Scarica Riassunto completo del libro "Sociologia Economica I.Profilo storico" Carlo Trigilia e più Dispense in PDF di Sociologia Economica solo su Docsity! Sociologia economica (I. Profilo storico) Introduzione: che cos’è la sociologia economica Ci sono alcuni esempi di senso comune che mettono in rapporto fenomeni economici e sociali, alcuni esempi rilevano l’influenza dei caratteri culturali e sociali di un paese sull’economia, altri analizzano il condizionamento inverso. Entrambi i tipi di esempi ci permettono di avvicinarci al campo di indagine della sociologia economica. Il capo della sociologia economica è caratterizzato da un insieme di studi e ricerche volti ad approfondire i rapporti di interdipendenza tra fenomeni economici e sociali. L’obbiettivo è affrontare questo tema con metodo scientifico, con maggiore rigore e controllo, per trovare regolarità tra i fenomeni studiati. La scientificità della sociologia economica non è quella delle scienze naturali, non vuole formulare leggi universali e leggi sicure per risolvere i problemi. Le scienze sociali mirano a accrescere la consapevolezza dei membri della società su questioni che riguardano la vita collettiva. 1. Due definizioni di economia Ci sono differenti definizioni dei fenomeni economici, che riflettono punti di vista interpretativi diversi. Per orientarci però, facciamo riferimento a due definizioni, suggerite da Karl Polanyi (scienziato sociale) che sono sufficientemente rappresentative. ❖ Economia come insieme delle attività stabilmente intraprese dai membri di una società per produrre, distribuire e scambiare beni e servizi. Essa riguarda il processo istituzionalizzato (guidato da regole tendenzialmente stabili) di interazione tra uomini e natura per il soddisfacimento di bisogni di una società. se il soddisfacimento di tali bisogni, che sono di vario tipo, necessita della produzione di beni e servizi viene chiamata in causa l’economia. ❖ Questa seconda definizione è quella prevalente. I fenomeni economici vengono visti come “economizzare” cioè come attività che hanno a che fare con la scelta individuale di impiego di risorse scarse, che potrebbero avere usi alternativi, al fine di ottenere il massimo dai propri mezzi. La motivazione dei soggetti che svolgono tali attività economiche è il perseguimento razionale degli interessi individuali. Le regole che condizionano le relazioni tra i soggetti sono stabilite dal mercato, attraverso l’influenza della domanda e dell’offerta sui prezzi. I soggetti, presenti sul mercato, stabiliscono le modalità di produzione e distribuzione dei beni e servizi. Dall’incontro tra la domanda e l’offerta (i produttori) sul mercato dipende la quantità effettiva di beni che vengono prodotti e il loro prezzo, lo stesso vale per le quote di reddito distribuite tra i vari soggetti economici. La prima definizione è più generale, consente di valutare come il comportamento economico assuma forme diverse in base al modo in cui è organizzata la società (es differenza tra grandi imperi dell’antichità e società capitalistiche). La seconda definizione ha come retroterra storico ciò che si analizza nella prima. L’economia emerge come scienza con la nascita della società capitalistica, gli assunti riguardanti il comportamento massimizzante (massimizzare le risorse disponibili) degli individui e i suoi effetti sulla domanda e l’offerta riflettono l’autonomizzazione dell’economia delle strutture sociali e politiche che avvengono in determinati periodi storici. Queste rappresentano due ottiche interpretative, non devono essere considerate alternative, due modi diversi di guardare l’economia da cui discendono limiti e vantaggi. La seconda definizione ha consentito un grande avanzamento di conoscenza dei meccanismi autoregolativi dell’economia (cioè sull’influenza di domanda e offerta sui prezzi. Operando con pochi assunti semplici sul comportamento utilitaristico degli individui, considerando le istituzioni come un dato, l’economia ha sviluppato modelli teorici a elevata generalizzazione, attraverso anche l’applicazione di calcolo matematico ed ha anche affinato strumenti normativi e previsivi che orientano le scelte degli attori. Questa definizione non è adatta quando occorre analizzare contesti in cui il mercato autoregolato ha un ruolo limitato o nullo (es contesti precapitalistici e società capitalistiche) se si cerca di rispondere a domande come “perché alcuni paesi si sono industrializzati prima di altri?”. In questi casi il contesto istituzionale ha un ruolo fondamentale per formulare interpretazioni efficaci. In questi casi la prima definizione apre maggiormente allo studio dell’interazione tra economia e società, quindi più adatta alla prospettiva con cui SOC.ECONOMICA, antropologia e storia economica guardano all’economia, prospettiva più volta a indicare i caratteri dell’economia in un determinato periodo storico o in determinati luoghi. Un elemento che accomuna queste discipline (e le distingue dall’economia) è un’ottica che guarda all’attività economica come processo istituzionalizzato (non parte dal singolo individuo); il focus è sulle istituzioni che regolano le attività economiche. ISTITUZIONI: complesso di norme sociali che orientano e regolano il comportamento e si basano su sanzioni che tendono a garantire il rispetto da parte di singoli soggetti. Le sanzioni possono essere positive (approvazioni, incentivi materiali) negative (punizioni) informali (da parte di altri soggetti) formali (stabilite dalla legge). Nel comportamento economico ci sono regole sia formali che informali e ci sono anche norme che definiscono fini dei soggetti più che il modo di perseguirli. O l’impegno di attività economiche rispetto ad altre sfere di attività. Nel linguaggio sociologico il concetto di istituzione si riferisce a un insieme di fenomeni più ampio rispetto al linguaggio comune. Il concetto istituzione viene usato per indicare le istituzioni politiche, ma anche le collettività regolate dalle istituzioni (imprese, sindacati) ma anche il sistema di regole che fondano queste collettività e rendono possibile il loro funzionamento. Non dobbiamo confondere istituzioni e organizzazioni che invece indicano le collettività concrete che coordinano un insieme di risorse umane e materiali per il raggiungimento di determinati fini, alle organizzazioni possiamo imputare delle azioni, alle istituzioni no. Le istituzioni sono ponte tra economia e società, consentono di storicizzare fenomeni economici, specificarne il posto nella società valutando come il comportamento economico e le strutture siano condizionati da un particolare contesto istituzionale che lo influenzano a loro volta. Le scelte individuali in questo senso sono socialmente orientate e godono di margini di variazione più o meno ampi in base al tipo di società. si parla quindi di economia non in generale, ma economia capitalistica, feudale o latri tipi di sistemi economici e delle specificazioni che essi assumono in differenti casi. Il concetto di sistema economico ha rilievo cruciale in questa prospettiva infatti sottolinea le diverse modalità attraverso le quali le istituzioni orientano e regolano le attività economiche. 2. La sociologia economica secondo Schumpeter e Weber o Schumpeter, viene definito: economista sensibile ai rapporti tra analisi economica e sociale, questa è già una prima differenziazione tra economia e sociologia economica (altre scienze sociali). Per lui la sociologia economica ha compito di: spiegare come le persone sono giunte a comportarsi in un certo modo; in questo senso le azioni devono essere messe in rapporto con le istituzioni rilevanti per il comportamento economico (es: stato, prop.privata…). individuale (bisognerà valutare diverse opzioni: preferibile spendere più sul vecchio prodotto o risparmiare e perdere qualità) tale valutazione chiama in causa criteri di scelta dei singoli consumatori (in economia chiamati preferenze in sociologia orientamenti normativi) tali criteri risentono di esperienze, degli attori, variabili nello spazio e nel tempo. Gli effetti aggregati di queste scelte sono più difficilmente definibili a priori, e ciò ostacola la creazione di leggi generali. o Esempio di tipo sociologico. Collegando fenomeni sociali ed economici si è tentati di formulare leggi del tipo: se peggiorano le condizioni economiche (A) aumenta la violenza collettiva (B) ma studi storici ed empirici non confermano questa connessione; infatti un uguale peggioramento delle condizioni di vita non determina necessariamente una disponibilità a partecipare e forme di malcontento collettivo, questa scelta è influenzata da vari elementi come: risorse disponibili, orientamenti normativi degli attori, legittimità attribuite alla violenza collettiva; inoltre occorrono dei leader che organizzano tali proteste, questi valuteranno anche il quadro istituzionale e le possibilità di successo. Ciò dimostra che non è possibile stabilire una connessione causale generale tra peggioramento delle condizioni economiche e violenza collettiva. Questi esempi dimostrano che è difficile formulare leggi causali dei fenomeni sociali. In particolare emergono: la complessità delle condizioni che influenzano l’azione e il ruolo essenziale degli ordinamenti normativi degli attori; questi contribuiscono a complicare i fattori dei quali si deve tenere conto nel formulare leggi condizionali. È sempre possibile formulare leggi generali ma occorre formularle su condizioni restrittive che ne limitano l’applicabilità empirica. L’economia ha la tendenza a prescindere dalle istituzioni e la loro influenza sulle azioni individuali ciò spinge a creare situazioni ideali in cui la scelta è oggettivamente razionale (ciascun soggette tende ad agire nello stesso modo). Da qui deriva la sua tendenza a previlegiare modelli analitico deduttivi in cui è possibile determinare a priori il comportamento dell’attore; tali modelli consentono l’applicazione di tecniche di analisi matematica. (ciò non implica che le situazioni considerate siano le più diffuse sul piano storico/empirico. La sociologia economica da importanza alle forme istituzionali dell’economia nella determinazione dei comportamenti individuali ciò porta a un’immagine più+ complessa dell’attore. Da ciò deriva la tendenza a limitare le generalizzazioni e a dotarle di confini spazio temporali ben definiti. A un orientamento più induttivo. La concezione dei fenomeni sociali non deve necessariamente oscillare tra una teorizzazione astratta o un empirismo senza possibilità di generalizzazioni; infatti i contribuiti, più efficaci nei risultati, sono lontani dai questi due estremi; ovvero dall’orientamento nomologico (monismo positivistico) e dal dualismo storicistico. Lo status scientifico della sociologia economica è lontano dal monismo e dal dualismo, l’applicazione del metodo scientifico non richiede necessariamente la formulazione di leggi generali, infatti non è l’obiettivo delle scienze sociali, che tendono, invece a formulare modelli (ovvero ricostruzioni ideali di situazioni particolari, con specifiche condizioni che ne limitano l’applicabilità nello spazio e nel tempo) elaborati a partire dalla razionalità storico-empirica, ma che non la esauriscono e servono per interpretarla, chiamate da Boudon “teorie formali”. Il motivo che limita la possibilità di creare leggi generali dei fenomeni sociali è la necessità di prendere in considerazione gli orientamenti normativi degli attori nelle loro variabili, per ricostruire gli effetti aggregati. Questa prospettiva rientra nell’individualismo metodologico che cerca di spiegare i fenomeni sociali partendo da motivazioni individuali, queste però possono essere viste in modo diverso; infatti in sociologia si sottolinea l’influenza dei fattori sociali (norme, valori) sulle azioni individuali in economia prevale una concezione dell’attore che prescinde dai fattori extra individuali (perseguimento razionale dell’interesse militare). L’individualismo metodologico si contrappone al collettivismo più tipico delle concezioni monistiche positivistiche secondo le quali le scienze sociali devono seguire il metodo di quelle naturali; in questo caso non vengono prese in considerazione le motivazioni individuali (azione ricondotta alle condizioni che la influenzano) approccio di questo tipo posson portare a risultati utili, incontrano però difficoltà in termini di generalizzabilità dei risultati perché non tengono abbastanza conto delle motivazioni degli attori che reagiscono in modi diversi al mutamento delle condizioni in cui operano. L’olismo metodologico non si indentifica solo con l’analisi empirica delle variazioni legate al comportamentismo esso può assumere forme diverse (tradizioni sociologica positiva di Comte, quella funzionalista…). ciò che accumuna questi approcci è la tendenza a cercare leggi naturali della società e della sua evoluzione alle quali collegare l’ordine e il mutamento sociale; ma per trattare la società come la natura occorre ridurre gli attori meri esecutori delle costrizioni del sistema. 5. Il pluralismo interpretativo: scienze e valori La frattura tra individualismo e olismo metodologico alimenta, nella sociologia economica, il pluralismo interpretativo (coesistenza di diversi modelli interpretativi) a ciò contribuiscono gli approcci che si rifanno alla metodologia individualistica. L’obiettivo dello studio scientifico dei fenomeni sociali è ricostruire l’interazione tra condizioni esterne dell’azione e motivazione degli attori per capire gli effetti aggregati che ne discendono (che determinano un fenomeno). Questo è un obbiettivo difficile da raggiungere per 2 motivi: o La complessità dell’oggetto di indagine: le condizioni che influenzano l’azione sono molteplici, variano nello spazio e nel tempo e lo stesso vale per le motivazioni (cercare di ricostruire le motivazioni degli attori e i loro orientamenti non è facile, infatti alcuni credono che non si debba cercare di spiegare le motivazioni individuali) ciò amplia la discrezionalità dell’interprete nel selezionare condizioni e motivazioni e nel metterle in pratica. o L’amento della discrezionalità: dà rilevanza ai valori del ricercatore infatti è lui stesso parte della società che studia e le sue preferenze lo guidano nel suo lavoro. le scienze sociali hanno per oggetto una società che cambia nel tempo. I valori del ricercatore sono importanti anche nelle scienze naturali; la differenza è nella maggiore rilevanza che l’oggetto studiato conferisce a tale fattore nelle scienze sociali cioè il più accentuato pluralismo interpretativo; ma non dobbiamo trarre conseguenze scettiche circa la scientificità dello studio dei fenomeni sociali se non pensiamo che tale studio debba avere gli stessi caratteri delle scienze naturali. Il fatto che i valori del ricercatore svolgono un ruolo fondamentale nella scelta dell’oggetto di studio e dei quadri di riferimento (sui cui si costruiscono le interpretazioni) ciò non signuifica che i risultati siano arbitrari soprattutto se i valor del ricercatore sono esplicitati. Ciò permette alla comunità scientifica di sottoporre al vaglio razionale i vari modelli. Il pluralismo interpretativo è una caratteristica inalienabile delle scienze sociali, legato alla storicità della società stessa. Le scienze sociali danno un contributo importante alla costruzione consapevole della società, a patto che non gli si conferisca la responsabilità di creare ricette per risolvere i problemi (impossibile). Un’altra differenza tra le scienze sociali e quelle che puntano a creare leggi generali è che ricercare leggi di natura nella società, porta a pretendere di trovare una