unità si ruppe, anche se le componenti che presero il posto del potere centrale avrebbero voluto ereditarne il sistema economico, questo passaggio si rivelò impossibile. Insomma, se fattori esterni possono aver contato, è in primo luogo l’organizzazione interna dell’impero a esser chiamata in causa. che portò a questo (quindi la ridefinizione amministrativa e territoriale e lo spostamento ad Oriente) venne determinata da due fatti: 1) Le terre orientali erano ben più ricche e progredite rispetto quelle occidentali 2) Ma erano anche le più predisposte agli attacchi dei barbari della Persia e delle popolazioni del nord- est Così l’autorità centrale preferiva essere vicina a questi territori per sorvegliarli. Roma non era solo la capitale morale e storica nella misura in cui restava la <<città sacra>> dell’impero, ma era anche un grosso problema: era una città enorme ove abitavano cittadini sediziosi e privi di mezzi di sostentamento che si attendeva dalla corte imperiale e dalle varie famiglie dell’aristocrazia senatoria continue elargizioni di grano e altri beni, nonché l’organizzazione di feste (il calendario prevedeva quasi 200 giorni festivi l’anno). La plebe della capitale si trovava così in una strana situazione di privilegio che costava tantissimo alle casse statali ma che gli imperatori paradossalmente non potevano non confermare in quanto prigionieri di questa folla romana. Anche per questo a partire dalla metà del III secolo gli imperatori avevano preferito spostarsi verso altre capitali amministrative più vicine ai confini. Alla fine del IV secolo le ragioni che avevano indotto Diocleziano a concepire il sistema tetrarchico e la relativa riforma amministrativo-territoriale si reimpose di nuovo. Dopo Diocleziano, fu Teodosio (un energico capo militare originario della penisola iberica) ad affrontare la situazione: con lui, salvo un’illusoria riunificazione avvenuta tra 476 e 568, la divisione dell’impero in una pars occidentis e in una pars orientis divenne definitiva; anche se l’Augusto della prima non rinunziò mai formalmente alla sovranità su tutto l’impero. 5 La diffusione e il primo radicamento del cristianesimo La diffusione del cristianesimo comportò un enorme cambiamento. Si affermò nel I secolo suscitando consensi da tutte le classi sociali. La nuova fede giunse a Roma mimetizzandosi con le altre religioni orientali: in principio si diffuse nelle città portuali per poi raggiungere quelle dell'entroterra sfruttando le principali vie di comunicazione, grazie anche al benessere e alla pace che regnavano nell’impero. Nei primi decenni dalla morte di Cristo i suoi fedeli che lo riconoscevano come il messia ebreo appartenevano a tale popolo, nella quale si sviluppò una cultura chiamata proprio giudeocristianesimo. La tradizione attribuisce a Paolo di Tarso (anni 70 del primo secolo) la tesi secondo cui la nuova fede non riguardasse solo il popolo eletto ma tutte le gentes, quindi tutti i popoli della terra. All’inizio il cristianesimo venne ritenuto una setta ebraica e confuso con altri culti provenienti dall’Oriente. Presto cominciarono però a mostrarsi i primi segni di insofferenza nei confronti della nuova religione. Nel 49 l’imperatore Claudio decise l’espulsione degli ebrei da Roma in relazione alla diffusione del cristianesimo. La morale cristiana era inaccettabile per i servi dello Stato e la distinzione che i cristiani facevano tra i poteri in cielo e quelli in terra, il quale li portava a rifiutare il culto dell’imperatore, era per loro sinonimo di tradimento. Ciononostante, a partire dal II secolo il cristianesimo cominciò a diffondersi maggiormente e ciò non passò inosservato agli occhi delle autorità. Il problema dell’atteggiamento da tenere nei confronti dei cristiani si era già presentato nelle regioni orientali. Portiamo in esempio una lettera di Plinio il Giovane, che nel 112 chiedeva all’imperatore Traiano quali atteggiamenti adottare nei confronti dei fedeli che si rifiutavano di partecipare all’adoratio dell’imperatore. Egli suggeriva di non attuare operazioni di persecuzione nei confronti di tutti i fedeli ma soltanto dei singoli che lo meritassero. Alla fine del II secolo l’atteggiamento preponderante era quello di tolleranza nei confronti dei convertiti, fino al momento in cui il malcontento generale non crebbe a causa del proselitismo dei cristiani. A quel punto, nel 250, si scatenò una persecuzione anticristiana ordinata dall’imperatore Decio. Nel 260, per volontà dell'imperatore Gallieno cessarono le persecuzioni e si ebbe un 40ennio di pace, tanto che il cristianesimo riuscì a insinuarsi anche tra i ceti più alti e soprattutto nell’esercito, sollevando tra i soldati diversi conflitti di coscienza. 6 Da Diocleziano a Costantino Durante l’impero di Diocleziano l’equilibrio instaurato da Gallieno venne interrotto. Gli acta martyrum (le fonti che narrano le vicende dei martiri dal 65 d.C. fino all’epoca di Diocleziano e del suo collega Galerio) ci dicono che il Cristianesimo era entrato in concorrenza con le altre religioni di carattere misterico e salvazionistico, spesso con connotazioni monoteistiche e una morale somigliante a quella descritta nel Vangelo. Con l’emanazione dell’editto persecutorio del 303, Diocleziano e Galerio intendevano porre un freno alla disgregazione dell’impero. Le persecuzioni continuarono anche a seguito del ritiro di Diocleziano fino al 311, anno in cui l’imperatore Galerio emanò un editto di tolleranza. Ma la vera svolta avvenne nel 313, a seguito della vittoria di Costantino su Massenzio. Il primo, insieme a Licinio, emanò a Milano un editto che garantiva libertà di culto a tutte le religioni presenti nell’impero. La tradizione ecclesiastica coeva interpretò la svolta impressa da Costantino come consguenza di un sogno avuto prima della battaglia con Massenzio: esso l’avrebbe condotto alla conversione e all’apertura verso i cristiani.Nonostante la leggenda del battesimo di Costantino egli non rinunciò mai al suo ruolo di pontifex maximus e quindi di capo dei collegi sacerdotali pagani. Quindi la sua attenzione per il cristianesimo e perfino la sua presenza al concilio di Nicea nel 325 andrebbero posti probabilmente come parte del suo disegno di governo. Appoggiare il cristianesimo significava altresì avere dalla sua un gruppo in crescita sempre più grande. Ciononostante è proprio con lui che per il cristianesimo si aprì una nuova stagione, dove la Chiesa era ormai vicina al potere anche se all’interno cominciarono a nascere i primi dissapori e le prime contese. A ciò va aggiunta l’avversione dei culti pagani che si coalizzarono contro questo nuovo nemico che non mostrava tolleranza nei loro confronti. 7 I cristiani e le Sacre Scritture Il rapporto con le sacre scritture era fondamentale per le nuove comunità tanto che era emersa la necessità di dover leggere la Bibbia (le sacre scritture ebraiche che per i cristiani facevano parte dell’Antico testamento). I cristiani non ebrei potevano accedervi grazie a delle traduzioni in greco, la più importante delle quali era quella redatta ad Alessandria tra III e II sec a.C da una commissione di 70 dotti (ecco perché è chiamata dei 70). All’Antico testamento i cristiani aggiunsero un Nuovo Testamento costituito dai quattro vangeli, gli atti degli apostoli, le lettere e l’Apocalisse di Giovanni. Al tempo circolavano altri testi, tra cui i cosiddetti ad oggi chiamati apocrifi poiché non appartenenti al canone biblico. Il canone biblico, ovvero la sequenza di testi giudicati canonici fu redatto soltanto nel 1546 nel concilio di Trento. Nel corso del III secolo vi sono diversi contatti tra il cristianesimo e il paganesimo, soprattutto con i neoplatonici. Ricorderemo infatti il filosofo Giustino che a suo tempo avviò un discorso sulla possibilità di conciliazione tra cristianesimo e neoplatonismo. Origene e Gerolamo poi elaborarono un pensiero secondo cui bisognava accogliere l’eredità culturale dei pagani e inserirla nel nuovo sistema cristiano. 8 L’organizzazione della chiesa La struttura iniziale dei credenti in cristo era molto semplice. Essi si riunivano intorno ai presbyteroi (i più anziani) ai quali spettava l’insegnamento delle sacre scritture e la celebrazione della santa cena. Tuttavia, le lettere di san Paolo attestano delle differenze tra le varie chiese e anche dei contrasti tra le stesse. A partire dal IV secolo le chiese locali si riunirono in diocesi, organizzazioni territoriali modellate sulle circoscrizioni civili dell’impero: a ognuna di esse venne posto a capo un vescovo, tra cui si distinguevano i patriarchi, a capo di quelle sedi che si dicevano fondate da quattro apostoli: Roma, Antiochia, Costantinopoli e Alessandria. La liturgia fu una novità culturale del cristianesimo. Nel mondo greco ed ellenistico, la leitourghìa era l'istituzione mediante la quale si imponeva ai cittadini più facoltosi l'impegno di finanziare iniziative ed eventi di interesse comune. Traendo ispirazione dai pagani e dagli ebrei, anche i cristiani sentirono la necessità di esprimersi mediante cerimonie e gesti accuratamente regolati: l’insieme di essi fu definito appunto <<liturgia>>, perché tale parola era stata usata dalla Bibbia nella traduzione greca dei Settanta per indicare le cerimonie ebraiche. Protagonisti della liturgia ebraica erano i sacerdoti: ma nella tradizione ebraica il sacerdozio era terminato con la distruzione del tempio di Salomone e la diaspora, la << dispersione>> delle comunità ebraiche imposta nel 70 d.C, quando l'imperatore Tito aveva conquistato Gerusalemme. I cristiani ricostituirono il sacerdozio, prendendo come modello la funzione sacerdotale del Cristo stesso, che aveva istituito i sacramenti come segni sensibili del conferimento della Grazia divina. La comunità dei credenti cristiani iniziò a dividersi in chierici (il clero) e laici (il popolo di dio). All’interno del clero i membri erano distinti in maggiori e minori e in ambito liturgico la santa cena divenne vera e propria messa. Durante il IV secolo la struttura della messa si precisò in tre successive parti: la liturgia della parola (letture bibliche), l’offertorio (offerta dei doni), il canone (liturgia eucaristica e congedo). I vescovi cominciarono a riunirsi in assemblee sia generali che territoriali (concilii) per deliberare di tutti i problemi, tanto spirituali che pratici. Ivi venivano definiti i dogmi, quindi le verità incontestabili. Ciò che andava contro il dogma veniva chiamato eresia e veniva considerato un delitto anche dallo stato perché rischiava di minare l’unità dell’impero. I concili potevano essere sia <<ecumenici>> (che riguardavano tutta la chiesa), sia <<regionali>> (che rigurdavano soltanto alcune diocesi, raggruppate attorno a quella che ne era la metropolitana); ai singoli sinodi era poi affidata la verifica della disciplina interna di ciascuna diocesi. Il primo concilio ecumenico venne celebrato a Nicea nel 325, si svolse alla presenza dell’imperatore Costantino. 9 Il dissenso interno Le prime e principali <<eresie>> furono <<cristologiche>>: riguardarono cioè la persona e la natura del Cristo, la Sua umanità, il Suo rapporto con la divinità. Ma alcune erano relative piuttosto al fatto che il cristianesimo aveva dovuto approfondire ma anche problematizzare le sue originarie credenze entrando fin dal I secolo in contatto con la filosofia ellenistica e con influenze provenienti da tradizioni differenti. Alla base di questo complesso movimento di pensiero si pone la Gnosi, una parola ch’era stata usata nell’antico ambito mistico-scientifico della tradizione pitagorica per indicare la conoscenza della realtà divina propria di chi aveva già ricevuto una <<iniziazione>> (cioè un complesso di riti e d’insegnamenti attraverso i quali chi è stato prescelto da un gruppo a ricevere un’educazione segreta perviene, per gradi, alla conoscenza richiesta). Lo gnosticismo insegnava che la conoscenza iniziaticamente acquisita era condizione unica e indispensabile alla salvezza: quindi, in linea di principio, gli gnostici svalutavano qualunque tipo di fede in quanto cammino diverso dalla conoscenza e indipendente da essa. Nel cristianesimo ebbe molta influenza la dotta scuola gnostica di Alessandria i cui esponenti principali erano i filosofi Basilide, Valentino e Marcione. La Gnosi si diffuse negli ambienti cristiani soprattutto a causa del manicheismo, una religione di tipo sincretistico che fondeva elementi gnostici, cristiani e zoroastriani. Questa corrente riprese il principio della lotta cosmica inestinguibile tra il Bene e il Male. Tali principi si adattavano molto alla spiegazione di alcune pagine del Vangelo di Giovanni e dell’Apocalisse. Altre tesi che le Chiese cristiane dichiararono eresie furono il modalismo di Sabellio, il quale sosteneva che i componenti della Trinità divina non sono persone ma modi transitori di esprimersi della divinità; e il docetismo, che negava la realtà materiale della sofferenza e della morte di Cristo sulla croce ma le riteneva solo apparenti. Nel IV secolo la dottrina eretica di maggior rilievo fu quella praticata dal prete Ario d’Alessandria e per questo detta <<ariana>>. Secondo Ario, il Cristo era il Figlio prediletto del Padre dei Cieli, a Lui simile ma non identico: con ciò s’infirmava la dottrina della divinità del Cristo e del sacrificio di Dio stesso per l’umanità. Questa dottrina venne discussa nel concilio di Nicea, che la respinse e in un documento ufficiale, il Simbolo niceno, affermò la dottrina della consustanzialità del Padre e del Figlio. Pur restando tre diverse persone, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo 2 Oltre il limes dell’impero I popoli delle steppe si spostavano anche verso Occidente dove interagivano con popoli di lingua indoeuropea, come quelle germaniche e slave che gradualmente si avvicinavano ai confini dell’impero romano. Il loro incontro con Roma è fondamentale per comprendere le origini della società europea. Insieme con la crisi istituzionale e territoriale che aveva condotto alla divisione dell’impero in due partes e con l’imporsi di una nuova fede che aveva comportato nell’impero la lotta per l’annullamento di tutte le altre, il terzo elemento che mutò profondamente l’equilibrio del mondo imperiale romano fu, infatti, al suo interno, di nuovi popoli che ne sconvolsero l’equilibrio territoriale, istituzionale e demografico. Fra VIII e III secolo a.C. la regione compresa fra Transilvania, Carpazi orientali e Mar Nero era stata interessata da molte migrazioni di popoli di stirpe scitica e celtica che, mischiati all’elemento tracio, avevano dato vita a varie civiltà seminomadi, dall’economia fondata sull’allevamento e sulla raccolta. I greci, non perfettamente consapevoli delle stratificazioni etniche di questi luoghi, identificavano le genti che li popolavano in due etnie fondamentali: i geti e i daci. In realtà, entrambi costituivano un gruppo etnico abbastanza omogeneo. Essi parlavano una lingua assimilabile al tracio, ma erano caratterizzati da una forte impronta culturale di tipo scitico. Gli sciti, erano un popolo nomade di stirpe nordiranica, abilissimi cavalieri e arcieri, dediti a cerimonie di tipo sciamanico che prevedevano stati di estasi indotta da sostanze allucinogene. I geto-daci avevano sviluppato le proprie tecniche militari a contatto con altri gruppi nomadi di ceppo sarmatico. Gli sciti furono a lungo il motore delle migrazioni che avvenivano al centro del continente eurasiatico: non erano un popolo compatto, bensì un vasto gruppo di tribù guerriere nomadi che avevano in comune la lingua, la religione, le armi e le tecniche d’allevamento del cavallo da guerra e l’abilità come orefici e come fabbri. Le pressioni esercitate dalla loro mobilità sui popoli che confinavano con la loro ampia area insediativa erano causa continua di spostamenti che finivano con il preoccupare anche grandi imperi come quelli cinese e persiano, contro i quali si scontrarono a più riprese. Lo stesso può dirsi per un’altra popolazione, i sarmati, anch’essi nomadi e cavalieri di origine nordiranica abili nel combattimento a cavallo. Essi apparvero al confine tra Asia ed Europa intorno al II secolo d.C., probabilmente spinti verso occidente da gruppi di popolazioni asiatiche. Gli storici romani ne mettono in luce soprattutto la forza militare, determinata dal loro modo di combattere, a cavallo e pesantemente armati: l’arte della lavorazione del metallo, oltre a fornire i sarmati di efficaci armamenti, consentiva la fabbricazione di guaine per il corpo e la testa modellate in ferro, bronzo, corno e cuoio. Furono dunque i sarmati a importare in Occidente queste tecniche. Il loro ingresso nei territori contesi fra persiani e romani portò entrambi gli schieramenti a ingaggiare questi temibili cavalieri. 3 Il mondo eurasiatico fra sedentarietà e nomadismo: germani e uralo-altaici Il contatto fra i nomadi delle steppe e i germani determinò alcuni cambiamenti anche nell’assetto socioculturale e militare dei germani stessi. L’Europa aveva già conosciuto in passato dei popoli che usavano combattere a cavallo; erano i celti i quali, pur combattendo di solito a piedi, si servivano di cavalieri e di carri. I cavalieri celti erano comunque leggermente armati e le loro tecniche di combattimento erano poco ordinate e pertanto meno efficaci. Al contrario i germani combattevano esclusivamente a piedi, o almeno era così prima dell’incontro con i nomadi delle steppe. A partire dal secolo successivo e poi in misura ancor maggiore nel III e nel IV secolo, le cose erano destinate a mutare. Spinti dai cambiamenti climatici e dalla pressione delle tribù nomadi delle steppe che occupavano gradualmente i pascoli loro necessari, molte etnie germaniche mi misero in cammino alla ricerca di terre maggiormente ospitali. Il termine <<barbaro>>, ormai entrato nel lessico comune come sinonimo di estraneo alla civiltà e suo nemico, ha originariamente un senso etimologico un po' diverso. La parola barbarus è esemplificata sul greco bàrbaros: essa indica gli stranieri, ma contiene una sfumatura canzonatoria, in quanto sembra riferirsi in modo onomatopeico alla difficoltà con cui gli stranieri parlavano, balbettando. Per i romani, fino al II-III secolo d.C., i <<barbari>> per eccellenza erano stati i persiani e gli sciti, ai quali si attribuivano connotati di ferocia e di dedizione a oscuri culti magici: il che dipendeva dall’incapacità romana d’intendere culture diverse dalla greca e dalla loro. Con il II secolo d.C. nuovi popoli germanici si stavano spingendo sempre di pi verso il limes romano, cercando di infiltrarvisi. La loro pressione era divenuta più forte nei due secoli successivi, poiché le popolazioni germaniche provenienti dalle pianure centro-europee erano incalzate da popoli uralo-altaici a loro volta costretti a emigrare verso Occidente. Fu per questo che i barbari entrarono nel territorio dell’impero romano, in genere come ausiliari dell’esercito, ottenendo sovente in cambio delle loro prestazioni il diritto d’insediarsi su certe terre e di lavorarle: trasformandosi così da pastori e cacciatori nomadi o seminomadi in agricoltori e contribuendo almeno in parte a rimediare allo spopolamento delle campagne. 4 La cultura dei germani La nostra conoscenza della mitologia e della religiosità germaniche presenta numerose lacune, dovute alla carenza di fonti: i rilievi archeologici, le rune e i poemi sono spesso di difficile interpretazione, mentre le testimonianze lasciate dagli osservatori latini e greci, oltre a esser tarde, sono scarsamente obiettive perché gli autori trovavano difficoltà nel comprendere a fondo realtà culturali tanto diverse dalle loro. Non si deve pensare al mondo germanico come a un insieme compatto e omogeneo. Dovevano esservi profonde differenze tra i diversi popoli che lo costituivano, anche perché era forte l'influenza esercitata da altre culture: la greca, la latina, quelle slave, celtiche, ugro-finniche, scito-sarmatiche. Si trattasse d'influenze esterne oppure di caratteri per così dire «originali», sta di fatto che la suddivisione degli dèi germanici presenta strette connessioni con i Deva e gli Asura del sistema religioso indoiranico; allo stesso modo, le Norne germaniche assomigliano alle Parche e alle Moire, le dee greco-latine che presiedono al destino degli uomini; e una divinità come Odhinn-Wotan, nei suoi caratteri «psicagogici» (che presiedono al passaggio dalla vita alla morte), presenta somiglianze con Hermes-Mercurio, così come Thor con Ares-Marte. In linea generale, si può dire che i culti germanici principali ruotavano attorno a un nucleo di divinità e ad alcuni miti fondamentali: il dio Thor appare come il destinatario di un culto solare e celeste; più difficile comprendere la natura di Odhinn-Wotan, divinità dai caratteri sciamanici che presiede alla magia, ai caratteri magici, alla poesia, al diritto e alla guerra. Nel I secolo Tacito affermava che i germani non conoscevano una vera casta sacerdotale, né effigi sacre, né un'organizzazione di santuari e di luoghi sacri (Germania, IX). In realtà, non è esatto che essi non rappresentassero le loro divinità in sembianze antropomorfe: effettivamente però il dato più evidente della loro religiosità era il prevalere, almeno in apparenza, del culto di elementi «naturali». Gli alberi ei boschi sembrano aver avuto davvero un ruolo centrale nei miti e nei riti dei popoli germanici. Sempre secondo Tacito, ad esempio, al tempo del suo insediamento presso le foci del fiume Elba uno dei popoli che tra essi ci è più noto, i longobardi, apparteneva a una confederazione di genti devote alla dea Nerthus: il rito in suo onore aveva luogo in un'isola sulla quale si estendeva un bosco sacro. Di un bosco sacro parlava molti secoli più tardi (siamo nell'XI secolo) anche il cronista Adamo da Brema: nella penisola scandinava i pagani dell'area di Uppsala, nell'attuale Svezia, sacrificavano uomini e animali impiccandoli ai rami degli alberi di un bosco sacro. Il rito è probabilmente riferibile a Odino, la cui iniziazione al potere delle sacre <<rune>> avviene proprio attraverso una lunga sospensione a un albero sacro, l’Yggdrasil, il <<Frassino del Mondo>>. Questa somiglianza formale tra l'iniziazione di Odhinn-Wotan e la crocifissione di Gesù venne utilizzata dai missionari cristiani che tra VIII e X secolo convertirono i popoli germanici dell’Europa centro- orientale e settentrionale. Uno dei principali temi cosmogonici che il mondo germano-scandinavo ha conosciuto ruota proprio attorno al sacro-albero Yggdrasil: esso è l'Albero Primordiale. In quanto Asse del Mondo, l'Albero Sacro mantiene la stabilità del cosmo e ne giustifica e garantisce l'ordine: uno degli appellativi sacri con cui l'Yggrasil è indicato nell'Edda è «cavallo di Odhinn», il che sottolinea con chiarezza il carattere «sciamanico» di Odhinn-Wotan, divinità mediatrice tra il mondo dei vivi e quello dei morti come appunto sono, nelle culture delle steppe, gli «sciamani». Nella tradizione germanica l'ordine cosmico sarebbe stato sconvolto alla fine dei tempi, nel Ragnarök, in una battaglia finale in cui gli dèi Asi sarebbero caduti e il cosmo sarebbe stato inghiottito dal lupo Fenrir. Anche quest'analogia con l'Apocalisse cristiana fu sfruttata dai missionari. Dal punto di vista sociale, il nucleo di base delle popolazioni germaniche era quello che riuniva più famiglie collegate da rapporti di parentela (Sippe); non esisteva in genere la proprietà privata, e i beni immobili erano gestiti comunitariamente. Ogni gruppo di Sippen, identificatosi con un'area territoriale, si riconosceva in una superiore entità che i romani chiamavamo civitas e si potrebbe definire «popolo». Ciascun popolo aveva i suoi uomini liberi, contraddistinti dal diritto di portare le armi; fra i longobardi erano detti arimanni. Erano essi che in caso di guerra eleggevano un re. Al di sotto degli arimanni stavano i semiliberi. o haldii, e infine gli schiavi. 5 Dalla hospitalitas-foederatio all’egemonia militare barbarica Verso la metà del IV secolo la pressione delle popolazioni germaniche contro il limes, nell’area del Reno e del Danubio, era diventata molto forte: incalzate da un popolo uralo-altaico, gli unni, esse cercavano uno spazio che l’impero non era disposto più a concedere. Si trattava di genti che ci sono note con i nomi di alamanni, svevi, burgundi, franchi, vandali, ostrogoti, visigoti. A metà degli anni Settanta del IV secolo, le lotte interne alla dinastia imperiale e la pressione dei visigoti, una popolazione germanica che aveva sconfitto nella battaglia di Adrianopoli del 378 l’imperatore Valente, avevano consigliato di rivedere di nuovo il principio, riaffermato da Costantino, dell’unicità della funzione imperiale: e si era pervenuti così a una diarchia. Nel 379, per volontà di Graziano, che si riservò l’Occidente, divenne Augusto d’Oriente Teodosio I, che stipulò un accordo con i visigoti che minacciavano Costantinopoli e li accettò come foederati nei confini dell’impero. Non da tutti queste forme di insediamento erano viste di buon occhio, anche perché in diverse località i germani avevano occupato proprietà di privati. A Tessalonica, nel corso di una rivolta causata pare da uno di questi abusi, fu assassinato un comandante goto: Teodosio rispose con inaudita violenza, ordinando il massacro di settemila tessalonicesi che assistevano ignari a una corsa di carri. Anche se costretto a pentirsi pubblicamente (su imposizione del vescovo di Milano Ambrogio) di questo gesto, Teodosio aveva raggiunto il suo scopo: aveva inviato a tutti i sudditi un segnale di forza e aveva sottolineato che alla nuova situazione bisognava rispondere con misure decise. Durante il suo regno furono avviate anche le misure vessatorie contro i differenti culti pagani e i loro adepti: il cristianesimo era ormai religione di Stato e anche su ciò Teodosio non sopportava deroghe. Egli governò abilmente, affrontando anche molte difficoltà. Nel 383 il suo collega Graziano era caduto combattendo contro Magno Massimo, egli, atteggiandosi anche a tutore della Chiesa cattolica, fu dapprima accettato come collaboratore dal nuovo Augusto d’Occidente, Valentiniano, ma poi sconfitto definitivamente e fatto giustiziare da Teodosio. Egli mantenne almeno formalmente la diarchia, ma quando morì nel 392 Valentiano, governò da solo fino al 395, quando sentendosi vicino alla fine in seguito ad una malattia sorta repentinamente, giudicò opportuno tornare, almeno in una certa misura, al sistema dioclezianeo. Già fin dalle riforme dell’imperatore Diocleziano si distingueva una pars Orientis dell’impero una pars Occidentis. Teodosio lasci alla sua morte la pars Orientis al figlio Arcadio (377-408) e la pars Occidentis al figlio minore Onorio (384-423). Fu da allora che i destini d’un Oriente ancora vitale nonostante le difficoltà e d’un Occidente avviato invece all’eclisse cominciarono a divergere decisamente anche sul piano istituzionale. Nella pratica, Teodosio aveva inteso garantire all’impero la sopravvivenza concentrando nella pars Orientis sotto il dominio di Arcadio i territori più ricchi e più sicuri, e accettare invece che la pars Occidentis (alla quale certo l’impero non rinunciava) seguisse lentamente il suo destino. Nonostante i due imperatori fossero stati entrambi posti sotto la tutela di un prestigioso generale d’origine barbarica nel quale Teodosio pienamente confidava, il vandalo Stilicone, la lotta tra i due fratelli e la loro incomprensione per la saggia ed energica politica del loro tutore furono una delle cause del divaricarsi dei destini delle due partes imperii, forse a quel punto inevitabile, e del naufragio politico di quella occidentale. Stilicone contrastò valorosamente sia la rivalità dei due fratelli, sia gli attacchi dei barbari che, non riuscendo a penetrare nella parte orientale dell’impero, si riversavano sempre più spesso in quella occidentale. Egli batté due volte i visigoti di re Alarico, e anche quelli di Radagiso, ma al (Galles) e a sud-ovest (Cornovaglia), le tribù celtiche vivevano ancora secondo le loro antiche tradizioni e nel frattempo iniziavano anche a cristianizzarsi. Intanto, a sud e a est, gli angli e i sassoni avevano fondato alcuni regni, i quali erano spesso in conflitto tra di loro. 8 I franchi Di particolare consistenza era il gruppo dei franchi. Le prime notizie di rilievo sul loro conto s’incontrano nelle fonti verso la metà del III secolo, quando essi (al pari di molti altri germani) entrarono in contatto con l’impero romano. Essi erano una lega di tribù che si andava formando nel corso del tempo come alleanza militare. Il nome franci potrebbe derivare dalla stessa radice del termine tedesco frank/frei, con il significato di <<coraggiosi>> (e più tardi di <<liberi>>): è probabile che si trattasse di un epiteto non tradizionale, bensì assunto in virtù di questa nuova unione di guerrieri, sebbene l’etimologia resti discussa. È a causa della mancanza di radici antiche veramente comuni che i franchi conoscevano poco della loro origine; inoltre essi non si mostrarono mai troppo interessati a elaborare una loro memoria comunitaria se non per quanto riguarda il mito relativo alla casa regnante. Le forme dei loro contatti con l’impero non sembrano mostrare tattiche o strategie precise: nella seconda metà del III secolo, insieme con altri gruppi di germani, i franchi si resero protagonisti di numerose scorrerie. Abili combattenti, si districavano tanto per terra quanto sulle acque; navigando sia per mare, sia per rotte fluviali, erano in grado di colpire su qualunque territorio. Tuttavia alla fine dello stesso secolo, con l’avvento di Diocleziano, l’impero riacquistò un certo controllo sui propri confini che si protrasse sino alla metà del IV secolo. In questi decenni colonie di prigionieri germani vennero insediate lungo il limes, come contadini e all’occorrenza soldati. Tra questi, erano presenti molti franchi, che occuparono la Gallia settentrionale. Nello stesso periodo abbiamo notizia di una loro