fondazione scientifica delle scelte pratiche da compiere; se si ritiene che la vita sociale risponda a leggi generali è illusorio pensare di poter cambiare le cose. Tali orientamenti alimentano l’illusione di aver trovato soluzioni scientifiche a problemi pratici; ma essi non lasciano spazio al pluralismo interpretativo e tendono ad avere interpretazioni totalizzanti. Weber ci dimostra come il problema del rapporto tra teoria e prassi vado posto in modo diverso, quando si rinuncia a l’illusione di leggi generali. Lui mette in guardia dal ricercare una fondazione scientifica dei giudizi di valore e distingue tra essi e la relazione ai valori. La relazione ai valori mostra che nella selezione del tema di ricerca e nell’individuazione di nessi causali tra fenomeni il ricercatore non può non essere guidato dai propri valori; ciò però non inficia la scientificità del lavoro. i giudizi di valore riguardano la desiderabilità di certi fini e non hanno base scientifica. Per lui la scienza non deve rispondere alla domanda che cosa dobbiamo fare ma essa deve essere a servizio della chiarezza infatti il fatto che non è possibile fondare scientificamente i giudizi di valore non significa che tali giudizi siano sottratti dalla discussione scientifica. La considerazione scientifica analizza l’opportunità dei mezzi in relazione a un dato scopo; noi possiamo constatare quali mezzi sono più appropriati per condurre allo scopo prospettato. Noi offriamo a chi agisce la possibilità di misurare tra loro le conseguenze non volute e volute del suo agire e quindi di capire che prezzo ha il suo agire. I valori ultimi non possono essere misurati in via scientifica, sono il frutto di una scelta collettiva ma le scienze sociali danno un contributo importante a tale scelta, fornendo una chiarificazione delle alternative e della realizzabilità. Compito della sociologia economica non è dimostrare che l’organizzazione economica di una società è scientificamente superiore a quella di un’altra ma è quello di chiarire le implicazioni e le conseguenze di uno specifico modo di organizzare l’economia; e valutare le conseguenze di una certa forma economica è importante per orientare le decisioni collettive, quindi la sociologia economica (e tutte le altre scienze sociali) contribuisce alla produzione consapevole della società ma perché ciò accada è indispensabile la liberta di ricerca e di discussione scientifica e che le istituzioni in cui esse crescono siano valorizzate e protette e ciò può accadere solo in società democratiche e aperte Dall’economia alla sociologia economica CAP 1: Economia e istituzioni nella formazione dell’economia classica Nessuna società può sopravvivere senza forme di attività economica; eppure solo nel corso del ‘700 nasce l’economia come disciplina scientifica. Un passaggio essenziale nella storia dell’economia si ha nel ‘600 con il diffondersi del mercantilismo che è un insieme di indagini eterogenee, che hanno introdotto un’importante innovazione; infatti, mentre per Aristotele e gli scolastici il comportamento economico era un problema etico-giuridico (si seguiva il comportamento più idoneo alle norme della società) nel mercantilismo c’è una visione più scientifica e autonoma dei fenomeni economici. nel mercantilismo il comportamento economico è visto come guidato dall’interesse personale (guadagno) e viene riconosciuto il ruolo dello scambio di mercato (cioè influenza di domanda e offerta) nella formazione dei prezzi. Il mercantilismo è reso possibile dalla centralità assunta dall’economia di mercato a partire dal Medioevo, infatti nel ‘600 i commerci avvenivano orami tra gli stati nazione e ne influenzavano la potenza politica perciò le monarchie europee erano interessate a rafforzare l’attività commerciale e l’impero coloniale per rafforzarsi nella competizione internazionale. L’obiettivo principale era garantire un afflusso di moneta. Si servivano di compagnie commerciali. Si importavano materie prime a basso costo e si sosteneva la produzione nazionale con dazi protettivi e sussidi per le imprese interne. Questo protezionismo indica la limitata emancipazione dell’attività economica, che lascia più spazio allo stimolo del guadagno ma che rimane vincolata da leggi imposte dai governi. Qui prende forma un primo modello di rapporti tra economia e società di tipo non normativo. Gli uomini che osservano con spirito positivo le vicende economiche sono uomini pratici con l’obiettivo concreto di migliorare l’economia nazionale, sono per esempio Thomas Mun, William Petty, influenzati dallo spirito scientifico e sono portati all’osservazione concreta dei fenomeni e alla raccolta di dati e per ciò vogliono ricercare regolarità oggettive nel comportamento economico su cui fondare proposte di politica economica (questo è un modello di analisi macroeconomico ante litteram). I mercantilisti vengono criticati perché identificano la ricchezza nazionale con la moneta metallica disponibile, ma questa critica non tiene conto del fatto che molti autori riconoscono il ruolo della ricchezza reale (ovvero beni e valori che un paese è in grado di produrre) rispetto a quella monetaria; anche se essi erano più interessati al ruolo della moneta nel processo di formazione della ricchezza reale. La visione dell’economia dei mercantilisti è pragmatica, raccoglievano dati su aspetti concreti per consigli pratici di politica economica. Il filone contrapposto è quello dei fisiocratici (metà ‘700) con un metodo più deduttivo e sistematico influenzato dal razionalismo del contesto intellettuale francese. I fisiocratici formano una scuola scientifica. Il gruppo era definito “Les economistes” e condividevano gli aspetti essenziali del processo economico e la diffondevano con il loro lavoro. i principali esponenti furono: Francois Quesnay, Mirabeau, Pierre-Paul Mercier de la Rivière e Pierre-Samuel Dupont de Nemours; il clima è quello degli anni che precedono la rivoluzione e essi sono preoccupati per la situazione economica del paese; infatti le spese militari avevano portato pressione fiscale sull’agricoltura e la politica mercantilistica di Luigi XIV aveva dirottato risorse verso l’industria e le manifatture perciò i essi sostengono un progetto di riforma dell’agricoltura. Il loro progetto non vuole ridimensionare il ruolo della monarchia ma a rafforzare il ruolo della borghesia agricola senza intaccare i diritti di proprietà dell’aristocrazia e il ruolo della monarchia che era vista come lo strumento principale per la realizzazione delle riforme. Tale progetto non ebbe significative realizzazioni, ma è importante il tentativo di fondare il progetto di riforma dell’agricoltura e di rafforzamento della borghesia agricola su un generale modello dell’economia e dei suoi rapporti con la società. In questo modello le esigenze del capitalismo agrario vengono giustificate sulla base di un ordine naturale delle cose. Fisiocrazia significa governo di natura e i fisiocratici partono dall’idea che vi siano leggi naturali della società simili a quelle che governano il mondo fisico. Esiste un ordine sociale naturale conosciuto con la ragione, più la società si organizza in linea con queste leggi (con l’auto della scienza) tanto più potrà aumentare il benessere individuale e collettivo. Un aspetto essenziale delle leggi naturali è il diritto di proprietà, se queste diritto viene riconosciuto adeguatamente e non è intralciato dalle leggi positive può svilupparsi meglio l’interesse individuale e crescere la ricchezza individuale e collettiva. Quindi mentre i mercantilisti danno per scontato il ruolo del guadagno nelle motivazioni del comportamento economico individuale i fisiocratici vogliono giustificare questo fenomeno (consolidatosi con l’estensione dei mercati come forma di regolazione dell’attività economica). Essi non vedono il perseguimento dell’interesse individuale come motore delle attività economiche come fatto storico ma come tendenza naturale (un aspetto delle leggi naturali della società) che si possono conoscere con la ragione. Per i fisiocratici non è il commercio e l’afflusso di moneta a creare ricchezza ma l’agricoltura che riesce a dare un reddito aggiuntivo rispetto alle risorse investite. Questo è il punto in cui verte la critica a questa corrente mentre viene apprezzato lo spostamento di ottica dall’analisi degli aspetti monetari a quelli reali nella produzione della ricchezza nazionale. Nella fisiocrazia ci sono elementi che confluiranno nel patrimonio dell’economia: l’idea di leggi naturali dell’economia, l’identificazione del comportamento economico come motivato dal guadagno, le conseguenze positive (sociali e economiche) attribuite al libero perseguimento dell’interesse individuale con il mercato e il ruolo delle istituzioni politiche che deve limitarsi a garantire il diritto di proprietà e la sicurezza dei traffici. 3.La grande sintesi di Adam Smith I fisiocratici ritengono che il libero perseguimento dell’interesse individuale concilia naturalmente benessere individuale e collettivo; per Smith non è così, sostiene infatti che la ricerca dell’interesse individuale e il funzionamento del mercato possono favorire il benessere collettivo solo se controllati da precise regole istituzionali. Lo studio di tali vincoli istituzionali per lui è parte integrante dell’indagine sulle cause della ricchezza delle nazioni. Smith (1723/1790) nasce e lavora in Scozia, insegna filosofia morale all’Università. In un viaggio in Francia entra in contatto con esponenti dell’illuminismo (Voltaire) e con i fisiocratici. Tornato in Scozia scrive “indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni” e lo pubblica nel 1776. La scuola scozzese aveva una sua fisionomia legata al filosofo David Hume e di Francis Hutcheson (maestro di Smith); in questo contesto matura una prima concezione sociologica dell’azione umana; il comportamento individuale non è più dedotto da una disposizione naturale dell’uomo, ovvero l’uomo non è né naturalmente egoista (Hobbes) né naturalmente guidato dalla ragione (Locke/Fisiocratici). L’azione sociale è vista come azione istituzionalizzato cioè influenzata dai valori e dalle norme che prevalgono in una società. le istituzioni sono creazioni degli uomini ma ne influenzano il comportamento. Tale idea viene sviluppata da Ferguson in “Saggi sulla storia della società civile” ma è già presente in “Teoria dei sentimenti morali” di Smith (1759). 3.1 i fondamenti sociologici dell’azione economica In “teoria dei sentimenti morali” Smith applica il metodo scientifico al comportamento umano per comprendere come gli uomini tendono a comportarsi in condizioni determinate. Per ciò egli critica Hutcheson (per la sua idea di un’inclinazione originaria dell’azione umana alla benevolenza) e Mandeville (che evidenzia la forza delle motivazioni egoistiche). Per Smith il perseguimento dell’interesse individuale è una molla importante del comportamento umano regolata, però, norma condivise (non è incontrollata). I benefici pubblici derivano quindi dal perseguimento dell’interesse individuale in forme socialmente controllate (che lui chiama “virtù private”). Quindi l’interesse individuale è socialmente disciplinato dal meccanismo della “SIMATIA” (che oggi chiameremmo socializzazione); essa si basa sull’identificazione con i valori condivisi dagli altri membri della società che si realizza: per mezzo dello spettatore esterno (reazione di approvazione/disapprovazione degli altri al nostro comportamento che ci spinge ad adeguarci alla norma sociale prevalente) e dello spettatore interno (interiorizzazione delle norme sociali che formano la coscienza morale e influenzano il comportamento individuale). Così l’azione umana è plasmata dalla società. Quando le norme sociali incoraggiano vincoli di solidarietà, ci si avvicina a una situazione di tipo comunitario; ma ciò non è indispensabile; infatti nelle società commerciali (con lo sviluppo del capitalismo) i vincoli comunitari si sono attenutati ma relazioni sociali sono possibili, se è garantita la giustizia; le regole di giustizia si fondano sul consenso condiviso e su leggi positive volte a far rispettare la sicurezza la proprietà altrui; quindi per Smith il mercato funziona solo con un quadro istituzionale appropriato. Capiamo così perché, secondo lui il comportamento economico non può essere spiegato con una naturale tendenza alla ricerca di ricchezza; infatti essendo l’azione umana influenzata da norme sociali, il guadagno non è un fine in sé, ma uno strumento per ottenere approvazione sociale. Per Smith il desiderio di migliorare le proprie condizioni, alimentato dal bisogno di approvazione sociale, è permanente nel comportamento umano ma non sempre tale desiderio si esprime nella ricerca della ricchezza. Nel III libro de “la ricchezza delle nazioni” Smith conferma che l’azione economica motivata dalla ricerca del massimo guadagno ha origini non economiche, con l’analisi dello sviluppo capitalistico nelle campagne. Qui infatti dice che le grandi proprietà terriere feudali non erano utilizzate in modo efficiente, non vi erano stimoli al miglioramento produttivo perché i proprietari erano predisposti naturalmente a badare più agli ornamenti (poiché non avevano bisogno di profitto) che al miglioramento produttivo delle terre e lo stesso vale per i servi della gleba che erano come schiavi e quindi non avevano nulla da guadagnare da tale miglioramento. Nelle città, nel Medioevo, abbiamo una situazione diversa, infatti si consolidano le libertà comunali e si affermano l’ordine, libertà e la sicurezza degli individui. Qui le istituzioni cittadine stimolano le attività economiche perché gli uomini quando sono sicuri di godere dei frutti del loro lavoro cercano naturalmente di migliorare le loro condizioni e questo porta alla crescita delle attività commerciali e il conseguente diffondersi di beni di lusso che alimentano il desiderio di affermazione sociale dei grandi proprietari terrieri, che per procurarsi tali beni sono spinti ad aumentare il loro reddito. Successivamente lo sviluppo capitalistico si estende anche alle campagne. La visione dell’azione economica come socialmente determinata è coerente con l’idea dello sviluppo storico alla quale Smith fa riferimento (ovvero la teoria dei 4 stadi) secondo cui si cono 4 stadi dello sviluppo storico che si succedono nel tempo, ciascuno caratterizzato da un’organizzazione economica prevalente: caccia, pastorizia, agricoltura e commercio; ogni stadio ha istituzioni e costumi diversi; in quest’ottica le istituzioni che governano la società cambiano storicamente; l’azione economica è perciò socialmente determinata e storicamente variabile; perciò Smith è lontano sia dal razionalismo astratto dei fisiocratici che dall’utilitarismo individualistico (vede singolo come naturalmente propenso a massimizzare risorse). Alcuni vedono una contraddizione tra la teoria che Smith presenta in “la teoria dei sentimenti morali” e quella in “la Ricchezza”; in realtà però la prima opera mette a punto una teoria generale del comportamento individuale come socialmente condizionato, in cui l’azione economica è vista come influenzata e condizionata dalle istituzioni e ciò ci fa capire come fattori non economici portino alla ricerca della ricchezza come criterio che guida il comportamento economico e su questi presupposti Smith ne “la ricchezza delle nazioni” esplora le conseguenze economiche che discendono dal diffondersi dei nuovi comportamenti. Ciò avviene in due modi: 1. Il primo riguarda le modalità in cui avviene la produzione dei economico le istituzioni hanno un ruolo essenziale perché sono la variabile indipendente 2. Le istituzioni capitalistiche sono appropriate per sostenere lo sviluppo economico quanto più si avvicinano a quelle del capitalismo concorrenziale 3. Lo sviluppo economico è lo strumento principale che consente al capitalismo concorrenziale di evitare le tensioni tra economia e società. La divisione del lavoro è un aspetto importante per la crescita della produttività (e della ricchezza); la divisione del lavoro infatti aumenta la quantità di lavoro che lo stesso numero di persone può svolgere perché: 1. ogni singolo accresce le sue abilità, specializzandosi in una mansione, 2. si risparmia il tempo, prima impiegato a passare da un lavoro ad un altro 3. Facilita l’invenzione di macchine che riducono il tempo di lavoro. la divisione del lavoro varia con l’ampiezza del mercato (e quindi con l’entità degli investimenti), tanto più il mercato cresce tanto più è favorita la specializzazione produttiva, poiché sarà più conveniente acquistare da altre unità specializzate alcuni beni piuttosto che produrli e tanto più sarà favorita la divisione del lavoro. L’accumulazione del capitale è una condizione necessaria per la crescita della produttività perché favorisce l’allargamento del mercato e la divisione del lavoro, ma questa per Smith non è una condizione sufficiente; infatti per avere una crescita economico è necessario che l’accumulazione sia stimolata e regolata da istituzioni. Per comprendere il ruolo delle istituzioni dobbiamo analizzare due temi: I. lo sviluppo economico è favorito quando le istituzioni capitalistiche si avvicinano alla concorrenza; ovvero quando vi è un numero elevato di capitalisti in concorrenza tra loro, tale situazione è favorita da scelte politico, ovvero dal venir meno di ostacoli istituzionali alla mobilità di capitale e lavoro; da ciò deriva la sua critica al protezionismo (in La Ricchezza) e la sua tesi sul ruolo limitato che le istituzioni devono mantenere nell’economia. Smith ritiene che, eliminate le barriere istituzionali, la società sia spontaneamente in grado di produrre un’imprenditorialità diffusa e mercati concorrenziali (su ciò si concentrerà la Soc. economica secondo la quale la formazione dell’imprenditorialità è stata problematica e non dipende solo dall’assenza di ostacoli alla mobilità delle risorse). Dobbiamo ora capire perché il capitalismo concorrenziale sia superiore al capitalismo monopolistico. La 1° risposta (tradizionale) sostiene che condizioni di monopolio non sono vantaggiose perché alterano prezzi e quantità; la 2° risposta ha a che fare con gli effetti dinamici della concorrenza; infatti Smith sostiene che il saggio del profitto diminuisce con l’aumento della prosperità della società; bassi tassi di profitto sono determinati da una più intensa concorrenza; per questo l’interesse del capitalista è allargare il mercato e restringere la concorrenza; ma le maggiori difficoltà a ottenere e mantenere il profitto sono vantaggiose dal punto di vista economico, perché stimolano l’imprenditorialità del singolo capitalista. Ma affinché i bassi tassi di profitto manifestino i loro effetti è necessario che si mantenga una situazione concorrenziale e in particolare: a. l’impegno diretto del capitalista nella gestione dell’impresa, Smith in questo senso esprime contrarietà verso le società per azioni poiché i manager amministrano denaro non proprio e hanno meno interesse a reagire alla concorrenza e accrescere la produttività b. norme di comportamento che limitano gli effetti della concorrenza sui salari, in questo senso Smith ritiene opportuna una politica di alti salari da parte degli imprenditori, infatti salari più alti fanno si che gli operai siano più attivi e incoraggiano la produttività se stimolano i lavoratori a diventare proprietari essi stessi, ovvero stimolano la mobilità sociale. II. Lo stato ha un ruolo importante nello sviluppo economico. Perché il capitalismo concorrenziale si formi e si riproduca lo stato deve assicurare la libertà commerciale, la proprietà privata e limitare il suo intervento nell’economia (con pochissime eccezioni; es. rispondere a politiche protezionistiche di altri paesi). In condizioni normali lo stato deve solo assolvere 3 funzioni: 1. Assicurare la difesa della nazione, garantire l’amministrazione della giustizia, e provvedere a opere pubbliche, che non possono essere svolte dal settore privato, necessarie all’attività economica. Smith da molta importanza al ruolo dello stato e al modo migliore in cui esso deve assolvere tale ruolo. Per Smith perché le istituzioni siano efficaci è necessario organizzare il lavoro sulla base di meccanismi di responsabilizzazione che legano remunerazione e impegno professionale. Il capitalismo concorrenziale assicura maggiore sviluppo se anche le attività statali si basano sui principi di responsabilizzazione e impegno personale tipici della società civile e stimolati dal mercato; in queste condizioni è infatti più probabile che vengano forniti beni pubblici, che permettono alle imprese private di aumentare la produttività. Ciò dimostra che Smith non è in linea con l’idea del lassez faire. Le istituzioni sono in grado di conciliare efficienza economica e consenso per 2 motivi: 1. Producono più sviluppo che permette di aumentare il benessere di tutte le classi sociali 2. Il mercato concorrenziale riduce le disuguaglianze (bassi profitti e alti salari) e le fa dipendere maggiormente dall’impegno individuale nel lavoro. per Smith il mercato riduce le disuguaglianze in modo che il desiderio di migliorare la propria condizione produca beneficio collettivo. E così il mercato tiene insieme sviluppo economico e consenso. Smith credeva nella capacità diffusiva dello sviluppo, cioè sosteneva che i benefici del mercato concorrenziale si sarebbero imposti a aree territoriali sempre più vaste, influenzando le istituzioni in direzione delle libertà commerciali; la spinta al miglioramento delle condizioni individuali, è capace, per Smith di superare gli ostacoli delle leggi umane che la intralciano. (così ciascun paese può importare ciò che è prodotto da altri a prezzo minore e specializzarsi in produzioni in cui è competitivo). Per Smith sviluppo e mercato concorrenziale possono ridurre le disuguaglianze sociali, ma anche quelle territoriali. Ne risulta un paradosso, perché da un lato lui riconosce l’importanza delle istituzioni per lo sviluppo economico, ma sottovaluta la loro capacità di resistere alla logica del capitalismo concorrenziale. Smith immagina così un progresso lineare continuo. Tale visione di Smith in cui l’economia favorisce l’integrazione sociale è stata messa a dura prova dalla storia; ma il suo modello è un punto di riferimento per l’economia e la sociologia economica. CAP 2: La svolta economica e i suoi criteri: storicismo e Marxismo L’analisi economica si sviluppa e si consolida nel contesto inglese con una svolta economicistica. Una valutazione più pessimistica sulle possibilità di crescita della ricchezza e di diffusione del benessere si contrappone all’ottimismo di Smith. Contro tali tendenze si dirigono due tipi di critiche. Storicismo tedesco e Marxismo ripropongono, in modo differenti un’analisi istituzionale dell’economia per contrastare la separazione tra economia e società. 1.La “scienza triste” Malthus e Ricardo si concentrano sui limiti naturali allo sviluppo economico, che riguardano la tendenza alla crescita della popolazione e ad una decrescente disponibilità di risorse della terra. Perciò emerge che le possibilità di aumentare la ricchezza sono più contenuti di quanto credeva Smith. Secondo i due autori non è possibile intervenire in tale processo perché ciò provocherebbe danni maggiori. In questo scenario le istituzioni dell’economia capitalistica non sono considerate più efficaci ma sono considerati come “il male minore”, infatti Malthus dice che sono un mezzo insufficiente ma migliore di tutti gli altri per rimediare i mali della società. questa idea dell’economia, definita da Carlyle “scienza triste” matura nel contesto Inglese della rivoluzione industriale. Il ruolo del mercato come strumento di regolazione dell’attività economica si è consolidato ma le due conseguenze sono pesanti e durature. T. Malthus (1766-1834) ecclesiastico, scrive “Saggio sul principio di popolazione”, l’assunto è la tendenza degli esseri umani a moltiplicarsi più di quanto lo permettano i mezzi di sussistenza disponibili; ciò porta alla minaccia di sovrappopolazione e un argine a tale minaccia è la legge ferrea del salario secondo cui: un aumento del salari porta il lavoratori a riprodursi, ciò pota un maggior numero di lavori nel mercato del lavoro (maggiore concorrenza) che porta all’abbassamento dei salari al livello di sussistenza; così la fame bilancia gli eccessi del sesso. La miseria della popolazione è quindi una necessità che non è alleviata dalla crescita economica; la miseria è un problema naturale non sociale. Le istituzioni dell’economia vengono qui viste come una difesa necessaria alla minaccia della sovrappopolazione e l’opposizione di Malthus a misure per attenuare la povertà, infatti queste misure avrebbero portato una crescita artificiale della popolazione per la quale non vi sono mezzi di sostentamento, distorcendo così il mercato del lavoro; perciò le istituzioni non possono alterare le leggi dell’economia (che sono naturali) ma devono adeguarsi. D. Ricardo (1772/1823) condivide il pessimismo di Malthus; ma con lui il pensiero economico assume le caratteristiche del rigore analitico-deduttivo e di astrazione che hanno connotato gli sviluppi successivi. Lui scrive “sui principi dell’economia politica e della tassazione” in cui la questione essenziale è la distribuzione di reddito tra le 3 classi: proprietari terrieri, capitalisti e lavoratori (questo problema è stato affrontato anche da Smith, ma secondo Ricardo lui aveva una considerazione errata della rendita agricola) infatti mentre per Smith la rendita non incide sui profitti del capitalista e sul tasso di accumulazione, per Ricardo la rendita condiziona il livello di dei profitti e dei salari e quindi la crescita della ricchezza. Secondo Ricardo la pressione demografica determina una messa a coltura di nuove terre, meno fertili, che porta a un aumento della rendita che i proprietari richiedono per quelle migliori, poiché cresce la concorrenza dei capitalisti per accaparrarsi le terre migliori; così però il saggio del profitto si abbassa e aumentano i prezzi dei beni agricoli. Ciò fa salire il costo di sussistenza dei lavoratori e quindi fa aumentare i salari e ciò comporta il calo del saggio del profitto complessivo e l’accumulazione di capitale frena. Ricardo per ciò sostiene che sia necessario eliminare ogni protezionismo agricolo (dazi sulle importazioni), infatti l’importazione di prodotti agricoli a basso costo avrebbe frenato il calo del saggio e abbassato le rendite. Con tale posizione liberista Ricardo si distacca da Malthus (che nel conflitto tra proprietari terrieri e capitalisti favoriva i primi). Malthus in “principi di economia politica” sosteneva che nell’economia capitalistica vi sia una tendenza alla sovrapproduzione; tale idea andava contro quella di Smith, ripresa poi da J.B Say, che con “la legge di Say” sostiene che ogni offerta di beni genera una domanda adeguata a soddisfarla; mentre per Malthus la sovrapproduzione era un rischio reale contrastato dalla rendita agricola; per sostenere la domanda di beni prodotti era per lui necessario il consumo non solo di capitalisti e lavoratori, ma anche di proprietari terrieri e lavoratori impiegati nei servizi. La posizione di Ricardo prevale per molto tempo e la discussione con Malthus su come il conflitto tra proprietari terrieri e capitalisti influenza lo sviluppo economico. Gli autori fanno emergere anche un altro conflitto di interesse: tra imprenditore e lavoratori; in questo caso entrambi gli autori richiamano la legge ferrea del salario e non prendono in considerazione l’idea che i lavoratori, organizzandosi possano mutare le loro condizioni economiche. Allo stesso tempo però Ricardo, con la sua “critica alla teoria del lavoro di Smith” da sostegno alle rivendicazioni operai, che però non prevedeva ne auspicava. Ricardo sostiene (contrariamente a Smith) che il valore delle merci sia determinato dal valore del lavoro necessario a produrle, anche nelle società capitalistiche. Il profitto impiegato per il capitale fisso (macchinari) e per il capitale circolante (acquisto materie prime e lavoro) non è altro che una ricompensa per l’attività dei lavoratori di cui si sono appropriati i capitalisti, trasformandolo in capitale. problemi concreti dell’economia politica ma non riesce ad individuare risposte soddisfacenti. Non vi è mediazione tra analisi storica e interpretazione teorica, perciò lo storicismo non riesce a creare una soddisfacente sociologia economica. 3.La critica di Marx Marx critica l’economia classica perché non tiene conto del conflitto tra capitalisti e lavoratori e del mutamento che la lotta di classe porta nelle forme di organizzazione economica tipica del capitalismo. Lui condivide la visione pessimistica di Malthus e Ricardo, ma lui non mette in luce i limiti naturali, bensì i limiti sociali delle istituzioni dell’economia capitalistica (proprietà privata, e lavoro salariato). Marx ha una visione dialettica, sostiene che il capitalismo genera una polarizzazione crescente delle classi sociali, che porta all’intensificazione del conflitto che determina il superamento delle vecchie forme di organizzazione economica. A differenza dello storicismo, che si concentra sulle differenze nazionali, Marx si concentra sulle differenze di classe; entrambi uniscono l’indagine economica al contesto istituzionale, per via dell’influenza della tradizione intellettuale tedesca, infatti per l’idealismo tedesco (Hegel) la storia è un divenire in cui si determina la progressiva realizzazione della ragione umana (entità sovraindividuale) per questo ciascun momento storico va analizzato nella sua totalità. Una differenza tra Marx e lo storicismo è però che mentre per lo storicismo l’evoluzione culturale condiziona l’organizzazione economica, per Marx è l’opposto (aspetti socio-economici motore dello sviluppo storico). Marx vuole formulare una teoria generale dello sviluppo storico, e si concentra in particolare sulla società capitalistica e sulle sue trasformazioni. 3.1 Gli ingredienti intellettuali Marx studia all’Università di Berlino (influenzata dalla filosofia Hegeliana) inizialmente segue una formazione economico-giuridica e più tardi si avvicina all’economia politica, che gli è servita per costruire su basi materialistiche (fattori economico-sociali) una teoria dialettica dello sviluppo storico (studia economia politica classica inglese a Londra e in questo periodo scrive “per la critica dell’economia politica” 1859 e “il Capitale” 1867). A Parigi si avvicina al pensiero riformista e socialista francese (tematica del conflitto di classe) e conosce Engels (con lui scrive L’ideologia tedesca, con il quale fa i conti con la sua formazione Hegeliana e avvia una fase ideologica dando centralità all’analisi economica). Nel suo pensiero confluiscono Idealismo tedesco, Socialismo Francese e economia classica inglese; è un’unione di economia, sociologia che confluiscono in una teoria generale dello sviluppo storico. Il suo obiettivo è gettare le basi per una scienza complessiva della società in cui aspetti economici e istituzionali sono collegati e inseparabili che permette di prevedere lo sviluppo storico e fondare una guida per l’azione politica. Marx rimane fedele alla visione dialettica dell’idealismo Hegeliano (storia continuo divenire attraverso stadi) per lui però il motore del divenire sono fattori economico-sociali “modo in cui gli uomini organizzano la produzione” (non ideologici come in Hegel); per lui i modi di produzione (fattori economico-sociali prevalenti) generano le classi che li metteranno in discussione e che porteranno a forme di organizzazione diverse. L’obiettivo del socialismo è visto quindi come passaggio storico inscritto nelle leggi di movimento della società capitalistica; Marx si considera perciò il fondatore di un socialismo scientifico, contrapposto alle utopie dei precedenti socialisti; ma la sua visione per cui uno schema spiega tutto è stata criticata perché responsabile di ambiguità (si presta a spiegazioni divergenti). 