cospicua infiltrazione nell’esercito romano all’interno del quale, già dal IV secolo, esercitavano cariche di rilievo. All’inizio del V secolo i franchi sembrano ormai essersi stabilizzati nella Gallia centrale come foederati dell’impero, per conto del quale difendevano la frontiera renana contro gli alani, gli svevi e i vandali. Tuttavia, la probabile presenza di differenti regni o raggruppamenti all’interno del mondo franco faceva sì che essi non seguissero una linea politica univoca: abbiamo anche notizia di uno scontro con l’esercito imperiale, dal quale i franchi uscirono sconfitti. In seguito a questa battaglia si costituì attorno a Tournai un’enclave di foederati franchi; altri piccoli regni si formarono con lo stesso sistema intorno all'importante città romana di Treviri e in Renania. Il disfacimento della compagine occidentale dell'impero consentì loro di distribuirsi più liberamente sul territorio. Furono i franchi salii, con il loro Clodoveo, che nel 486 batterono presso Soissons un capo politico-militare d'origine gallica, Siagrio, che si era ritagliato un dominio in quell'area. Egli, vinto, si rifugiò presso il visigoto Alarico II, controllava la Gallia meridionale, ma che lo tradì riconsegnandolo ai franchi i quali lo uccisero. Siagrio era formalmente un semi ribelle all'impero; il paradosso volle che i franchi, un popolo che era stato a molto minor contatto con i romani degli altri germani, si facessero in quell'occasione fautori della legalità imperiale rappresentata dalla formale sudditanza all'unico Augusto rimasto in carica, Zenone di Costantinopoli. CAPITOLO 3: Goti, longobardi e franchi: esperimenti egemonici 1 I goti: un modello per il mondo germanico Da quando nel 476 l'ultimo imperatore romano d'occidente era stato deposto, costante preoccupazione dei sovrani di Costantinopoli era stata quella di riaffermare i diritti teorici a governare l'intera area corrispondente all'impero, ma al tempo stesso di consentire all'occidente un assetto che non gli obbligasse a intervenire di continuo. Fu così che gli imperatori romano orientali fecero in genere buon viso a tutti quei capi barbari che si arrogavano il governo di certe zone occidentali, a patto che essi riconoscessero la superiore autorità di Bisanzio salvando in tal modo il principio dell'unità dell'impero; salvo intervenire talvolta mettendo quei capi l'uno contro l'altro e favorendo colpi di Stato e congiure, in modo da impedire che qualcuna di queste monarchie divenisse troppo forte. Siamo abituati a definire quelle monarchie << romano-barbariche>>, per sottolinearne il carattere misto: da una parte i conquistatori di stirpe germanica e dall'altra le genti romane. I goti furono i protagonisti della << migrazione>> più ampia e significativa. Essi non erano un popolo unitario, ma una <<confederazione>> in movimento che comprendeva al suo interno diverse componenti: gepidi, alani, unni. È probabile che a un nucleo originario proveniente dalla Germania settentrionale ed emigrato a partire dall'inizio del millennio si mescolassero successivamente nell'area balcano-danubiana le altre etnie. Le tappe del percorso che seguirono ci sono ignote, ma furono segnalati in Dacia nel II secolo e in Tracia nel secolo successivo. Dal III secolo sembra che come popolazione essa fosse divisa in due grandi gruppi: visigoti, insediati fra il Baltico e il Mar Nero, e ostrogoti, nell’odierna Ucraina. Da l si spostarono progressivamente verso sud-ovest. Nel corso del IV secolo essi si convertirono al cristianesimo, accettandolo però nella confessione ariana, condannata nel concilio di Nicea, ma molto diffusa e organizzata. Nella seconda metà del IV secolo il vescovo ariano Ulfila tradusse la Bibbia in goto e alla fine del secolo la maggioranza dei goti era ormai definitivamente convertita. Durante le scorrerie compiute dai Goti nella penisola anatolica la cattura e il rapimento di uomini e donne da ridurre in schiavitù era una pratica assai frequente. I nonni di Ulfila conobbero questa sorte: erano cristiani di lingua greca e di cultura ellenica e insieme ad altri loro confratelli furono probabilmente tra i primi a diffondere la fede nel Cristo in terra gota. Ulfila nacque dunque tra i Goti, sia pur in una famiglia di impronta greca. A partire dal 320 circa l'arianesimo prese a diffondersi nell'area balcanica ed euro-orientale, dove in precedenza altre forme di cristianesimo erano state solo scarsamente conosciute. Il giovane Ulfila, perfetto conoscitore di più lingue, pare svolgesse attività diplomatica per i Goti presso la Corte bizantina, dove aveva preso contatti con l'ala moderata del partito ariano. In seguito a questi prolungati rapporti, nel 348 fu designato vescovo di Goti: la sua missione non raccolse troppi consensi, anzi il re Atalarico promosse una persecuzione contro i cristiani. Come conseguenza i Goti convertiti migrarono. Ulfila prosegui la sua missione, tornando spesso a Costantinopoli. Nei decenni di episcopato aveva condotto a termine la sua opera di traduzione della Bibbia in lingua gota, per la quale aveva a disposizione due forme di scrittura: i caratteri dell'alfabeto greco e le rune. Dalla sintesi di entrambe nacque la prima vera forma di scrittura germanica letteraria. Nell’avvicinarsi lentamente al territorio della pars Occidentis una parte dei goti, (visigoti), si diresse verso ovest, mentre l’altra (gli ostrogoti) rimase nell’Europa centro-orientale, giocando anche un ruolo importante nella storia italiana. Tra Spagna e Gallia, nel V secolo, era stato fondato un grande regno dai visigoti subito dopo la loro sosta in Italia. Si parla di una Gothia, la quale prese una parte di civiltà romana diventando poi un regno con la propria autocoscienza. I re visigoti, insediati a Tolosa, furono legislatori molto attenti: a Eurico si deve il pi antico codice delle leggi, il Codex Euricianus (470), mentre ad Alarico II la Lex Romana Visigothorum o Breviarium Alaricianum (506), compendio del diritto romano teodosiano. Ai primi del VI secolo i visigoti furono sconfitti militarmente dai franchi, guidati da Clodoveo (battaglia di Vouilles nel 507), e furono costretti a ritirarsi al di l dei Pirenei. Da allora essi si stanziarono nella penisola iberica, fondando un regno dotato di leggi scritte di chiara influenza romana che sviluppò una vasta cultura nella capitale Toledo, scelta dal re Leovigildo, che aveva allargato il dominio visigoto sulla penisola iberica conquistando anche il regno svevo. I visigoti abbandonarono la fede ariana alla fine del VI secolo, quando re Recaredo si convertì al cattolicesimo. Nel 654 re Recesvindo, terzo e ultimo legislatore visigoto, promulgò un codice unico di leggi comune ai visigoti e ai latini, la Lex Visigothorum. Al principio dell’VIII secolo il Regno visigotico fu travolto dalla conquista musulmana: ma focolai d’indipendenza cristiana rimasero. 2 Il governo dei goti in Italia Alla metà del V secolo, gli ostrogoti erano subordinati agli unni e insediati nella pianura pannonica. In seguito, divennero foederati dell’impero d’Oriente e come tali si insediarono in Macedonia. Il governo di Costantinopoli, che non voleva averli ai confini, li indirizzò sull’Italia, conferendo al loro re Teodorico il titolo di patricius, quindi di difensore della città di Roma e di governatore per conto dell’impero dell’Italia e della Dalmazia. Vinto e ucciso, Odoacre (493) Teodorico, risiedendo nella capitale di Ravenna, inaugurò una politica per molti aspetti originale. Sotto Teodorico il regno d’Italia era divenuto la principale potenza territoriale d’Europa. Oltre all'Italia i suoi confini includevano la metà occidentale dell'antica Illiria e il dominio della porzione della Rezia. Egli conquistò anche la Gallia meridionale, persa tuttavia all’inizio del VI secolo, e instaurò un legame importante con l’altro grande regno goto nella penisola iberica. Teodorico agì con larga autonomia nella costruzione del regno, scatenando inevitabilmente una reazione bizantina. I privilegi a lui concessi lo rendevano una sorta di viceimperatore per la parte occidentale tanto che il sovrano seguiva un cerimoniale simile a quello dell’imperatore e veniva perfino chiamato augustus dai funzionari romani al suo servizio. Ciononostante, Teodorico ebbe sempre l’accortezza di farsi chiamare rex e non imperator per non creare dissidi con Bisanzio. Egli era sovrano tanto dei goti quanto dei latini, sicché si occupava della plebs attraverso l’organizzazione di giochi e la distribuzione di derrate alimentari e distribuiva le cariche amministrative. Teodorico, era sempre attento e non tralasciare la parte germanica del suo Regno. A questa saggia ed equilibrata politica interna, Egli accompagnava un estremo dinamismo nei rapporti con gli altri regni romano-barbarici: si alleò con visigoti di Spagna, franchi di Gallia, burgundi. Insomma, la sua azione prese gradualmente a configurare una sorta di soluzione federativa germanica dell'occidente, nonostante l'ascesa dei franchi di Clodoveo agli inizi del VI secolo fosse un serio ostacolo alla sua supremazia. Se il suo progetto politico appare cristallino, lo status giuridico e la valutazione del Regno ostrogoto nel suo complesso sono stati oggetto di molte discussioni. Teodorico era, istituzionalmente parlando, l'unico goto ad avere, come patricius, la cittadinanza romana; per il resto, goti e romani convivevano in un regime di separazione giuridica. I primi, che istituzionalmente erano foederati dell'impero, si occupavano solo delle cose militari; i secondi, solo di quelle civili. Il fatto che i Goti fossero ariani mentre i latini seguaci della Chiesa che aveva accettato il Concilio di Nicea favorì lo sviluppo della vita parallela delle comunità, ciascuna delle quali aveva i suoi edifici di culto, il suo clero e la sua liturgia. È quindi probabile che il Regno di Teodorico non sia sopravvissuto a lungo a causa sia degli intrighi del governo imperiale romano, Che negli anni Venti del VI secolo aveva cominciato a guardare con rinnovato interesse alla pars Occidentis e a seminare quindi discordia fra Goti e latini, sia a causa dell'intransigenza di molti capi Goti che avrebbero preferito ridurre i latini in schiavitù piuttosto che rispettarne le proprietà e le consuetudini. 3 La successione di Teodorico Nel 518 Giustino I successe a Anastasio nella carica imperiale. Il nuovo imperatore accettò di riconoscere Eutarico come successore designato di Teodorico (del quale sposò la figlia Amalasunta), assicurandogli anche l’onore del consolato. Nel 519 si giunse alla conclusione dello scisma acaciano avviato nel 484, durante il pontificato di papa Gelasio I e che assunse il nome dal patriarca di Costantinopoli Acacio. La motivazione della contesa era l’Editto detto Henotikon, promulgato sotto l’imperatore Zenone, con la volontà di riconciliare le fazioni in lotta sulla questione monofisita (=Gesù aveva solo una natura, quella 5 le istituzioni longobarde Per parlare dell'organizzazione sociale dei Longobardi è opportuno partire dai rapporti che durante la lunga e stabile permanenza presso le foci dell’Elba li avevano collegati ai germani più occidentali, quali sassoni e frisoni. Vivendo a stretto contatto con i celti, i germani occidentali (e tra questi in particolar modo i sassoni) ne avevano acquisito la rigida suddivisione in caste, difficilmente riscontrabile fra le altre popolazioni germaniche. Tra i sassoni tale ripartizione sociale determinava tre ceti: nobiles con funzioni sacerdotali, guerrieri-contadini liberi e infine la plebe dei liti, dalla libertà limitata ma non equiparabili agli schiavi. L'organizzazione sociale e il diritto Longobardi avevano molto in comune con quello dei sassoni, Ma con una spiccata sottolineatura della funzione guerriera. Di fronte al nucleo di coloro che erano degni di portare le armi stava il ceto degli haldii, molto più vicini alla condizione degli schiavi di quanto lo fossero i liti sassoni. Nell'editto di Rotari haldii e servi ministeriales Sono equiparati per quanto riguarda i danni ricevuti e vengono considerati superiori ai servi rustici. Alcune differenze si riscontrano, invece, nella sfera dei rapporti matrimoniali: il matrimonio fra un haldius e una donna libera era consentito, sia pure a certe particolari condizioni, mentre l'unione di un servo con una libera era assolutamente proibita. La differenziazione appare esser stata tanto netta quanto semplice: da una parte i fulcfree, i << liberi>>, dall'altra gli haldii. Ma col passare del tempo si diffusero anche nuove distinzioni, connesse con le differenze censitarie. Un'altro elemento tipico dell'organizzazione sociale longobarda, la fara, permette di considerare un aspetto importante dell'organizzazione sociale dei germani al tempo delle migrazioni. Tanto l'editto di Rotari quanto Paolo Diacono ci dicono che al loro arrivo in Italia i Longobardi erano organizzati in farae. Nell'editto si legge che ogni uomo libero ha il diritto di migrare; Paolo Diacono, invece, definisce le farae come stirpi o linee di discendenza. Si è a lungo discusso sulla natura di tale istituzione longobarda, soprattutto ponendola a confronto con omologhi del mondo germanico. In esso vi erano due strutture associative che innervavano il più vasto tessuto sociale: la Sippe e la Gefolgschaft. La prima era la famiglia allargata; la seconda una libera unione fra guerrieri attorno a un capo. I due istituti coesistevano all'interno delle tribù germaniche: tuttavia, è indubbio che più cresceva il carattere guerriero di una società, più il ruolo della Gefolgschaft prevaleva su quello della Sippe. Ciò era con ogni probabilità avvenuto tra i Longobardi. Rimane difficile capire se la fara sia un nucleo guerriero piuttosto che un'organizzazione familiare. Probabilmente essa può essere definita come un nucleo che si richiamava a un’ascendenza comune, ma che sia organizzato militarmente in vista della migrazione e della conquista secondo una dinamica scandita nel tempo. In origine una struttura sociale costituita da consanguinei, nel corso delle migrazioni un vasto gruppo di famiglie imparentate fra loro, ma caratterizzate da un più marcato inquadramento militare; nella fase dell'insediamento stabile l’insieme delle famiglie che si erano insediate in un'area a sua volta definita fara e destinata a trasformarsi nella proprietà familiare o nel villaggio. Rispetto agli altri germani occidentali, i Longobardi si differenziavano soprattutto per ciò che riguarda il concetto di regalità e di monarchia. Tacito affermava che fra i germani vigeva la consuetudine di proclamare i re in base alla nobiltà e i condottieri per il valore. Queste parole implicano un'idea quasi democratica della regalità, simile a quella che si ricava dalle saghe scandinave, nelle quali solitamente il sovrano è eletto da un'assemblea di eguali; la stessa assemblea dispone del potere di deporre il re in caso questi si opponga alla volontà del Bund (l'unione delle Sippen), si dimostri indegno della carica o inadeguato ai suoi compiti. Nelle società germaniche e scandinave più arcaiche, dunque, il sovrano era si rivestito di una forza magico-sacrale, ma tale elemento sacro di cui si sostanziava il suo potere altro non era che quel principio religioso su cui si fondava il Bund. È certo diversa l'immagine che si riceve quando si guarda ad altre tradizioni del mondo germanico, per esempio a quella di franchi, in cui i re erano considerati esseri divini o comunque assimilabili alla divinità. Tuttavia, è probabile che nel caso della monarchia Franca se osservi un istituto già evoluto, magari a contatto con esperienze di sacralizzazione del potere quali si conoscevano nel mondo celtico e in quello romano. Questa idea di regalità appare piuttosto lontana dalla storia longobarda, dove sembra aver avuto maggior sviluppo la figura del condottiero che domina grazie alla virtus: termine che nel panorama culturale dei germani ha una connotazione molto diversa dal corrispondente romano, essendo più che altro una dote del guerriero, sintesi di coraggio, forza e astuzia. Lo stesso Paolo Diacono mostra di non considerare la monarchia come un'istituzione originaria presso la sua gente. Lo si evince da diversi episodi inseriti nella sua Historia: per esempio, i fratelli Ibor e Aione, che secondo la leggenda condussero i Longobardi fuori dalla Scandinavia, erano stati scelti dal popolo come condottieri. Lo stesso Alboino, sicuramente il re più importante per i Longobardi, per quanto idealizzato ed esaltato nella narrazione di Paolo Diacono, continua ad appartenere alla schiera dei capi che guidano i loro popoli nelle migrazioni, piuttosto che alla categoria dei re per nobiltà. Certamente anche i Longobardi conoscevano alcune dinastie che per illustri natali si elevavano al di sopra delle altre: per esempio i gunginghi del primo re Agilmundo, i lithingi e gli arodi da cui proveniva Rotari. Alcuni di questi lignaggi, però, appartenevano originariamente non al popolo longobardo, bensì a gruppi assimilati nel corso dei secoli e nessuno fra essi riuscì mai a imporre un'egemonia stabile e duratura. Anche nei rapporti di parentela all'interno del mondo longobardo si nota una caratteristica commistione tra elementi appartenenti al diritto di germani occidentali e altri più marcatamente orientali. L’attenzione verso i problemi di parentela è resa evidente dal gran numero di paragrafi che l’editto di Rotari ha ritenuto opportuno dedicare alla regolamentazione della materia. Altrettanto si può affermare per le questioni inerenti al matrimonio e alla posizione della donna nella famiglia e nella società; il gruppo riservava una rigorosa e attenta protezione alla dignità della donna libera, impossibilitata a difendersi da sola: un reato violento che toccava una donna richiedeva una composizione finanziaria più alta rispetto all'omologo compiuto nei confronti di un uomo, probabilmente perché si riteneva che quest'ultimo fosse più in grado di difendersi. Se una moglie si atteneva alle regole imposte dalla società, il marito non aveva su di lei potestà illimitata; i casi in cui i poteri sono esercitati pienamente dal marito risultano circoscrivibili a situazioni particolari. Inoltre, una moglie non era esclusa dal patrimonio del marito: in primo luogo perché ella portava al momento delle nozze il Faderfium (cioè, i doni che un padre concedeva in dote quando una figlia si sposava). Ancora più importanti risultano essere gli istituti della Meta e del Morgingab: il primo consisteva in quella parte del patrimonio del marito promessa alla donna nel giorno delle nozze; il secondo era invece un'elargizione che l'uomo era tenuto a compiere per testimoniare pubblicamente la sua intenzione di conferire piena validità legale al vincolo matrimoniale. All'origine sembra che il Morgingab fosse attribuito alla Sippe della sposa, mentre col prevalere nel tempo delle caratteristiche sempre più individuali dell'unione matrimoniale ci impose il costume di consegnarla direttamente alla donna. Difatti una vedova riportava nella casa paterna questa parte del patrimonio del marito come suo possesso: in caso di morte del padre e del fratello non era costretta a dividerlo con le sorelle, al contrario del Faderfium, ma lo teneva per sé. Tacito collocava i Longobardi nella Lega dei popoli devoti alla dea della fertilità Nerthus. Naturalmente, però, all'epoca delle migrazioni e dell'insediamento in Pannonia essi erano essenzialmente pastori allevatori. Ben altro rilievo sembra aver avuto l'allevamento, in particolar modo del cavallo: animale sacro, ma anche necessario soprattutto in rapporto alle pratiche guerriere. Cinque paragrafi dell’editto di Rotari sono volti alla esclusiva tutela del cavallo, mirando persino a difenderne le qualità estetiche; anche Paolo Diacono narra di cavalli selvatici condotti in Italia allo scopo di migliorare le razze. 6 I franchi, la dinastia merovingia e i maestri di Palazzo Tra le varie monarchia romano-barbariche, quella franca era destinata a segnare profondamente la storia europea. Fra V e VI secolo, in circostanze che la leggenda vuole miracolose, re e popolo Franco si erano convertiti in massa al cattolicesimo, in un momento in cui le altre monarchie romano-barbariche conoscevano una fase di adesione al cristianesimo attraverso la confessione ariana. I franchi divennero allora i << figli prediletti della Chiesa>>. Nel corso del VI secolo, il loro Regno si era allargato su gran parte dell'attuale Francia. I sovrani merovingi regnavano su una popolazione nella quale un ceto di proprietari terrieri ben armati, d’origine germanica (i franchi per l’appunto), reggeva le sorti di una popolazione di origine gallo-romana. La conversione facilitò la collaborazione e la fusione con i gallo romani, tanto che la lingua che ne sarebbe scaturita sarebbe stata caratterizzata da elementi e componenti neolatine. La morte del re Clodoveo, avvenuta nel 511, comportò la divisione del regno tra i suoi quattro figli maschi, i successori estesero i confini della dominazione a tutta la Gallia sin oltre il Reno. Nel VI secolo il regno risultava diviso in due aree geografiche principali: - La Neustria, caratterizzata da una forte compenetrazione tra l’elemento franco e quello gallo-romano - L’Austrasia che aveva come centro prima Reims, poi Metz, con prevalenza germanica. Accanto a queste due regioni vi era la Burgundia che, pur prendendo il nome dal popolo che l’aveva dominata fino al 533 (anno della conquista merovingia) contava anche una forte componente latina. Vi era infine l’Aquitania, più gallo-romana che franca. Durante il VI secolo il regno dovette si affrontare una grave crisi, determinata soprattutto dalla disgregazione politica e dalle difficoltà agrarie: ma non ebbe da combattere contro importanti nemici esterni o interni. I monarchi merovingi versavano però in uno stato di debolezza cronica, tanto che la tradizione postuma li avrebbe ricordati come “re fannulloni”. Ad affiancarli stavano alcune famiglie dell'aristocrazia, dalle quali i re sceglievano i loro primi ministri o <<Maestri di Palazzo>> (i “maggiordomi”) che finirono con il sostituirli al governo. In genere ogni regione storica aveva il suo maggiordomo e ciò comportò che il regno iniziasse a frazionarsi in una serie di piccoli gruppi di potere nei quali vigeva l’economia curtense. Fu solo nel 613 che il merovingio Clotario II di Neustria riuscì a riunire tutti i franchi sotto la sua sovranità, avvalendosi di due esponenti della nobiltà austrasiana, Arnolfo e Pipino di Landen, che ricompensò nominando il primo vescovo di Metz, la città più illustre dell’Austrasia, il secondo Maestro di Palazzo della medesima regione. È vero, tuttavia, che in precedenza non erano mancati tentativi di riunificazione, tra cui ricorderemo quello della regina dell’Austrasia, Brunechilde. Le fonti non ci dicono molto della sua personalità ma sappiamo che la stessa nobiltà austrasiana capeggiata da Arnolfo e Pipino le fece mancare il proprio appoggio, consegnandola a Clotario. Nel 613 la regina venne messa a morte. La leadership di Clotario venne accettata perché si suppone che lasciasse ampia possibilità di manovra alla nobiltà del regno. Arnolfo, dopo una fulminea carriera a corte, fu eletto nel 612 vescovo di Metz pur non essendo un sacerdote e avendo già moglie e figli. Le fonti riferiscono che il nuovo compito non lo entusiasmò anche se questo potrebbe trattarsi di uno stereotipo letterario. L’episcopato di Metz rivestiva grande importanza poiché la città era la capitale d’Austrasia. Il rilievo dell’autorità vescovile, inoltre, non si esauriva alla sola carica religiosa ma conferiva anche una funzione amministrativa centrale. Infatti, già dal regno di Clodoveo i sovrani merovingi avevano compreso la complessità di tale ruolo, tanto da riservarsi il controllo delle nomine episcopali. Anche Arnolfo, quindi, accorpò funzioni religiose e amministrative. Inoltre, quando Clotario II decise d’insediare a Metz il proprio figlio Dagoberto, egli fece di Arnolfo il precettore del giovane principe. Pipino I il vecchio (O di landen) proveniva da una grande famiglia di proprietari terrieri e assunse poi la carica di maestro di palazzo. Costui era l’amministratore della domus (casa) del re, poiché il regno veniva considerato proprietà personale del sovrano e di fatto il suo patrimonio coincideva col regno stesso. Chi ne amministrava i beni si trovava così investito da ampi poteri. Fra i due collaboratori si stabilì un'alleanza rinsaldata dal matrimonio tra il figlio di Arnolfo e la figlia di Pipino. Dall'unione delle due famiglie ebbe origine la stirpe degli arnolfingio-pipinidi, poi noti come carolingi. Clotario II morì nel 629 e il nuovo re Dagoberto, avvertendo il peso del potere dal maestro di palazzo lasciò Metz per Lutetia (Parigi), portando con sè Pipino. Nella nuova capitale questi aveva meno appoggi e il suo ruolo ne risultò sminuito. Per giunta, Dagoberto scelse i suoi collaboratori tra altre famiglie nobiliari, rivali dei pipinidi. Tuttavia, egli morì nel 639 lasciando dei figli ancora bambini e lo stesso Pipino morì a distanza di un anno. Intorno al 643, Grimoaldo, figlio di Pipino I, riuscì a riprendere la carica di Maestro di palazzo ma, meno abile del padre, si credette in grado di compiere un colpo di mano che si rivelò fallimentare. La nobiltà franca reagì nel 656, trucidando sia Grimoaldo che suo figlio. A ciò seguirono decenni di confusione ove le grandi famiglie aristocratiche si scontrarono per il controllo del potere. Soltanto nel 687, con la battaglia di Tertry, Pipino II di Heristal riunì la dinastia dei pipini e degli arnolfingi e, forte del ritrovato appoggio della nobiltà austrasiana riuscì nell’impresa di riunire i franchi sotto un’unica guida. La Chiesa di Roma si oppose agli scempi dei monumenti antichi che si verificarono nella pars Orientis dopo l’editto di Tessalonica. Essa mostrò non di rinnegare la memoria dell’impero <<pagano>>, bensì di volersene far erede: si spiega così l’adozione di un’estetica artistica e edilizia di tipo augusteo. I motivi di tali scelte sono vari: da una parte v’ influì certo il minor peso iniziale del monachesimo, che in Oriente rappresentava l'ala più intransigente; dall'altra non va sottovalutato il fatto che il ceto senatorio tradizionalista manteneva a Roma e nei grandi latifondi provinciali un'importanza non secondaria e Che era importante cercare con esso una linea d'accordo e di convivenza. A partire dal V-VI secolo, la frammentazione delle terre occidentali dell'impero appariva definitiva. L'unico potere di respiro universalistico, benché supportato ancora da mezzi molto limitati, rimaneva in quell'area il patriarcato romano che dall'impero aveva ereditato anche la città simbolo: Roma. Tuttavia, tale eredità andava rivisitata ormai in chiave religiosa; non bisogna infatti dimenticare che la città era in parte spopolata e in rovina, pur mantenendo sotto il profilo architettonico un'immagine ancora fortemente legata al suo passato. I templi e i palazzi dell'antichità, sebbene in decadenza, caratterizzavano ancora il panorama urbano. Il peso esercitato dalla chiesa romana sulla vita culturale si rivelò subito molto importante: e anche in questo settore è evidente il rapporto con la Roma classica. Il ceto senatoriale e, in generale, dirigente, dopo gli ultimi tentativi compiuti nel IV secolo per rivendicare il suo diritto a perpetuare la cultura pagana, appariva ripiegato su sé stesso in una visione ristretta dell’otium, il negotium. D'altra parte, gli spazi d'azione della vecchia aristocrazia si erano obiettivamente ristretti, dal momento che i ruoli chiave nei settori amministrativi erano ormai ricoperti da uomini provenienti dall'esercito dal ceto equestre. Cresceva invece l'importanza degli ecclesiastici che sempre più spesso accoglievano tra le loro fila persone di grande sapere. In questo senso è significativa la vicenda di Cassiodoro: senatore, divenne il primo consigliere del re ostrogoto Teodorico che lo scelse per la sua immensa cultura. Sotto quel sovrano egli concepì una vera e propria Rifondazione della società italica nel segno dell'integrazione fra Goti e romani: finché in tarda età, deluso dalle vicende politiche, si convertì alla vita monastica. Fondo quindi il monastero di Vivarium (Calabria) dove volle coltivare il ritiro spirituale, ma anche lo studio delle sette arti liberali: la cultura classica avrebbe dovuto fungere da supporto allo sviluppo della cultura cristiana, come aveva già affermato Sant'Agostino. Nel De doctrina christiana, il vescovo di Ippona aveva scritto che la cultura classica è indispensabile alla conoscenza delle sacre scritture. Rispetto al mondo bizantino e a quello africano le aree europee incluse nella pars Occidentis dell'impero rimasero piuttosto estranee alle grandi dispute teologiche sorte intorno al monofisismo e al donatismo. Solo a cavallo tra il IV e il V secolo sorse una controversia intorno alle dottrine di un colto Monaco irlandese di nome Pelagio. Pelagio cominciò a sostenere le sue tesi a Roma sul finire del IV secolo: egli respingeva il concetto del peccato originale come vincolo per la natura umana che gli sembrava compromettere il principio del libero arbitrio. Le sue dottrine furono condannate e il principale oppositore del pelagianesimo fu Agostino, fautore invece della << predestinazione>> e quindi della dipendenza dell'uomo della grazia divina: neppure le sue posizioni su questo punto furono mai del tutto accettate dalla chiesa, ma certamente il suo dissenso ebbe un peso nella condanna di Pelagio e di quanti lo avevano seguito. La volontà di preservare le memorie antiche di Roma cominciò ad attenuarsi già a partire dal VI secolo. Il papato mirava ormai a cristianizzare la città anche sotto il profilo della sua immagine architettonica: d'altra parte, l’epoca imperiale non rappresentava più un richiamo culturale, poiché le elites e gli altri ceti erano alle prese con realtà del tutto nuove. La tradizione attribuisce a papa Gregorio I Magno diversi attacchi o riconversioni dei monumenti dell’antico paganesimo (es la distruzione della biblioteca del tempio di Apollo sul Palatino). I progetti di Gregorio I trovarono piena applicazione con i pontificati successivi. 