3.2 la teoria dello sviluppo storico Marx critica i classici poiché considerano naturale la divisione in classici e perché non valutano correttamente le differenze storiche nelle forme di organizzazione economica perciò non valutano adeguatamente l’evoluzione e sottovalutano il conflitto tra capitalisti e lavoratori (non sostengono che lo sviluppo porti necessariamente al conflitto di classe, che avrebbe generato il superamento dell’economia capitalistica). Tale affermazione è eccessiva e smentita da Schumpeter che sostiene che gli economisti sono consapevoli della storicità ma considerano le istituzioni come un dato scontato. Marx nella sua teoria si pone 2 obiettivi: ✓ Storicizzare l’analisi economica: non è possibile studiare l’economia prescindendo dalle istituzioni che la regolano, perché la produzione è un processo sociale, non solo economico. I rapporti sociali di produzione sono l’elemento dal quale bisogna partire nell’indagine di ogni forma di società, infatti fondano la divisione in classi. I rapporti di proprietà sono la forma giuridica dei rapporti di produzione. La disuguaglianza sociale (la distribuzione del prodotto) sono condizionate dalla posizione di classe. Secondo Marx, perciò, la società capitalistica non può essere concepita con il modello individualistico- utilitaristico dell’economia classica, infatti non è costituita da un insieme di individui isolati, con pari opportunità che scambiano beni e servizi per massimizzare il loro interesse; infatti gli attori non hanno pari opportunità e uguaglianza, i proletari sono costretti ad accettare le condizioni di scambio imposte dai capitalisti: perciò l’ordine sociale è caratterizzato dalla coercizione esercitata dalla classe dominante. I rapporti di produzione (e le classi) variano in base al grado di sviluppo delle forze produttive (l’insieme dei mezzi materiali di produzione, che includono: conoscenze scientifiche e tecniche, forme di divisione del lavoro, qualificazione culturale e professionale del lavoro) i rapporti di produzione costituiscono la struttura della società; che condiziona l’organizzazione sociale, politica e culturale della società. l’ordine sociale si mantiene fintanto che lo sviluppo delle forze produttive non è ostacolato dal modo di produzione, e in questo caso c’è congruenza tra struttura e sovrastruttura ( a cultura legittima il modo di produzione, i valori della classe dominante sono condivisi anche dalla classe dominata, le forze della politica sono congruenti con il modo di produzione perché riflettono gli interessi della classe dominante) finché la classe dominante ha un ruolo economico di sostegno allo sviluppo delle forze produttive, l’ordine sociale si mantiene grazie al consenso oltre che alla coercizione. La struttura è la base reale sulla quale si eleva la sovrastruttura (alla quale corrispondono forme determinate di coscienza sociale) la struttura condiziona la sovrastruttura. L’ordine sociale è destinato a cambiare quando lo sviluppo delle forze produttive non può più essere contenuto nel vecchio modo di produzione, un aspetto importante è il formarsi di una nuova classe sociale, la cui crescita è sostenuta dallo sviluppo di forze produttive, la nuova classe lotta contro la vecchia classe dominate e i vecchi rapporti di produzione; in questo conflitto viene meno la congruenza tra struttura e sovrastruttura, le istituzioni politiche non riescono più a difendere la classe dominante e i rapporti di produzione e alla fine si afferma un nuovo modo di produzione ✓ Mettere in evidenza il ruolo del conflitto di classe nell’economia capitalistica. Importante l’affermazione di Marx ed Engels nel “Manifesto”: “la storia di ogni società fin ora esistita è storia di lotte di classe” in questa frase si evince in Marx un riconoscimento del ruolo attivo della coscienza di classe, che non appare coerente con le convinzioni mature di Marx, lui sottolinea che l’affermazione di una nuova classe è ancorata alla relazione tra forze produttive e rapporti di produzione, ma non rinnega il ruolo attivo della coscienza di classe e della politica. Marx individua 4 tipi di società: antica (fondata sulla schiavitù), feudale (fondata sulla servitù della gleba), borghese (fondata sul lavoro salariato), asiatica (tipica di Cina e India; vi è subordinazione dei lavoratori agricoli allo stato) La borghesia, come spiega Marx nel Manifesto nasce nell’esperienza dei comuni medioevali, cresce grazie alle progressive scoperte geografiche, all’allargamento dei mercati e dei traffici; essa cresce e si scontra con l’ordine feudale, travolge l’ordinamento corporativo e la produzione artigianale delle città e il controllo feudale delle campagne, conquista sempre più potere politico e acquisisce il dominio esclusivo dello stato moderno. La borghesia porta alla nascita di una nuova classe: quella operaia che in futuro cambierà il modo di produzione capitalistico e introdurrà il socialismo. La trattazione di questo fenomeno ha alcune problematiche, infatti Marx afferma che la struttura economica della società capitalistica deriva dalla struttura economica della società feudale, ma sostiene anche che per l’avvento della società borghese la parte importante è la violenza (fattore extraeconomico) quindi Schumpeter evidenzia che Marx fa riferimento a fattori politici, infatti per l’economia capitalistica è necessaria l’appropriazione privata del capitale e la nascita del lavoro salariato, che avviene in Inghilterra nel XVI secolo con l’espropriazione dei contadini (recinzione delle terre comuni) che porta alla separazione tra i lavoratori e la proprietà delle condizioni di lavoro e l’appropriazione della borghesia dei possedimenti ecclesiastici, che sono alla base della nascita del capitale e del lavoro salariato. Marx da importanza però anche al ruolo della violenza e del conflitto politico, infatti non è la crescita economica della borghesia a generare la modificazione del quadro istituzionale ma è un processo politico che crea i presupposti economici per la crescita della borghesia. Questa è una difficoltà nel rapporto tra struttura e sovrastruttura, ma lo è anche il fatto che la conoscenza scientifica sarebbe inserita nella struttura ma in realtà non è separabile dalla cultura che è invece parte della sovrastruttura. Marx e Engels hanno perciò chiarito che non bisogna interpretare in modo deterministico il condizionamento economico sulla sovrastruttura, e allentando tale condizionamento vi è maggiore flessibilità interpretativa, ma la teoria dello sviluppo storico perde precisione (caratteristica principale, che per Marx è fondamentale) 3.3Lo sviluppo capitalistico Nel capitale Marx critica l’economia politica. Vuole dimostrare che lo sviluppo capitalistico crea le condizioni economiche per il rafforzamento della classe operaia. Bisogna innanzitutto sapere che il profitto: l’economia capitalistica è basata sulla proprietà dei mezzi di produzione, non ci può essere produzione se non c’è profitto per i detentori del capitale, ma il valore di scambio delle merci riflette la quantità di lavoro che serve per produrle. Il profitto si ha quindi perché esiste una merce particolare: la forza lavoro che quando viene utilizzata crea un valore aggiuntivo rispetto a quello necessario per produrla e acquistarla; ciò che serve per acquistarla è il salario che è fissato in base alla quantità di lavoro e che deve assicurare la sopravvivenza e la riproduzione dei lavoratori, la forza lavoro, quindi, nel processo produttivo, crea più valore di quello necessario ad acquistarla, infatti il tempo di lavoro dell’operaio è maggiore a quello necessario per produrre il suo salario (pluslavoro, che genera plusvalore) l’entità del plusvalore rispetto al salario da la misura dello sfruttamento, però anche il progresso tecnico (nella misura in cui accresce la produttività) crea plusvalore. Quindi per Marx l’origine del profitto è il plusvalore. Per determinare il tasso di profitto bisogna distinguere tra capitale variabile (salario) e il capitale costante (investimento in tecnologie e materie prime) infatti il capitale costante non genera profitto; quindi il tasso di profitto diminuisce all’aumentare della composizione organica del capitale (rapporto tra capitale costante e variabile, cioè aumentare spese tecnologiche a discapito del lavoro) anche se in una situazione di concorrenza i singoli imprenditori hanno interesse ad investire in nuove macchine, poiché così possono ridurre il costo del lavoro e possono godere di partire dalla domanda (non dall’offerta) infatti i prezzi riflettono il grado di soddisfazione (utilità) soggettiva che i consumatori attribuiscono ai diversi prodotti; tale soddisfazione tende a diminuire con il consumo di ogni unità aggiuntiva (marginale). Il prezzo è determinato da quanto i consumatori sono disposti a pagare per l’ultima unità marginale di un bene; se il prezzo è superiore all’unità marginale, una parte del bene non sarebbe venduta, e in una situazione concorrenziale il prezzo di quel bene scenderebbe fino a uguagliare l’utilità marginale; possiamo spiegare ciò con “il paradosso dell’acqua e dei diamanti”: l’utilità totale dell’acqua è maggiore di quella dei diamanti (l’acqua serve di più) ma l’utilità marginale dei diamanti è più elevata perché la loro disponibilità è molto inferiore, quindi il loro prezzo è maggiore (guarda bene pag.105 se vuoi). Per i maginalisti quindi il valore d’uso fonda il valore di scambio. La loro rivoluzione sta nell’estendere questo principio all’intero meccanismo economico, infatti applicano il calcolo marginale anche ai meccanismi di produzione di beni e di distribuzione di redditi. Il calcolo marginale è quindi lo strumento per formulare ipotesi sul comportamento economico dei soggetti e per valutare le conseguenze in condizioni di mercato concorrenziale perfetto (ovvero mercato in cui: vi è perfetta conoscenza dei mercati, assenza di restrizioni alle possibilità di acquisto e vendita di beni e servizi, piena mobilità nella ricerca di opportunità più remunerative, presenza di concorrenza che fa si che nessun soggetto sia in grado di influire individualmente sui prezzi) 1.2 Consumo, produzione e distribuzione Il principio di utilità marginale dice che il consumatore massimizza la sua soddisfazione soggettiva (utilità complessiva) distribuendo il reddito tra i beni in base alle sue preferenze di consumo. La somma delle domande dei vari consumatori per ogni bene (domanda di mercato) indica qual è la domanda complessiva. La scelta dei consumatori, è per i marginalisti il dato di partenza di tutto il meccanismo economico, è il segnale al quale le imprese rispondono attivando il processo produttivo. Ciascun produttore cerca di massimizzare il profitto cerca di combinare i fattori (prezzi dei prodotti, fattori produttivi, domanda) nel modo migliore. L’applicazione di questa regola spinge le imprese a stabilire il proprio livello di produzione in modo che il costo marginale (costo dell’ultima unita produttiva) sia uguale al prezzo di mercato; infatti se fosse al disotto non sarebbe conveniente produrre per le imprese; così il complesso delle imprese produce una quantità pari a quella domandata dai consumatori, a prezzi più bassi possibile (costituiti dal costo marginale). Se il prezzo di un bene è inferire ai costi complessivi di produzione, l’offerta di quel bene cala e poi cessa, fino a quando il prezzo non sale; se invece il prezzo di mercato è superiore ai costi medi ciò porta nuove imprese a entrare nella produzione, perciò aumenta la quantità prodotta e il prezzo scende fino a pareggiare i costi di produzione. In questa situazione, le imprese cercano di massimizzare il profitto portando la produzione ad un livello in cui il costo marginale è uguale al prezzo di mercato. La concorrenza determina il prezzo di equilibrio ovvero quello in cui l’utilità marginale dei consumatori eguaglia il costo marginale dei produttori (costo dell’ultima unità che essi hanno interesse a offrire). Nel lungo periodo la concorrenza perfetta elimina gli extra profitti, cioè spinge i ricavi delle imprese al livello necessario a coprire i costi di produzione (incluso il costo del capitale e l’attività degli imprenditori). L’analisi marginale è estesa anche allo studio della distribuzione, per i classici la divisione del reddito si basava sui prezzi di produzione (salari= costo di sussistenza dei lavoratori). In questa nuova prospettiva i redditi derivano, indirettamente, dalla domanda dei consumatori, infatti essa spinge la produzione di beni che richiedono il contributo di vari fattori produttivi (capitale, lavoro…) il reddito che i fattori impiegati ricevono è commisurato al contributo che essi danno alla produzione. Per ciò i marginalisti creano “il principio della produttività marginale” secondo cui ciascun settore in condizioni concorrenziali verrà a ottenere una remunerazione pari al valore della produzione aggiuntiva determinata dal suo contributo. 1.3 L’equilibrio economico generale L’analisi dei marginalisti arriva alla dimostrazione dell’equilibrio economico generale (alla quale si dedica Walres). Abbiamo visto che la concorrenza perfetta determina situazioni di equilibrio parziale nel mercato dei beni e in quello dei fattori, ma questi mercati sono interdipendenti, infatti la domanda dei consumatori condiziona quella delle imprese, che influenza quella dei fattori produttivi, ma i redditi che ricevono i fattori produttivi, sono poi alla base della domanda di consumo. Questa interdipendenza (già presente nei classici) viene ripresa per dimostrare che condizioni di concorrenza perfetta determinano il raggiungimento simultaneo di un equilibrio in tutti i mercati, cioè viene scambiata la quantità esatta di beni e servizi che i consumatori vogliono acquistare e i produttori vendere. La dimostrazione che esistono prezzi compatibili con l’equilibrio generale è importante perché mostra che, data una certa popolazione, con determinate risorse produttive e preferenze di consumo, e con soggetti motivati a massimizzare i propri obbiettivi; condizioni di concorrenza perfetta determinano una situazione in cui nessuno può star meglio senza che qualcun altro stia peggio. Perciò il mercato è il primo calcolatore al servizio dell’uomo. (dobbiamo sottolineare che questo risultato è visibile soltanto in condizioni di mercato perfetto descritto nel par 1.1 e che ciò che si dimostra è l’efficacia allocativa del mercato, non la sua equità) il mercato funziona a partire da una domanda, che riflette la distribuzione del reddito e non tale distribuzione è eticamente giusta; infatti il mercato, essendo un calcolatore, si limita a elaborare gli input che riceve; infatti non si vuole dimostrare che il laissez faire, in una situazione di concorrenza perfetta conduca al più alto livello di benessere sociale, e massimizzi il benessere di più persone possibile perché non tutte le persone sono dotate dello stesso potere d’acquisto. 1.4 Lo spazio analitico dell’economia neoclassica ✓ lo spazio analitico dell’economia con la rivoluzione marginalista si ridefinisce come (secondo Jevons) “data una popolazione con i propri bisogni e le proprie capacità di produzione, in possesso di determinate terre e di altre fonti di produzione, trovare il modo di impiegare il lavoro al fine di massimizzare l’utilità del prodotto”. L’allontanamento dall’economia classica ha tre conseguenze: 1. Si inizia ad utilizzare l’analisi statistica: non è più lo sviluppo economico la preoccupazione ma la locazione efficace di risorse, rispetto ai fini (considerati come dati), mentre per i classici il problema era proprio l’accrescimento delle risorse. I marginalisti quindi non si propongono più di descrivere/determinare una determinata forma di organizzazione storica, ma vogliono capire qual è il modo più efficiente di allocare le risorse in base a condizioni date. ✓ L’approccio diventa normativo e deduttivo: l’economia diventa una teoria della scelta o come la descrive L. Robbins “è la scienza che studia la condotta umana come una relazione tra scopi e mezzi scarsi applicabili a usi alternativi”, infatti proprio l’economizzare (scelta di allocazione più efficiente di risorse scarse) diventa il fulcro dell’indagine economica. Si postulano obbiettivi degli attori (massimizzare l’utilità) e condizioni che ne vincolano l’azione (concorrenza perfetta) e se ne deducono risultati (equilibrio economico) così il discorso economico assume un carattere normativo, infatti formula una legge economica (norma di azione razionale date certe condizioni) ma solo nel caso in cui le condizioni postulate dalla legge si avvicinano alla realtà l’indagine non è solo normativa ma anche concreta. ✓ L’economia si svincola dalle variabili istituzionali: l’unità di analisi sono gli individui isolati che sviluppano i propri fini indipendentemente dagli altri e cercano di massimizzare le risorse di cui dispongono, perciò: i fini dei soggetti sono dati, l’economia gli assume come input per il funzionamento della macchina economica; i mezzi (risorse disponibili; naturali, tecnologiche, lavoro) sono dati e perciò la loro specificazione nello spazio e nel tempo e le loro distribuzioni non vengono considerati ( in quanto legati a fattori istituzionali); i singoli massimizzano le loro preferenze scambiando risorse nei diversi mercati, il loro comportamento è influenzato solo dal calcolo razionale dei mezzi rispetto ai fini (non da fattori istituzionali). La non considerazione del ruolo delle istituzioni ha alcune conseguenze: infatti le istituzioni non influenzano il comportamento degli attori solo attraverso fattori normativi ma anche attraverso il condizionamento ( che dipende dall’effettiva disponibilità di mezzi), infatti per i classici e Marx la posizione di classe condiziona il comportamento, perciò la scelta economica individuale alla quale fanno riferimento i neoclassici, è in realtà socialmente condizionata; essi però seppur sostengono che la distribuzione delle risorse nel mercato è esclusivamente frutto di scelte individuali, vedono la distribuzione originaria dei mezzi tra i soggetti come un dato, perciò l’esistenza del condizionamento di classe sul comportamento individuale può non intaccare il quadro analitico. L’altra conseguenza deriva dal fatto che (come sosteneva Marx) le classi sociali possono organizzarsi e diventare soggetti collettivi e un’azione collettiva può alterare il calcolo economico individuale (es: un operaio può decidere di scioperare contro il suo interesse, per solidarietà con altri operai) tale possibilità non è considerata dall’economia neoclassica che non considera i fattori istituzionali. Le istituzioni vengono escluse dall’analisi perché se si introducono variabili istituzionali non è possibile mantenere la regolarità e la prevedibilità a priori nel comportamento degli attori, che è compatibile con la determinazione dei prezzi di equilibrio e con la dimostrazione dell’equilibrio economico generale; per i neoclassici è necessario supporre un comportamento stabile e uniforme degli attori che permetta n ragionamento deduttivo; mentre la valutazione dell’influenza di fattori sociali sul comportamento economico dei singoli richiede un’analisi induttiva (che parte dall’esperienza, per formulare generalizzazioni) ciò però richiede una variabilità maggiore nei comportamenti che non è compatibile con la prospettiva analitica dell’economia. Perciò l’economia non si occupa delle istituzioni per adeguarsi ai canoni di generalizzazione teorica e precisione analitica delle scienze naturali (da qui l’applicazione del calcolo matematico). I neoclassici riescono però ad avvicinarsi allo standard delle scienze più consolidate solo entro condizioni restrittive, infatti, l’esclusione delle variabili istituzionali non consente di per se di aumentare la generalizzazione della disciplina; infatti seppur l’esistenza di mercato esistenziale lega l’applicabilità del modello teorico a situazioni in cui la produzione e distribuzione di beni avviene solo attraverso lo scambio di mercato senza influenze istituzionali sul piano storico è difficile trovare situazioni simili; perciò c’è uno scarto tra validità analitica ed applicabilità empirica del modello. 2.Due difese dell’economia neoclassica Alla critica di scarso realismo, l’economia neoclassica risponde in 2 modi: • La via analitica che enfatizza la rottura con la tradizione classica (avvenuta con la riv. Marginalista) difende le 3 caratteristiche dell’economia neoclassica (staticità, normatività e esclusione delle istituzioni) accentua perciò l’approccio analitico astratto dell’economia neoclassica e demanda ad altre discipline lo studio delle istituzioni. Questa prospettiva è preponderante negli economisti dell’Europa continentale (Manger e Pareto) • La via empirica rifiuta la concezione restrittiva dell’economia, si pone più in continuità con la tradizione, difende la validità empirica delle leggi economiche, fa riferimento anche a fattori istituzionali. Questa è preponderante nel mondo anglosassone. Questa differenza di prospettive, riflette la differenza di contesti; infatti nell’Europa continentale lo sviluppo dell’economia di mercato aveva trovato più ostacoli da parte del cotesto istituzionale; mentre la tradizione intellettuale aveva lasciato più spazio alla spiegazione sociologica. Marx), il modo di pensare sociologico si afferma grazie a due condizioni: la società deve essere governata da leggi impersonali che si impongono ai singoli, ciò accade con lo sviluppo del capitalismo e dallo sviluppo del mercato come regolatore dell’attività economica, che riduce il controllo religioso e politico sull’organizzazione sociale; infatti l’impersonalità del mercato porta a vedere la società come sfera autonoma con leggi proprie; quindi l’economia apre la strada alla sociologia. L’altra condizione è il rapido cambiamento, economico e politico, della società occidentale, che aumenta la mutabilità delle istituzioni sociali. Una volta che la società viene vista come soggetto autonomo, può esser applicato il metodo scientifico per studiarla: l’applicazione del metodo scientifico al pensiero sociologico porta all’emergere (secondo Aron) dell’intenzione scientifica sistematica nello studio della società. la sociologia come disciplina autonoma (che applica il metodo delle scienze naturali allo studio della società, per individuare leggi generali di funzionamento della società) nasce nell’800 con Comte e Spencer. la nascita della sociologia ha 2 conseguenze differenti sullo sviluppo della sociologia economica: ✓ La sociologia relativizza i caratteri dell’attività economica su cui l’economia fonda la sua analisi ✓ La volontà di creare una teoria generale, una scienza sistemica della società scoraggia l’emancipazione della sociologia economica; ciò è visibile come Spencer (anglosassone) e Comte (francese). Nel contesto Anglosassone la sociologia deve quindi fare i conti con una forte tradizione economica e ciò porta ad un’analisi sociologica meno in contrasto l’economia. Spencer in “principi di sociologia” cerca di conciliare una spiegazione individualistica del comportamento umano (radicata nel contesto anglosassone) con l’idea dei condizionamenti sociali dell’azione (tipica della prospettiva sociologica), secondo l’approccio individualistico anglosassone, la società è il risultato del libero accordo tra individui, Spencer sostiene invece che nella società industriale i rapporti sociali si basano sulla cooperazione volontaria; e che questa forma di organizzazione non è frutto di una natura umana originaria con caratteri fissi e immutabili, ne della tendenza naturale dei singoli a ricercare il piacere, ma è imposta dalla società, attraverso le leggi di evoluzione. Per Spencer quindi il comportamento è socialmente condizionato (influenzato dalle esigenze funzionali della società) il principio di sopravvivenza del più adatto avvantaggia quelle società che rispondo meglio alle nuove esigenze funzionali e stimola, all’interno della società comportamenti congruenti; così nasce l’individualismo che ha però origini sociali e non naturali. Per lui la società è un organismo (insieme di parti interdipendenti). Spencer vede un’analogia tra fenomeni biologici e sociali, ha una visione organica che lo porta a vedere la società come un tutto e a crearne leggi di evoluzione generale cioè la legge della progressiva differenziazione strutturale e specializzazione funzionale, che sostiene che la società cresce di dimensioni e spinge alla formazione di strutture separate e specializzate per l’assolvimento di compiti necessari alla sopravvivenza e che la società che meglio risponde alle sfide dell’ambiente si afferma a spese delle altre. Questa visione ha un carattere generalizzante che non da spazio autonomo alla sociologia economica, infatti vede la società come un sistema e mette in evidenza gli elementi comuni a tutte le società. La sociologia autonoma emerge in Francia in un clima di sfiducia verso l’illuminismo. Comte esprime per primo la necessità di uno studio scientifico della società, lui chiama sociologia “quella parte della filosofia naturale che studia l’insieme delle leggi fondamentali proprie ai fenomeni sociali” lui vuole mostrare che le possibilità di cambiamento nella società non sono senza limiti ma dipendono dalla conoscenza delle sue leggi di funzionamento naturale e dalla capacità di agire in sintonia con essi. Quindi secondo lui si deve applicare allo studio della società il metodo delle scienze naturali per trovare leggi che spiegano l’ordine (statica sociale) e il cambiamento (dinamica sociale) secondo lui anche la conoscenza umana segue uno sviluppo, diviso in 3 stadi: tecnologico, metafisico e positivo e a ciascuno stadio corrisponde una forma di organizzazione sociale. La sociologia si è sviluppata tarsi rispetto ad altre scienze per la complessità del suo oggetto. Anche per Comte, la sociologia ha, come la biologia, una visione organica, infatti in queste scienze non si può spiegare una singola parte senza far riferimento al tutto. Quindi anche Comte non lascia spazio alla sociologia economica. Il suo organicismo è anti individualistico e quindi i rapporti con il pensiero economico, in lui sono più complicati (rispetto a Spencer) infatti mentre per Spencer idee e sentimenti sono selezionati da esigenze funzionali, per Comte la società si basa su un sistema di valori condiviso e sostiene che anche nella società industriale c’è bisogno di solidarietà per permettere la divisione del lavoro. per gli economisti l’organismo sociale trova autonomamente un suo equilibrio, attraverso il principio di selezione dei più adatti e ogni intervento politico è controproducente mentre per Comte il consenso che tiene insieme la società è minacciato dalla divisone del lavoro e dallo sviluppo economico e quindi deve essere sostenuto con politiche di controllo all’economia. 4.Perchè la sociologia economica nasce in Germania Il contesto tedesco è influenzato dalla filosofia idealista che orienta la tradizione economica verso lo storicismo e allontana la sociologia dal positivismo e organicismo; in economia (grazie al contributo di Kant e Hegel) si enfatizza il ruolo dei valori nello sviluppo economico e si critica il pensiero economico classico per le sue pretese generalizzanti; la forza dell’orientamento storicistico, inoltre ha reso più radicale la critica neoclassica e l’ha orientata verso la via analitica, ciò è emerso dalla discussione di Menger (scuola austriaca). Come sappiamo l’economia neoclassica non include problemi di sociologia economica, ma ha una connotazione analitica; mentre i problemi di sociologia economica sono ampiamente trattati dalla scuola storica di economia; per Roscher, Knies e Schmoller l’economia va compresa in riferimento alle istituzioni in cui è inserita, ed il rapporto tra economia e istituzioni deve essere affrontata in chiave storica, attraverso istituzioni empiriche delle economie nazionali evitando generalizzazioni. L’influenza dello storicismo è importante per l’emergere di una prospettiva analitica autonoma di sociologia economica in Weber e Sombart e porta a vedere il comportamento economico come condizionato dal contesto istituzionale in cui è inserito. Il passaggio dallo storicismo alla sociologia economica richiede, però la soluzione di 2 problemi: 1. Il descrittivismo empirico e l’indeterminatezza teorica 2. Il ricorso a concetti non verificabili. Tali limiti sono stati superati soprattutto grazie a Weber che (a inizio ‘900) sviluppa i fondamenti metodologici della sociologia economica, misurandosi con lo storicismo economico e la critica filosofica della conoscenza sociologica; qui Weber chiarisce le idee di un gruppo di giovani storici economici formatosi nel Verien fur Sozialpolitik (associazione di politiche sociali, la cui figura di spicco è Schmoller) che sostiene l’egemonia dello storicismo nell’indagine economico-sociale, e sosteneva il socialismo della cattedra (maggior interventismo dello stato nell’economia e nella società) i più giovani membri del Verien erano Weber e Sombart (meno impegnato sul versante metodologico) Weber nel suo lavoro sarà influenzato da Simmel e Sombart (dal suo volume: il capitalismo moderno, prima opera sistematica di sociologia economica autonoma). Le opere di Weber su Roscher e Knies e quella sull’oggettività conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale sono le basi metodologiche della soc.economica il secondo contiene un programma scientifico della nuova prospettiva analitica e viene pubblicato da l’archiv fur Socialwissenschaft und Sozialpolitik, che esprime le idee di queste giovani storici economici, che rifiutavano la contrapposizione tra storia e teoria e sono insoddisfatti del modo in cui veniva affrontato il rapporto tra cultura e sviluppo da parte dello storicismo ma ritengono che questa indagine sia essenziale, perciò vogliono creare una nuova prospettiva analitica che si misuri meglio con il marxismo, tale teoria è necessaria a distingue tra conoscenza scientifica dei fenomeni economico-sociali e scelte politiche (giudizio di fatto vs giudizio di valore). 