3 La città santa Nel Tardoantico il cristianesimo diffuse il culto dei martiri, che divenne uno dei fondamenti della nuova fede. Più tardi il culto dei santi, non solo martiri ma anche <<confessori>>, coloro che professavano la fede dimostrando virtù eroiche. I luoghi di sepoltura e le reliquie dei santi divennero oggetto di culto. A Roma nel primissimo medioevo si andò organizzando un’immagine irripetibile di città-santuario: il culto e la vita sacrale si incentravano ormai nelle zone corrispondenti alle necropoli extramurarie e in genere a quei luoghi nei quali i martiri erano stati uccisi o i loro corpi sepolti. Qui nacquero presto importanti basiliche, le quali si disposero ad anello circolare attorno all’antica città chiusa nelle mura aureliane proprio in quanto i corpi dei santi non venivano traslati in città: si evitava rigorosamente di profanare il loro riposo. Questo rispetto confermò a Roma il suo ruolo di caput mundi, sia pur trasferito dalla sacralità del ruolo imperiale-politico a quella del ruolo martirologico-santorale. Soltanto a partire dalla prima metà del VII secolo, forse per non contrastare oltre una pratica già diffusa altrove, ma soprattutto perché oltre le mura si viveva in un clima di pesante insicurezza, i papi permisero che alcuni corpi di martiri venissero traslati all’interno della cinta muraria romana. Paolo I, fra il 757 e 767, si pose il problema dei molti corpi di santi che giacevano nei cimiteri suburbani ormai esposti a profanazioni oppure trascurati, e così avviò una politica di translationes sistematiche in città, a causa delle quali molte catacombe cominciarono a essere abbandonate. In Occidente, poiché i papi non permettevano l’asporto e la circolazione di parti dei corpi di santi sotto la loro giurisdizione, le reliquie messe in circolazione dalla Chiesa erano da “contatto”: cioè oggetti ordinari, come strisce di stoffa, che venivano accostate alla reliquia corporea. La virtus della reliquia si traduceva in un dato fisico in cui vi era la presenza del divino. Le cose cominciarono a cambiare dal VII secolo: principi e vescovi, soprattutto delle nazioni germaniche “primogenite” della chiesa di Roma, i franchi e i burgundi, ricevettero reliquie dai vescovi romani già dalla fine del VI secolo. Il concedere una reliquia significava consentire la fondazione di una nuova chiesa e sottolineava un legame di affiliazione. In tal modo le reliquie divenivano davvero il veicolo dell’autorità e del prestigio della Chiesa romana sulle giovani Chiese dei regni romano- barbarici. 4 Ascetismo e monachesimo Accanto alla capillare organizzazione in provincie, diocesi e parrocchie, il cristianesimo seppe esprimere un altro modo di vivere e di configurare le proprie esperienze comunitarie: il monachesimo. Per comprendere il movimento monastico, bisogna tener presente che la religione cristiana si era sviluppata nella continua dialettica fra due aspirazioni: da una parte quella la fuga dal mondo per rifugiarsi nel divino modello di Gesù, che insegnava a disprezzare i beni terreni e soprattutto il potere e la ricchezza; dall'altra quella all'amore per il prossimo, alla carità, che invece induceva a impegnarsi nella vita di quaggiù. Espressione di questo impegno, nei primi secoli, erano stati i martiri, i quali avevano offerto la loro vita per essere testimoni del Cristo e quindi salvare la vita eterna dei fratelli. Espressione dell'istanza di umiliazione della vita terrena furono invece i cosiddetti << monaci>> i quali accettarono di volgere le spalle alle lusinghe e ai piaceri del mondo per darsi alla contemplazione. Monaco è una parola derivante dal greco mònos, <<solo>>, cioè << solitario>>. Il fenomeno della ricerca della solitudine non è nuovo nella storia, induismo e buddismo hanno entrambi, ad esempio, una lunga e illustre tradizione monastica. Anche per i cristiani il monachesimo è venuto dall'oriente. Esso si sviluppò anzitutto nell’Egitto del III secolo, dal quale si diffuse in Siria e in Palestina: si trattava di monachesimo <<anacoretico>>, cioè eremitico, fatto di individui isolati che vivevano nel deserto dandosi alla preghiera, al digiuno e a pratiche ascetiche. Alcuni anacoreti non abbandonavano del tutto le città, ma trovavano il modo di isolarsi comunque dal contesto sociale. La chiesa nascente non vedeva tuttavia di buon occhio queste esperienze, che inasprivano i rapporti fra cristianesimo e società e davano spesso luogo a incontrollabili deviazioni dottrinali o a stravaganze comportamentali. Essa favorì per contro il monachesimo sotto la forma detta <<cenobitica>>, cioè comunitaria, il cui primo grande modello si può considerare quello di San Pacomio, che raccolse nel deserto della tebaide una comunità di discepoli. Un altro importante centro monastico fu quello organizzato da San Basilio il Grande in Cappadocia. Il carattere pratico, pragmatico, dell'esperienza cenobitica fu accolto in Occidente con maggior favore. La società occidentale, specie dopo la rovina dell'impero, era sconvolta dalle incursioni barbariche, minacciata dalla guerra, attanagliata dalle crisi economiche; le città non erano più sicure e anche nelle campagne si tendeva a vivere sempre più arroccati nelle villae, in fortezze-fattorie. V’era bisogno di riorganizzare non solo i ritmi dell'esistenza, ma anche la produzione. A tutto questo avrebbe provveduto il monachesimo benedettino. 5 Benedetto da Norcia e il monachesimo latino Benedetto da Norcia è stato proclamato dalla Chiesa cattolica patrono d’Europa in quanto reputato, per il cristianesimo latino, un pater patriae. Negli anni del V-IX secolo, che hanno coinciso con una vasta e generale depressione continentale, i monasteri benedettini tessero sull’Europa la loro tela organizzativa, culturale, riqualificando l’agricoltura e la produzione, salvaguardando i monumenti del pensiero antico, fornendo sicurezza e nei limiti del possibile pace alle plebi disorientate del tempo. Non è un caso che Benedetto abbia avuto un biografo d’eccezione come Gregorio Magno. È difatti ai Dialoghi di Gregorio che dobbiamo il ritratto di Benedetto: un uomo pio, un taumaturgo dai portentosi miracoli, ma soprattutto un padre amoroso del suo gregge di monaci e un organizzatore energico e sollecito. Quello di Benedetto è un monachesimo tipicamente romano, in quanto dell’esperienza monastica non esalta il lato mistico, bensì l’equilibrio fra vita dello spirito e vita quotidiana e il sereno, fermo impegno nel risolvere una quantità di problemi concreti. Il suo monachesimo costituisce una risposta severa, disciplinata tanto da esser quasi militare, alle necessità di un momento di crisi. Benedetto proveniva da una famiglia agiata. Nato a Norcia nel 480, era arrivato ventenne in una Roma che non era più la capitale dell’impero, ma una città enorme, disordinata, abitata da una plebe oziosa e facinorosa che un’aristocrazia politicamente disordinata teneva buona con giochi circensi ed elargizioni di derrate alimentari. Disgustato da questo clima, Benedetto si ritirò a Subiaco per darsi a una dura esperienza eremitica. Lì raccolse i suoi primi discepoli, e presto il luogo si arricchì di una costellazione di piccoli monasteri. Costretto dall’ostilità del clero locale ad abbandonare Subiaco, Benedetto si traferì nel 529 a Montecassino, dove su una vetta già consacrata a un santuario pagano fondò il monastero. Fu a Montecassino che Benedetto redasse la Regula, organizzata in 73 capitoli e in cui al magistero dei padri storici del cenobitismo cristiano si aggiungeva il contributo della sua esperienza. Centrale nella Regula è l’opus Dei, la celebrazione corale dell’uffizio; ma importanti sono inoltre la messa in comune e, poi, la lettura sacra e la preghiera privata. Accanto a tutto ciò Benedetto, per vincere il <<nemico dell’anima>>, l’ozio, prescrive il lavoro manuale. In quei tempi tristissimi, dove l’Italia era tormentata dalla guerra greco-gotica- il monastero benedettino diventa un centro di produzione, un modello di cultura e un rifugio. Alcune norme fondamentali presiedono alla vita monastica benedettina: - La stabilitus loci, l’obbligo di risiedere per tutta la vita in un medesimo monastero; - La conversatio, cioè la buona condotta morale, la pietà reciproca, l’obbedienza all’abate da parte della famiglia del cenobio. Benedetto morì intorno al 547, mentre ormai la sua regola si stava diffondendo in tutto l’Occidente. Il suo monastero, più volte distrutto è stato ricostruito ed è divenuto il simbolo della fratellanza di tutti i popoli europei. Il monastero benedettino era destinato a divenire, in quei tempi di sconvolgimenti e d’insicurezza, una sorta di oasi di pace. Nelle biblioteche dei monasteri si custodivano i testi dell’antichità, mentre negli annessi scriptoria i manoscritti venivano copiati per essere poi diffusi nelle abbazie sorelle, sparse in tutta Europa. In questo modo il monachesimo cristiano ha, fra i molti suoi meriti, quello di aver salvato e tramandato la cultura classica. Sull’esempio di Montecassino, sorsero presto atri monasteri che si conformarono alla regola benedettina accompagnata da alcune norme specifiche dette <<cassinesi>>. I monasteri affiliati a Montecassino furono detti benedettini. Nel tempo vennero fondati nuovi monasteri che alla regola di 8 Missioni e cristianizzazione L'azione dei missionari che si dedicarono all’evangelizzazione dell’Europa fra i secoli VI e VIII non fu promossa da un unico centro: contribuirono a quest’opera il papato ma anche singoli monasteri e vescovati e, a partire dalla fine dell’VIII secolo, alcune dinastie regnanti. Cominciò Gregorio Magno, il quale inviò nell’Inghilterra invasa dagli angli, dai sassoni, dai frisoni e dagli iuti quaranta monaci del monastero benedettino romano che egli stesso aveva fondato nelle sue proprietà di famiglia sul colle Celio; essi erano guidati da Agostino. Sappiamo che giunto sull'isola, Agostino domandò appoggio allo iuto Ethelbert, re di Cantia (Kent), la cui moglie era già cristiana. Il sovrano non si convertì, ma concesse ai monaci di insediarsi nell’attuale città di Canterbury; da lì partirono le missioni evangelizzatrici rivolte a tutta la regione. Poco dopo l’insediamento a Canterbury Agostino, proclamato vescovo, fondò la prima chiesa. Dalla Cantia Agostino estese all’intera Anglia l’opera di cristianizzazione, costantemente supportato da papa Gregorio, il quale scrisse personalmente al re Ethelbert, chiedendogli la distruzione dei templi e degli idoli pagani ancora venerati dalla sua gente. Tuttavia, un tale risultato non si ottenne prima del 640, quando il cristiano Earconbert ordinò al suo popolo l’abbandono del paganesimo e l’annientamento dei simulacri e dei templi. Nella seconda metà del VII secolo, la cristianizzazione degli angli e dei sassoni fece molti passi in avanti. Canterbury rimase il centro religioso più importante del paese, ma furono fondate diverse diocesi, fra le quali si affermarono per autorevolezza quelle di Londra e di Eboracum (York). Proprio a Eboracum si distinse nel VII secolo un altro grande evangelizzatore, il vescovo Paolino, che Beda dice particolarmente attivo nella distruzione delle vestigia materiali pagane e nella fondazione di chiese. Nella sua Historia egli narra delle dispute che opposero Paolino al sacerdote pagano Coifi, che si conclusero con il trionfo del vescovo, il quale convinse non solo il re Edwin a dichiarare la fine degli antichi culti, ma addirittura lo stesso Coifi. Quasi in concorrenza con le missioni inviate da Roma, anche i monaci irlandesi si mossero alla volta di altre terre da evangelizzare. La Caledonia (Scozia) era rimasta immune dall'influenza dell'impero romano. I primi cristiani, dinanzi ai pagani, avevano sempre mostrato una rigorosa severità, rifiutando qualunque concessione ai loro riti. Ma ora i pontefici comprendevano che la conversione non poteva coincidere con una rapida cancellazione di secolari tradizioni e suggerivano semmai una linea di incontro, di dialogo. Dopo la conversione dei regni anglosassoni, la conquista cristiana si spostò a nord e ad est del regno dei franchi. Con l'appoggio del << maestro di palazzo>> Pipino di Heristal, il monaco anglo Willibrord giunse nel 690 in Frisia e divenne arcivescovo di Utrecht. Da lì, la sua attività di missionario si volse alle Fiandre e al nord della Germania. Intanto un nobile sassone del Wessex, Wynfrith volle convertire i suoi fratelli di sangue ancora pagani, i sassoni di Germania. Famoso per la sua cultura, egli abbandonò la sua abbazia inglese e si recò a più riprese in Frisia e a Roma, dove papa Gregorio ii cambiò il suo nome in quello di Bonifacio. Egli si recò prima in Turingia, poi in Frisia e, dopo essere stato consacrato vescovo, in Assia. Fra Assia e Turingia convertì molti pagani e chiamò altri monaci dall’Inghilterra. Grazie a lui, un notevole numero di abbazie fu fondato e la Germania acquistò una fisionomia di paese definitivamente cristiano. Facendo la spola fra queste terre e Roma egli fondò nel sud del paese le sedi vescovili di Passau, Ratisbona, Frisinga e Strasburgo, e nel 740 tenne il primo sinodo della Chiesa tedesca. Stabilmente organizzata la Germania meridionale, Bonifacio torno verso l’Assia e la Turingia: fu lì che nel 744 voi fondò la famosa abbazia di Fulda, destinata a divenire il vero e proprio centro della cultura cristiana tedesca. Tra 742 e 747, su richiesta dei maestri di palazzo Pipino il Breve e Carlomanno, egli passava a riformare la chiesa franca; infine, veniva elevato al seggio vescovile di Colonia e divenne arcivescovo di Magonza. Fu lui a conferire l’unzione regale a Pipino. Fatto ciò, Bonifacio si dette di nuovo all’attività missionaria. Rientrato in Frisia, vi fu martirizzato nel 754 con un gruppo di suoi collaboratori. È difficile dire con esattezza di che tipo fosse il cristianesimo al quale i popoli altomedievali si convertirono. Era difficile convertire i germani, così com’era la difficile far capir loro la differenza tra miracolo e magia. Rimasero così nell’Europa alto medievale delle << sacche>> di pagani solo superficialmente cristiani, che rivestirono della nuova religione antiche usanze antichi riti. CAPITOLO 5 L’Oriente <<bizantino>> 1 La nuova Roma Costantinopoli venne fondata in pieno IV secolo sull’impianto del precedente centro urbano di Bisanzio. Da esso deriva il nome di quella civiltà da noi chiamata “bizantina”. A Bisanzio l’imperatore traeva la sua autorità dalla tradizione romana e dal suo ruolo di sacra persona che con il cristianesimo non poteva più venir concepito nel senso divino, come invece accadde al tempo della “monarchia sacra” dei tempi pagani. Veniva quindi inteso in termini vicariali: il sovrano erano il rappresentante del Cristo sulla terra e il suo simbolo vivente, garante della vita e della sicurezza della Chiesa; i grandi concili di Efeso (431, 449), e di Calcedonia (451), oltre a rappresentare fasi fondamentali nella definizione dell’ortodossia (letteralmente della <<giusta fede>>) erano anche momenti nei quali la funzione protettrice e arbitrale dell’imperatore sui capi della chiesa veniva affermata. Inoltre, nella cerimonia che segnava l’ascesa al trono del nuovo sovrano erano presenti anche elementi religiosi. Egli era il successore sia degli imperatori romani che dei re d’Israele; e l’impero romano era a sua volta nuova Israele. La nuova capitale doveva rispecchiare questa sacralità e rivaleggiare in grandezza con l’antica Roma. I lavori per l’edificazione della nuova città imperiale sulla vecchia Bisanzio, voluti da Costantino, durarono pochi anni e l’11 maggio del 330 la città aveva conosciuto la cerimonia della dedicatio. La Chronographia del greco-siriano Giovanni Malala ci informa che Costantino avrebbe segretamente fatto trasportare da Roma il Palladium, l’antica venerabile effige lignea che Enea avrebbe trasportato da Troia nel Lazio. L’imperatore avrebbe fatto seppellire quel simulacro sotto la colonna al culmine della quale era stata collocata la sua statua. Forse una leggenda, ma comunque significativa. Il nucleo urbano della Nuova Roma non tardò a valicare le mura di Costantino: già con i primi del V secolo, si rivelò esposto al pericolo delle sempre più frequenti incursioni barbariche che tormentavano l’area balcanico-danubiana. Si rese necessaria quindi una nuova cerchia che inglobasse i quartieri del nordovest: le mura fatte costruire da Teodosio II delimitavano una superficie cittadina che rispetto ai tempi di Costantino erano quasi raddoppiate. La capitale, ingrandita, aveva ormai bisogno di riserve idriche per le quali non poteva certo più bastare l’acquedotto di Valente, edificato per alimentare la vecchia Bisanzio. Un complesso sistema di ninfei e di serbatoi d’acqua alimentati da rami d’acquedotto e da cunicoli sotterranei collegati a fontane distribuiva in città l’acqua proveniente dalle foreste in quota che occupavano la vasta area a nord e a ovest del Corno d’Oro; l’acqua piovana veniva conservata in cisterne aperte, ma ve n’erano anche di sotterranee. Tra esse, è celebre la Cisterna Basilica edificata da Costatino presso Santa Sofia e ingrandita da Giustiniano. Nel corso del tempo sorsero edifici importantissimi, tra cui ricorderemo il Gran Palazzo o Sacro palazzo (in realtà un insieme di palazzi, padiglioni, cappelle) nei pressi dell’Ippodromo e di Santa Sofia, residenza degli imperatori bizantini e cuore dell’amministrazione dal IV secolo al 1081: fu per quasi 800 anni il cuore imperiale, demolito definitivamente nel 1453. 2 La Pars Orientis dell’impero Non diversamente dal limes renano a occidente, anche penisola balcano-danubiana, ampia area attraverso la quale passava dalla fine del IV secolo d.C. il confine tra pars orientis e pars occidentis dell’impero, fu tra VI e IX secolo interessata dalle successive ondate di popoli nomadi provenienti dalle steppe dell’asia che, dopo aver sospinto verso ovest le genti germaniche ivi precedentemente insediate, si mischiarono e si sovrapposero fra loro. Erano popolazioni di stirpe in parte uraloaltaica che parlavano lingue comprese nell’ampio gruppo degli idiomi ugrofinnici; oppure genti distinte dai loro idiomi a loro volta detti slavi, appartenenti a un ramo del gruppo linguistico indoeuropeo. Nonostante la profonda diversità tra i ceppi linguistici indoeuropeo e ugroffinico, e anche tra gli almeno originari caratteri somatici delle tribù che usavano tali idiomi, le culture delle quali esse erano portatrici s’intrecciarono profondamente tra loro. Il primo popolo a insediarsi in modo consistente in un’area balcano-danubiana tra queste genti fu quello degli avari, uraloaltaici, originari della Mongolia. Giunti al loro massimo splendore con il kagan (capo) Bajan e alleatisi con i persiani, parteciparono nel 626 all’assedio di Costantinopoli, mantenendo saldamente sotto il proprio controllo una vasta area dell’Europa centrale e spingendosi talora in profondità nel regno franco. Dopo il fallimento dell’assedio alla capitale dell’impero, essi persero il controllo anche di alcune aree periferiche nell’area danubiana e nella valle della Drava. Un altro popolo di origine uraloaltaica, i bulgari, si affacciava nel medesimo periodo nell’area balcanica all’indomani della disgregazione di un vasto dominio creatosi sotto la guida del capo Kubrat. Il tentativo di farne dei confederati posti a presidio del confine orientale compiuto da Costante II aveva consentito il loro stanziamento nell’attuale Bessarabia e nella Dobrugia. Ma l’atteggiamento aggressivo mostrato nei confronti dello stesso impero li trasformò presto in una minaccia contro la quale l’imperatore Costantino IV Pogonato si sarebbe infelicemente scontrato: il tentativo di accerchiamento compiuto dalle truppe imperiali a nord delle foci del Danubio ebbe esito infelice, giustificando la loro definitiva invasione delle terre poste tra il fiume e i Balcani e l’assoggettamento da parte loro delle popolazioni slave o slavizzate che là soggiornavano. Temibili per la loro cavalleria (come tutti i popoli della steppa) essi confederarono le popolazioni assoggettate, che andarono a comporre la fanteria della loro forte compagine militare, agli ordini di un khan (<<principe>>, <<capo>>). La penisola balcanica andava così perdendo i suoi caratteri greci, acquisendo invece sempre più quelli slavi. Per tutto il V secolo gli imperatori d’Oriente cercarono di condurre una politica di buon vicinato con i regni romano- barbarici e, allo stesso tempo, li incoraggiò a volgersi verso Occidente mentre si occupava del consolidamento delle proprie posizioni in Asia. Restava una certa importanza dei germani sotto il profilo politico, ma l’imperatore Leone I riuscì ad affrancarsene facendo largo uso del contributo di una popolazione guerriera dell’Anatolia, gli isauri. Ciò condusse sul trono un principe isaurico, che assunse il nome di Zenone e al quale Odoacre, ormai padrone della pars Occidentis, inviò nel 476 le insegne imperiali accompagnandole dalla giustificazione che <<un solo imperatore bastava per tutto l’impero>>. Egli giunse in tal modo di nuovo all’unificazione almeno formale dell’impero, che legittimò investendo Odoacre della funzione proconsolare di patricius. Tanto Zenone quanto il successore Anastasio I furono coinvolti da dispute di politica religiosa intorno alla dottrina monofisita. L’ascesa al potere di Giustino significò la dura persecuzione di ariani e monofisiti, provocando la reazione del re ostrogoto Teodorico, ariano, il quale per ritorsione avviò una dura persecuzione nei confronti dei cristiani all’interno del suo regno. Nel 527, poco prima di venire a mancare, Giustino si associò nella funzione imperiale il nipote Giustiniano, che impresse alla politica romano-orientale una decisa sterzata secondo un ambizioso programma chiaramente indirizzato a restaurare l’unità territoriale dell’Impero Romano e quindi a spostare nuovamente verso occidente l’asse politico del mondo. 3 Giustiniano il legislatore Per la nuova capitale era necessario assicurarsi un regime di pace alla frontiera orientale: e perciò Giustiniano. Dopo un primo e non del tutto brillante conflitto con la Persia, stipulò con il regno avversario una pace <<perpetua>> che gli consentì di volgersi alla riconquista dell’Occidente. Fra 533 e 534 un esercito romano di pur modesta entità, appoggiato tuttavia a un’efficiente flotta, sbaragliava il regno vandalo e negli anni successivi ristabiliva il potere imperiale sull’Africa settentrionale. Nel mentre a Costantinopoli era scoppiata una rivolta che venne detta “della Nika” dal grido di battaglia degli insorti (significa “vinci”). L’insurrezione era cominciata da uno scontro tra i fautori delle due fazioni nelle gare circensi, i <<verdi>> favoriti dalla plebe e gli <<azzurri>> considerati la squadra degli aristocratici, ma in realtà pare che il tumulto permaneva il pericolo determinato dalle turbolenze di avari e slavi, l’offensiva persiana riprendeva all’inizio del VII secolo con una serie praticamente ininterrotta di guerre durante la quale riuscirono a conquistare e radere al suolo Gerusalemme (614). La riscossa romana si ebbe con l’imperatore Eraclio che riuscì a battere i persiani. Nel 628 l’imperatore riuscì entrare nella Città Santa da vincitore e ad occupare Ctesifonte, la capitale nemica. L’opera di Eraclio fu molto importante. Egli riorganizzò l’amministrazione centrale in logotesie alle dipendenze di funzionari detti logoteti e il territorio dell’impero in 32 distretti, i temi, governati da uno stratigos con poteri civili e militari; organizzò inoltre una sorta di milizia territoriale di soldati-agricoltori, gli stratiotai, ogni stratiota riceveva un appezzamento di terra trasmissibile ereditariamente, dal quale doveva ricavare i mezzi per sostenersi e per controllare con le armi il territorio affidatogli. Nel 641, alla morte di Eraclio, l’impero parlava greco nelle sue istituzioni e nel suo linguaggio comune; Eraclio stesso aveva sostituito il titolo latino d’imperator con quello greco di basileus. Si può dire che verso la metà del VII secolo maturò sostanzialmente il fenomeno del definitivo sopravvento della lingua greca su quella latina in tutto il territorio della pars Orientis dell’impero. Da quel momento, per convenzione, indichiamo quello fino ad allora definito <<impero romano d’Oriente>> con l’espressione <<impero bizantino>>. CAPITOLO 6 Nascita e diffusione dell’Islam 1 La terra degli arabi Un nuovo esercizio cronologico ci viene richiesto: un <<balzo indietro>> fino all’antichità ellenistico-romana, indispensabile per ritessere sino dalle fondamenta il discorso necessario a introdurci a un grande argomento della storia medievale ma anche moderna e contemporanea: quello della civiltà musulmana, nata nella penisola arabica del VII secolo d.C. da oltre un millennio prima del Cristo l’area corrispondente alla penisola arabica ha avuto in sorte un destino particolare. Arida e desertica, essa era prevalentemente abitata da popolazioni nomadi che, distinti in tribù, allevavano dromedari, pecore e capre spostandosi di oasi in oasi. Dalla parola araba che li designa, noi conosciamo questi nomadi col nome di <<beduini>>. I beduini, gelosi della loro libertà e coinvolti di continuo in guerre tribali originate da vendette a causa di reciproche razzie alimentari o ratti di donne, distinguevano le loro tribù in gruppi settentrionali (nizariti, qaisiti), e meridionali (yemeniti), che tuttavia traevano il loro principale senso di unità da una stessa lingua, di ceppo <<semitico>> che disponeva anche di una ricca tradizione poetica orale. Oltre che di pastorizia, allevamento e di razzie, i beduini vivevano anche di commercio. Il che costituiva un paradosso: la penisola arabica era distinta in aree ciascuna delle quali era sorvegliata da una tribù che riconosceva soltanto l’autorità del proprio sceicco, liberamente eletto e riconosciuto all’interno del gruppo degli anziani, e che gestiva e garantiva il passaggio delle carovane del proprio territorio. Al tempo stesso, le continue lotte tribali facevano sì che non vi fosse praticamente alcun territorio sicuro nelle regioni abitate dagli arabi. Tuttavia, la penisola era l’area di convergenza di una serie di cammini terrestri e di rotte marittime che collegavano terre e mari importantissimi per le merci che li attraversavano e i commerci che fino dal III millennio a.C. vi avevano luogo. Dall’India e dal sud-est asiatico giungevano le merci preziose (gli aromi) che approdavano nel sud della penisola e quindi lungo la costa sud-occidentale di essa giungevano ai centri siro- mesopotamici e ai porti mediterranei. La pista mercantile che quelle merci attraversavano veniva indicata con il nome di «Via dell'Incenso», o «delle Spezie»>. Lungo la Via dell'Incenso, nelle rare oasi che si addensavano attorno a sorgenti d'acqua, sorsero favolose città carovaniere: Petra Palmira, Baalbek, Jerash, Bosra, che a parte un'intensa ma ristretta attività agricola dovevano al commercio la loro leggendaria prosperità. L'equilibrio millenario di quest'area era affidato ai rapporti fra i sedentari abitanti delle città carovaniere (gli <<idumei>> o «<edomiti», i «<moabiti»>, i <<sabei»>, i «<nabatei») e le tribù nomadi del deserto, i già citati beduini. Si è parlato di un inspiegabile miracolo musulmano»: come ha potuto una fede che ha rivoluzionato» il mondo, nascere in un ambiente non solo tanto inospitale, ma soprattutto così periferico? La presenza della Via dell'Incenso e delle città carovaniere può bastare a spiegar tutto questo? Senza dubbio si: a patto di tener presente che la perifericità della penisola arabica era accompagnata da un altro connotato. Essa era la cerniera che univa i tre grandi imperi euro-afro-asiatici dell'antichità. L’Impero romano d'Oriente aveva continuato fino al VI secolo la politica imperiale romana di egemonia sul Vicino Oriente fino all'Eufrate. Ma esso doveva far i conti con un concorrente e avversario formidabile: l'impero persiano della dinastia sasanide. Che nel corso del III secolo si era sostituito a quello parto degli arsacidi. Nell'intento di arginare i persiani, i bizantini avevano favorito la nascita di un regno arabo soggetto alla dinastia dei ghassanidi, cristiani monofisiti: esso comprendeva le città di Petra e di Palmira. I persiani avevano invece favorito il sorgere di un altro regno arabo, quello dei lakhmidi, cristiani nestoriani, con centro nella città di al-Hira (nell'attuale Iraq). Nel VI secolo, intanto, il regno etiope di Aksum, alleato prezioso di Bisanzio e centro di una grande cultura cristiano-monofisita, si era impadronito dello Yemen: e solo alla fine del secolo i persiani riuscirono a riconquistarlo stabilendovi la loro egemonia. La guerra etiopico-persiana nello Yemen compromise però gravemente l'economia yemenita, rovinando il sistema di dighe e canali ai quali era affidata la fertilità straordinaria che aveva loro meritato l'appellativo latino di Arabia felix; ciò sconvolse anche il modo di vita dei beduini, abituati a ricorrere alle oasi yemenite per procurarsi cibi freschi e derrate agricole. La riduzione della superficie coltivabile costrinse anche molti yemeniti a emigrare verso il nord, il che fece crescere d'importanza le città carovaniere arabe site a metà strada tra lo Yemen e Damasco: ad esempio La Mecca o Yatrib. Dagli antichi regni moabiti, edomiti e nabatei, gli arabi avevano ereditato una serie di riti e di culti a carattere soprattutto astrale e una quantità di figure mitologiche, specie femminili, prossime alle divinità babilonesi o fenice. Ma essi, e in modo speciale i beduini, avevano sentito profondamente anche l'influenza del popolo che fra tutti era rispetto a loro il più affine: quello ebraico. Si può dire che nel VI secolo d.C. la maggioranza degli arabi professasse una sorta di monoteismo imperfetto tecnicamente definibile <<enoteismo>>. La loro fede era nel Dio unico della Bibbia che era conosciuta solo per tradizione orale a quanto pare; ma accanto al suo culto conoscevano e osservavano ancora vari culti idolatrici consacrati a dèi minori fra cui erano fondamentali quelli dei bethelim, cioè delle pietre d’origine celeste (erano di solito meteoriti) che si credevano <<sede della forza di Dio>>. Il bethel più famoso era la Pietra Nera che si conservava alla Mecca: si diceva che essa fosse stata portata dall’arcangelo Gabriele e che, inizialmente bianca, si fosse annerita a causa dei peccati degli uomini. Al santuario della Kaaba, dove era custodita, convenivano periodicamente le varie tribù beduine: questo contribuiva a far della Mecca un centro mercantile ancora più ricco e prospero. Il santuario non aveva veri e propri sacerdoti: esistevano tuttavia i kahin (<<veggenti>>, <<indovini>>). Accanto ad Allah, almeno nell’Arabia centrale erano venerate le tre divinità femminili dette banat Allah: al-Uzza, Allat, Manat. Ancora al di sotto si poneva Iblis identificato con Shaitan, il diavolo, e i jinn, esseri demoniaci non sempre e non necessariamente malvagi che non erano propriamente spiriti ma creature fatte di fuoco sottile. Questo stato di monoteismo imperfetto, accompagnato da credenze d'origine idolatrica, viene chiamato dai musulmani jahiliyya, «ignoranza» termine che qualifica la condizione del mondo arabo preislamico. Ma non c'era solo il politeismo: tra le genti della penisola arabica era moderatamente diffuso il cristianesimo: gli etiopi vi avevano affermato il monofisismo; sotto l'egida persiana, invece, v'era stata nel VI secolo una notevole avanzata del nestorianesimo. Per quanto i cristiani non fossero troppo numerosi, essi esercitavano un discreto ascendente sui mercanti arabi nomadi, che a causa dei loro affari visitavano regioni nelle quali i cristiani erano largamente rappresentati: la Siria, la Palestina, l'Iraq, l'Egitto. Esistevano anche intere tribù beduine cristiane. Molte erano altresì le comunità ebraiche nelle città, compresa la Mecca e Yatrib: erano costituite in genere di mercanti, di artigiani e di agricoltori, soprattutto di coltivatori della vite; ma esistevano anche gruppi di ebrei nomadi. Si può in sintesi dire che cristianesimo ed ebraismo erano ben rappresentati nelle città carovaniere, fra la popolazione sedentaria, mentre i beduini (pur condividendo grosso modo la fede nel Dio d'Abramo) erano dediti a culti idolatrici e superstiziosi. Tuttavia, tra loro molti erano gli hanif, «uomini di Dio» che aspiravano a una religiosità più alta e raffinata ed erano sostenitori di un rigoroso monoteismo. 