4.1 la riflessione metodologica di Weber In “Roscher e Knies” critica il metodo dello storicismo; infatti gli storicisti si opponevano alle generalizzazioni del metodo classico e neoclassico, in nome della particolarità delle economie nazionali, ma per spiegarle ricorreva a strumenti ambigui; Weber vuole arrivare ad un’interpretazione teorica più rigorosa, per far ciò però deve confrontarsi con le correnti teoriche idealistiche che giustificavano lo storicismo. Gli esponenti della storiografia criticano la sociologia positivista per 2 aspetti: • L’uomo plasma la storia, crea le istituzioni e le modifica con l’evoluzione culturale, perciò non è possibile fare generalizzazioni perché non vi è regolarità (tipica dei fenomeni naturali) • Se non ci sono leggi generali che spiegano i fenomeni sociali l’unica opportunità di conoscenza è la comprensione di un determinato contesto storico. La conoscenza sociale è quindi conoscenza storica che si basa sulla capacità di rivivere con l’intuizione un’esperienza. Weber si distanzia da queste idee e nega che lo studio dei fenomeni sociali si differenzi da quello dei fenomeni naturali per le caratteristiche dell’oggetto di studio, infatti sostiene che anche lo studio della società opera con generalizzazione (indispensabili per qualsiasi conoscenza). Però riconosce che l’obiettivo delle scienze sociali non è quello di creare leggi generali, ma di spiegare fenomeni storici individuali (ciò lo avvicina all’idea di Windelbald e Ricket che distinguono tra scienze naturali nomotetiche, ovvero che vogliono creare leggi generali e scienze sociali ideografiche, che mirano a spiegare fenomeni particolari). Secondo Weber per studiare i fenomeni sociali sono necessarie 2 condizioni: • Far riferimento alle motivazioni dei soggetti agenti: gli uomini agiscono per motivazioni mutevoli, ma esse possono portare a regolarità di comportamento e quindi per capirle non serve un atto di intuizione (come sostiene la critica idealistica della sociologia) infatti la comprensione non è un’alternativa alla spiegazione causale e alla verifica empirica. Per lui ogni conoscenza parte da un punto di vista (che riflette i valori dello studioso) che permette di collegare tra loro i fenomeni, quindi la relazione ai valori dello studioso, orienta il suo studio verso la formulazione di ipotesi di spiegazione delle motivazioni degli attori e delle conseguenze di esse; la validità di tali ipotesi va poi verificata empiricamente, e la verifica empirica garantisce la validità intersoggettiva di quella spiegazione, che è sempre una spiegazione condizionale (non mette in evidenza tutte le cause del fenomeno, ma solo alcune condizioni). Punti di vista diversi possono portare a spiegazioni diverse dello stesso fenomeno (la verifica empirica mostra la loro maggiore o minore attendibilità) • Studiare le uniformità di comportamento derivanti da motivazioni simili: per spiegare causalmente un fenomeno è necessario imputarlo a cause concrete; per spiegare fenomeni concreti è necessario far riferimento a teorie più generali. Gli schemi teorici nascono dalla conoscenza storico-empirica, ma contribuiscono a riorientarla (c’è un’interazione continua). La sociologia studia i tipi di agire sociale, le uniformità di comportamento socialmente determinate, prodotte dal fatto che l’agire individuale tiene conto del comportamento di altri. La sociologia comprendete studia proprio le motivazioni che spingono gli attori individuali ad agire in base alle aspettative di comportamento altrui (vuole comprendere l’agire sociale e spiegarne produzione e distribuzione dei beni) è una conseguenza dell’economia monetaria. La sua indagine sulle cause non economiche dell’economia monetaria e sulle sue conseguenze sociali ha elementi (soprattutto metodologici) comuni alla sociologia del capitalismo di Sombart e Weber, in particolare emergono 4 aspetti simili: 1. l’insistenza sui presupposti culturali e istituzionali dell’economia monetaria 2. l’idea che alcuni soggetti (per via della loro marginalità sociale) esercitano un ruolo fondamentale nella diffusione dell’economia monetaria 3. Le conseguenze sociali della diffusione dell’economia monetaria sono: crescente spersonalizzazione e razionalizzazione delle relazioni sociali 4. Il socialismo rappresenta un ulteriore sviluppo della razionalizzazione (maggior burocratizzazione economica e politica). Simmel vuole integrare l’interpretazione di Marx per tracciare il programma scientifico della sociologia economica e sostiene che ad ogni interpretazione mediante fattori economici deve essere affiancata un interpretazione di essi mediante fattori di natura ideale e per questi è di nuovo necessario lo studio di fattori economici (e così all’infinito) ciò si accompagna al riconoscimento di uno spazio analitico autonomo per l’economia politica (anche se non esclusivo, perché ogni scambio economico può essere visto anche con un’analisi che ne studia i presupposti non economici e ne analizza le conseguenze sui valori e sulle connessioni non economiche). 2.2Le condizioni non economiche del denaro Simmel indaga i presupposti non economici del denaro e dell’economia monetaria. Il capitalismo (sistema economico) presuppone l’accumulazione privata del capitale, che richiede l’utilizzo del denaro come strumento di scambio (allargando la cerchia dei soggetti coinvolti nell’economia monetaria) ma perché il denaro diventi propulsore dell’attività economica è necessario che aumenti la fiducia su di esso (aspettativa che il suo impiego abbia una contropartita di beni concreti). Per l’accumulazione del capitale è necessaria, quindi, un’accumulazione di fiducia, sostenuta da fattori istituzionali (legittimazione del potere politico, garanzie da parte dell’ordinamento giuridico…) che permettono che il denaro diventi un’istituzione pubblica. Tra economia monetaria, stato e istituzione giuridica si crea un rapporto di interdipendenza (la prima cresce grazie ai secondi che si rafforzano grazie alla diffusione del denaro come mezzo di scambio). L’economia monetaria, è stata un fattore di dissolvenza dell’economia naturale (basata sull’autoconsumo) ha favorito la formazione dello stato centralizzato (che ha funzione di controllo della moneta). Lo stato moderno cresce anche attraverso la tassazione (che consente il mantenimento della burocrazia e dell’esercito) che contribuiscono al rafforzamento dell’economia monetaria (garantendo gli scambi). I soggetti protagonisti della diffusione del denaro e degli scambi, sono individui e gruppi sociali, esclusi dal godimento dei diritti vigenti in una società che si dedicano all’accumulazione di denaro per conseguire una posizione sociale alla quale non possono accedere con mezzi tradizionali; per loro inoltre non valgono le sanzioni sociali che allontanano i membri di una società tradizionale dell’utilizzo del denaro (ostilità della chiesa all’usura) questi soggetti sono: stranieri ed ebrei che sono i principali attori del mutamento (introducendo il denaro nella società tradizionale) che porta allo sviluppo del capitalismo. Simmel non indaga le origini dell’imprenditorialità capitalistica, ma è interessato alle condizioni che permettono l’esercizio di essa ovvero: accumulazione di capitale e dissoluzione dell’economia naturale. 2.3Le conseguenze dell’economia monetaria Simmel si interessa soprattutto alle conseguenze dell’economia monetaria alle relazioni sociali e allo stile di vita; mettendo in luce l’ambivalenza del fenomeno. Il denaro porta alla crescita della libertà individuale (come indipendenza dalla volontà altrui). L’economia monetaria limita la dipendenza rendendo mutevoli i rapporti sociali di scambio e di produzione. Nello scambio si può scegliere tra fornitori diversi (spersonalizzando la relazione tra venditore e acquirente) c’è maggiore libertà di scelta dei propri partner economici e degli oggetti. ciò aumenta l’indipendenza. Nella produzione al rapporto di dipendenza del servo della gleba al padrone subentra il contratto di lavoro che spersonalizza il rapporto e lo lega al perseguimento di un obiettivo (escludendo la sfera extralavorativa). Ciò può peggiorare le condizioni di vita del lavoratore (rispetto al medioevo quando il signore aveva l’obbligo di protezione sociale) ma è il prezzo della libertà (per Simmel vale la pena pagarlo) perché così il lavoratore moderno acquista progressivamente consapevolezza di sé, non è più suddito, ma fornisce una prestazione ripagata con un equivalente in denaro. così lo sviluppo dell’economia monetaria porta le prestazioni lavorative ad avere un carattere sempre più tecnico- funzionale e ciò favorisce l’accettazione della posizione di superiorità e subordinazione nell’attività produttiva. L’esistenza di una gerarchia organizzativa è indispensabile per lo sviluppo economico ciò può avvenire: ✓ Attribuendo le posizioni di superiorità sulla base di competenze funzionali ✓ Limitando i rapporti gerarchici alle prestazioni lavorative L’economia monetaria (e il capitalismo) ampliano le libertà individuali, da essi emergono le personalità individuali, si afferma uno spazio di indipendenza (maggio possibilità di scelta). L’allargamento e la pluralizzazione delle cerchie sociali in cui l’uomo è inserito è lo strumento con cui si afferma la personalità individuale. Il conflitto per Simmel si crea nei rapporti di potere che caratterizzano l’organizzazione produttiva, ma può essere controllato accentuando i contenuti tecnico-funzionali della divisione del lavoro. quindi Simmel condivide l’ottimismo liberare dell’economia politica e della sociologia positivista inglese; ma in lui si combina con il pessimismo culturale tedesco (Nietzsche) da qui l’insistenza sugli aspetti costruttivi del denaro come istituzione che condiziona le relazioni sociali. Il denaro aumenta la libertà individuale ma da mezzo diventa fine, l’economia monetaria condiziona sempre più il comportamento individuale e gli uomini perdono il controllo sui fini ai quali il denaro piega l’organizzazione sociale. La vita quotidiana è caratterizzata da una perdita di qualità dei rapporti sociali; la libertà porta ad una spersonalizzazione crescente dei rapporti sociali, si diffondono razionalizzazione e calcolo in tutte le sfere della vita, l’uso del tempo e dello spazio vengono piegati alle esigenze dell’economia monetaria, i valori qualitativi diventano quantitativi, gli uomini acquistano maggiore libertà individuale. L’individuo diventa un ingranaggio in un enorme organizzazione di cose che trappa dalle sue mani ogni progresso e spiritualità. 2.4Capitalismo e socialismo Per Simmel il socialismo è “razionalismo e reazione al razionalismo” è una reazione alla perdita dei legami collettivi tradizionali e il tentativo di ricostruire nuove solidarietà collettive. Ma il successo di tale reazione accentua le caratteristiche costrittive che la razionalizzazione e la calcolabilità dei rapporti sociali impongono (questa posizione è vista come pessimismo storico). Lui non crede nel socialismo, per lui la separazione dei lavoratori dai mezzi di produzione e la proprietà privata è un requisito dello sviluppo economico; ma non ha un approccio acritico al socialismo, infatti auspica un cambiamento del capitalismo in 2 direzioni: ✓ Le istituzioni del capitalismo trovano maggior legittimazione se fondate su motivi tecnico- funzionali (valorizzazione di competenze) nel selezionare soggetti per ruoli subordinati e sovraordinati e non su ingiustificate disuguaglianze sociali. (qui la posizione di Simmel è vicina a Durkheim). Questo è un socialismo che non è visto come alternativa alla proprietà privata e al mercato. ✓ La legittimazione del capitalismo può essere rafforzata dalla capacità di ridurre “l’umana tragedia della concorrenza” soprattutto attraverso lo sviluppo tecnico (che metta a disposizione nuove risorse della natura per ridurre la concorrenza tra gli uomini per l’acquisizione di beni scarsi) e attraverso la crescita di beni collettivi (cioè produrre risorse la cui fruibilità da parte di alcuni non va a scapito di altri). 3.Il “capitalismo moderno” di Sombart Per Sombart l’obiettivo è la costruzione consapevole di una sociologia economica. Il “capitalismo moderno” è del 1902, la seconda edizione è del 1916 e il terzo volume è del 1927. Nella prefazione alla seconda edizione, Sombart si da come compito l’inserimento della vita economica nel contesto dell’esistenza sociale dell’uomo; per far ciò deve innanzitutto superare la contrapposizione tra economia politica neoclassica (astratto teorica e storicismo (empirico storica). La sua scienza sociale della vita economica ha come obiettivo quello di spiegare scientificamente i fenomeni economici, in un quadro storico (si distingue perciò dall’economia politica che adotta una teoria utilitaristica, e utilizza modelli analitici astratti e dallo storicismo che spiega i fenomeni economici attraverso fattori culturale e istituzionali e ripudia le generalizzazioni). Sombart si chiede quali sono i fenomeni economici, comuni a tutti i paesi europei, che conducono al capitalismo. La sua sociologia economica, collegata alla storia, si serve di generalizzazioni teoriche che orientano la ricerca storica e la verifica empirica (ciò richiede che le generalizzazioni siano storicamente delimitate). Per capire come la società influenza il comportamento economico sono necessari strumenti analitici adeguati che distinguono il funzionamento dell’economia capitalistica da altri tipi di organizzazione economica. 3.1Elementi di sociologia economica Economia: attività umana volta alla ricerca dei mezzi di sussistenza. L’uomo deve provvedere al soddisfacimento dei suoi bisogni con prodotti che ricava dalla natura, grazie al lavoro. i bisogni variano nel tempo e a quelli di sopravvivenza fisica si aggiungono bisogni culturali. Per far fronte ad essi è necessario produrre beni e servizi distribuiti e consumati secondo delle regole in ciò consiste l’attività economica. La definizione di Sombart (rispetto a quella degli economisti neoclassici) permette di cogliere i tratti differenti nello spazio e nel tempo che caratterizzano il comportamento economico (e le attività volte alla sussistenza dell’uomo). È necessario per ciò indagare 3 aspetti: ✓ Lo spirito economico (mentalità economica): l’insieme dei valori e delle norme che orientano il comportamento degli individui che partecipano all’attività economica ✓ L’organizzazione economica: complesso di norme formali e informali che regolano l’esercizio delle attività economiche da parte dei soggetti ✓ La tecnica: le conoscenze tecniche e i procedimenti utilizzati per produrre beni e servizi e soddisfare i loro bisogni Questi aspetti variano nello spazio e nel tempo e consentono di individuare un particolare sistema economico. Il concetto di sistema economico è un ponte tra economia e società (in esso si racchiude il carattere storico della vita economica) permette di vedere come la società influenza l’organizzazione economica attraverso le motivazioni dei soggetti, le istituzioni regolative e quelle che riguardano la produzione e l’uso delle conoscenze scientifiche e tecnologiche. Nel concetto di Spirito economico Sombart distingue: un orientamento volto alla copertura del fabbisogno, in cui il comportamento economico è volto al soddisfacimento dei bisogni naturali e culturali e la produzione è orientata al consumo; e un orientamento acquisitivo: in cui l’attività economica è volta alla ricerca di maggiori guadagni ed è rivolta al mercato. Un’altra distinzione è tra: spirito tradizionalistico, basato sull’obbedienza passiva a regole tramandate e spirito razionalistico Una volta iniziato lo sviluppo capitalistico (grazie all’imprenditorialità borghese) si dissolvono i vecchi ordinamenti economici (economi agricola, lavoro a domicilio e artigianato) così si avvia la proletarizzazione del lavoro agricolo e la crisi dell’artigianato che liberano forze lavoro per l’industria (le possibilità di sfruttare le terre comuni e di guadagno supplementare grazie all’industria rurale divengono limitate). La nuova imprenditorialità combina capitale e lavoro con nuove tecniche per produrre beni per un mercato sempre più ampio. Lo sviluppo capitalistico, con tempo contribuisce al mutamento dell’ordinamento giuridico e delle politiche sociali. Nella fase successiva si va verso un orientamento più liberista dello stato, che riconosce ampie sfere di libertà economica; si accresce la sicurezza del processo economico: attraverso l’azione repressiva dello stato (sicurezza dei traffici) e con l’introduzione di un sistema monetario razionale che facilita gli scambi. Così si arriva nel XIX secolo al capitalismo maturo. 