2 Muhammad: la rivelazione, la predicazione, l’Egira, il trionfo Verso il 610 la vita della Mecca fu sconvolta dall'inizio della predicazione di Muhammad, un membro quarantenne della più importante famiglia cittadina, i Banu Quraysh. Di Muhammad si sa veramente poco, e quel poco è costituito soprattutto dalle notizie del Corano e dalla vita agiografica detta Sira, redatta in due riprese parecchi decenni dopo la sua morte. La stessa data della sua nascita, il 570, si ricava da una congettura: poiché le sue prime esperienze mistiche risalgono a circa il 610, e sappiamo che allora aveva circa quarant'anni, se ne è approssimativamente dedotto l'anno in cui egli vide la luce. Più sicuro l'anno della morte, 632, dieci anni dopo l'Egira. Muhammad visse l'infanzia e la giovinezza sotto la tutela dello zio Abu Talib: fu pastore e cammelliere; viaggiò le carovane spingendosi a nord fino alla città di Bosra, dove secondo una leggenda piuttosto tardiva un monaco cristiano-monofisita siriano, Bahira, lo avrebbe identificato in seguito a una visione notturna come il Profeta di Dio annunziato dalla Bibbia. La sua vita migliorò verso il 595 quando egli sposò Khadigia, una signora due volte vedova e di circa quindici anni più anziana di lui che era una facoltosa titolare d'un'impresa carovaniera. Egli era stato a lungo procuratore della donna, al servizio della quale aveva molto viaggiato. Da Khadigia, Muhammad ebbe la figlia prediletta, Fatima. Un quindicennio circa dopo il matrimonio, egli avrebbe cominciato a manifestare i primi segni della sua vocazione: lunghi ritiri spirituali, visioni angeliche e voci che gli parlavano. È il quadro della scoperta della vocazione profetica secondo la stessa Bibbia. Le manifestazioni divine si accompagnavano a febbre, tremiti, sintomi fisici simili a convulsioni e a crisi epilettiche. Usava ritirarsi in preghiera su una modesta altura prossima alla Mecca, il monte Hira: là, in una caverna, una notte del 611 l’arcangelo Gabriele lo svegliò dal sonno per salutarlo in modo simile a come aveva fatto secondo il Vangelo con Maria di Nazareth: <<Tu sei l'Inviato di Allah, il Suo Profeta!». L'arcangelo gli presentò un libro avvolto in un feltro ricamato e lo obbligò a leggere. Da allora, il monte Hira fu detto «Monte della Luce>>. Tutto ciò accadeva, come dicono i musulmani, «nella notte del Destino». Muhammad rivelò dapprima queste sue esperienze solo a pochi intimi, fra cui il cugino Ali e i congiunti Othman e Abu Bakr, che sarebbero più tardi stati suoi vicari e successori («califfi»). Iniziò solo verso la fine del secondo decennio del VII secolo la sua predicazione in pubblico, basata essenzialmente sulla rivelazione monoteistica: egli proclamò la sua fede in un solo Dio dal Quale si proclamava «inviato>> (rasul) per proseguire e concludere il messaggio dei profeti, da quelli biblici a Gesù. La sua predicazione, caratterizzata all'inizio da un duro tono apocalittico e da una ferma opposizione alle tradizioni idolatriche che costituivano uno dei motivi della prosperità della Mecca, fu violentemente osteggiata dall'aristocrazia mercantile della Mecca che si arricchiva sul pellegrinaggio alla pietra della Kaaba. La morte dello zio Abu Talib e della moglie Khadigia, frattanto, lo lasciarono scoperto sul piano delle protezioni influenti e ne affrettarono la decisione di abbandonare la città. Perseguitato dai meccani, Muhammad si rifugiò, nel 622, nella città carovaniera di Yatrib, dove il suo messaggio fu accettato. Fu questa la Hijra, «migrazione», termine italianizzato in <<Egira>>: il giorno di tale evento è tradizionalmente indicato col 16 luglio. Da lì cominciò davvero la sua attività di predicatore, profeta e conquistatore. Il 622, sarebbe divenuto l'anno dell'inizio della nuova era per tutti i paesi musulmani. La nuova fede impose anche un sistema calendariale nuovo, fondato su un anno di 354 giorni distinti in dodici mesi lunari. In Yatrib il Profeta istituì rapporti di fratellanza tra i muhajirun (i migranti che lo avevano seguito dalla Mecca) e gli ansar (i nuovi alleati, nella città che egli aveva eletto come sua nuova dimora) e sposò Aisha. Yatrib fu da allora in poi detta al-Madina: da lì partì la conquista, prima dell'intera penisola Arabica con la Mecca stessa, - Shanada: la <<testimonianza>>, cioè la <<professione di fede>>. - Salat: la preghiera rituale da compiersi cinque volte al giorno, in tempi annunziati dall’adhan (l’appello alla preghiera) e secondo una scansione precisa di gesti e di formule da compiersi e recitarsi col volto rivolto alla Kaaba. - Haj: il pellegrinaggio alla Mecca, ossia la visita ai Luoghi Santi meccani che in linea di principio il buon musulmano deve effettuare almeno una volta nella vita e che si svolge in mesi a ciò consacrati e secondo un rituale ben regolato. - Sawm: il digiuno che si osserva nel non mese dell’anno lunare, il ramadan, durante il quale fu rivelato il Corano: in tale mese sono vietati l’assunzione di cibi e bevande e i rapporti sessuali dall’alba al tramonto. - Zakat: l’<<elemosina legale>>. La zakat, che riguarda tutti i musulmani abbienti in maniera proporzionale rispetto alle possibilità di ciascuno, non va confusa con la shadaqa, elemosina volontaria. Ai non-musulmani che vivono nella dar al-Islam non è richiesta la zakat, in quanto essi sono tenuti a corrispondere, come dhimmi, due tipi di tasse, peraltro di più pesante entità. Ai cinque pilastri se ne aggiunse secondo alcuni un sesto, che in momenti particolari può diventare il fondamentale: il jihad, lo “sforzo”, un impegno speciale per importanza e intensità che s’invoca ogni volta che l’umma, la comunità musulmana, si trova in particolari frangenti che ne minacciano l’esistenza, la libertà e la sicurezza. Detto propriamente “sforzo sul sentiero di Dio”, il jihad è oggetto presso i non musulmani di molti equivoci in quanto viene di solito, impropriamente, tradotto con l’espressione di “guerra santa”. Il senso profondo del jihad è il medesimo che, nella tradizione mistico-ascetica cristiana, è la pugna spiritualis: la lotta contro il nemico interno, il peccato, le proprie debolezze e contraddizioni. La vita liturgica musulmana, al pari di quella ebraica, è molto semplice: l’assenza di un clero separato dai credenti e di una vita sacramentale favorisce la semplicità. La festa più importante per l’Islam è quella del fitr, cioè dell’interruzione del digiuno alla fine del ramadan. Vi sono tuttavia, a parte il ramadan che noi percepiamo come un mese di penitenza mentre in realtà e caratterizzato piuttosto da notti di festa, alcune vere e proprie occasioni solenni, che vengono celebrate in modo semplice. Il sacrificio cruento sopravvive nel sacrificio di un agnello o di un montone nell’aid al-Adha o aid al Kebir, <<grande festa>> che si celebra alla fine del pellegrinaggio. Vi sono poi i rituali relativi allo haj, tra cui primeggia la processione intorno alla Kaaba. I pellegrini sono tenuti a indossare un particolare indumento candido costituito di due pezzi di stoffa bianca non cuciti e ad astenersi da qualunque violenza nonché da atti sessuali. Durante il pellegrinaggio vige anche un regime di astinenza dai cibi più rigoroso dell’abituale prescrizione, per i musulmani, di consumare solo cibi halal, cioè consentiti. 5 L’avvio dell’istituzione califfale Nonostante la riconciliazione con le famiglie della Mecca, il Profeta aveva mantenuto un forte legame di gratitudine e di affetto per la gente di Medina: quando morì, nel giugno del 632, scelse infatti di essere sepolto lì. La grande fortuna e la grande abilità di Muhammad era stato l’incontro positivo con le tribù beduine, le quali abbracciarono, quasi tutte, la nuova fede: la sua forza fu proprio l’esser riuscito a dar loro un credo e un ideale comune, sottraendole alla spirale della vendetta tribale che faceva dei loro rapporti una guerra continua (ma il regime della vendetta fra tribù, del resto, continuò). Grazie ai beduini, alla loro etica fatta di fedeltà personale e familiare, di senso dell’onore e audacia guerriera, il Profeta riuscì a conquistare in pochi anni un vero e proprio impero. La razzia, che per i beduini era un diritto, divenne una delle norme di base della nuova religione: il jihad, il cui fine ultimo era non la conversione degli infedeli alla nuova fede (restando la conversione l'esito di una libera scelta spirituale, ch'era impossibile imporre con la forza), bensì il loro assoggettamento ai veri credenti (i muslimun), ai quali avrebbero dovuto pagare un tributo e dei quali sarebbero stati obbligati a riconoscere la superiorità. Muhammad era stato un grande sayyd, un <<signore della guerra», e un saggio rais, un «capo»; ma era soprattutto considerato dai suoi un nabi, un «profeta» al pari di quelli d'Israele e di Gesù che per i musulmani era stato il più grande di tutti. Ma, soprattutto, egli era stato il rasul, l'Inviato, al quale Dio aveva direttamente consegnato la Sua parola; Muhammad era l'ultimo e definitivo profeta di Dio. Il mondo arabo unificato nell'Islam non aveva costituito uno <<stato>>: Muhammad, l'«<Inviato», era il tramite attraverso il quale Dio impartiva i suoi ordini alla umma, la comunità dei credenti; egli era un capo spirituale e temporale dotato di un forte carisma, non era però un «re». Muhammad aveva compiuto nel 632 un «pellegrinaggio d'addio» alla Mecca, durante il quale aveva presentato un suo testamento spirituale che sarebbe stato oggetto d'interminabili discussioni tra i musulmani ma che non faceva parola dell'assetto politico da conferire alla comunità dopo la sua scomparsa. Alla sua morte, si tese a mantenere il regime teocratico anche in assenza di una personalità carismatica che ne fosse garante. La società tribale araba aveva in orrore qualunque istituzione potesse somigliare alla regalità, considerata caratteristica dei popoli pagani e indegna degli uomini liberi. Tuttavia, le stesse istituzioni tribali riconoscevano l'autorità degli sheikh, gli <<anziani», e il principio dell'eredità attraverso i legami genealogici. Pur senza voler costituire una dinastia regale, era diffusa l'idea che la guida del popolo musulmano avrebbe dovuto essere assunta da un suo successore. Il punto era che il Profeta non aveva avuto figli maschi, in cambio sua figlia Fatima e la sua giovane moglie Aisha erano donne energiche molto ascoltate e temute. I principali collaboratori del Profeta si accordarono sul fatto che il successore del Profeta avrebbe dovuto essere un uomo noto per fedeltà al suo insegnamento e per pietas religiosa. Il potere del Profeta sul suo popolo avrebbe dovuto in un certo senso sopravvivergli attraverso l'elezione di un suo <<vicario» (khalifa), incaricato d'interpretare correttamente la legge data da Dio e di farla rispettare rappresentando Muhammad e la sua memoria. La scelta cadde su Abu Bakr, suocero del Profeta. Ma immediatamente una fazione (sia), si oppose a quella scelta: i suoi sostenitori (detti <<sciiti») si pronunziarono a favore del cugino e genero di Muhammad, Ali, che ne aveva sposato la figlia Fatima, proclamando che l'imam, il capo spirituale della ‘umma, avrebbe dovuto appartenere alla stretta cerchia familiare del Profeta. A tutto ciò, si andava profilando un problema immediato: molti capi tribù ritenevano che il loro giuramento di fedeltà a Muhammad non dovesse aver effetti che andavano al di là della morte di questi. In altri termini, la ‘umma che egli aveva costituito non era destinata a sopravvivergli. Ne nacque la guerra detta «della ridda», la ribellione, che Abu Bakr riuscì a domare con decisione, ma che gli costò molte concessioni agli altri capi fedeli. Dopo un breve periodo di califfato, alla sua morte nel 634 gli succedette Umar, che avrebbe retto la umma per un decennio avviando una straordinaria espansione che attraverso le conquiste di Damasco nel 635 e di Gerusalemme nel 638 lo avrebbe condotto ad assoggettare nel 642 l'Egitto strappato all'impero romano d'Oriente e la Persia, dove fu rovesciato e conquistato l'impero sasanide. L'arabo, «lingua sacra» in quanto in tale idioma Dio si esprime nel Corano, si andava diffondendo e stava divenendo una grande lingua di cultura: ma gli arabi erano ormai la limitata aristocrazia di un grande impero musulmano al quale Umar era ormai obbligato a conferire una forma istituzionale. Vicario del Profeta, egli era ormai anche «principe dei credenti». Nel decennio del califfato di Umar, tra 634 e 644, si cominciarono a realizzare le prime e più importanti imprese di conquista a danno di Bisanzio e dell'impero persiano sasanide. Gli anni del califfato elettivo furono quelli delle rapide, straordinarie conquiste. Nel 637 veniva presa Ctesifonte e l'impero persiano cancellato; pochi anni dopo tutta l'area di quell'antico impero era ormai nelle mani dei musulmani. Intanto veniva attaccato anche l'impero bizantino; Siria e Palestina erano conquistate dagli arabi tra 633 e 640 e l'Egitto tra 639 e 646. Nel 638 veniva occupata Gerusalemme, nel 642 Alessandria. La conquista del litorale siriaco ed egiziano non arricchì l'Islam soltanto dei due massimi mercati del tempo, Antiochia ed Alessandria: lo fornì anche di una flotta e di ottimi marinai. Gli arabi non erano un popolo di naviganti, ma la loro conquista di Siria ed Egitto era stata rapida anche perché le popolazioni locali, stanche del duro dominio bizantino, avevano accolto come liberatori gli uomini del deserto. Bisogna notare che siriani ed egiziani erano sì cristiani, ma appartenevano a comunità che il governo di Costantinopoli perseguitava come eretiche: erano infatti principalmente monofisiti. L'Islam invece lasciava tranquilli questi gruppi cristiani, a patto che pagassero un tributo che non era neppure troppo forte; inoltre, ci stava sempre la possibilità di convertirsi, e quindi di entrare a pieno titolo nella comunità dei fedeli di Allah nella quale si veniva accolti come fratelli qualunque fosse l'origine etnica. In questo modo molti andarono ad infoltire le file dell’Islam e fecero carriera nell’amministrazione califfale: già una decina di anni dopo la morte di Muhammad, l’Islam non era più costituito solo dagli arabi. Nel 649 un capo destinato al califfato, il governatore di Siria Muawiya, cugino del califfo Uthman e futuro fondatore della dinastia umayyade, attaccò Cipro; nel 652 si verificò qualche modesta scorreria in Sicilia, isola appartenente ancora all’area dominata da Bisanzio; tre anni dopo, una grande battaglia navale non lontano dalle coste della Licia segnava la crisi della talassocrazia romano-orientale, dove venne sconfitto Costante II. 6 Sunniti e sciiti A Umar si deve una decisione difficilmente sottovalutabile: conscio della difficoltà di trovare un consenso sulla designazione del successore, egli diede avvio al califfato elettivo. Propose e ottenne la formazione di una shurà, ovvero di un consiglio al quale sarebbe stato affidato il compito di eleggere il nuovo califfo. Due erano i candidati: Uthman, membro di un potente clan qurayshita e Ali, genero e cugino di Muhammad. Quando Umar fu assassinato, la scelta cadde sul primo, forse per la promessa di una maggiore aderenza alla tradizione. Durante i primi anni di califfato Uthman sembrò aderire in effetti alla linea dei suoi predecessori. Ma ben presto cominciò a cercare appoggio soprattutto all'interno del suo clan parentale, designandone i membri in posizioni di rilievo. In particolare, egli nominò suo cugino Muawiya governatore di una regione chiave: la Siria. La scelta mostrava l'esistenza di un problema di fondo: come sfuggire alla logica tribale, tradizionale in quel mondo, se mancava ancora una qualsiasi organizzazione statuale che mettesse ordine nelle conquiste travolgenti che nel frattempo si realizzavano? L'operato di Uthman cominciò a sollevare il malcontento fra molti musulmani, i quali trovarono una guida naturale in Ali, il candidato sconfitto nell'elezione. La crisi scoppiò tra 656 e 661 ed ebbe inizio con l'assassinio del califfo Uthman; benché le circostanze dell'omicidio restassero oscure, i suoi seguaci accusarono Ali. I sospetti crebbero quando, con modalità ben poco chiare, Ali venne eletto al califfato. I qurayshiti che appartenevano alla shurà insorsero invocando il ripristino della tradizione, trovando l'appoggio di Aisha. Il fronte dei seguaci del defunto Uthman ebbe tuttavia la peggio nella battaglia detta «del Cammello» (dicembre 656); i rivali più importanti di Ali vi trovarono la morte e Aisha venne rimandata a Medina. Ali avrebbe avuto l’obbligo di trovare e perseguire gli assassini di Uthman, cosa che evidentemente non era interessato a fare; una nuova opposizione crebbe al seguito del nipote del califfo defunto, il governatore della Siria Muawiya. Cominciò una nuova guerra che si concluse con un patto per un arbitrato che Ali accettò: il potere avrebbe dovuto passare a Muawiya, ma ormai i due campi erano troppo divisi perché si arrivasse a decisioni comuni. Ma Ali venne assassinato nel 661, per mano di un suo ex seguace, e a quel punto i seguaci di Uthman diedero vita a una dinastia, quella degli umayyadi, mentre i seguaci di Ali crearono la prima scissione in seno all'Islam. Nonostante nell'immediato futuro vi sarebbero state ancora conquiste importanti, la rottura dell'unità non fu priva di conseguenze. Il trentennio del califfato elettivo, intercorso tra la morte di Muhammad e la frattura tra quelli che si chiameranno ormai sunniti (i seguaci di Uthman) e gli sciiti (i seguaci di Ali) resta il periodo di più intensa e rapida espansione dell'Islam. Inizialmente le differenze tra sunniti e sciiti riguardavano l’ambito della politica e della successione dinastica. I sunniti riconoscevano l'eleggibilità alla successione del Profeta a tutti i membri della sua tribù, ossia ai qurayshiti, mentre gli sciiti limitavano l'ambito dell'eleggibilità ai soli discendenti del Profeta; in particolare a quello che deriva da Ali e dalla moglie Fatima, unica figlia del Profeta ad aver lasciato figli maschi: al-Hasan e al-Husayn. Tuttavia, fra una successione su base tribale e una ereditaria per diritto divino vi erano differenze che avrebbero portato conseguenze più ampie. Il califfo sunnita è un capo Sconfitte le truppe del re visigoto Roderico sulla via tra Algeciras e Cadice, gli invasori puntarono su Siviglia, occuparono Cordoba e nel 713 si impadronirono di Toledo. L’Aragona venne conquistata l’anno successivo ed entro il 720 anche la Catalogna e la Settimania, e quindi tutti i territori della monarchia visigota a sud e a nord dei Pirenei, vennero occupate dai musulmani. La conquista saracena non fu totale: riuscirono comunque a sopravvivere dei focolai di resistenza cristiana. Il goto Pelagio organizzò nelle Asturie, nel 720, il principato che una ventina di anni dopo si sarebbe trasformato in un regno e avrebbe posto la sua capitale in una nuova città, Oviedo, fondata nel 760. Dopo aver occupato Narbona nel 718, gli arabi si presentarono a Tolosa nel 721, conquistando Nimes e Carcasonne nel 725 (territori franchi). Ormai, l’intera Provenza col bacino del Rodano erano teatro delle loro gesta. Autun fu incendiata nel 725 o 731. Il vescovo di Roma Gregorio II incoraggiò Oddone duca d'Aquitania a resistere nel 721, dinanzi Tolosa, e inviò al duca alcuni tessuti che erano serviti come copertura per l’altare di San Pietro. Ridotti in frammenti, essi furono inghiottiti dai guerrieri cristiani a titolo parasacramentale. Secondo una tradizione radicata i musulmani vennero fermati a Poitiers dal “maestro di palazzo” del regno merovingio d’Austrasia, Carlo Martello: tale battaglia, combattuta nel 732 (o nel 733), è in sé meno importante del mito a cui ha dato origine. Ci sono stati al tempo episodi più significativi, ad esempio: - Il capo berbero Musura che si insediò a cavallo nei Pirenei orientali, in Cerdagna e sposò una figlia del duca Oddone d’Aquitania prima di venir sconfitto nel 729 dall’emiro di Cordoba a cui si era ribellato. - O il duca di Provenza Moronte che nel 734 aprì ai musulmani le porte di Avignone. La fama di Poitiers ha offuscato gli anni immediatamente successivi, i quali mostrarono che le razzie continuarono, senza tuttavia trovare una sistematica e definitiva conquista degli arabi al di là dei Pirenei. Nel 734, per l’appunto, Avignone veniva occupata e Arles saccheggiata. Nel 737 fu raggiunta perfino la Borgogna dove si razziò un’enorme quantità di schiavi da condurre in Spagna. Più tardi le incursioni sarebbero giunte dal mare: Marsiglia fu attaccata nell’838 e nell’848, Arles nell’842 e nell’850, la Camargue invasa nell’869. Le scorrerie arabo-berbere provocarono diverse reazioni nel mondo franco, a cominciare dalle continue campagne di carlo Martello contro i musulmani del sud della Gallia fra 736 e 739. La spinta dell’islam sembrò esaurirsi solo nel corso del terzo decennio dell’VIII secolo. CAPITOLO 7 Ambiente, società, economia nell’Europa altomedievale 1 La trasformazione delle strutture sociali nella pars Occidentis L’irruzione massiccia dei germani entro i confini dell’impero innescò processi sociali inediti. Nel corso dei secoli, le migrazioni di popoli e l’incontro fra genti diverse avrebbero dato origine a una società nuova: quella europea. Il processo ovviamente fu lungo e accompagnato, soprattutto nei primi secoli, da diverse difficoltà perlopiù legate al peggioramento climatico che dal VI secolo fu affiancato dall’arrivo di una devastante epidemia di peste che comportò un importante crollo demografico. A ciò si aggiunse il disfacimento della pars occidentis, cioè il venir meno del tessuto di correlazioni socioistituzionali e socioeconomiche che per secoli caratterizzarono la società mediterranea. Le trasformazioni in atto furono accompagnate da incertezze e talora da rivolte. In Gallia e nella penisola iberica, ad esempio, dalla fin del III secolo si manifestarono le rivolte dei bacaudae (o bagaudae), contadini di stirpe celtica. Le loro sollevazioni sono state registrate periodicamente nel corso del IV e del V secolo; alla radica vi erano tre fattori:  l’origine etnica rivendicata come carattere differenziante  La condizione sociale e il legame con la terra che proprio a partire dal III secolo peggiorò.  Il progresso del cristianesimo nelle regioni coinvolte, interpretato come una dottrina egualitaria e dunque portatrice di un messaggio sociale rivoluzionario. Stretti fra l'insediamento dei germani sulle loro terre e la prospettiva di doversi piegare a un servizio privo di diritti nelle ville dei padroni romani, i bacaudae sceglievano dunque la strada della protesta armata. Anche se le notizie circa lo svolgimento e l'esito delle rivolte non sono sempre chiare, si possono delineare alcune differenziazioni tra le aree geografiche interessate. Intorno alla metà del VA secolo in Armorica vi fu una nuova rivolta dei bacaudae: in questa occasione i ribelli scelsero come loro mediatore a Roma il vescovo Germano di Auxerre. Si affidarono, cioè, a un interlocutore istituzionale che li protesse tanto verso la residua autorità dell'impero quanto contro gli alani che li incalzavano. Al contrario, negli altri episodi che si verificarono tanto in Gallia quanto nella penisola iberica non vi fu mai un simile incontro tra i rivoltosi e le istituzioni; anzi si verificò spesso una convergenza tra i diversi poteri al fine di ristabilire l'ordine e sconfiggere i bacudae. Può darsi che il caso armoricano testimoni una particolare contingenza in cui i gruppi di bacaudae riuscirono a raggiungere una coesione tale da proporli quali interlocutori agli occhi delle istituzioni e non come semplici briganti. Altre rivolte si ebbero in seguito alla liberazione degli schiavi ordinata da Totila nel corso della guerra greco-gotica. Uno dei principali mutamenti riguardò proprio la progressiva scomparsa della servitus,la schiavitù classica, in quanto nei latifondi la manodopera agricola schiavistica fu soppiantata dai coloni. Una figura, quella del colono, già conosciuta nei secoli precedenti ma con uno statuto giuridico nettamente migliore. Tra tardoantico e alto medioevo, nonostante la sua libertà personale non fosse messa in discussione, il colono prese a essere sempre più legato alla terra dove lavorava, prestando opere obbligatorie e gratuite, l’entità delle quali era decisa dal proprietario. Inoltre, era obbligato ad acquistare prodotti o a servirsi delle infrastrutture della villa padronale e dipendeva giuridicamente dal latifondista. Tuttavia, quella limitazione di libertà garantiva almeno una vita più sicura. Il V secolo conobbe una forte ruralizzazione dell’economia, parallela allo spopolamento delle città, colpite dall’insicurezza sociale, dalla carenza di poteri forti, dall’inflazione. Il processo, naturalmente, non fu sentito dappertutto allo stesso modo. Va poi segnalato che oltre questo, molte aree agricole furono abbandonate, trasformandosi in territori incolti. Alcune terre abbandonate venivano acquistate dai latifondisti o colonizzate dai contadini liberi, altre tornavano a essere paludi o boschi. La flessione demografica susseguente alla peste del VI secolo non fece che approfondire processi già in atto. 2 La <<peste di Giustiniano>> Peste e pestilenza sono termini vaghi e imprecisi. Con questo termine i nostri avi segnalavano epidemie di vario genere. I nostri avi definivano in questo modo epidemie di vario genere, mentre oggi quella che definiamo peste con riferimento alle pandemie che hanno colpito l'Europa tra medioevo ed età moderna è la Yersinia pestis, una malattia epidemica derivante da un microrganismo batterico. Il contagio avviene per puntura di pulce infetta; i roditori sono i vettori più comuni, sebbene non gli unici. Tuttavia, il morbo che nel 541 d.C flagellò Costantinopoli, provenendo dall’Asia attraverso l’Egitto, per poi investire anche l'Europa, fu certamente Yersinia pestis, la peste vera e propria. La sua grande diffusione le vale il nome di prima pandemia. La pestilenza è descritta da diversi testimoni, sui quali spicca lo storico Procopio di Cesarea, il quale illustra anche le differenti teorie che circolavano circa l’origine del morbo. Procopio si appresta anche, oltre a descrivere i sintomi della peste, a offrire una stima della mortalità. Ma sappiamo troppo poco della popolazione dell’epoca per poter esprimere dati attendibili. Fatto sta che la peste, dopo aver mietuto moltissime vittime in oriente, arrivò anche in Italia al seguito delle truppe bizantine che combattevano contro i goti. La guerra greco-gotica, durante la quale la peste flagellò la penisola rappresentò lo spartiacque demografico e l’avvio di una ancor più decisa ruralizzazione per la pars occidentis. La peste rimase endemica, continuando a mietere vittime, fino all’VIII secolo. Fu quello il punto dal quale prese ad accentuarsi una già marcata tendenza allo spopolamento del continente, che toccò i suoi livelli più bassi tra VII e VIII secolo. Centri urbani e villaggi aperti si svuotavano: i proprietari terrieri cercavano una più sicura e confortevole dimora nelle loro villae rurali, mentre i contadini abbandonavano i villaggi aperti e si rifugiavano nelle grandi proprietà terriere, cercando una sicurezza che erano disposti a barattare con la loro libertà personale. Terreni un tempo coltivati e poi abbandonati tornarono al bosco e alla palude. 3. Un mondo di boschi e paludi Il bosco, la foresta e la palude divennero gli elementi dominanti del paesaggio dell’Europa alto medievale, pur nelle profonde diversità dell'area mediterranea rispetto a quella germano-continentale. Nelle poco urbanizzate regioni del nord e nel cuore del continente il rapporto uomo-ambiente era rimasto prevalentemente inalterato rispetto ai secoli precedenti. Ciò che conosciamo della pratica agricola in queste aree rinvia a un impiego assai ridotto del suolo, destinato per lo più a uso arativo e a prato, dal quale non provenivano risorse alimentari sufficienti. Il bassissimo rendimento determinato dall'impiego di attrezzature da dissodamento inadatte ai pesanti che terreni settentrionali rese l'incidenza dei prodotti cerealicoli sussidiaria rispetto all'allevamento nei boschi. Meno esposti ai condizionamenti climatici dai quali dipendevano i raccolti, i popoli settentrionali furono quindi anche i meno esposti alle carestie che rendevano incerta la sussistenza del mondo Mediterraneo: dove, tuttavia, al di là del riaffermarsi del bosco e dell'incolto, l'agricoltura era favorita dalla qualità più leggera del suolo. Il bosco e l’incolto divennero riserve fondamentali alla sopravvivenza, assicurando il fabbisogno proteico e una dieta assai variata che non si ridusse al quasi esclusivo apporto di carboidrati assicurato dai cereali. Restarono comunque importanti differenze etniche nel costume alimentare, nel quale i germani introdussero la loro abitudine al consumo di carni di animali di grossa taglia, là dove il mondo romano-bizantino continuò a privilegiare, accanto al consumo Mediterraneo di farine e cereali, quello degli ovini. Il panorama europeo altomedievale era molto diverso da quello attuale: villaggi ed arie coltivate restavano come immersi fra i boschi, le paludi, le aree a pascolo delle alte colline e delle alte montagne. Il contadino medievale non era solamente un agricoltore, era anche pastore, cacciatore, allevatore, pescatore, raccoglitore. Sulla sua pur povera mensa comparivano pertanto cibi variati e non necessariamente scarsi. Una vecchia visione di questo problema, che privilegiava la storia dell'agricoltura, situava il miglioramento dell'alimentazione e quindi dei livelli di vita contadina a partire dall’XI secolo, da quando una netta ripresa conduzione rurale dei nuovi padroni. Sono questi i caratteri con cui la villa romana venne evolvendosi verso l'organizzazione della curtis. Per comprendere però l'evoluzione di un processo che avrebbe conosciuto una piena maturità formale solo nell’VIII secolo, quando si affermò in tutti i suoi caratteri l'economia curtense, occorre tornare sul problema costituito dalla ripartizione della terra tra popolazioni latine e germaniche nei diversi contesti europei. In Italia, dove il problema costituito dalla presenza germanica nei ranghi dell'esercito così come nelle carriere amministrative era stato precoce e precocemente risolto; la distribuzione di quote della terra romana alle varie nationes germaniche via via ospiti del territorio italico non segnò un'effettiva emarginazione del ceto dei proprietari latini, i quali convissero spesso fianco a fianco coi comproprietari germanici conservando piena libertà. La ridistribuzione fondiaria avvenne entro un quadro di abbandono terriero che non implicò conflittualità. La poca disponibilità di fonti non consente di chiarire quali furono le modalità di occupazione del suolo da parte dei Longobardi all'indomani della conquista. È improbabile però che si sia determinato un fenomeno generalizzato di riduzione in schiavitù dei romani o di appropriazione delle loro terre. È stato ipotizzato che i romani abbiano conservato insieme alla libertà personale anche l'uso delle loro terre, che poterono essere gravate di oneri e servizi. È altresì appurato che molti romani di condizione inferiore cercarono riparo presso i Longobardi per sottrarsi alla tirannia dei padroni di cui condividevano l'origine etnica, fenomeno del resto noto anche in altre aree europee. Le dotazioni terriere ai guerrieri Longobardi poterono facilmente essere ritagliate entro le vaste sodaglie e gli incolti che si produssero sul suolo italico in conseguenza dell'abbandono dovuto alla mortalità che decimò la popolazione. Né fu infrequente che i nuovi proprietari lavorassero a loro volta la terra, in un quadro molto articolato di situazioni sociali. Ebbe forse in una prima fase un ruolo di preminenza nella assegnazione di terre l'organizzazione sociale delle farae, che comunque non dovettero resistere a lungo come organizzazione collettiva nell'occupazione del suolo. Con l'inizio del Regno si raggiunsero nuovi equilibri, mentre si avviava una profonda opera di romanizzazione del costume longobardo che comunque conferma il dato di una superiorità numerica, oltre che istituzionale, dei dominati rispetto ai dominanti. La regolamentazione del diritto ereditario presente nell'editto di Rotari avvicinava le consuetudini longobarde al sistema giuridico romano e favoriva quel processo di omologazione tra i due sistemi che le leggi di Liutprando avrebbero poi codificato, ho autorizzando anche i matrimoni misti. In ogni caso, va segnalato che la presenza longobarda non fu né omogenea né compatta. Come in Italia, anche in Spagna e nella Francia meridionale i germani trovarono sistemi ed istituzioni romane profondamente radicate entro le quali essi progressivamente si inserirono. La ricca tradizione legislativa dei re visigoti consente abbastanza agevolmente di seguire l'evoluzione economica delle campagne iberiche: la disposizione che imponeva l’attribuzione di due terzi degli antichi fundi romani ai goti non impedì che in molti casi sopravvivessero i diritti proprietari dei romani. Furono predisposte commissioni miste per risolvere i problemi di confine che potevano insorgere, e i romani vennero protetti contro eventuali appropriazioni o sconfinamenti. L'estrema differenziazione di situazioni patrimoniali tra i goti fa supporre una precoce conversione agricola degli invasori i quali spesso dovettero occuparsi personalmente della conduzione agricola. Non si riscontrarono insediamenti caratterizzati da un uso comune della terra conseguente a sistemi d'uso familiari, ma solo proprietà individuali. I modi della ridistribuzione indussero una stretta convivenza tra romani e goti cui dettero impulso anche certe forme di condivisione comune dei beni, come nel caso dell'uso collettivo delle foreste e degli incolti. Come in Italia, il decadere delle proibizioni circa la commistione etnica, con l'autorizzazione ai matrimoni misti, facilito l'integrazione, congiuntamente alla conversione al cristianesimo. La forma tradizionale di insediamento nella Spagna visigotica non pare sia stata quella sparsa, bensì quella del villaggio. Condizioni non dissimili si verificarono nelle terre assegnate ai burgundi. Diversa fu la situazione dei franchi, che per il loro precoce e pacifico insediamento entro le frontiere imperiali si integrarono nel sistema territoriale senza che si verificasse la necessità di radicali risuddivisioni della proprietà fondiaria. La riserva cui i re attinsero per ricompensare (in maniera temporanea) i loro servitori militari si era andata costituendo sia con le eredità rimaste intestate, sia con l'acquisizione di terre imperiali, sia infine con quelli appartenenti alla chiesa. La legge salica prevedeva una parità di diritti tra romani e franchi, entro la quale si collocò la preservazione del patrimonio fondiario dei primi, che poterono essere sia possessores sia tributarii. La toponomastica rivela come in origine i franchi ai fossero insediati in località romane o romanizzate, mutuando da esse l'organizzazione e la distrettualizzazione, oltre che le istituzioni agrarie classiche dell'età tardo imperiale. Molto diversa fu poi la forma di occupazione del suolo nel mondo anglosassone, dove i nuovi occupanti non si incontrarono con le poche strutture territoriali e proprietarie che il mondo romano poteva aver introdotto nella regione; la conquista venne gestita secondo i costumi di un’aristocrazia militare che esportò sulle nuove terre un sistema di dominio che rispecchiava forse gli antichi caratteri socioeconomici dello Schleswig-Holstein o Dell'oscura area frisone da cui proveniva. Le poche fonti hanno alimentato più di un'ipotesi: a cominciare da quelle che hanno visto nel classico << maniero>> inglese un'evoluzione della villa romana, fino a quelle basate sull'opinione di una ricostruzione signorile impostata ex novo sulle rovine dell'organizzazione celto-romana, i cui pochi superstiti sarebbero stati ridotti in schiavitù. Probabilmente avvennero entrambe le cose. Per quanto è dato sapere sull'organizzazione delle terre da cui essi provenivano, gli invasori ebbero con ogni probabilità una struttura sociale di tipo militare che doveva già allora aver sovrapposto ai legami parentali quelli derivanti dal servizio e dalla fedeltà d'armi. È stato ipotizzato che gli abitanti dei villaggi praticassero forme comunitarie di lavoro agricolo. Le leggi di re Ine, redatte sullo scorcio del VII secolo, sembrano smentire questa lettura collettivistica, consentendo l'identificazione di una proprietà privata estesa anche ai celto-romani. Il panorama dell'organizzazione territoriale e delle forme di conduzione della terra così come emerge dalle numerose leggi emanate nei regni germanici tra VII e VIII secolo rinvia ad un quadro tutto sommato omogeneo in cui si può cogliere una società assai differenziata in cui emergono chiaramente diversificazioni di classe e distribuzione ineguale della ricchezza, sia nel superstite mondo romano sia in quello germanico. Prima della sottomissione da parte di Carlo Magno anche nei territori in cui agirono altri popoli, si evince un complessivo condizionamento dell'organizzazione militare nei metodi della spartizione della terra: i condottieri e i capi locali si aggiudicarono grandi porzioni di suolo che ridistribuirono sia tra i loro guerrieri sia tra soggetti civili, favorendo la formazione di ampie signorie territoriali caratterizzate dalla presenza di una dimora signorile e di coloni. 6 Città e infrastrutture L'abbassamento del livello demografico dell’Europa di allora fu la ragione per cui prese ad accentuarsi una già marcata tendenza allo spopolamento, che toccò i suoi livelli più bassi fra VII e VIII secolo. Centri urbani e villaggi aperti si svuotavano: i proprietari terrieri cercavano una più sicura e confortevole dimora nelle loro villae rurali, mentre i contadini abbandonavano i villaggi aperti si rifugiavano nelle grandi proprietà terriere, cercando una sicurezza che erano disposti a barattare con la loro libertà. Il frantumarsi dei pubblici poteri comportò il sempre più frequente annodarsi di legami di subordinazione ai vari signori che, in cambio della dedizione, fornivano protezione ma esigevano prestazioni d’opera gratuite sempre più pesanti. Abbandono delle città e spopolamento delle campagne furono quindi i due fenomeni salienti di quel tempo. Nei centri urbani si ebbe un caratteristico fenomeno di contrazione: furono abbandonati interi quartieri e la linea delle fortificazioni urbane retrocedette all’interno delle città, dove si eressero cinte murarie di fortuna. Tuttavia, l’Occidente altomedievale, pur risentendo di questa caduta d’importanza della vita urbana, mantenne molti caratteri residui della civiltà romana. Per quanto ridotte di dimensioni e impoverite, le città restarono centri politici e amministrativi importanti, dove risiedevano vescovi, attorno ai quali ferveva una certa attività politica, economica e intellettuale. Esse però persero gradualmente il loro carattere di centro propulsore economico-sociale in grado di egemonizzare e gestire la vita del territorio circostante. Con il contrarsi della vita economica e commerciale, il diminuire d’importanza dei centri urbani e lo sparire di parecchi centri rurali, lo splendido sistema stradale romano si degradò in fretta. I sentieri di terra battuta sostituirono le strade lastricate. Dov'era possibile, gli spostamenti si facevano per via fluviale, più facile e più sicura. Il cancellarsi delle vie romane non era solo l’esito naturale del venir meno di molte attività: era anche una condizione di difesa. L’Europa del VII e VIII secolo era minacciata dalle scorrerie degli àvari: una popolazione unno-tartara che dalla Mongolia si stanziò fra Danubio e Balcani, da dove poi iniziò a compiere le proprie scorrerie. Intanto le coste andavano a spopolarsi a causa del pericolo dei corsari saraceni. L'insicurezza era l'elemento caratteristico di quel periodo. In quel periodo, comunque, i grandi porti del sud della Francia e dell’Italia meridionale continuarono a svolgere una certa attività: va inoltre ricordato che al tempo buona parte dell’Italia meridionale e centrale era ancora sottoposta all’egemonia bizantina e quindi legata al mondo economico e culturale orientale. Quindi pur parlando d’occidente, essi non vengono presi in considerazione. Tuttavia, se si escludono gran parte della penisola italica e le aree costiere della Francia, è ovvio che l’Occidente e si era impoverito e presentava connotati di imbarbarimento rispetto a ciò che era stato durante l'età imperiale. Nelle città italiche e in quelle della Gallia meridionale, come dicevamo, non si registrò tuttavia un completo declino. Esse si reggevano prevalentemente sul governo del consiglio di funzionari detti << decurioni>> che decideva in merito a una molteplicità di questioni: la riscossione delle imposte, gli atti pubblici, la manutenzione. L'accantonamento di grandi fortune permetteva il formarsi di piccole clientele. I più fortunati fra i membri del livello medio dell'amministrazione, i << curiali>>, riuscivano a entrare nel Senato, che nel V secolo allentò sensibilmente le maglie del reclutamento, basandolo più sul censo che sull'origine socio-etnica. Attorno alle vecchie famiglie senatorie si formavano più ampie clientele. Un mondo di questo genere non poteva collegarsi alla realtà mediterranea egemonizzata dai bizantini e dagli arabi non tanto perché questi ultimi glielo impedissero, quanto piuttosto perché gli mancavano forze e capacità per farlo, e la Chiesa romana, scegliendo di non guardare più, almeno temporaneamente, a Bisanzio, finì con l'aggravare questa situazione di distacco dell'occidente nei confronti dell'oriente e del Mediterraneo. Le città medievali europee si presentano come distinte in due grandi categorie: da un lato quelle di origine antica, quindi essenzialmente fondati dai romani (e in qualche caso anche dai greci o dagli etruschi); dall'altro quelle di più recente fondazione, legate in genere alla ripresa demografica del X-XI secolo e amore alle esigenze di un commercio marittimo o fluviale che tendeva ad espandersi. Oltre che per la loro posizione geografica, le città antiche (in particolare quelle di fondazione romana) si riconoscono immediatamente per il loro impianto grosso modo quadrangolare, derivato dagli Tra la fine del VII e i primi dell’VIII secolo alcuni gruppi germanici tenuti ai margini del regno dei franchi presero ad agitarsi mentre la penisola iberica fu invasa dai musulmani. Si temeva che la “terra dei franchi” potesse fare un giorno la medesima fine della Spagna. Nel momento del pericolo, e quindi della necessità di coesione, l’aristocrazia franca si riconobbe in una forte dinastia di maggiordomi austrasiani, che dal loro fondatore prendeva il nome di pipinidi. Uno di loro, nel 732 o 33, guidò presso Poitiers una celebre quanto modesta battaglia contro un contingente musulmano che razziava il paese. Si trattò di uno scontro di ristrette proporzioni, al termine del quale pareva non ci fossero né vincitori né vinti. Lo scontro di Poitiers si ingigantì nei secoli, fino a divenire la “battaglia di Poitiers” che avrebbe salvato la Cristianità dall'invasione musulmana. Tutto ciò era un mito che fu coltivato per tutto il medioevo e poi per l'età moderna dalla monarchia francese, che si voleva erede del vincitore di Poitiers, il maggiordomo (o <<maestro di palazzo>>) Carlo Martello. Il quale, in realtà, non fermò l'invasione musulmana d’Europa. Negli stessi anni, più o meno, a fermarla provvide invece l’imperatore Leone III Isaurico dall’altra parte del continente, quando nel 718 vanificò un assedio arabo a Costantinopoli: ma era un bizantino, per giunta un eretico iconoclasta, che non poteva quindi essere elevato a eroe. Tuttavia, Carlo Martello ebbe il merito di riorganizzare il regno in vista di una sua necessaria militarizzazione: ristrutturò la proprietà agraria in modo da poter disporre di una buona forza di guerrieri pesantemente armati e forniti di cavalli. Bisogna dire che in questa ristrutturazione della proprietà agraria (che era anche ristrutturazione delle forze armate), Carlo Martello pensava anche all'avvenire del suo casato. I nuovi proprietari- guerrieri appartenevano a famiglie devote a lui e alla sua politica: in questo modo i maggiordomi si preparavano a soppiantare i merovingi << re fannulloni>>. In un primo tempo l’azione del pipinide incontrò la resistenza della Chiesa, poiché egli con la sua riforma aveva espropriato diverse terre ecclesiastiche. Carlo rispose a questa avversione con durezza ma anche con prudenza. Da una parte non esitò a esautorare alcuni prelati più ostili e sostituirli con persone di fiducia; dall’altra cercò di isolare la chiesa franca entrando in contatto più stretto con il papato, ad esempio, appoggiando le missioni presso i frisoni, gli alamanni, i turingi. I re fannulloni potevano comunque essere tali ma avevano dalla loro il privilegio della sacralità; come tutti i re germani erano considerati persone sacre per un’antica tradizione che risaliva ai tempi pagani e che il cristianesimo non aveva eliminato. Di conseguenza, non era facile metterli da parte. Così Carlo Martello si avvalse delle sue prerogative di maggiordomo per non concedere a re Teodorico IV (morto nel 737) un successore. Egli scomparve a sua volta nel 741, lasciando una Francia priva di re ma non di maggiordomi; di fatti egli aveva provveduto a dividere il regno tra i suoi figli. A Carlomanno andarono Austrasia, Alemannia e Turingia; a Pipino, detto il breve la Neustria, la Borgogna e la Provenza, cioè il blocco dei territori meridionali. Successivamente Carlomanno si ritirò in un’abbazia e Pipino il Breve rimase l’unico capo della casa (che dopo carlo martello possiamo definire carolingia) e nel 751 inviò messi al papa Zaccaria per saggiarne la disponibilità a proclamarlo re. Fu un passo molto importante nella storia dell’Occidente europeo. In genere, i sovrani ricevevano con l'incoronazione la benedizione della Chiesa, ma non le chiedevano la sanzione del loro potere. Tuttavia, Pipino era ben consapevole che la sua era un’usurpazione perpetrata nei confronti di un casato regio di indiscutibile sacralità. Dove cercare quindi una forza provvista a sua volta di autorità sacrale e disposta a sancire l'usurpazione, se non nella Chiesa? A riprova di ciò, troviamo un'importante innovazione nel rito dell'incoronazione. Il nuovo re venne posto sul trono con una cerimonia il cui. Centrale era l'unzione con il sacro crisma, uno speciale olio Benedetto. Non era un uso che si rifacesse né alla tradizione germanica, né in qualche modo ai costumi romani: essa era ispirata direttamente dalla Bibbia. L’unzione regia di Pipino da parte di papa Stefano II (754), svincolata da tutti i rimasugli pagani, segnò l’inizio non solo di una dinastia ma anche di una nuova era: la nuova monarchia della famiglia pipinide (poi carolingia) raggiungeva una sacralità superiore a quella dei merovingi, proprio perché mancante dei caratteri pagani. La memoria dell’usurpazione fu presto cancellata e i nuovi energici re dei franchi divennero un elemento fondamentale nella vita dell’Occidente. Pipino, che nel 754 aveva ottenuto dal Papa l'unzione regia per sé stesso e per i figli Carlo e Carlomanno, morì nel 768 dividendo Il Regno tra i due eredi. 2 Carlomagno Da più parti è stata rivendicata la paternità di Carlomagno come fondatore dell’Europa moderna.  Tesi di Henri Pirenne: Carlomagno non sarebbe mai esistito senza la rottura dell’equilibrio mediterraneo determinatasi in seguito alle conquiste islamiche e alla talassocrazia araba.  Storici tedeschi: Il ruolo di Carlomagno non avrebbe potuto essere giocato senza l’opera di colonizzazione e di conquista missionaria compiuta tra 720 e 750 dai benedettini sassoni provenienti dall’Inghilterra e guidati da San Bonifacio, che sostenuto dal volere del vescovo di Roma cristianizzò la Germania centrale e organizzò il sistema diocesano in quella meridionale. Per capire Carlomagno bisogna tener presente una quantità di fattori e uno scacchiere territoriale ancora più ampio di quello corrispondente all’area franco-tedesca attuale. Egli si occupò anche dell’Italia e della Spagna, spingendosi ai confini con il mondo bizantino e musulmano del tempo. Avviò rapporti diplomatici con la corte imperiale di Bisanzio e con quella califfale di Baghdad; ripropose su basi nuove le relazioni fra regno franco e Chiesa romana e giunse a occuparsi anche di questioni religiose e addirittura teologiche; si sforzò anche di unificare razionalmente i suoi domini anche per quanto riguardava le leggi e la moneta. Insomma, il suo fu molto di più che un regno basato sulla conquista, la forza delle armi e la favorevole congiuntura politica. Si può dire che soltanto con Carlomagno l’Occidente supera lo stadio ambiguo delle monarchie romano-barbariche e fornisce alla storia un modello nuovo e originale. Nato nel 742, Carlo morì ad Aquisgrana nell’814. Sappiamo molto di lui come personaggio pubblico ma pochissimo sulla sua persona “privata”. La critica moderna è molto cauta nell’accettare le testimonianze dei cronisti per quel che riguarda l’indole di Carlomagno: ciò perché sappiamo quanto in questo campo al tempo si privilegiassero gli schemi letterari, modellando su di essi la realtà. Il celebre biografo di Carlomagno, Eginardo, ci ha lasciato dell’imperatore un ritratto del quale non possiamo servirci se non che con massima prudenza, in quanto ispirato alle vitae di Svetonio. Tuttavia, ci offre anche informazioni che paiono attendibili, per esempio sul suo aspetto e sul suo carattere: Carlo era, a quanto pare, alto e massiccio, dotato di grande naso e di collo tozzo, era un gran bevitore e mangiatore, amante della caccia. Tra mogli e concubine Carlo ebbe varie donne e almeno diciannove figli tra legittimi e illegittimi. 3 Carlomagno e l’Italia Nel Natale del 770 (data proposta dalla tradizione) vennero celebrate le nozze tra il re franco e la principessa longobarda Desiderata (o Ermenegarda). L’anno successivo, però, con un atto clamoroso egli ripudiò la sposa e la rinviò a suo padre Desiderio, re dei longobardi. Difficile dire il motivo di quest’azione che di certo non fu priva di conseguenze. Non è improbabile che il re si sentisse soffocato dalla rete tessutagli intorno dalla madre Bertrada, che rischiava di alienargli l'amicizia del Papa e di lasciare mano libera ai progetti di Desiderio In Italia. Forse contarono entrambi i fattori, rafforzati magari da un terzo: l'amore per un'altra donna, la sveva Ildegarda. Desiderio, nel frattempo, cercava di stringere rapporti con Carlomanno, fratello di Carlo e con il quale condivideva la corona, anch’egli sposato con una longobarda. Nel dicembre del 771 tuttavia Carlomanno morì e Carlo diventò l’unico sovrano dei franchi. La regina vedova di Carlomanno e i suoi due figli vennero così a trovarsi isolati; sebbene sia incerto il grado di parentela con Desiderio, è lì che trovarono rifugio. Vista tramontare la possibilità di un’alleanza stabile con i franchi, Desiderio decise di passare all’attacco. Il 10 febbraio del 772 salì al soglio pontificio un personaggio sgradito a Desiderio: Adriano I, legato a Carlo da vincoli forti. Desiderio gli chiese la consacrazione regale dei due figli di Carlomanno ma non riuscì a ottenerla per via diplomatica, così nel 772 iniziò la campagna di guerra contro l’esarcato, muovendo al tempo stesso verso Roma e occupando numerose città delle Marche e dell’Umbria. I patti stipulati dal suo predecessore con il papa e con i franchi vennero così infranti. Adriano, quindi, preparò Roma a resistere all’assedio e inviò un’ambasciata a Carlo chiedendo il suo aiuto. Carlo a questo punto doveva muoversi con molta prudenza, non essendo sicuro che tutta l'aristocrazia Franca sarebbe stata concorde nel sostenere la guerra contro i Longobardi. Offrì una grande somma a Desiderio per far s che si ritirasse dai territori della Chiesa. La proposta fu respinta e scatenò in Desiderio l’impressione che Carlo fosse più debole del previsto. Pertanto, nell’estate del 773 l’esercito franco si concentrò a Ginevra. Fu deciso un attacco su due fronti: il sovrano in persona passò con l’esercito il Moncenisio mentre un’altra armata varcò il Mons Iovis. Il piano di stringere i longobardi nelle due mascelle di una tenaglia. Carlo sostò all'abbazia di Novalesa, zona di frontiera tra il Regno dei franchi e quello longobardo, dove decise il miglior piano d’attacco. L’avanzata fu rapida e Desiderio dovette rifugiarsi a Pavia, mentre suo figlio Adelchi si ritirava verso Verona con la famiglia di Carlomanno. Carlo pose d’assedio la capitale longobarda Pavia. Nel frattempo, venivano espugnate altre città longobarde, tra cui Verona, dove Carlo catturò la cognata e i figli, che secondo le consuetudini finirono i loro giorni in un monastero. Stessa sorte toccò a Desiderio: prima costretto a trattare la resa di Pavia nel 774, il re fu poi rinchiuso di un monastero, mentre il figlio Adelchi, nonostante l'inimicizia tra longobardi e bizantini, trovò rifugio a Costantinopoli, dove ricevette il titolo di patrizio. Negli anni successivi tentò di organizzare delle congiure, tra cui il suo fallimento più grande nel 787, quando sbarcò in Calabria. Si pensa che sia morto in battaglia, oppure che fosse ritornato sconfitto a Costantinopoli. Dopo questi eventi Carlo decise di recarsi a Roma durante le festività pasquali del 775 così da incontrare papa Adriano. Era la prima volta che un re franco si recava di persona nell’Urbe: venne accolto con gli onori riservati all’esarca o ai patricius bizantini. In gioco c'era la definizione dei rapporti fra Regno Franco e papato alla luce di nuovi eventi. Qui gli venne dato un titolo nuovo: Rex francorum et langobardorum. Egli con questo titolo si limitava a sostituirsi ai vecchi sovrani, lasciando ai vinti le loro leggi e consuetudini. La conquista di Pavia non aveva comunque automaticamente comportato fin da subito la sottomissione dell'intero regno. Restavano infatti alcuni focolai opposizione e di rivolta. Nel 766 Carlo scese precipitosamente in Italia e risolse in tempo la situazione: secondo alcune fonti militarmente, secondo altre concedendo ai nemici il mantenimento della dignità e della posizione in cambio del giuramento di fedeltà. Tornato a Roma nella Pasqua del 781 insieme con la moglie Ildegarda, Carlo fece battezzare dal papa suo figlio Carlomanno, cui venne imposto il nome di Pipino. per sempre inabile a esercitare l’ufficio pontificale. Ferito e sanguinante venne trasportato in un monastero, dove rimase prigioniero. Tuttavia, Leone riuscì ad evadere e a rifugiarsi a Spoleto, partendo successivamente verso Carlo per cercare aiuto a Paderborn. Nello stesso momento una fazione di aristocratici romani inviò ambasciatori a Paderborn per accusare il papa di varie colpe. Carlo aveva ora due possibilità: accettare che Leone venisse deposto oppure reintegrarlo nelle sue funzioni. Scelse la seconda soluzione, si suppone per virtù di un calcolo politico che avrebbe visto il papa a lungo in debito nei suoi confronti. Dopo un anno di trattive diplomatiche Carlo fece il suo ingresso trionfale a Roma nel novembre dell’800. Fu accolto secondo il cerimoniale riservato all’imperatore. La prima questione che il sovrano dovette risolvere fu la riabilitazione di Leone, che si sarebbe potuto discolpare con una dichiarazione giurata in cui egli negava di aver commesso le colpe datagli. Si trattava pur sempre di un'umiliazione per il Papa, che aveva costantemente sostenuto la sua innocenza, ma dopo tre settimane di trattative dovette cedere: il 23 dicembre con una cerimonia giuro la propria innocenza, ottenendo la piena reintegrazione grazie alla garanzia costituita dall'avallo del re franco. La notte di Natale la basilica di San Pietro era piena di fedeli che s’inginocchiarono quando Carlo fece il suo ingresso indossando la toga di patricius dei romani. Di quanto accadde a questo punto abbiamo quattro versioni: una di Eginardo, una del Liber Pontificalis, due degli Annali del regno franco. Carlo rimase devotamente in preghiera per tutto il tempo del sacrificio eucaristico; terminata la messa, davanti all'altare e alla tomba di Pietro, Papa Leone gli pose sul capo una corona d’oro. Quindi il Papa, secondo l'usanza orientale, si prostrò ai piedi di Carlo in atto d’adorazione; questo, almeno, è quanto riportano gli Annali Del Regno dei franchi. Di fatto, si trattava contemporaneamente di un gesto di restaurazione e di innovazione: rinasceva in Occidente un impero, che però non era la ripetizione di quello scomparso. Era un impero nato direttamente cristiano e latino, sotto la protezione e gli auspici del vescovo di Roma: per i romani, agli occhi dei quali l'impero non aveva mai cessato di esistere, ciò significava l'avverarsi di una speranza; per i franchi, l'assunzione di un'autorità che i molti capi germanici discesi nell'impero nel periodo del suo tramonto mai avrebbero potuto sperare. 