3.3Il capitalismo maturo La fase di maturità del capitalismo si conclude con la prima guerra mondiale; essa è caratterizzata dal processo di razionalizzazione della vita economica, con la tendenza a ricercare i mezzi più adatti al perseguimento del profitto. • Lo spirito capitalistico: si intensifica e si estende a gruppi sociali più ampi e a nuove aree geografiche. La mentalità imprenditoriale è caratterizzata da una trasformazione ideologica che porta alla secolarizzazione dello spirito capitalistico; le motivazioni religiose, lasciano il posto a quelle più laiche; il concetto di fede viene soppiantato da quello di dovere, che porta a vedere l’impegno nel lavoro come fonte primaria del benessere economico e sociale; si intensificano così le energie vitali che vengono incanalate nell’attività economica (ora meno limitate dai fattori religiosi). L’intensificazione dell’impegno è anche determinata da fattori esterni quali: la maggior specializzazione della funzione imprenditoriale che delega ad altri dipendenti una serie di compiti (prima non differenziati) e consente all’imprenditore di concentrare il suo impegno in alcune funzioni di direzione strategica; ciò porta a una progressiva deconcretizzazione dell’attività imprenditoriale (il culmine si ha con la figura del finanziere. Così Sombart mostra un cambiamento nell’imprenditorialità. Nel capitolo precedente abbiamo che nelle origini del capitalismo lui guarda soprattutto alle componenti normative, mentre non si interessa a quelle cognitive). Nel capitalismo maturo sono invece le componenti cognitive ad alimentare l’imprenditorialità (in una situazione in cui l’innovazione economica non è legittimata). Vi è una democratizzazione dell’imprenditorialità, infatti diventa più facile accedere al ruolo di imprenditore da tutti i gruppi sociali (grazie anche alle istituzioni creditizie che mettono a disposizione di chi ha buone idee, capitale da investire). Ciò che conta, in questo contesto è disporre delle conoscenze adeguate. Vi sono anche stimoli negativi, che spingono all’impegno tra questi: l’inasprimento della concorrenza e il rafforzamento del movimento operaio. Sombart non è preoccupato per gli effetti di distorsione sul mercato del lavoro che il movimento operaio può avere; ma anzi sottolinea gli effetti postivi che esso può avere per lo sviluppo economico; infatti con le rivendicazioni sindacali, migliora la condizione degli operai, e gli imprenditori per far fronte ai maggiori costi di lavoro, sono costretti a innovare continuamente. Uno stimolo positivo all’intensificazione dello spirito capitalistico è l’evoluzione della tecnica, il cambiamento tecnico accelerato genera continue occasioni per modificare le condizioni di concorrenza, infatti consente di produrre nuovi beni, o di produrre quelli che già si producevano ma a prezzi ridotti; ciò richiede però un’attenzione costante e una grande capacità degli imprenditori di avvalersi della tecnica; ne discende una spinta alla razionalizzazione dello sviluppo tecnologico che porta ad una maggiore istituzionalizzazione ricerca applicata e della formazione e una crescente incorporazione di queste attività all’interno delle grandi imprese dove si afferma “l’inventore di professione specializzato”. • L’organizzazione del sistema economico: l’intensificazione dello spirito capitalistico, unito alla tecnica porta a mutamenti nel sistema economico; ovvero si va verso una maggiore razionalizzazione dei meccanismi regolativi, per aumentare il profitto. 1. Una prima razionalizzazione avviene l’intervento dell’ordinamento giuridico e dello stato in campo economico viene riconosciuta la libertà di movimento dell’impresa, separando diritto pubblico e diritto privato, con nuove forme di protezione giurisdizionale dei contratti e con l’introduzione di un sistema monetario razionale, ma accanto alla razionalizzazione dell’ordinamento giuridico vi è anche quella del lavoro, del consumo e dell’azienda. Infatti il capitalismo crea un’offerta di lavoro crescente attraverso migrazioni e urbanizzazione che alimenta le imprese (a favorire l’esodo verso la città non è solo la crisi delle campagne ma anche l’attrazione per la libertà individuale e per lo stile di vita urbano). Il problema per gli imprenditori è ora però quello di adattare i lavoratori al lavoro di fabbrica, per ciò è importante il protestantesimo (per lui più importante per gli operai che per gli imprenditori) che incentiva l’impegno nel lavoro; esso però è proprio di una fascia limitata di lavoratori e con il tempo perde di influenza. Per favorire l’adattamento gli imprenditori ricorrono allora a una ferrea disciplina e ad incentivi economici; ma intervengono anche sul reclutamento e sull’organizzazione del lavoro (infatti vi è una disponibilità limitata di operai qualificati che hanno anche un costo più elevato) e lo fanno attraverso la decomposizione del lavoro: le mansioni vengono scomposte in più compiti, diminuendo il numero di operai specializzati e aumentando quello di operai comuni; ciò però diminuisce l’autonomia degli operai e la loro possibilità di influire sull’organizzazione del lavoro; infatti così si crea la catena di montaggio che condiziona il funzionamento del lavoro. Sombart, quindi percepisce la subordinazione del lavoratore alla macchina. Ciò porta vantaggi per l’impresa: ridice il costo di lavoro, facilita l’addestramento degli operai, permette l’applicazione di modi di organizzazione scientifica del lavoro (pianificazione rigida del tempo e delle procedure). La razionalizzazione tayloristica viene applicata anche al reclutamento, che diventa più formalizzato (ci utilizzano test). La razionalizzazione riguarda l’azienda nel suo complesso con la creazione di regole generali alle quali tutte le imprese si conformano. Ciò porta alla specializzazione dell’azienda: si limitano gli elementi legati alla personalità dell’imprenditore e al suo rapporto con i dipendenti. L’impresa si organizza sempre più come una burocrazia (precisa gerarchia e procedure) vengono separati i compiti di progettazione e di esecuzione e gli elementi personali sono limitati il più possibile. Vi è una concentrazione aziendale ovvero uno sfruttamento intensivo di spazio, materie e tempo, con una crescente concentrazione di macchine e uomini e uno sfruttamento intensivo degli strumenti di produzione per aumentare la produzione. La grande azienda concentrata permette di sfruttare l’economia di scala: ovvero produrre grandi quantità di prodotti a basso costo; ciò avviene più facilmente nei settori di produzione di massa di beni standardizzati • Vi è perciò una razionalizzazione anche del consumo per ridurre l’incertezza i consumi devono essere influenzati dall’impresa, per rendere sotto controllo la domanda di beni, aumentando la produzione standardizzata, così si crea l’uniformazione dei bisogni. Questa è conseguenza dello sviluppo economico: aumentano le comunicazioni, cresce la popolazione urbana e le possibilità di consumo degli strati inferiori della società, ciò porta un superamento delle barriere culturali che segmentavano la domanda di beni di consumo. Si diffondono centri di consumo unitari: le pubbliche amministrazioni (carceri, esercito, ospedali…) e private (centri commerciali). Ma l’uniformità è anche effetto di un’azione consapevole delle imprese attraverso la moda, senza essa, infatti, il periodo di utilizzo di un bene sarebbe più lungo e ci sarebbe una gamma maggiore di beni tra cui scegliere. Nell’epoca pre capitalista la domanda non era influenza dalle imprese (che erano imprese piccole e perciò disponevano di una quota limitata di mercato) invece nel capitalismo maturo le grandi imprese controllano l’offerta e i bisogni vengono influenzati grazie al condizionamento sulla moda. In questo periodo, la moda (prima limitata alla classe alta) si generalizza e acquista sempre più importanza per affermarsi socialmente; ciò offre nuove possibilità all’industria, che ha maggior possibilità di standardizzare i bisogni e creare un mercato di massa; ciò si realizza attraverso la produzione di beni di qualità inferiore che imitano i modelli di élite. Perciò si crea un mercato di massa che consolida la razionalizzazione capitalistica. Le grandi imprese burocratiche dominano il capitalismo maturo. 3.4Il futuro del capitalismo Nel razionalismo del capitalismo maturo, ci sono alcuni elementi che porteranno al suo declino che comincia dopo la seconda guerra mondiale, quando si entra nel tardo capitalismo. Sombart non si aspetta un crollo totale (come Marx) infatti sostiene che lui ha fatto 2 errori di valutazione: sottovalutava il ruolo dell’imprenditore nelle origini del capitalismo; aveva creato una visione teleologica del capitalismo, immaginando il suo superamento nel socialismo; Sombart quindi si propone di portare avanti l’opera di Marx. Per Sombart lo sviluppo tecnico e l’aumento del capitale fisso non portano alla caduta del saggio del profitto; infatti l’introduzione di nuove tecnologie aumenta la produttività e i profitti che vengono destinati a nuovi investimenti che compensano la disoccupazione creata dalla meccanizzazione. La disoccupazione per lui è creata dalla continua ristrutturazione produttiva, ma non è destinata a crescere. Infatti per far fronte alla disoccupazione e alle richieste di miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro degli strati più bassi della popolazione si afferma l’economia di piano che porta ad un maggior intervento dello stato nell’economia, una maggior influenza del settore corporativo e maggiore regolazione politica dell’economia. Perciò si va verso un capitalismo stabilizzato e regolato. Il socialismo per lui accresce la tendenza alla razionalizzazione e burocratizzazione. Il capitalismo si indebolisce dall’interno è c’è un’attenuazione spirito di intrapresa e delle energie vitali irrazionali per via della razionalizzazione; nelle grandi imprese razionali vi è sempre meno spazio per il rischio; è quindi possibile una graduale decadenza della mentalità imprenditoriale. Inoltre nel sistema economico vi sono sempre più restrizioni alla ricerca del maggior profitto, alcune autoimposte, altre imposte dall’esterno (legate alla legislazione sociale e del lavoro, sollecitate dal movimento operaio, con controlli sui prezzi e sulle modalità produttive) le organizzazioni sindacali impongono restrizioni ai meccanismi di mercato nella determinazione del salario e delle condizioni di lavoro. il ruolo del mercato come regolatore del costo dei fattori è quindi progressivamente limitato. Il risultato è un’attenuazione delle oscillazioni cicliche dell’economia e delle conseguenze sociali (disoccupazione…) Sombart scrivendo alla vigilia degli anni ’30 capisce l’importanza che la politica economica Keynesiana avrà per il capitalismo (mira a stabilizzare l’economia sostenendo la domanda di beni con la spesa pubblica e con il controllo politico del credito). CAP 5: CAPITALISMO E CIVILITA’ OCCIDENTALE: MAX WEBER nell’organizzazione razionale del processo produttivo; quindi si rompe la staticità dell’economia tradizionale (produzione per l’autoconsumo) e viene rivoluzionata la produzione per il mercato, operata da imprenditori privati con l’impiego del capitale. Quindi il tradizionalismo viene spazzato via da una nuova imprenditorialità, motivata a combinare più efficacemente i fattori produttivi. I nuovi imprenditori modificano i prodotti, i metodi di produzione, il rapporto con il mercato; per ricercare il massimo profitto. questi vengono dal basso e hanno poco denaro ma hanno qualità etiche diverse da quelle tradizionaliste ovvero: energia, chiarezza di visione, impegno. Per ciò la ricerca sulle forze motrici dell’espansione del capitalismo è ricerca sullo sviluppo dello spirito del capitalismo. 2.2L’etica economica del protestantesimo La diffusione del capitalismo è una conseguenza non intenzionale dell’etica economica del protestantesimo (in particolare Calvinismo); Weber sottolinea le affinità elettive tra i due fenomeni. L’idea fondamentale del calvinismo è la predestinazione: gli scopi divini non sono conoscibili dagli uomini, non si conosce il destino individuale; gli uomini sanno solo che alcuni si salveranno e alcuni no; gli eletti sono scelti da dio nella creazione e il destino non può essere modificato (attraverso mezzi “magici” per ottenere la salvezza: es. sacramenti) così si compie il processo di disincantamento che ha inizio con la profezia ebraica antica che rigetta i mezzi magici di ricerca della salvezza. Il calvinismo determina però una grande solitudine del credente. (paradosso: come mai tale situazione porta all’azione economica) tale situazione genera angoscia e bisogno di rassicurazione; il credente si comporta come fosse eletto, il successo professionale è interpretato come un segno di elezione quindi, il credente, si impegna in modo rigoroso nel lavoro. Lo spirito del capitalismo caratterizzato dall’impiego produttivo del capitale e dalla condanna del consumo di lusso e dei piaceri, e anche questo aspetto è presente nel calvinismo. L’etica protestante, infatti, condanna l’aspirazione alla ricchezza per essere ricchi, l’utilizzo della ricchezza per soddisfare i piaceri materiali e l’attaccamento ai beni. Perciò il risultato della combinazione tra spinta all’impegno e restrizione del consumo è l’orientamento verso un’attività economica che favorisca “la formazione del capitale attraverso la costruzione ascendente del risparmio. Weber integra ciò con le considerazioni del saggio “le sette protestanti”: le sette protestanti sono presenti negli Stati Uniti; l’essere membro di una chiesa o di una setta cambia il comportamento individuale. Nella chiesa cattolica, vi è un’associazione che amministra la grazia (accesso alla salvezza); le sette sono invece associazioni volontarie che raggruppano coloro che per la loro condotta sono qualificati dal punto di vista etico-religioso, per diventare membri bisogna rispettare determinate norme. Nella chiesa si nasce nella setta si diventa. L’esclusione da una setta è economicamente penalizzante per i singoli perché porta una carenza di fiducia; per cui vi è un interesse materiale a mantenere un comportamento eticamente corretto (ciò si mantiene anche con l’attenuarsi delle motivazioni religiose). Quindi le sette hanno un’organizzazione che stimola un comportamento più rigoroso rispetto alla chiesa. Perciò per capire l’influenza del credo protestante nello sviluppo dello spirito capitalistico, bisogna guardare alla razionalizzazione etica del comportamento promossa dal protestantesimo ma anche l’organizzazione delle sette. Così Weber dimostra l’affinità elettiva tra etica protestante e lo spirito del capitalismo (non porta una dimostrazione causale del fenomeno, che sarebbe stata difficile anche tecnicamente). L’influenza del protestantesimo è importante nella fase iniziale del capitalismo, infatti quando esso si afferma è il mercato a orientare il comportamento degli attori e a stimolare l’utilitarismo. Questa tesi è stata fortemente critica, anche per via di fraintendimenti, infatti a volte gli è stata attribuita una spiegazione del capitalismo solo sull’influenza del protestantesimo; anche se Weber stesso sottolinea (nella riedizione dell’etica) che le origini dello spirito del capitalismo non coincidono con le cause dello sviluppo capitalistico (ben più complesse) e ciò lo spinge ad allargare le sue ricerche prendendo in considerazione altri fattori istituzionali che contribuiscono allo sviluppo del sistema economico capitalistico. 