6 L’impero carolingio: istituzioni civili e politica monetaria Carlo aveva a che fare nelle sue terre con una vecchia tendenza all’autonomia e all’autarchia. Anche l’aristocrazia franca che costituiva il nerbo del suo esercito era sì abituata a una tradizione di obbedienza tribale al suo re, ma non aveva il senso della cosa pubblica, dello stato. Quindi era molto difficile trasformare questi possessori e guerrieri in funzionari, abituandoli a governare nel nome di una delega ricevuta dal sovrano e sulla base di principi giuridici che potevano sembrare astratti. Carlo si servì di aristocratici in genere franchi per gli uffici pubblici necessari al governo dell’impero. Così come a corte il sovrano era circondato da un comitatus, un gruppo di fedeli, così ora egli ripartì l’impero in varie circoscrizioni pubbliche affidate a singoli comites. Le circoscrizioni amministrate da ciascun comes (conte) avevano il nome di comitatus (contee): alle frontiere contee più forti o gruppi di contee, venivano riunite sotto il nome di “marche” e affidate a un marchio o, in tedesco, Markgraf (conte della marca = marchese). Così suddiviso l’impero correva il rischio di vedere l’autorità pubblica polverizzata in una quantità di circoscrizioni che rischiavano di passare a una sorta di governo arbitrario. Per ovviare ciò, quindi, Carlo istituì dei funzionari itineranti detti missi dominici che dovevano spostarsi da una contea all'altra controllando conti e margravi. Anche l’imperatore si spostava di continuo, indicendo spesso grandi riunioni (Placita) durante le quali giudicava delle cause che venivano portate dinanzi a lui, e pubblicava nuove leggi attraverso speciali raccolte normative chiamate Capitularia. I Capitularia ci consentono di vedere in dettaglio come funzionava il sistema politico ed economico concepito da Carlo. Si è dinanzi a un mondo spopolato nel quale la vita cittadina quasi non esiste, la circolazione degli uomini e delle merci è molto ridotta ed esiste una scarsa e cattiva moneta. All'interno di questo quadro Carlo avviò un sistema di governo e di controllo. Risalgono all'età carolingia inventari anche precisi di beni immobili specie delle grandi abbazie, mentre abbiamo grazie ai Capitularia, notizie abbastanza precise di come si cercava ad esempio di impedire l'ascesa dei prezzi. Collegato al problema dei prezzi, vi era quello della moneta. Con la dissoluzione dell'antica pars Occidentis era tramontata anche l'unità della valuta; se i re visigoti e Longobardi erano riusciti a mantenere la monetazione sotto il controllo reale, Nel Regno merovingio vi era stata un'autentica proliferazione di soggetti che si arrogava nel diritto di battere moneta: vescovi, monasteri e persino << liberi imprenditori>>, possessori di zecche chiamati monetarii. Pipino III pose fine a questa situazione riportando il conio sotto il controllo Regio. Ma l'età carolingia è un tempo di scambi ristretti e prevalentemente in natura: la sola moneta d’oro circolante era il solidus bizantino. I re romano-barbarici avevano coniato delle monete d'oro, ma per motivi di prestigio. Carlo prese atto della rarefatta circolazione monetaria e della drastica diminuzione della circolazione aurea e impose un conio in argento. Fu così creata una nuova unità monetaria reale, il denarius d'argento dal valore stabilito in modo uniforme e con validità costante nel territorio del Regno. Dodici denari formavano un'unità di conto, il solidus (da qui deriva la parola soldo), venti solidi costituivano la libra. I termini erano di derivazione romana; denarii e solidi venivano ancora usati a Bisanzio. La riforma monetaria di Carlo esprimeva la necessità di razionalizzare la produzione e la circolazione monetaria nell’impero adeguandola alle povere condizioni economiche e commerciali in cui l’Occidente versava, e al tempo stesso la volontà di mantenere un raccordo con il modello monetario imperiale ancora vigente. 7 La rinascita carolingia Il Christianum Imperium di Carlo non era comunque la rinascita dell’antico impero d’Occidente, anche se, attraverso la città di Roma e la tradizione che essa rappresentava, si ricollegava in qualche modo adesso. Non era più nemmeno il regnum Francorum. Carlo fondò la sua nuova capitale ad Aquisgrana. Il regno di Carlo coincise con un generale risveglio della cultura in tutto l’Occidente, anche se la restaurazione degli studi era cominciata già a partire dalla fine del VII secolo In Italia, nelle isole britanniche e in Gallia sotto gli ultimi sovrani merovingi. Tuttavia, con l'eccezione di pochi monasteri non vi era traccia di produzione letteraria e persino il latino dei capitolari era disastroso. La riforma della lingua scritta era quindi prioritaria: il prestigio dell'antichità romana era intatto e il latino appariva come l'unico mezzo in grado di risollevare il livello della cultura generale, tanto più che il papato e i chierici se ne servivano. A tal fine, non solo aumentarono le biblioteche monastiche e i centri nei quali si copiavano antichi codici e si redigevano nuove opere; ma cominciavano ad organizzarsi anche scuole, sempre gestite dal clero, delle quali fruivano comunque anche giovani provenienti dalle famiglie aristocratiche laiche e non destinati alla carriera ecclesiastica. Furono istituite scuole presso le chiese cattedrali e i monasteri, nelle quali, oltre alle arti del trivio e del quadrivio, si insegnavano anche la teologia, il canto gregoriano e le norme che regolavano la vita della Chiesa. Queste scuole venivano frequentate anche da esponenti delle famiglie nobili, destinati proprio alla carriera di funzionari e amministratori pubblici. Il programma di restaurazione scolastica era contenuto in alcuni Capitularia diretti a tutti i dignitari del Regno. L'obiettivo era quello di continuare l'opera di restaurazione ecclesiastica, intrapresa da Pipino, e di estenderla a tutto l'impero. Disponiamo anche di un certo numero di lettere e di canoni di concili dedicati all'istruzione e all'educazione del clero. L'imperatore pensava che la cultura fosse un ottimo veicolo per il miglioramento del pubblico servizio, e per quanto personalmente sapesse appena leggere e scrivere, e fosse molto meno colto del padre Pipino, Carlo si occupava assiduamente di questioni di filosofia, di teologia, addirittura di scienza. Attorno al sovrano si riuniva ad Aquisgrana la Schola palatina: non una vera e propria istituzione, bensì un circolo di dotti la composizione e il numero dei quali variava di volta in volta e che era animato e coordinato da un monaco benedettino sassone, Alcuino di York, uno dei più grandi intellettuali del tempo. Non si trattava di una scuola in senso moderno, ma di una specie di Accademia nella quale si disputavano questioni che avevano in un modo o nell'altro sempre a che fare con la gestione del potere. Per prima cosa venne riorganizzata la cura della biblioteca di palazzo; ad essa arrivarono in dono opere degli autori classici e dei padri della Chiesa; la copiatura dei testi permetteva poi che essi fossero diffusi dal centro verso le periferie del Regno; si trattava di un'opera alla quale si dedicavano i monaci ed era lenta e complessa. Le scuole carolingie formarono una generazione di scribi, che adottarono anche una nuova grafia a cui venne dato dagli studiosi il nome di << minuscola Carolina>>. Questa scrittura ebbe un successo senza precedenti, andando a sostituire gradualmente in tutto l'impero ogni altra scrittura precedentemente usata. Anche la punteggiatura può essere considerata un lascito degli intellettuali di Carlomagno; è nei manoscritti di questa epoca che compare per la prima volta il punto interrogativo, Segno di interpunzione che già veniva realizzato con un tratto ondulato. Per questo insieme di riforme si parla di << rinascita>> o di << Rinascimento carolingio>>. Anche in senso culturale si può quindi dire che Carlo sia stato veramente un padre fondatore per l'Europa, per quanto essa sia nata piuttosto dal frantumarsi della compagine politica e istituzionale dell'impero carolingio. Capitolo 2: la disgregazione dei poteri centrali e la costruzione della rete dei poteri locali 1 La dissoluzione interna dell’ordinamento carolingio Carlomagno non riteneva né possibile, né opportuno, che il suo impero potesse restare unito: egli aveva proceduto nellÕ806 a un progetto di divisione fra i suoi tre figli, che tuttavia non venne mai attuato perché due figli morirono giovani. Restava comunque il terzo, Ludovico, che conosciamo con l’epiteto di <<Pio>>. Egli non ereditava una situazione facile: l'aristocrazia sembrava già da tempo avviata verso le lotte interne e le prepotenze nei confronti dei più deboli, nonostante la grande macchina giuridica concepita e attuata attraverso i placiti e i capitolari. Negli ultimi anni della sua vita, Carlo aveva perso energia di un tempo e si era volto soprattutto le pratiche religiose. Questo ripiegamento sembra segnare l'intero arco dell'esperimento di Ludovico. Il programma di governo accentrato e articolato proposto da Carlomagno stava fallendo a causa della debolezza del potere centrale e dell’arroganza delle aristocrazie franche. Il nuovo sovrano sembrava aver pensato che solo un rinnovamento spirituale avrebbe riuscirono a imporre la loro egemonia e ad assicurarsi il pagamento di un tributo da parte dei re delle piccole monarchie di origine anglo o sassone nelle quali l'isola era divisa; solo nel Wessex il re Alfredo il grande seppe tener loro testa. L'Inghilterra sarebbe poi riuscita a unificarsi, nonostante il pericolo normanno: ma nel 1066 sarebbe caduta preda di altri Normanni, ormai francesizzati e provenienti dal Ducato francese di Normandia. L'Europa delle coste mediterranee era a sua volta minacciata fra IX e X secolo da qualche razzia normanna. Ma in genere non furono i pirati nordici a creare i più gravi problemi. Lungo le coste del Mediterraneo erano soprattutto i marinai che gli europei erano abituati a chiamare saraceni ad agire, ma queste loro azioni vanno inquadrate in un'ottica differente Nella quale la pirateria va di pari passo con i commerci. 3 La riorganizzazione dei poteri territoriali: l’incastellamento I continui pericoli e la costante necessità di difesa caratteristici dei secoli IX-X dettero luogo un po’ ovunque non solo al crearsi di vuoti di potere, ma anche al ridefinirsi di nuovi organismi e al riempirsi quasi spontaneo di questi vuoti. In molti luoghi sorsero centri di potere aristocratico, spesso in origine sostenuti dalla pura forza delle armi e legittimati in seguito dal fatto stesso che si erano assunti l'impegno di difendere gli abitanti di una città o di una regione. Ricordiamo a titolo di esempio due casi entrambi franco-settentrionali: a Le Mans, per tutelarsi contro le incursioni normanne, i cittadini avevano obbligato nel IX secolo il loro vescovo , fino ad allora considerato il governatore di fatto della città, a cedere il potere a una banda di avventurieri armati il capo dei quali, Ruggero, sarebbe divenuto Conte; a Langres fu invece il vescovo stesso che prese l'iniziativa di cingere di mura la sua città, e il re non poté che riconoscerlo signore di essa anche sotto il profilo politico. Allo stesso modo nell'italia formalmente inquadrata Del Regno d'origine longobarda e poi carolingia furono spesso i vescovi a riorganizzare la difesa della stessa vita politica ed economica cittadina, circondandosi di armati e progressivamente facendosi coadiuvare da un consiglio costituito dai cittadini più ricchi, stimati e influenti. Quindi, paradossalmente, le incursioni contribuirono al nascere di quello che più tardi sarebbe stato il Comune. Tuttavia, data la scarsità e la debolezza dei centri costieri, quindi l'impossibilità di controllare le vie marittime contenendo la minaccia corsara, quella del X secolo era un’Europa continentale, dalle campagne spopolate dalle grandi estensioni di foreste e di acquitrini paludosi, dove le comunicazioni fluviali erano scarse quelle terrestri quasi impossibili; ciò a causa sia del fatto che uno dei risultati della polverizzazione post carolingia di poteri era stato il rapido destruttura arsi di quel che restava del sistema stradale romano, sia della crescita di bande di briganti, le <<masnade>> che attorniavano gli esponenti dell'aristocrazia guerriera ormai non più inquadrata nelle istituzioni regie. Eppure, i signori ecclesiastici e laici, fortemente radicati nei possessi fondiari che costituivano la base del loro potere economico, attenti al controllo e alla difesa del territorio e concretamente sostenuti nell'esercizio del potere dalle aristocrazie armate al loro servizio, si impegnavano dappertutto a ristabilire le basi di una convivenza civile. Si migliorò in tal modo gradualmente il tono di vita negli insediamenti urbani in quelli rurali, si cominciò a restaurare le strade e a riparare i vecchi ponti o a edificarne di nuovi, si costruirono ospizi per i viandanti. La vita ha ripreso a circolare nuovamente in Europa, ripresero i commerci, si fondarono nuovi mercati e la mobilità degli agenti del tempo, assunse la caratteristica forma del pellegrinaggio. Il sistema politico-istituzionale nato dall'emergenza e che consentì la rinascita dell’Europa occidentale è quello che noi chiamiamo << feudale>>. In quei secoli, la contingenza, e soprattutto il bisogno di difesa contro le incursioni barbariche, determinano il sorgere, dal << basso>>, di nuove strutture concrete di potere: signorie locali, impiantate su una base fondiaria e caratterizzate da rapporti di stretta dipendenza fra uomo e uomo. L'idea astratta di Stato cedette nel periodo successivo alle realtà immediate, che imponevano la considerazione delle necessità primarie: la difesa, l'alimentazione, la produzione di beni destinati al diretto consumo. L’Europa si andò così riempiendo di <<castelli>>: vale a dire di insediamenti fortificati, all'interno della cinta muraria si trovava la dimora del signore locale con i magazzini delle riserve derrate di strumenti di lavoro di guerra, ma anche le più modeste abitazioni del personale. Attorno al castello, si ordinavano le varie unità insediative e produttive gestite da personaggi di vario rango ma tutti legati al << signore del luogo>> da un preciso rapporto di dipendenza. L’<<incastellamento>> fu quindi la fondamentale caratteristica di organizzazione del territorio tra IX e XI secolo, e interessò (in misure e in tempi diversi) l'intera Europa occidentale. Le varie <<castellanie>>, cioè le circoscrizioni con al centro un castello, erano a loro volta parte di unità giuridiche più vaste che si ordinavano in un sistema di dipendenza gerarchica che almeno in teoria aveva al suo vertice dei possessori di Signoria che erano anche pubblici ufficiali; cioè, i vari duchi, marchesi e conti, che dipendevano direttamente dal sovrano. D’altro canto, questa dipendenza era solo formale: il sistema feudale si fondava su una delega di poteri dal vertice alla base e dal centro alla periferia. Almeno in teoria, nessuno sfuggiva a questi legami; nella pratica, libertà personale e anche libero possesso di beni e terre potevano sopravvivere. 4 Il sistema vassallatico-beneficiario Tre sono gli elementi fondamentali del sistema vassallatico-beneficiario:  Un elemento reale: il beneficium o honor, ossia l’oggetto concreto (terre, beni mobili, uffici a vario titolo remunerativi) della concessione del dominus (padrone) al vassus (giovane/vassallo/subordinante); quindi colui che accettava di subordinarsi al concedente.  Un elemento personale: il vassallaggio, ossia la condizione di fedeltà personale garantita da un rito, l’homagium, con il quale il vassus si dichiarava homo, cioè fidelis del suo dominus o senior.  Un elemento giuridico: l’immunità giudiziaria (e nei casi di rapporti tra aristocratici d’alto rango, la concessione del districtus, cioè della <<giurisdizione>>, il diritto di esercitare il potere giudiziario stesso e di godere dei relativi proventi: in questo caso, dal termine germanico ban che indicava il potere giurisdizionale, si parlava di << signoria di banno>>). In effetti, il termine <<feudo>> deriva da una parola germanica indicante in origine gli animali da allevamento, principale ricchezza del mondo nomade. Ma quando i germani divennero sedentari, tale termine finì con il qualificare genericamente il concetto di <<bene>>, di <<possesso>>, di <<ricchezza>>. Gli storici sono concordi nel ritenere che l’avvio dell’istituto feudale vada ricercato in quei beni che i principi germanici dell’età barbarica usavano offrire ai guerrieri del loro seguito. Con il passaggio dal nomadismo alla sedentarietà, i vari signori dotarono i loro seguaci di aree più o meno estese di terreno incolto o anche coltivato. Di tale terreno, il beneficiario diveniva possessore, non proprietario: il signore gliene accordava il possesso e lo sfruttamento, non però la proprietà assoluta. Il che voleva dire che i feudi in origine non si potevano né vendere, né alienare in alcun modo e neppure lasciare in eredità ai discendenti. Il feudo non era sempre costituito dalla terra: a volte consisteva in somme di denaro, una sorta di salario. Il feudalesimo << classico>> è però quello caratterizzato dalla suddivisione di territori in grandi o meno grandi signorie feudali. L'elemento personale, nel rapporto feudale, è il vassallaggio. Si poteva essere vassalli del sovrano, di un gran signore, di un membro della piccola nobiltà, anche di un modesto proprietario terriero. Il rapporto di vassallaggio si instaurava a livello privato fra due persone, una delle quali (il vassus) si dichiarava homo dell'altra. Questo rapporto si formalizzava con una cerimonia detta <<omaggio>>, nella quale il vassus poneva le sue mani giunte nelle mani del dominus e gli giurava fedeltà. In cambio, il dominus offriva al vassus la sua protezione e in certi casi lo forniva di un feudo mediante la cerimonia detta <<investitura>>, durante la quale il bene offerto in feudo veniva simboleggiato da un oggetto concreto (una zolla di terra, una manciata di paglia; nei casi di feudi a cui era annesso un diritto giurisdizionale, una bandiera). Il vassallaggio risponde evidentemente al bisogno diffuso di protezione in un tempo di carenza dei pubblici poteri. In origine, esso non era necessariamente connesso all'acquisizione di un feudo: si diventava vassalli di qualcuno soltanto per venire protetti. L’uso, tuttavia, di tenere i vassalli presso di sé e di domandare loro prestazioni che richiedevano, per essere espletate, una certa base economica, indusse presto a far sì che le pratiche dell'omaggio o dell'investitura divenissero l'una strettamente connessa all'altra. L’elemento giuridico del sistema feudale era costituito dall’immunità e, nei feudi più grandi, dalla concessione del diritto giurisdizionale. L’immunità consisteva nel diritto dei detentori di signoria feudale di andare esenti, all’interno dei confini di essa, dai controlli di qualunque autorità pubblica. Oltre a ciò, i feudatari maggiori ricevevano in delega anche la giurisdizione, cioè il diritto di amministrare la giustizia pubblica e di goderne parte dei proventi economici. Il feudo divenne l’elemento giuridico-politico caratterizzante i secoli X-XII; col sorgere dell’economia monetaria esso subì un fiero colpo, ma seppe risollevarsi al punto che nell’Europa del XIV-XVI secolo si avrà un diffuso processo di rifeudalizzazione. Il sistema sociale e civile nato dal destrutturarsi dell’organizzazione regia carolingia e dalla necessità di rispondere alla polverizzazione dei poteri centrali e ai pericoli tanto interni quanto esterni, si fondò su una larga e aperta sperimentazione di un’ampia pluralità di rapporti. Quella vassallitico- beneficiaria era una complessa rete d’interdipendenze reciproche, all’interno della quale le funzioni di dominus e di vassus potevano esercitarsi anche in senso reciproco: si poteva essere dominus per un certo beneficium di qualcuno del quale si era vassus per un altro, e viceversa. L’investitura feudale non dava diritto a una proprietà a pieno titolo, bensì al semplice possesso. Il feudo non era in alcun modo trasmissibile per via ereditaria. Il ceto feudale reagì molto presto a questa condizione, preoccupandosi maggiormente della precarietà delle concessioni feudali: esse erano strettamente legate all’atto di omaggio, e dunque personali, facilmente revocabili e soprattutto impossibili da trasmettere ereditariamente. La ragione di questa normativa stava nella coscienza della stretta coesione della famiglia del tempo: un bene assegnato con diritto di farne oggetto di eredità difficilmente sarebbe tornato al suo legittimo proprietario. Ma proprio per questa coesione della famiglia, la clausola della non trasmissibilità agli eredi era insopportabile. I grandi feudatari quindi, già dalla seconda metà del IX secolo, cioè dalla crisi dell’impero carolingio, si mossero per appropriarsi di fatto dei feudi loro assegnati e anche delle relative giurisdizioni: 2 La dinastia sassone Fin dal V secolo l’area privilegiata di insediamento dei franchi era grosso modo compresa tra Reno, Atlantico e Pirenei. Carlomagno aveva per allargato il suo territorio spingendosi molto a est del Reno e conquistando territori abitati da popolazioni anch’esse germaniche, ma non ancora o non del tutto cristianizzate e molto meno permeate di cultura Latina di quanto non fossero i franchi. Alamanni, Bavari e Sassoni entrarono così a far parte della compagine imperiale; e, quando nell’843 l'eredità carolingia fu definitivamente spartita, Ehi rimasero assegnati a un Regno che venne denominato Francia orientalis in quanto retto da un sovrano franco, ma la cui popolazione era nella massima parte tutt'altro che franca; parlavano infatti una lingua che non aveva niente a che fare con quella usata dai franchi e in cui era ricca l'eredità Latina, ma che restava invece aderente alle antiche parlate germaniche ed era detta <<tedesca>> in quanto parlata dal theod (<<popolo>>). All'interno del Regno di Germania il substrato latino era molto tenue e accentrato nelle città lungo il Reno e il Danubio; anche l'aristocrazia franca, che lo governava sotto il profilo formale, era costretta a fare i conti con i capi delle varie etnie che in un modo o nell'altro si erano adattati all'ordine carolingio ma non avevano rinunciato alle loro antiche libertà e nemmeno, pur accettando il cristianesimo, a parte dei loro costumi nazionali. Ben presto si verificò una realtà nuova: Il Regno si andò gradualmente formando e configurando come una << Federazione di popoli>>, tra i quali emersero alcuni, che avevano un loro capo latinamente indicato con il termine dux. Si ebbero così vari << ducati>>, all'interno dei quali si andarono affermando, come un po’ in tutta Europa, le istituzioni vassallatico-beneficiarie. Tali Ducati prendevano il nome dai popoli che gli avevano costituiti, anche se la componente etnica si era andata attenuando nel tempo: i franconi, gli svevi o svevo-alamanni, i sassoni, i bavari. La corona del Regno di Germania era la contesa tra questi quattro duchi e veniva assegnata per elezione; ma il re, solitamente, disponeva più che altro di un potere formale. Le cose cominciarono a mutare all'inizio del X secolo. Al trono tedesco venne eletto il duca di Sassonia, Enrico I <<l’Uccellatore>>. Egli riorganizzo l'assetto amministrativo e militare del Regno, facendo costruire una vasta rete di fortezze che erano al tempo stesso centri di difesa, di gestione politica e di organizzazione economica; vinse nel 935 gli ungari e assoggettò i popoli slavi insediati fra Elba e Oder. Dato il successo del Regno di Enrico, i duchi tedeschi elessero dopo di lui suo figlio, Ottone I: egli continuò l'opera del padre battendo nel 955 definitivamente gli ungari. Egli trovò un valido ausilio al suo governo nei membri dell'alto clero della Chiesa tedesca. Poiché il Regno di Germania era diviso, secondo la tradizione carolingia, in contee, Ottone iniziò ad assegnarne numerose ai vescovi, imponendo però che a capo delle diocesi fossero costantemente chiamati uomini a lui fedeli: in questo modo egli era sicuro che non vi sarebbero state spinte a <<privatizzare>> tali cariche pubbliche, rendendole ereditarie. Si ebbe così l’approfondirsi di una tradizione già nata in ambito carolingio, nella quale i vescovi si trovavano investiti di due funzioni, laica ed ecclesiastica, che peraltro restavano distinte. D'altronde, fino ad allora l'elezione dei vescovi, in teoria affidata << al clero e al popolo>> di ciascuna diocesi) era stata lasciata in balia dell'arbitrio delle aristocrazie locali. Il deciso intervento Regio ebbe come conseguenza che i prelati scelti per amministrare pubblici uffici al tempo stesso guidare diocesi furono in linea di massima persone di cultura e di moralità più alte di quanto prima non accadesse. Ciò ebbe come risultato una decisa riqualificazione nei costumi e nelle pratiche di vita degli ecclesiastici. Cominciò così, grazie ad Ottone, la riforma morale della Chiesa d’Occidente. Anche l'amministrazione del Regno divenne qualitativamente migliore; in cambio le istituzioni ecclesiali si andarono progressivamente legando a quelle politico-istituzionali. Il fatto che i vescovi non disponessero di eredi legittimi , e quindi non fossero in grado di trasmettere a nessun erede gli uffici pubblici e i beneficia affidati loro, che in tal modo tornavano al sovrano, era un fattore obiettivo di coesione del Regno. Questo elemento si tradusse in un concreto freno al processo di disgregazione del Regno e di decadenza delle istituzioni ecclesiali. La politica ottoniana seguiva principalmente tre punti: 1. Mantenere la pace nel Regno di Germania incoraggiando una soluzione dinastica al problema della corona, che sarebbe dovuta restare all'interno della famiglia ducale di Sassonia, ma al tempo stesso facendo attenzione a non rompere l'equilibrio che si era andato instaurando fra i << ducati etnici>> che formavano la compagine tedesca. 2. Frenare il processo di disgregazione feudale mediante opportuni provvedimenti, primo fra i quali l'investitura di feudi a ecclesiastici i quali non potevano ereditariamente trasmetterli e quindi non ne pregiudicavano la futura disponibilità da parte dell'autorità imperiale; al tempo stesso, esercitare un fermo controllo sulla chiesa e contrastare la tendenza a privatizzare gli uffici vescovili e abbaziali. Con il passare del tempo, il controllo sulle istituzioni ecclesiastiche avrebbe condotto a uno scontro con una parte del clero; sul momento, però, la presenza imperiale fermò il processo di degradazione delle alte cariche ecclesiastiche, che fino ad allora erano state soggette all'arbitrio dei grandi nobili. 3. Mettersi in condizione di dialogo e di emulazione con l'impero bizantino, e contrastarne l'egemonia in Italia 3 Le discese di Ottone I in Italia il re di Germania non poteva non guardare, una volta consolidato il suo potere, a sud delle Alpi: sia perché là conducevano le vie di comunicazione più importanti, sia perché l’Italia era il territorio sul quale avrebbe potuto avviarsi un confronto con l’impero bizantino che controllava ancora la costa adriatica e il Meridione, sia infine perché Ottone aveva ambito a entrare in rapporto diretto con il papa. Tanto il Regno d'Italia, così definito per volontà di Carlomagno, quanto il pontefice erano allora in condizioni politiche precarie. Il Regno era in preda all’anarchia feudale, per quanto alcuni dei deboli monarchi che si avvicendavano sul suo trono riuscissero anche a farsi conferire dal pontefice una corona imperiale priva ormai di significato. Un governo realmente solido era stato quello di Ugo di Provenza che aveva cercato di risolvere il problema della successione associando al trono il figlio Lotario II, il quale tuttavia scomparve presto. Quindi salì al trono Berengario II marchese d’Ivrea, il quale si associò il figlio Adalberto; ma le persecuzioni che gli inflisse alla vedova di Lotario II dettero a Ottone il pretesto per scendere in Italia. La regina gli si era rivolta in quanto a suo parere Berengario aveva usurpato la corona privandola dei suoi diritti. Ottone scese in Italia e piegò Berengario a Pavia, antica capitale del Regno, e sposata la regina Adelaide, voi cinse la corona d'Italia (951) collegandola istituzionalmente a quella di Germania. Avrebbe forse voluto proseguire per Roma, ma le condizioni del suo Regno dove la minaccia ungara non era stata ancora eliminata, lo costrinsero a rientrare in Germania. Il pontificato del X secolo era in preda ad una grave crisi, cominciata il secolo precedente, periodo in cui si erano succeduti venti pontefici, molti dei quali periti di morte violenta. Il papato era nelle mani delle varie famiglie aristocratiche locali, che se lo disputavano ferocemente che insediavano sul soglio di Pietro i propri rampolli, senza curarsi del loro livello spirituale, morale o culturale. Tra la fine del IX secolo e i primi del X, la città venne dominata dalla famiglia dei Tuscolo, con il suo capostipite Teofilatto, la moglie Teodora e la figlia Marozia. Scomparso Teofilatto, padrona del papato restò la figlia Marozia, la quale fece successivamente eleggere papi quattro personaggi, tra cui un suo stesso figlio. La sua condotta provocò la reazione di un altro suo figlio, Alberico, che la costrinse all’esilio e inaugurò un regime di moralizzazione e di segregazione della città. Ma la situazione mutò con suo figlio che era salito al soglio papale, Giovanni XII: egli cercò di consolidare la sua posizione invitando in Italia Ottone I. Egli scese in Italia e il 2 Febbraio 962 ricevette a San Pietro la corona imperiale. Dal Papa, il nuovo imperatore pretese e fedeltà, inoltre fece in modo che nemmeno in futuro il papato sfuggisse al controllo imperiale: con il privilegium Othonis stabilì che ogni nuova elezione pontificia necessitasse da allora in poi della conferma imperiale. 4 La restaurazione dell’impero Per comprendere l'evoluzione delle corone imperiale e reali attribuiti al sovrano romano-germanico nello scenario dell’Europa postcarolingia è essenziale distinguere fra auctoritas e potestas: cioè, tra diritto all'esercizio del potere (auctoritas) ed esercizio del potere in sé e per sé (potestas). Ciò perché in Occidente l'idea che un'autorità sovrana fosse necessaria a legittimare un potere che di per sé si poteva esercitare nella pratica mediante il semplice utilizzo della forza non venne mai meno. Dopo l’incoronazione di Carlomagno nella pars Occidentis era comparsa di nuovo un’autorità imperiale, ambiguamente collegabile alla precedente, ma essa era comunque sentita come universale e superiore a quelle dei re d’origine barbarica. Ecco perché i papi continuarono ad attribuire perfino la corona imperiale a una serie di aristocratici del regno d’Italia. Il fatto è che ai pontefici romani premeva salvaguardare un principio che nell’impero bizantino nessuno gli riconosceva, ma che in Occidente dopo Carlomagno non era stato contestato: cioè, che era al papa che spettava incoronare gli imperatori e che, in un certo senso era il papa il detentore e il dispensatore <<di diritto>> della dignità imperiale. Con l’incoronazione di Ottone I le sorti dell’impero e dei regni tedesco, italico e borgognone sarebbero rimaste unite, nell’Europa medievale e moderna, in una specie di <<complesso di poteri sovrani>> che avrebbero conosciuto varie vicissitudini, che alla fine si sarebbe ridotto a poco più di un nome. Tale <<complesso di poteri sovrani>> è quello che noi conosciamo come <<Sacro Romano Impero della nazione tedesca>>: <<sacro>> e <<romano>> (impiegati con spirito di emulazione rispetto a Bisanzio) in quanto considerato in qualche modo eredità e ripresa di quell’impero romano che, nella mentalità degli uomini del tempo, non era mai caduto, ma aveva visto le sue istituzioni deteriorarsi nella pars Occidentis mentre era rimasto ben vitale nella pars Occidentis; <<della nazione tedesca>> perché, dal 962 in poi, fulcro n erano state quelle genti di stirpe germanica che si riconoscevano come unite nel Regno dei << franchi orientali>>, a prezzo di un’umiliazione nei confronti dei nuovi padroni della città, i nobili della famiglia dei Crescenzi. Morì poco dopo, nel 1003. 7 Le funzioni monastiche e vescovili A partire dal IX secolo, in tutti i territori che erano stati annessi dai carolingi, il monachesimo conobbe una crescita importante e i monasteri divennero custodi della cultura, con la copiatura dei manoscritti classico-pagani e cristiani e i commenti ai testi sacri, e propagatori della fede nelle aree di recente evangelizzazione. Il merito di questo rilancio del movimento monastico va attribuito soprattutto alla figura di Ludovico il Pio, il quale comprese l’importanza insita nell’unificazione delle regole che governavano la vita monastica del suo tempo. Egli individuò questo fattore uniformante nella regola benedettina modificata da Benedetto d’Aniane e dunque cercò di farla accettare a tutti i monasteri dell'impero. Con il Concilio di Aquisgrana dell’816 sembrò trionfare l'idea di un << monachesimo imperiale>> e la regola benedettina riformata si avviò a divenire il fattore unificante nella vita monastica europea. Tuttavia, i monasteri fra IX e X secolo correvano un costante pericolo. Proprio perché luoghi nei quali si concentravano varie forme di ricchezza, essi divennero preda facile per le scorrerie di ungari, Normanni, saraceni. In alcune regioni questa piaga assunse caratteri di gravità inaudita, per esempio in Inghilterra. Se la situazione di costante insicurezza aveva allentato i rapporti fra poteri laici centrali e periferici, un processo in qualche modo simile si verificò anche per quanto riguardava il clero. Per il papato divenne sempre più difficile affermare la propria vocazione al controllo sulle realtà locali, soprattutto al di fuori dei confini italici. Le comunità monastiche ed episcopali manifestarono la tendenza a intrecciare rapporti con le realtà istituzionali laiche dell'area in cui si trovavano. Il che, in generale, non vuol dire che la vita religiosa si impoverisse. Si affermò la consuetudine per le aristocrazie locali di assumere direttamente l'onere di incrementare le ricchezze di monasteri e vescovati con donazioni e lasciti di terre o privilegi. Nonostante la costante minaccia delle scorrerie, furono ancora i monasteri a tenere un ruolo di primo piano, assicurando una rete di collegamento fra le diverse comunità. Questo fenomeno, insieme all'accresciuta capacità economica, faceva in modo che i monasteri si aprissero più che in passato al mondo, divenendo i protagonisti della vita spirituale, spesso anche economica, del tempo, specialmente nelle molte regioni d’Europa in cui le città erano decadute o stavano appena sorgendo. Rispetto ai vescovi, le comunità monastiche erano spesso indipendenti, in quanto direttamente legate a Roma: il che, in periodi difficili comunicazioni, voleva dire sostanzialmente indipendenti, o piuttosto ancorate alle realtà locali. Rispetto ai monaci, i chierici che vivevano nel mondo versavano in una situazione di minor controllo. I vescovi dei secoli X e XI, di solito provenienti da famiglie aristocratiche potevano essere figure di alto profilo; ma spesso erano personaggi mondani, dalla spiritualità e dalla vita religiosa superficiali se non inesistenti e consideravano l'investitura del loro vescovato come un lucroso affare e intendevano trattare la loro diocesi come una rendita. A questo atteggiamento si univa spesso l'infrazione della norma del celibato del clero, che in realtà non era d'altronde ancora fissata con rigore. Il livello culturale, e dunque la capacità di guidare le comunità, era infine quasi sempre basso, soprattutto nelle campagne. Capitolo 4 Ordini, statuti, istituzioni e strutture sociali 1 Una società trifunzionale? Intorno al Mille il vescovo Adalberone di Laon offriva un ritratto della società europea: è il concetto delle tre funzioni, che rappresentano sulla terra l’ordine voluto da Dio e, allo stesso tempo, sono gli elementi che garantiscono l’armonia nelle società. Oratores, bellatores, laboratores: ai primi spettava pregare affinché la stabilità e la sicurezza del mondo cristiano fossero mantenute; ai secondi combattere, per la difesa del mondo cristiano; ai terzi mantenere i due precedenti << ordini>> con la propria opera. Il termine labor indicava fondamentalmente la fatica dei campi, quindi il lavoro agricolo. La parola ordo (<< ordine>>) ha qui il senso di << corpo sociale>>. La ripartizione dei doveri e degli incarichi corrispondeva a una precisa divisione del lavoro e della ricchezza. In una società nata essenzialmente per la difesa e basata su un'economia di sostentamento nella quale l'agricoltura stava al primo posto, era naturale che il lavoro fosse concepito in modo essenzialmente servile. In una società in cui il denaro non circolava, era naturale che la chiesa considerasse sospetto e quindi condannabile in quanto frutto d'usura qualunque tipo di guadagno non direttamente acquistato con il sudore della fronte e quindi guardasse con riprovazione al prestito a interesse ai commerci stessi. Nella seconda metà del Novecento il filologo Georges Dumézil ha elaborato una teoria generale delle società indoeuropee che riconosceva questa ripartizione trifunzionale quale struttura portante comune. Poiché spesso l'ordine degli oratores è quello nelle cui mani affidato il compito di mantenere vive le memorie dei popoli a cui appartengono, la funzione della preghiera appare essere quella più importante e sacra, che in un'ideale scala di valori più si avvicina alla maestà celeste di cui è intermediaria per gli altri ordini. Uno schema che sottintenderebbe un'antica rivalità o comunque una tensione tra funzione sacerdotale e funzione guerriera, visibile per esempio nella lotta tra sacerdotium e imperium che emergerà a partire dal secolo XI. La dialettica tra le due più importanti élites sociali, quella dei sacerdoti e quella di guerrieri, fornirebbe inoltre un filo rosso che nella storia europea corre attraverso l'epoca antica, medievale e moderna e si arresta alla fine del Settecento, Ehi quando la rivoluzione abolisce << i tre stati>>. La teoria duméziliana non è oggi universalmente accettata, tuttavia alcune delle osservazioni circa le società europee dei secoli centrali del medioevo rimangono interessanti e sono state infatti riprese da un grande medievista, Georges Duby. Nel XII secolo si vano a sgretolare, uno dopo l’altro, gli elementi di questa visione statica della società. Com’era possibile mantenere la tripartizione tradizionale, in un mondo dove c’erano oratores ch’erano anche laboratores o addirittura bellatores. Era soprattutto la città a mettere in discussione gli schemi tradizionali. I laboratores erano essenzialmente i contadini: la città però aveva ampliato e qualificato nuove categorie di produttori come i mercanti, i banchieri, gli artigiani; vi erano poi i professionisti di attività intellettuali, come medici e notai. Come si poteva costringere questi nuovi ceti, spesso in stretto rapporto con le élites dirigenti della Chiesa e dell’aristocrazia, a iscriversi nell'ambito di quelli che un tempo si chiamavano laboratores? Inoltre, nella città, leggi gerarchie sociali, meno facili a mantenersi invariate rispetto al più statico mondo feudale, si trovavano a doversi confrontare con una realtà in movimento.: le contraddizioni non si potevano più nascondere. La città era per sua natura un fenomeno rivoluzionario rispetto alla società precedente. 2 Chierici e laici Oltre alla distinzione fra i tre ordini, all'interno della società cristiana troviamo un'altra importante divisione. Il modo in cui si era venuta formando la Chiesa nel corso dei primi secoli introduceva una netta divisione della Ecclesia in chierici e laici. I chierici potevano appartenere sia al clero secolare, cioè i preti, sia a quello regolare, cioè sottoposto a una regola e appartenente a Ordini religiosi; Da questo secondo ramo deriveranno a partire dai secoli XII-XIII alcune variazioni, come gli ordini monastico- cavallereschi e quelli detti << mendicanti>>. Per quanto la base della vita religiosa monastica restasse quella fondata sulla regola di Benedetto da Norcia, tra X e XI Secolo le mutate esigenze religiose e socioeconomiche avevano determinato la nascita di nuovi ordini, o, più spesso, di congregazioni << riformate>> dell’Ordine benedettino, che ne conservavano la regola aggiungendovi però alcune clausole specifiche. Il laicato conosceva al suo interno una diversificazione di altro genere, basata sulla condizione giuridica e sull'ordine di appartenenza; realtà, che a loro volta, presentavano poi ramificazioni notevoli. Il mondo romano si era ampiamente fondato sulla schiavitù, tuttavia tramontata nei primi secoli dell’era cristiana. Il mondo medievale conosceva forme di schiavitù, ma assai limitate, e organizzate intorno alla cattura e alla vendita di prigionieri non cristiani. A sua volta, il mondo germanico prevedeva una distinzione fra liberi e servi (talvolta anche semiliberi) che invece era sopravvissuta. La vecchia divisione germanica in liberi e servi si cancello dall'età carolingia. Intorno al X-XI secolo si intensificò il fenomeno dell'inurbamento dei ceti servili che giocò un ruolo nella rinascita del mondo urbano e delle sue attività professionali. Rispetto al mondo germanico delle prime migrazioni, anche la condizione dei liberi si era andata complicando: se nell'età precarolingia ogni contadino libero era stato potenzialmente un guerriero, le esigenze del combattimento si erano nel frattempo complicate, determinando l'utilizzo del cavallo e di equipaggiamenti più costosi, il che conduceva una sorta di << disarmo di massa>> e al dominio nell'arte militare di costosi specialisti, i milites. Non dobbiamo poi dimenticare che a partire dall’XI secolo nelle città si stavano affermando anche nuovi ceti di mercanti, banchieri, artigiani, che presto cominciarono ad acquisire una coscienza del proprio status. Era sempre più importante che chi abitava e svolgeva la sua attività nei centri urbani sapesse leggere, scrivere e contare. Si sviluppava così una primitiva forma di scuola primaria, di tipo privato; mentre i ragazzi più grandi, avviati alla professione mercantile, frequentavano le scuole di << abaco>> dove imparavano nozioni di matematica e di ragioneria. Un ruolo importante venne svolto in questo ambito dai giurisperiti, e In particolare dai notai: la professione notarile era, almeno nelle città italiane, quella intellettuale per eccellenza. Nasceva grazie a questo complesso di vicende una nuova cronistica, prettamente urbana, ovvero l'arte di scrivere le memorie cittadine. Sebbene si possa esser tentati di vedere l'insieme di questo ceto urbano emergente come una << borghesia>>, il termine va usato con cautela. Affinché si possa parlare di una borghesia vera e propria bisogna che questo ceto assuma una coscienza di sé distinta e contrapposta rispetto a quella di altri ordini e categorie sociali, un fenomeno che troverà uno suo sviluppo definitivo solo nel corso dell'età moderna. prevalente economia rurale non scoraggiò il formarsi di un ceto di mediatori e negoziatori in grado di assolvere anche alle necessità di un regime di scambio: l'immagine dell'economia curtense come economia << chiusa>> è fuorviante. A partire dall’VIII secolo, in concomitanza con la fine delle successive ondate epidemiche, l'economia cominciò a registrare una tendenza positiva. Il progresso non fu determinato tuttavia, a quanto sembra, da un incremento della rete commerciale, quanto piuttosto da miglioramenti nel settore primario, quello agricolo. Un qualche beneficio provenne, in questo senso, dall'immissione della << rotazione triennale>>, che si sostituiva a quella usata nel mondo romano e che consisteva nel coltivare la metà di un campo lasciando l'altra a riposo, in modo da consentire al terreno di ricostituire il suo tessuto biologico. Ora si iniziò a dividere i vari spazi coltivabili in tre parti, per consentire ogni anno una semina di cereali detti invernali (come il grano) e una di cereali estivi (come l'avena), tenendo a riposo soltanto 1/3 dello spazio. Altri miglioramenti nelle tecnologie agricole furono l'introduzione massiccia del mulino ad acqua, dell'aratro pesante e munito di versoio in grado di lavorare la terra più a fondo del vecchio aratro romano e dall'attacco << di spalla>> agli animali da tiro, che permetteva loro di sfruttare meglio la loro forza rispetto al vecchio sistema dell'attacco a collare, che li soffocava quando si richiedeva loro uno sforzo più intenso. Furono promosse campagne di bonifiche di disboscamento per guadagnare nuove terre alle colture; contemporaneamente, molti spazi incolti, ormai ridotti, venivano privatizzati dai signori. Il progresso delle tecniche fu accompagnato anche da un miglioramento climatico che in effetti si registra già dai primi del X secolo, Inoltre fin dal IX secolo da molte parti dell’Europa giungono prove di un incremento demografico. Il miglioramento climatico del X secolo può aver agito sulla società, contribuendo alla crescita demografica, in due modi: prima di tutto, grazie ai raccolti più abbondanti e alla fine delle carestie causate dal maltempo; e poi anche a causa della diminuzione delle malattie caratteristiche del clima freddo. Oltre a ciò, le meno dure condizioni di vita dovettero incoraggiare le famiglie a diventare più numerose. Quantificare lo sviluppo demografico dei secoli X-XI è difficile: le fonti a nostra disposizione non lo consentono che in molto incerta e modesta misura. Più sicure sono quelle relative ai tempi successivi, le quali ci informano che l'incremento demografico fu costante fra XI e XIII secolo: solo alla fine del Duecento si avvertono un po’ in tutta Europa segni di ristagno. Ovviamente la crescita demografica non fu uguale in tutta Europa. Non è del tutto accettabile in che misura il progresso delle tecniche agricole sia stato raggiunto casualmente e quanto invece sia stato guidato dalle accresciute esigenze dei ceti dirigenti. Anche le esigenze di armamento dei milites si andavano incrementando. Cresceva la necessità di sostenere uno stile di vita di alto livello, rifornendosi di beni pregiati come stoffe preziose spezie. Questi beni si potevano acquistare dagli empori orientali, soprattutto Alessandria e Costantinopoli, ma non si potevano pagare con la modesta moneta d'argento che circolava in Europa dopo la riforma carolingia, serviva l’oro. L’ oro era diventato molto raro e veniva di solito riservato al vasellame ecclesiastico e ai reliquiari. Le signorie territoriali, a partire dal IX-X secolo in poi, si dettero da fare per attirare sul loro territorio le fiere e per diffondere l'uso di monete coniate da loro. Ma tutto ciò sottintendeva strade, ponti e soprattutto sicurezza: da qui la necessità crescente di gestire in modo sempre meno << fondiario>> e sempre più imprenditoriale la Signoria, puntando non tanto alla riscossione delle taglie e alla pretesa di doni quanto piuttosto ai proventi che potevano derivare dai diritti di mercato e di zecca, nonché dall'aumento della produzione e dall’immissione sul mercato delle eccedenze. Il rinnovato commercio richiedeva qualcosa di più delle fiere locali, nacquero così le grandi fiere della Champagne, dove i prodotti orientali si scambiavano con quelli europei e dove si ponevano le basi per un commercio di sviluppo europeo. Senza l'apporto dei veri e propri mercati cittadini, tuttavia, la spinta verso un'economia commerciale più spregiudicata sarebbe stata impossibile. 6 Reti viarie, mobilità e commerci L’ingrandirsi e il moltiplicarsi delle città nell’Europa occidentale fra X e XI secolo portava alla necessità di migliorare le vie di comunicazione esistenti e di costruire nuove vie di comunicazione. Le città antiche erano sorte in prevalenza sulle sponde del Mediterraneo, o comunque sulle rive dei grandi fiumi navigabili. La costruzione di strade carrozzabili era sempre stata per l'antichità un grosso problema, e valicare o traforare le montagne una difficoltà tecnica molto ardua. Solo i romani, grazie alla loro economia a base schiavistica e alla loro organizzazione militare, avevano condotto una coerente politica di costruzioni viarie: ma durante l’Alto Medioevo in Occidente molte di queste strade romane erano state in tutto o in parte abbandonate o ridotte a cave di pietra per la costruzione di edifici, soprattutto chiese. A differenza della strada romana, quella medievale non è lastricata ma sterrata; non è dritta ma tortuosa in modo da assecondare la conformazione del terreno nel quale si trova, infine, più che una carrozzabile è una mulattiera. La manutenzione delle strade dei ponti era stata affidata ai vari domini, con risultati spesso disastrosi: strade e ponti venivano spesso trascurati, mentre il transitarvi finiva con il costare molto caro a causa dei continui dazi che vi venivano imposti. La rinascita commerciale è quindi essenzialmente legata ai traffici per via d'acqua, il che nell'aria continentale interna significava fluviali. Le merci, trasportate su grandi barche a fondo piatto (<< chiatte>>) via fiume, avevano costi più bassi, viaggiavano più sicure e in maggior quantità. Lungo i fiumi europei si andarono quindi sviluppando delle vere e proprie grandi catene di centri urbani: i corsi d'acqua portanti dell'intero sistema erano il Reno, il Rodano, il Danubio, il Po. Ma collegato al traffico dei grandi fiumi troviamo quello dei corsi d'acqua come ad esempio la Garonna, l’Elba, Adige e Arno, Drava e Sava. Si andavano così configurando sistemi di comunicazione misti, nei quali le merci procedevano per via fluviale fin dove era possibile, per venire scaricati e superare poi, ad esempio a dorso di mulo, i passi di montagna. Capitolo 5 Il mondo musulmano tra VIII e X secolo 1 Gli abbasidi e la rottura dell’unità politica dell’Islam Il califfato umayyade di Damasco si era ormai trasformato in una sorta di impero ereditario, ma non senza che questo non provocasse dissidi interni, soprattutto con gli sciiti. Nacque inoltre un forte contrasto tra questa dinastia e la potente famiglia degli abbasidi, che avevano il loro centro di potere in una zona marginale rispetto a quella umayyade: Il Khorasan. In quest’area i locali islamizzati e gli invasori arabi trovarono un punto in comune nell’odio verso la politica fiscale degli umayyadi. Inoltre, la nascente dinastia e il suo leader Abu Muslim attirarono le simpatie degli sciiti conducendo una campagna di propaganda in nome dei discendenti della famiglia del Profeta. Ma nel 749, quando l’ultimo califfo umayyade uscì sconfitto e il califfato di Damasco fu rovesciato, il primo califfo della nuova dinastia non viene scelto nella linea di discendenza cara agli sciiti, ma in quella deli abbasidi che discendono da uno zio di Muhammad, nella persona di al-Saffah. Tuttavia, al pari degli sciiti, gli abbasidi basavano il proprio potere sull’idea di una discendenza che s’appoggiava sulla volontà divina, dove il califfo era il vicario di Dio in terra. Rispetto al passato gli abbasidi basavano il nuovo califfato nella loro area di riferimento e fondarono appositamente una nuova città nel 762, Baghdad, sul fiume Tigri. Ciò stava a indicare che il nuovo baricentro non era più prossimo all’area mediterranea e a Costantinopoli, bensì nell’area mesopotamico-persiana: in ciò era sottinteso un programma di asiatizzazione del califfato, dopo che i califfi di Damasco avevano seguito per un secolo il modello bizantino. Va detto che un membro della famiglia ummayade riuscì a raggiungere la penisola iberica e a fondare a Cordoba un emirato che ottenne gradualmente l’egemonia al punto che nel 929 l’emico Abd ar-Rahman poté assumere il titolo di califfo. Lo spostamento a Oriente del potere centrale islamico indebolì l’influenza araba sulla compagine occidentale del Mediterraneo. Un discendente della famiglia di Ali, Idris, sfuggito alla repressione umayyade, trovò rifugio nelle regioni dell'attuale Marocco. Qui fra 788 e 791 comincio un'opera di unificazione delle tribù berbere senza che tuttavia le popolazioni locali aderissero esplicitamente alla shi’a: esse lo elessero comunque come loro imam. La logica che guidava l'ascesa della dinastia da lui fondata, e dal suo nome detta degli idrisidi, era la stessa che aveva favorito gli abbasidi nella loro scalata al potere: la volontà delle popolazioni islamizzate di sottrarsi alla leadership araba e di attivare invece governi locali. La regione marocchina aveva i suoi punti di forza nelle città romane, ancora attive sotto il profilo commerciale. Ma Idris e suo figlio, Idris II diedero vita a una nuova, importante Fondazione: la città di Fez, che sarebbe diventata la capitale dell'emirato e il punto di riferimento per l'intera area. I tentativi della dinastia di espandersi verso est e verso sud si scontrarono con la resistenza di nuove compagini politico-istituzionali che si andavano formando contemporaneamente. Tuttavia, già i testimoni coevi vi hanno lasciato memoria della floridità dell'emirato idriside, sebbene con la morte di Idris II e la successione di suo nipote Muhammad l'emiro scelse di tenere per sé la sola regione di Fez e di suddividere tra i 7 fratelli il restante territorio. Il potere della dinastia idriside In Marocco si protrasse fino al 922, quando nuove realtà di governo si imposero nella regione. Diversa la sorte del Maghreb centrale, dove si impose una dinastia legata all’impiantarsi tra i berberi locali del settarismo khargita per mano di Rustam, un generale persiano precedentemente prigioniero degli arabi. Suo figlio Ibn Rustam divenne il governatore del Kairuan, una regione dove forte era il khargismo ibadita. Gli ibaditi consideravano che, essendo ormai chiusa la rivelazione, fosse impossibile distinguere con certezza i peccatori e definirli come non credenti: così accettavano le altre comunità islamiche e permettevano i matrimoni con i non ibaditi. Questo credo, pertanto, veniva accettato con più facilità dai non arabi. Ciò avvenne nel Maghreb centrale conquistato da Ibn Rustam, il quale fondò nell’attuale Algeria la città di Taher (767). Sotto i rustamidi si instaurò un regime di convivenza pacifica tra le comunità di musulmani non khargiti, le diverse sette del kharigismo, i cristiani e gli ebrei. Nel 909 Tahert subì l’attacco e la distruzione da parte di montanari kutama, ismaeliti e alleati degli sciiti fatimidi, che massacrarono buona parte degli abitanti. Si conclude così la breve storia di questa dinastia. La più potente fra le dinastie che si affermarono nel Maghreb è quella degli aghlabiti di Kairuan, teoricamente un governatorato per conto degli abassidi, in pratica autonoma e a capo di un territorio che copriva Tunisia e Algeria orientale dai primi del IX secolo. Si trattava di un territorio più intensamente arabizzato e islamizzato rispetto a quelli confinanti a ovest; la compagine etnico-religiosa comprendeva cristiani latini ed ebrei, forti soprattutto nella capitale Kairuan, per il resto era composto di arabi e berberi, spesso in conflitto tra loro, e dalla guardia militare degli aghlabiti composta in prevalenza da genti nemmeno soddisfatto. Fu sotto il suo patrocinio che nell’849 una flotta messa insieme dai campani batté i saraceni al largo di Ostia. Ludovico, nel frattempo, si mosse nuovamente contro Bari, che intanto aveva anche ricevuto la corona imperiale come coreggente e all’impresa era spinto dalle suppliche degli abati di Montecassino e di San Vincenzo al Volturno. Ma i principi Longobardi lo appoggiarono con tanta pigrizia ipocrisia da indurlo a ritirarsi indignato senza concludere nulla. Bari continuò ad essere governata da un emiro che saccheggiava i beni delle abbazie di Montecassino e San Vincenzo. L’imperatore Ludovico II non aveva comunque accettato lo smacco pugliese. Nell’855, una volta rimasto solo a governare, ritentò la conquista. Servì un anno a affinché l’imperatore vincesse le diffidenze e sventasse i doppi giochi dei suoi sudditi longobardi e campani. La campagna aperta nell’867 si concluse quattro anni più tardi, nell’871. Giovandosi anche delle truppe franche inviate dal fratello Lotario II, del sostegno di una flotta bizantina e di una veneziana con rinforzi croati e dalmati, nonché dell'appoggio del principe beneventano Adelchi e della gente di Gaeta l'imperatore riuscì ad avere la meglio sull'ultimo emiro di Bari, Sadwan, il quale venne rinchiuso in una prigione dorata a Benevento. La magnanimità dell'imperatore nei confronti dell'emiro fu forse un errore. L'impero bizantino, uscito da una lunga crisi, si andava riorganizzando grazie all'opera di Basilio I, il fondatore della dinastia macedone, il quale aveva con la sua flotta molto favorito la vittoria di Ludovico, ma non aveva alcuna intenzione di consentirgli di affermare la sua autorità Sull'Italia meridionale che ormai i basileis di Costantinopoli ritenevano loro territorio. Le trame diplomatiche di Basilio I e di Sadwan ebbero l'effetto sperato: una rivolta dei Longobardi di Benevento fece prigioniero l'imperatore carolingio per quasi due mesi, mentre l'emiro di Kairuan spediva in Puglia una nuova esercito invasore, che investiva con furia Calabria e Campania. Ludovico II trovò l'energia di accorrere di nuovo nel Meridione e vinse i musulmani nell’873 a Capua, ma morì due anni dopo. Intanto, i saraceni non cessavano di agire dalla loro residua piazzaforte di Taranto. Da Taranto venivano minacciate le terre di Puglia e Campania, fino addirittura al Volturno. I baresi a questo punto non avevano motivo per rimanere in buoni legami con l’impero germanico; per questo nell’876 si rivolsero alle autorità bizantine di Otranto e ottenevano che la città divenisse capoluogo del tema di Longobardia. I bizantini riuscirono a riconquistare successivamente anche Taranto, ma non erano in grado di impedire ai musulmani di continuare le loro scorrerie nell’Adriatico. Gli arabo-berberi erano lungi dall'essere sconfitti. Mentre completavano l'occupazione della Sicilia con la conquista di Siracusa di Taormina, essi entrarono in Campania, si alleavano con Capua e con Salerno, giungevano di nuovo ai territori controllati dal vescovo di Roma obbligandolo a pagare un tributo, distruggevano le abbazie di San Vincenzo al Volturno e di Montecassino, e stabilirono una base che consentiva di tenere sotto tiro anche la città di Roma. Gli emiri kalbiti, una volta insediati in Sicilia sotto la formale autorità dei <<califfi>> fatimidi del Cairo poterono iniziare l’attacco alle coste d’Italia meridionale, soprattutto quelle pugliesi e calabresi. Il tentativo dell’imperatore sassone Ottone II, che lanciò una nuova campagna a somiglianza di quel che aveva fatto Ludovico II, s’infranse nel 982 presso Capo Colonna. Da allora, si può dire che l’offensiva saracena nell’Italia meridionale non conoscesse argine fino alla morte, nel 1036, dell’emiro al- Akhal, a cui seguì un’irreversibile polverizzazione politica dell’Islam siculo. Sardegna e Corsica restarono fino ai primi dell’XI secolo una no man’s land, i cui porti erano tutti controllati dai saraceni. Si andavano rafforzando frattanto le basi costiere maghrebine. Anche nello scacchiere mediterraneo di nord-ovest la guerra corsara saracena imperversava partendo dalle basi iberiche continentali e insulari. Verso l’890 i corsari musulmani erano arrivati sulla costa provenzale e da lì un gruppo di loro riusciva a organizzare un formidabile nido a Fraxinetum. Da quella base non solo tormentavano le coste e i territori interni immediatamente adiacenti, ma riuscivano anche a organizzare spedizioni verso luoghi relativamente lontani. Ma i corsari di Fraxinetum, che erano riusciti a stipulare anche accordi con alcuni signori locali, finirono con l’esagerare: nel 972-973 misero le mani su un monaco che l’intento di sequestrarlo e chiedere il riscatto. Ma quel monaco era il potente san Maiolo, abate di Cluny, tutto ciò obbligo l’aristocrazia provenzale a muoversi per farla finita una volta per tutte col nido di Fraxinetum. Nel bacino orientale del Mediterraneo, grazie alla controffensiva sostenuta da Bisanzio, le isole di Ciprio e di Creta rientrarono nella seconda metà del X secolo sotto il controllo bizantino. 4 La nascita di un califfato sciita: i fatimidi Con il X secolo inizia un periodo in cui il Maghreb è coinvolto in modo attivo nella grande politica del mondo islamico. Lo spostamento del califfato a Baghdad verificatosi sotto la dinastia abbaside aveva lasciato una sostanziale autonomia di scelta nei territori occidentali. Oltre al Maghreb, anche l’Egitto ne approfittò, anche se le dinastie che inizialmente vi si affermarono non ebbero lunga vita. Un cambiamento importante nella sua storia si ebbe con la crescita della dinastia dei fatimidi, sciiti ismailiti che si proclamavano discendenti di Fatima, figlia del Profeta. La loro origine si deve indirettamente a un missionario, Abu Abdallah lo Sciita che per sfuggire alla repressione abbaside si recò tra 901 e 903 verso il Maghreb, trovando rifugio tra i montanari berberi kutama, che convertì all’ismailismo. Si trattò della prima affermazione pubblica degli ismailiti, fino a quel momento circondati da sospetti e frequenti repressioni e che proprio per questo aveva sviluppato forme di settarismo che promuovevano la taqiya, ossia il riconoscimento (proibito fra gli altri musulmani) della legittimità di celare la propria fede quando minacciata. Nel Maghreb Abu Abdallah lo Sciita fu raggiunto da un altro ismailita, Ubaydallah, che avviò la conquista dell’Ifriqiya e della sua città principale, Kairuan, e si dichiarò imam col nome di al-Mahdi, fondando tra 912 e 921 una capitale che dal suo nome battezzò Mahdiyya. Egli si mosse subito alla volta dei territori occidentali, dove avrebbe voluto conquistare i territori sunniti, ma fu richiamato in Ifriqiya per domare la rivolta dei kutama, suoi primi alleati, nella repressione trovò la morte Abu Abdallah lo Sciita. Il secondo califfo al-Qaim, figlio di al-Mahdi, proseguì l’opera di consolidamento del potere e adottò una politica di divisione fra le diverse tribù berbere, opponendo le une alle altre. Tuttavia, un nuovo momento di grave crisi si ebbe con la rivolta khargita di Abu Yazid che basava anch'egli la sua forza militare su alcune tribù berbere, ma qui il risultato che si voleva ottenere era il rovesciamento della dinastia dei fatimidi. Soltanto l’avvento al potere del figlio di al-Qaim, Ismail, pose fine alla rivolta di Abu Yazid, sconfitto nel 947. Subito dopo quest’ultimo si impegnò in una pacificazione più ampia della regione, per poi rivolgersi agli interessi fatimidi nel Mediterraneo, specie in Sicilia. Scomparso precocemente Ismail, il potere passò al figlio al-Muizz, il quale in primo luogo dovette affrontare un’offensiva bizantina condotta dal basileus Niceforo Foca che si concluse con una tregua. Nonostante la conflittualità interna, il governo dei fatimidi fu un governo che assicurò prosperità economica, come si evince dal fiorire delle città, ricche di commerci e di produzione artigianale. Sistemate le questioni interne, al-Muizz, si concentrò sulla realizzazione più importante della potenza fatimide: la conquista dell’Egitto. Nonostante la sua importanza strategica, il paese era militarmente fragile, probabilmente a causa dei continui cambi dinastici. Sebbene sunnita, era percorso da predicatori e missionari sciiti. Al-Muizz entrò trionfatore a Fustat nel 969 dove vi fondò la nuova capitale, Il Cairo, ove proclamarono un califfato che durò fino al 1171. Il califfato sunnita di Baghdad non riuscì neppure a tentare un’opposizione o una controffensiva, tale fu la forza dell’avanzata fatimide. La conquista dell’Egitto si rifletté positivamente anche sulle altre aree del loro dominio. Sotto la nuova dinastia i centri urbani egiziani ebbero un forte slancio economico. Il Cairo agli inizi del Mille era il più grande centro commerciale musulmano dell’epoca. Le vicende fatimidi interessarono anche la Sicilia. L’isola, e in particolare l’aristocrazia palermitana, era rimasta fedele alla dinastia aghlabide da poco estinta. In quel periodo la Sicilia fu anche terra di immigrazione per i molti musulmani sunniti che intendevano rimanere fedeli al califfato di Baghdad e fuggivano dai fatimidi scismatici. Ma numerose popolazioni berbere, stanziate nella zona dell’agrigentino, furono galvanizzate dalla dinastia fatimide. Ma il tentativo della dinastia fatimide di appropriarsi dell’isola fu contrastato. I primi decenni del X secolo in Sicilia furono caratterizzati da scontri fra sunnismo siciliano e sciismo africano. Il conflitto si risolse a favore dei fatimidi nel 917 con la capitolazione di Palermo. Vent’anni più tardi, nel 937, la ribellione riuscì a rovesciare il rappresentante fatimide. La ribellione contro i fatimidi provocò una serie di carestie e sollevazioni popolari che indebolirono strutturalmente l’isola. Soltanto nel 948, un nuovo emiro, Hassan, riuscì a sedare i dissensi interni inaugurando un’età aurea del dominio musulmano nell’isola. La fedeltà della dinastia dell’emiro, i kalbiti, ai fatimidi nel momento in cui questi ultimi erano interessati al controllo dei traffici levantini del Cairo determinò paradossalmente una maggiore autonomia del governatorato della Sicilia. Durante i primi quindici anni del loro dominio, gli emiri kalbiti di Sicilia iniziarono una sistemazione urbana e amministrativa che favorì un più elevato tenore di vita e una fiorente creazione letteraria e artistica. 5 Il califfato di Cordoba Nel corso del X secolo l’emiro Abd ar-Rahman III, che aveva guidato la dinastia neo- umayyade di Cordoba al massimo splendore e che nel 929 si era arrogato la dignità di califfo, era riuscito a estendere il suo potere anche su una parte del Maghreb occidentale. Cordoba si era affermata quale polo principale nella penisola iberica dei primi decenni del X secolo. Guidata da Abd ar-Rahman e dai suoi successori, la dinastia umayyade portava avanti una precisa politica di espansione verso il nord della penisola iberica e verso il nord Africa. In poco tempo il califfato aveva inglobato Melilla e Ceuta saldandole nel sistema portuale andaluso. Almeria, fondata nel 955, era una delle dieci più importanti città andaluse: è il grande porto umayyade, la base militare della flotta califfale, punto di partenza per le numerose spedizioni che da qui si effettueranno nel Mediterraneo occidentale e sulle stesse coste arabe. Almeria fu il punto di convergenza di interessi politici, militari ed economici che ne fecero un centro commerciale di primo piano nella rete dei traffici iberici e internazionali. Le città della penisola iberica, cristiane e musulmane, ebbero intorno al Mille rapporti diversi con il mare. Da Barcellona a Siviglia fino ai centri urbani atlantici le città svolsero ruoli diversi nel risveglio del commercio occidentale. La coesistenza dei due mondi cristiano latino e musulmano, con la loro progressiva integrazione, avrebbe portato notevoli contributi nella trasformazione del commercio e nel progresso dell’intero bacino del Mediterraneo. Nel 948 un viaggiatore arabo della Mesopotamia, Ibn Hawqal, visitò la Spagna e, a distanza di un ventennio, affidò i suoi ricordi a un libro, la Descrizione del mondo. Ciò che impressionò in primo luogo Ibn Hawqal fu la prosperità delle terre, in gran parte coltivate e fertili per l’abbondanza d’acqua, la numerosa popolazione e le grandi città. Le imposizioni piuttosto ridotte sono il segno per il viaggiatore della quanto accadeva a sud del Sahara, dove pure l’Islam sarebbe arrivato. Tra le informazioni in nostro possesso, sappiamo che a partire dal VII secolo il Sudan cominciò a essere islamizzato a causa dell’influenza dei commercianti arabi provenienti dal nord e dall’est. Nella zona a est del bacino del Niger, a cavallo tra I e II millennio d.C., si formarono i regni del Kanem, del Darfur e del Kordofan che traevano la loro ricchezza dal commercio di schiavi. Invece, lungo il golfo di Guinea si svilupparono raffinate città artigiane. 8 L’islam in asia In Asia i califfi abbasidi furono in generale riconosciuti come i capi morali e spirituali dell’islam sunnita ma solo in alcuni periodi e in alcune regioni affiancarono alla loro autorità un effettivo potere politico. In realtà anche in quest’area il mondo musulmano era soggetto a una continua frammentazione e a lotte dinastiche continue, seppur ciò non impedì la nascita di principati potenti. La mesopotamia settentrionale fu dominata nel X secolo dagli hamdanidi di Aleppo e Mosul. Il territorio iranico propriamente detto venne invece governato dalla dinastia dei Buwaidi, che dal 945 si trasferì a Baghdad e che, pur rispettando la dignità califfale della famiglia abbaside, dominò da allora per 110 anni la città e tutta l'area compresa tra Siria meridionale, Giordania e Iraq attuali. Quell’area che va dal lago d’Aral all’oceano Indiano venne progressivamente controllata dai Tahridi, dai saffaridi e infine dai samanidi, che presiedettero al sorgere di una letteratura nazionale neopersiana. Quella samanide la si può considerare come l’età dell’oro per l’islam dell’asia centrale. Il loro governo riconosceva formalmente l'autorità abbaside comportandosi di fatto in maniera autonoma. Soltanto una nuova etnia islamizzata, quella turca, pose fine alla loro felice esperienza. Ancora più a oriente dell’emirato samanide, ma strettamente collegato a esso, a cavallo tra la fine del X e i primi dell’XI secolo si affermò la straordinaria dinastia dei gaznavidi, che prende il nome dal fondatore Mahmud di Ghazna. Nominato governatore del Khorasan dai samanidi nel 994, Mahmud si impegnò nella repressione di rivolte locali. Il declino samanide gli consentì ben presto una politica autonoma e, quando nel 999 la dinastia crollò, l’ex governatore si impossessò del Khorasan, di Herat e di Merv. Da queste posizioni lanciò una campagna militare che ali inizi dell’XI secolo lo portò a impadronirsi della regione del Gandhara. Nel 1008 sconfisse la confederazione Rajput e nel corso dei venti anni successivi si spinse, primo fra i conquistatori musulmani, a est dell’Indo. Fino al 1030, anno della sua morte, i suoi domini si estendevano dall’Iran al Pakistan, con l’Afghanistan come centro. Sotto la dinastia abbaside il potere dei musulmani si estendeva dai confini della Cina all’oceano Atlantico. Ma non era un mondo compatto, vi erano molti contrasti interni dove gli squilibri sociali e la formazione di dinastie locali minavano la solidità dello Stato. CAPITOLO 6 Bisanzio e l’Oriente europeo 1 L’impero bizantino tra VII e IX secolo Fallita nella seconda metà del VI secolo l'unificazione del territorio dell'impero romano tentata da Giustiniano, l'impero romano d'oriente aveva sempre più sviluppato la sua influenza sia sull'Asia sud-occidentale, dove però era stato duramente contrastato e aveva anche perduto terreno di fronte alla nuova realtà sviluppatasi a partire dalla penisola arabica, l’Islam, sia sull’Europa orientale dove la Chiesa greca aveva condotto una lunga opera di cristianizzazione. Nonostante alcuni rapporti diplomatici in età carolingia e ottoniana, le relazioni con l’Europa occidentale, nella quale si era intanto imposta l’egemonia della sede patriarcale romana, erano state sempre più scarse: a parte l’Italia meridionale, la Sicilia e la Sardegna, terre il controllo delle quali tuttavia Bisanzio aveva progressivamente perso il controllo tra IX e XI secolo. Fin dalla prima metà del VII secolo, l’impero di Costantinopoli aveva ormai mutato volto rispetto alle prospettive di Giustiniano. Esso aveva conservato istituzioni e leggi romane, ma era ormai << orientale>>. La sua armata era in gran parte costituita da mercenari barbari, il suo ceto dirigente da grandi famiglie aristocratiche che controllavano immensi possedimenti asiatici, la sua lingua non era più il latino ma il greco. Un fatto nuovo e rivoluzionario, la pressione dell'islam, aveva provocato una forte e necessaria militarizzazione dell'impero. Le riforme territoriali e militari di Eraclio, che avevano proseguito e portato a termine quanto era già cominciato alla fine del secolo precedente con Maurizio, avevano qualche analogia con quello che in Europa sarebbe stato il feudalesimo. I decenni tra VII e VIII secolo furono per l'impero molto duri; la necessità di concentrare tutte le forze nella lotta contro gli arabi obbligò i basileis successori di Eraclio ad abbandonare la penisola balcanica, ormai divenuta indifendibile, agli slavi, per quanto essi dovettero, grazie all'azione prima di Costante II, poi di Costantino IV Pogonato, riconoscere formalmente la sovranità imperiale. Ma intanto gli arabi, che tra il 642 e il 659 Costante II aveva tenuto a bada, avevano ripreso la loro offensiva: tra il 674 e il 678 giunsero ad attaccare Costantinopoli che, pur essendo la capitale si trovava, data la sua posizione sul mare e la sua vicinanza alla costa meridionale del Mar Nero, collocata in un modo che la faceva trovare spesso in prima linea. 2 Gli isaurici e la crisi iconoclasta Nel VII secolo una nuova potenza si affermò: quella arabo-musulmana. Essa strappò all’impero Siria, Palestina ed Egitto e gli impose un nuovo sforzo difensivo. Un'altra ripercussione quantomeno indiretta dell’Islam su Bisanzio venne a lungo considerata la cosiddetta eresia iconoclasta, sostenuta dagli imperatori della dinastia isaurica. Tra 695 e 717 la fine tumultuosa della dinastia eracliana era stata causa di oltre un ventennio d’instabilità e di guerre civili, che avevano visto avvicendarsi sul trono imperiale ben sei basileis, uno dei quali, Giustiniano II Rinotmeto, l'ultimo eracliano, detronizzato, era poi tornato al potere e aveva avviato una feroce repressione contro i suoi avversari. Fu una grande fortuna per l'impero che da quel caotico periodo finisse con l'emergere nel 717 un sovrano energico e capace, Leone III, il quale aveva ristabilito l'ordine e aveva liberato tra 717 e 718 la sua capitale da un formidabile assedio arabo. Leone III è conosciuto come << Isaurico>> in quanto fondatore di una nuova dinastia imperiale, detta appunto isaurica poiché originaria dell’Isauria. Fu egli a proibire in tutto l'impero il culto delle immagini sacre, che furono per decreto sovrano soggette alla distruzione. La distruzione delle immagini fu all'origine di una lunga crisi che si trascinò lungo tutto il secolo VIII e parte del IX. L'imperatore Leone III fu considerato, soprattutto in Occidente, un eretico a causa della lotta iconoclasta da lui promossa. La Bibbia contiene diverse proibizioni riguardo alla fabbricazione e al culto delle immagini; la prima Chiesa cristiana aveva visto un dibattito tra quanti volevano attenersi a quei divieti, e coloro invece che consideravano importanti le immagini sacre. Senza contare che, proprio in Oriente, le sacre icone dipinte e conservate nei monasteri erano meta di pellegrinaggi e devozioni. Non del tutto chiarite restano le ragioni della scelta iconoclasta, che andava a colpire soprattutto la capitale dove prosperavano sia i monaci che dal culto delle immagini traevano ricchezza e prestigio, sia un ampio operoso ceto di artisti che tali immagini producevano. Certamente il provvedimento feriva il sentimento popolare e dava un gran colpo alla potenza di molti monasteri che dovevano la loro ricchezza alla venerazione di icone da essi custodite. In Occidente, esso inferse Un'altro colpo ai già compromessi rapporti tra Chiesa latina e Chiesa greca, che andarono ulteriormente distanziandosi. Si è anche notato che, con la sua scelta, Leone III sembrava avvicinarsi alle tradizioni ebraiche e musulmane: ma tale rilievo appare di scarso conto, dato che le comunità ebraiche non esercitavano alcuna forma di proselitismo nei confronti di cristiani e, quanto al mondo musulmano, il califfato di Bagdad che in quel momento ne era la potenza egemone era in realtà molto permissivo proprio a proposito delle immagini. L'atto formale con cui si avviò la campagna iconoclasta fu la deposizione e la distruzione dell'icona di Cristo affissa sopra la Chalkhé, la porta di bronzo che serviva da ingresso principale del palazzo imperiale di Costantinopoli, nel 727. Sotto il Regno di Leone e poi di suo figlio Costantino V le immagini venivano distrutte e chi le fabbricava poteva incorrere nella condanna capitale. I patriarchi favorevoli al culto venivano destituiti. Il fenomeno fu all'origine di una grave crisi fra Bisanzio da una parte, Roma e la corte carolingia dall'altra. Tuttavia, non bisogna dimenticare che, al di là delle questioni teologiche, pure importanti, vi erano istanze politiche dalla parte occidentale che in qualche modo rendevano l'occasione propizia ad avviare una polemica per arrivare, alla lunga, alla rottura con Costantinopoli. È forse anche per questo che, nella tradizione occidentale, è stato passato sotto il silenzio che era stato proprio Leone III a fermare gli arabi nel 717-718, quando essi avevano assediato Costantinopoli ben protetta dai tagmata, le milizie speciali alle quali era affidato il presidio della capitale: gli occidentali hanno dal canto loro preferito coniare il mito della battaglia di Poitiers. In seguito, i successi di Costantinopoli contro gli arabi continuarono con la vittoria di Akroinos del 740 e con le successive continue spedizioni anatoliche di confine guidate dal basileus Costantino V; ma ormai la penisola anatolica era quasi del tutto persa per Bisanzio, e la sua sopravvivenza affidata alla continua guerra di frontiera. 3 Uralo-altaici e slavi nei Balcani La penisola balcano-danubiana, ampia area attraverso la quale passava dalla fine del IV secolo d.C. il confine tra pars Orientis e pars Occidentis dell’impero, fu tra VI e IX secolo interessata dalle successive ondate di popoli nomadi provenienti dalle steppe dell’Asia che, dopo aver sospinto verso ovest le genti germaniche qui precedentemente insediate, si mischiarono e si sovrapposero fra loro. Erano popolazioni di stirpe uralo-altaica che parlavano lingue comprese nell’ampio gruppo degli idiomi detti <<ugro-finnici>>; oppure enti distinte dai loro idiomi, a loro volta detti slavi e appartenenti a un ramo del gruppo linguistico indoeuropeo. Il primo popolo a insediarsi in modo consistente in un’area balcano-danubiana tra queste genti fu quello degli avari, popolo uralo-altaico originario della Mongolia. Nel corso del VI secolo gli avari, spingendo verso nord-ovest i germani longobardi, si erano insediati in Pannonia. Da lì, avevano preso a guardare con interesse verso meridione: giunti al livello del loro massimo splendore con il kagan (<<capo>>) Bajan e alleatisi poi con i persiani, avevano partecipato nel 626 all’assedio di Costantinopoli. Dopo il fallimento dell’assedio alla capitale dell’impero, essi persero il controllo anche di alcune aree maturato definitivamente nel 957 con il battesimo della sua vedova, la principessa Olga. La successiva tradizione russa ha drammatizzato l'evento della scelta cristiano- bizantina di Igor immaginando un dibattito che alla sua Corte e in sua presenza si sarebbe svolto tra cristiani latini, cristiani greci, ebrei e musulmani su quale religione fosse la migliore e la più adatta al Principato. Il successore di Igor, Svjatoslav, ampliò i confini del Principato, conquistò il khanato chazaro, respinse i bulgari a sud del Danubio e morì combattendo i peceneghi, una popolazione turco-mongola. Dopo un periodo di frazionamento, la dinastia dei rukidi tornò a unificarsi con san Vladimiro, che ricevette il battesimo nel 988, sposò la principessa Anna sorella del basileus Basilio II, e fece di Kiev una grande capitale, fu il vero e proprio centro di elaborazione di quel mondo uscito dall'incontro tra conquistatori variaghi, tradizioni autoctone delle genti slave e influsso culturale bizantino, che ormai si poteva definire << Russia>>. L'opera di san Vladimiro fu portata avanti dal successore Jaroslav il Saggio che impose la sua egemonia al khanato bulgaro del Volga, collaborò con l'imperatore romano- germanico Enrico III e con il re di Polonia Casimiro I e pose le basi giuridiche di un <<Codice russo>> risultante dalla fusione tra leggi bizantine (quindi giustinianee) e norme consuetudinarie del diritto slavo. Sotto il suo Principato, il monaco Ilarione fondò scuole di copisti e traduttori tanto a Kiev quanto a Novgorod. Il governo di Jaroslav si fondava sul consiglio dei <<Boiari>>, che erano i proprietari terrieri a disposizione dei quali vi erano gruppi di gente armata. Alla scomparsa di Jaroslav, la compagine russa si frazionò in una serie di principati. Fra XII e XIII secolo si assiste pertanto al lento decadere politico, economico e culturale di Kiev; ciò consentì ai veneziani prima e ai genovesi poi di rendere assoluto il loro potere sul commercio del mar Nero. Intanto però una nuova città, Mosca, fondata nel 1147, stava diventando la capitale di un Principato che avrebbe gradualmente imposto la sua egemonia sull'intera Russia. 6 La dinastia macedone Dopo la dinastia amoriana, la sovranità su Bisanzio passò a un’altra famiglia di aristocratici militari, proveniente dal nord dell’impero.: quella <<macedone>>. A Bisanzio, dopo un lungo periodo di lotte e d’incertezze, il regno di Basilio I <<il Macedone>>, santo per la Chiesa greca, inaugurò un’era nuova, caratterizzata da un più forte e centralistico potere della corte imperiale. Il nuovo sovrano proveniva dalla regione di frontiera a nord-ovest dell'impero, una di quelle più difficili e turbolente del tempo, nonostante i bulgari, il popolo in quell'area più pericoloso per l'impero, si fossero da poco convertiti: ed era pertanto profondamente segnato dalla sua professione militare. Tanto Basilio I quanto il suo successore Leone VI misero mano a una riforma del diritto giustinianeo mediante alcune nuove raccolte di leggi, riorganizzarono la burocrazia e dovettero affrontare i problemi ecclesiastici sollevati dall'autorevole ma turbolento patriarca di Costantinopoli Fozio. Essi agirono per il recupero del controllo Sull'Italia meridionale continentale, ma persero in cambio totalmente quello della Sicilia. I basileis macedoni governarono prima di tutto come capi di un'aristocrazia militare la quale esautorava sistematicamente ogni altro potere, monopolizzava le cariche pubbliche e se ne serviva per accrescere le sue grandi proprietà terriere rovinando i piccoli proprietari. Ciò condusse, nel corso del X secolo, alla bipolarizzazione della società bizantina in una ristretta aristocrazia di latifondisti e in una massa di piccoli agricoltori impoveriti e per giunta troppo tassati. Tuttavia, l'impero non perse né la sua unità statale, né il suo carattere di mondo all'interno del quale le forze che davano tono all'economia rimanevano quelle cittadine. Esso restava diviso, secondo la riforma di Eraclio, in 32 distretti politico-militari rigorosamente militarizzati, i <<temi>>: ma i responsabili di essi venivano ora obbligati a risiedere a Costantinopoli come tutta la vasta gerarchia imperiale. Con ciò la capitale diveniva una metropoli costosa, improduttiva e parassitaria nella quale si concentravano però tutti i processi decisionali e si orientavano i destini di tutto l'impero. Nel clima perennemente sospeso tra l'intrigo di corte e il rischio della sommossa popolare, il potere imperiale dovette incentrare tutta la sua politica sul favore a quell'esercito che doveva proteggere i confini dell'impero contro i musulmani, ma anche tenere a freno quei popoli e quei principi che per un verso guardavano a Bisanzio come a un faro di civiltà, per un altro come a una ricchissima preda, per esempio i bulgari e i principi di Kiev. La lotta contro i bulgari dello czar Simeone, i russi e gli arabi assorbì del tutto l'attività di governo dei basileis Romano I Lecapeno e Niceforo II Foca, che era stato acclamato imperatore dopo le sue strepitose vittorie sugli arabi e che con una nuova campagna riconquistò Cipro e la Cilicia. Tuttavia, nel 969, una congiura di palazzo condusse alla sostituzione di Niceforo II con un altro valoroso generale, Giovanni Zimisce; alla sua morte, il potere cadde di nuovo nelle mani di un'esponente della dinastia macedone, Basilio II. Egli si impose come programma interno un contenimento rigoroso dell'aristocrazia, che fu colpita duramente; come programma esterno la liberazione di Bisanzio dai pericoli costituiti dai bulgari dello czar Samuele (per la durezza con cui li combatté venne definito “Bulgaroctonos”, cioè l’Ammazzabulgari), e dai musulmani. PARTE TERZA: La <<cerniera>> del nuovo millennio tra Europa, Asia e Mediterraneo Capitolo 1: Città, autonomie e movimento comunale 1 Società ed economia urbane verso la ripresa i centri urbani del mondo euromediterraneo sono stati un importante <<laboratorio sociale>> fin dall’antichità. Tuttavia, nell’Europa del pieno Medioevo, e in particolare nell’Italia centro-settentrionale, questa generica e costante tendenza si tradusse in forme originali. L’originale dinamica di quest’esperienza prese il suo avvio nel corso del X secolo, quando il mondo euromediterraneo occidentale uscì da una lunga crisi climatica, demografica e sociale. È stato notato come l’insicurezza di quel secolo fosse uno dei fattori della rinascita dei centri urbani dopo una lunga depressione. Le esigenze relative all’organizzazione della sicurezza condussero a ripopolare e a fortificare i centri urbani, alcuni dei quali erano stati a lungo abbandonati, o quasi: i vescovi, che nelle città tradizionalmente avevano il centro della loro diocesi, furono i primi protagonisti di questa rinascita. Attorno a loro si coagulò un’aristocrazia di boni homines provvisti di proprietà mobiliari e immobiliari, di esperienza, di capacità anche militari e difensive, che collaborando con il prelato cittadino configurarono in forme che variano da città a città l’emergere di un’attività comunitaria di governo che certo non coinvolgeva tutti gli abitanti in quanto decisionalmente corresponsabili, ma che li riguardava tutti come oggetto delle scelte dell’oligarchia più potente. Si può in linea generale dire che il <<Comune medievale>> corrisponda a un modello socio- istituzionale diffuso nell’Europa occidentale e centrale fra XI e XIV secolo, che però raggiunse un livello di sviluppo civile e di autocoscienza politica soprattutto nell’Italia centro-settentrionale. Se fuori d’Italia le istituzioni comunali si adattarono agevolmente a rientrare, a partire dal XII-XIII secolo, nel quadro delle monarchie feudali avviate a divenire Stati assoluti, si può dire che solo nella penisola la civiltà comunale assunse i caratteri di una piena coscienza autonomistica. 2 I Comuni italiani: un’origine problematica Non diversamente da molte altre istituzioni e da molti altri fenomeni del Medioevo, il Comune è oggetto di una quantità di malintesi che continuano a circolare nonostante i progressi compiuti negli ultimi anni dalla storiografia. Per l’Italia, ad esempio, non è raro constatare che esso si continua a presentare da un lato (secondo una tradizione di origine rinascimentale) come il dato più caratteristico della storia medievale della nazione, e dall’altro come qualcosa di esclusivamente legato alla città. In effetti, nella storia d’Italia, si parla spesso di un <<periodo comunale>> grosso modo compreso fra XI e XIV secolo, ma si trascura che accanto ad esso continuarono ad avere un grande peso le istituzioni feudali, mentre in aree come la Romagna o il Veneto si affermarono abbastanza presto le <<signorie>>, che solo entro ragionevoli limiti si possono considerare lo sviluppo <<naturale>> e <<necessario>> del Comune. Esiste poi il problema del Comune italo-meridionale, in parte soffocato o emarginato sul nascere dal centralismo regio normanno-svevo-angioino, in parte avviato ma presto abbandonato o forse sottovalutato da una critica storica che lo ha negato o non se n’è curata. È proprio nel X secolo (quello delle scorrerie ungare, normanne e saracene) che le premesse della vita <<comunale>> nelle città italiane prendono forma. In quei centri di continuo sottoposti a pressione e a pericoli, si andò organizzando una sorta di <<vita sociale d’emergenza>> attorno all’unica magistratura che avesse ancora un potere e un credito effettivo: quella vescovile. Attorno al vescovo, si andarono ordinando i membri di un ancor embrionale ceto dirigente cittadino costituito, secondo i luoghi, da rappresentanti minori dei ceti feudali (i milites), da una <<proto-borghesia>> di cambiavalute, di mercanti, di artigiani, di armatori nelle città marinare, di professionisti di arti <<liberali>> come la medicina o il notariato. Furono questi i collegi di boni homines che circondavano il vescovo e lo coadiuvavano nelle funzioni di un governo temporale che in certi casi gli spettavano, in altri si limitavano a riempire un vuoto. Ben presto però, in coincidenza con la lotta fra papato e impero che pose spesso in dubbio la legittimità dei poteri vescovili, i ceti dirigenti cittadini, fra i quali emergeva sempre più la piccola feudalità che si era inurbata, ma che non per questo aveva abbandonato i suoi possessi extraurbani e le sue attitudini guerriere, acquistarono crescente coscienza di sé e del proprio ruolo nelle città: il che accadde talora in accordo con l’autorità vescovile, più spesso nonostante essa o contro di essa. Questo sistema di governo cittadino si sviluppò tra XI e XII secolo, in significativa e stretta coincidenza con maturare del nuovo sviluppo economico e commerciale delle città, e colse anche la possibilità di tradursi in termini di diritto pubblico grazie al coinvolgimento, nel nascente movimento definito << comunale>>, di un forte e intraprendente ceto di giurisperiti. Le oligarchie cittadine costituite da possessores fondiari, da milites, che esercitavano però anche il commercio e nelle città marinare l’attività cantieristica e armatoriale, dettero luogo al sorgere di magistrature collegiali espresse dal loro stesso seno e quindi variamente riconosciute e legittimate dall'autorità episcopale del luogo o da quella regia esercitata per delega dai vari poteri locali: tali magistrati si dissero in genere consules. Essi venivano eletti in numero e per un periodo variabile da città a città ed erano