3.Caratteri e origini del capitalismo moderno Il concetto di capitalismo moderno “forma di organizzazione economica che consente il soddisfacimento dei bisogni attraverso imprese private che producono beni per il mercato sulla base di un calcolo di redditività del capitale da investire (cioè aspettative di profitto) e che impiegano forza lavoro salariata formalmente libera” è la variabile dipende della teoria di Weber formulata in “economia e società” e in “storia economica”. La sua definizione ha 3 elementi che distinguono il capitalismo da alter forme di organizzazione economica ✓ Il soddisfacimento dei bisogni attraverso il mercato: ciò differenzia il capitalismo moderno dall’economia domestica, nella quale si produceva solo per l’autoconsumo. Inoltre l’estensione della produzione per il mercato distingue il capitalismo moderno da altre forme di capitalismo (occidentale Medioevale, o dell’Asia) ✓ La razionalizzazione del calcolo del capitale: nel capitalismo moderno il calcolo del capitale è sviluppato attraverso accorgimenti contabili e organizzativi (tenuta razionale dei conti e separazione tra impresa e patrimonio familiare dell’imprenditore) ✓ L’organizzazione del lavoro salariato formalmente libero: infatti soltanto sulla base del lavoro formalmente libero è possibile un calcolo razionale del capitale. La ricerca del profitto non è una connotazione solo del capitalismo moderno, ma è sempre esistita; ciò che distingue il capitalismo è che essa avviene attraverso un calcolo sistematico e razionale e soprattutto si concentra sulla produzione per il mercato con forza lavoro salariata; mentre le forme tradizionali si manifestano nel commercio di beni e nel credito oppure si concentrano su attività che sfruttano opportunità politiche. Ad eccezione del commercio e del credito, le forme tradizionali di capitalismo sono soprattutto di tipo politico: ovvero si basano sull’uso della forza (capitalismo predatorio o d’avventura) o sull’uso di risorse garantite dallo stato (appalto di imprese, monopoli…). Alla distinzione tra capitalismo economico e politico corrisponde l’imprenditorialità economica e politica; l’azione imprenditoriale “agire orientato in modo autonomo in base al calcolo del capitale” mira a incrementare il potere di disposizione dell’imprenditore su determinati beni; ha cioè un orientamento acquisitivo che si realizza attraverso la ricerca di profitto e il calcolo del capitale, ma l’acquisitività, può essere orientata da possibilità di acquisizione di mercato o di tipo politico. Weber quindi per capitalismo in senso ampio intende sia le forme tradizionali che moderne; mentre in senso più ristretto che riguarda quelle commerciali, economiche, creditizie e industriali. Il capitalismo industriale “forma di organizzazione economica che sfrutta opportunità di profitto determinatesi nel mercato dei beni, con attività di produzione” è il tratto distintivo del capitalismo moderno. Secondo Weber non ci può essere capitalismo moderno senza classe operaia. L’appropriazione dei mezzi di produzione da parte dei capitalisti e del lavoro salariato, sono elementi essenziali del capitalismo industriale, che si diffonde diventando un’epoca economica. Nella premessa ai saggi di “sociologia della religione” Weber dice che il problema centrale della sua teoria è la genesi del capitalismo d’impresa borghese, con la sua organizzazione razionale del lavoro libero. Porsi questo problema significa però chiarire la specificità dello sviluppo storico occidentale rispetto ad altre aree del mondo. La sua sociologia si basa su un’indagine comparata per individuare elementi cruciali, per il capitalismo moderno, presenti nel esperienza occidentale e assenti altrove; ciò fu indagato in “l’etica economica delle religioni universali” (1915) “confucianesimo e taoismo, induismo e buddismo, il giudaismo antico” (1919) che furono raccolte in “sociologia della religione” (1920/21) in essi ha l’obiettivo di chiarire i rapporti tra l’etica economica (sostenuta dalle religioni universali) e l’economia e la stratificazione sociale dell’ambiente in cui queste religioni si affermano (fornisce così un particolare affresco della civiltà occidentale). In “Storia economica” Weber sistematizza la sua teoria del capitalismo ed elenca alcuni presupposti del capitalismo moderno (condizioni che rendono possibile il soddisfacimento di bisogni con imprese private che operano attraverso il calcolo del capitale, producendo per il mercato con capitale fisso e forza lavoro libera). ✓ Appropriazione dei mezzi di produzione da parte dell’imprenditore: la proprietà privata degli strumenti e l’assenza di vincoli alla commerciabilità sono fondamentali per consentire il calcolo del capitale e le decisioni di investimento sulla base delle opportunità offerte dal mercato. ✓ Libertà di mercato: assenza di vincoli culturali e politici al consumo di beni, possibilità di esistenza di un mercato ampio su cui basare il calcolo del capitale e l’investimento; la libertà di mercato è importante per il mercato dei beni ma anche dei fattori di produzione; infatti il calcolo del capitale è possibile solo se non è ostacolata la riallocazione dei fattori produttivi sulla base delle opportunità di mercato. ✓ La forza lavoro libera: è componente essenziale del capitalismo e consente di anticipare il costo del lavoro necessario per determinare investimenti e ridurre i costi fissi. ✓ La tecnica razionale: disponibilità di tecnologia meccanica che consente di calcolare i costi di produzione dei beni, permette un abbassamento dei costi e quindi una produzione per il consumo di massa. ✓ La commercializzazione dell’economia: disponibilità di strumenti giuridici (le azioni e i titoli di credito) che facilitano la divisione tra patrimonio familiare e patrimonio dell’impresa e favoriscono la trasferibilità del capitale e rendono possibile un collegamento più razionale tra risparmio e investimento con la creazione della borsa. ✓ Diritto razionale: le transizioni economiche devono essere garantite da un ordinamento giuridico che riduce i rischi e rende prevedibili le relazioni tra privati e con la pubblica amministrazione Dobbiamo ricordare che i presupposti del capitalismo moderno sono per Weber idealtipi, infatti tali condizioni non si sono mai affermate pienamente; sono strumenti per misurare il grado di avvicinamento dell’economia concreta all’idealtipo dell’economia di mercato capitalistico. 3.2Le condizioni del capitalismo moderno Weber, per studiare il capitalismo moderno, distingue alcune condizioni specificatamente occidentali e altri fattori complementari (ai quali non viene attribuito un ruolo decisivo) ne vengono individuati 4: le vicende belliche, le conquiste coloniali, l’afflusso di metalli preziosi, la domanda di beni di lusso delle corti e le condizioni geografiche favorevoli. Le condizioni specificatamente occidentali sono di 2 tipi: o Quelle culturali: l’influenza dell’etica economica di origine religiosa sulla formazione dell’imprenditorialità. o Quelle istituzionali: la città occidentale, lo stato razionale e la scienza razionale. Sia le variabili culturali che istituzionali sono influenzate dalla religione (in particolare dal ruolo della profezia etica nel processo di razionalizzazione occidentale). La religione influenza il capitalismo sia direttamente: attraverso la formazione dell’etica economica; che indirettamente: attraverso il contribuito che da all’emergere delle condizioni istituzionali (città, stato, scienza) che acquisiscono un rilievo e un’autonomia causale specifica. infatti, deve trovare nuovi mezzi di sussistenza, non potendo contare (non potendo contare sulla redistribuzione di risorse militari o amministrative) infatti la rottura del dualismo porta allo status giuridico di liberi cittadini e tutto ciò rappresenta un incoraggiamento ad intraprendere attività economiche (non più ostacolate dal tradizionalismo e dalla magia). Così le città occidentali iniziano ad intraprendere attività commerciali e produttive che preparano un capitalismo razionale orientato allo sfruttamento di opportunità di mercato. o Il primo contributo della città è l’allargamento del mercato: inizialmente ciò avviene con lo sviluppo del commercio (che caratterizza la vita economica della città come comunità politica autonoma) infatti per incrementare le possibilità di sostentamento le città allargano i propri traffici; ma per farlo sono spinte a sperimentare nuovi strumenti che favoriscono la commercializzazione della vita economica; così dalla necessità di ridurre i rischi del commercio nascono nuove forme di associazione (es la commenda) che spinge verso la razionalizzazione delle tecniche contabili e favorisce la separazione tra patrimonio familiare e patrimonio d’impresa. Tali elementi facilitano il calcolo capitalistico. Inoltre strumenti commerciali più sofisticati (es lettera di cambio) contribuiscono a far emergere forme di organizzazione del credito all’impresa e di attività bancarie che caratterizzano solo l’esperienza occidentale o La borghesia cittadina, che si va sviluppando, entra in conflitto con l’organizzazione economica originaria (basata sulla signoria fondiaria, con servitù dei cittadini e produzione orientata all’economia di autoconsumo) soprattutto perché la signoria fondiaria rappresentava un ostacolo ai suoi interessi di smercio. Inoltre le città sviluppano interesse a liberare i contadini dagli obblighi feudali per accrescere i mercati per i suoi prodotti e per reperire manodopera per il lavoro a domicilio. Inoltre vi è un interesse dei gruppi urbani più abbienti a investire in proprietà agricole e quindi un interesse a liberare le terre dai vincoli feudali (rendendole commerciabili). In questo contesto stimolato dalle attività e dai traffici delle città anche i signori fondiari si aprono nel mercato e tendono a razionalizzare le loro aziende in direzione capitalistica, ciò porta a un’espropriazione dei contadini (Inghilterra), o a un loro sfruttamento più intensivo, fino all’abolizione degli obblighi feudali (Europa orientale) o nella formazione di libera proprietà contadina (Germania sud- occidentale); perciò in “storia economica” Weber riprende la sua analisi sull’organizzazione agricola in Germania e la espande anche ad altri paesi. Così mette in evidenza come le modalità diverse di trasformazione in direzione capitalistica della signoria fondiaria condizionano il successivo sviluppo (favorendolo o ritardandolo). Ciò mostra un’altra differenza tra occidente, in cui si apre la strada ad un capitalismo delle campagne e altre aree del mondo in cui ciò non accade. La presenza di grandi unità politiche centralizzate scoraggia la formazione delle città ma anche quella del feudalesimo (infatti esiste solo in Occidente e in Giappone) nei grandi imperi burocratici (Egitto, Cina) prevale una burocrazia di funzionari dipendenti dal sovrano (che in certe occasioni può assumere un carattere feudale, ma è un feudalesimo di servizio che può essere revocato dal sovrano, quindi manca la natura contrattuale del feudalesimo occidentale) il feudalesimo occidentale nasce da una concessione ai cavalieri in cambio di prestazioni militari; presuppone quindi una fragilità militare dello stato e presuppone fedeltà tra i beneficiari e il sovrano. Questa distinzione tra i due tipi di feudalesimo ha implicazioni economiche e politiche molto importanti: solo sulla base del feudalesimo contrattuale si può sviluppare un’aristocrazia terriera con basi di potere autonome nei loro possedimenti, e se da un lato i vincoli feudali sono di ostacolo al capitalismo; dall’altro la stabilità dell’ordinamento giuridico e dei diritti patrimoniali favorisce una trasformazione in senso borghese, attraverso una conduzione capitalistica dell’azienda signorile (specie devo la città ha creato nuove opportunità economiche) l’area della burocrazia patrimoniale è più favorevole, invece, ad un capitalismo politico; infatti qui l’aristocrazia di servizio sfrutta le opportunità politiche per mantenere il proprio status, ma non rompe il tradizionalismo dell’organizzazione agricola basata sull’economia di villaggio. Le implicazioni politiche riguardano, invece, l’eredità che il contrattualismo feudale lascia allo stato occidentale favorendo la sua evoluzione verso uno stato di diritto con la limitazione dell’arbitrio del sovrano. o Altro presupposto: l’appropriazione nelle mani dell’imprenditore dei mezzi di produzione (indagato in “storia economica”) tale processo inizia con l’indebolimento delle corporazioni (sulle quali si basa la vita economica della città medioevale) la corporazione è “un gruppo di regolazione dell’economia” che vuole creare opportunità per tutti i membri e per far ciò regola l’organizzazione del lavoro e il processo produttivo; ma già alla fine del medioevo si vedono processi di differenziazione all’interno e all’esterno delle corporazioni; in alcune gli artigiani si trasformano in mercati-imprenditori (che affidano lavoro ad altri membri) in altre si orientano in direzione commerciale. Il controllo dell’acquisto delle materi prime e dei rapporti con il mercato ha valore strategico e condiziona il processo di differenziazione; così si forma il mercate-imprenditore che alimenta il lavoro a domicilio (coinvolgendo anche i contadini) questo processo è la base per il processo di appropriazione dei mezzi di produzione nelle mani dell’imprenditore (ad uno stadio embrionale, perché vi è un basso livello del capitale fisso, anche se il mercate- imprenditore fornisce in alcuni casi, non solo materie prime ma anche mezzi di produzione ai lavoratori a domicilio; ciò si manifesta solo in Occidente) Un altro presupposto allo sviluppo del capitalismo, che non riguarda la citta, è la nascita della tecnica razionale legata allo sviluppo della scienza razionale in occidente; il processo di demagizzazione è la base che porta, per Weber allo sviluppo del pensiero scientifico; le istituzioni in cui si sviluppa (es. Università) trovano sostegno nelle città e negli stati nazionali; ma il carattere innovativo delle attività economiche occidentali è anche un incentivo all’applicazione delle scienze alla produzione (allo sviluppo di nuove tecniche) a questo proposito Weber porta l’esempio delle attività minerarie e del problema dell’acqua nei pozzi che dà uno stimolo alla scoperta della macchina a vapore. Oppure l’utilizzo del carbon fossile che rende possibile l’utilizzo del ferro come materia prima per lo sviluppo industriale; l’utilizzo del carbone e del ferro è fondamentale per la meccanizzazione, permettendo così la produzione di massa e permette di attenuare i rischi connessi all’immobilizzo del capitale fisso; la meccanizzazione consente anche una razionalizzazione del calcolo del capitale per i costi di fabbricazione. • Stato e diritto razionale presupposto essenziale del capitalismo moderno è il diritto razionale; che rende la legge calcolabile e dà maggiore prevedibilità hai rapporti tra i soggetti impegnati in attività economiche e tra essi e la pubblica amministrazione. Ciò si crea solo in occidente ed è il presupposto di uno stato razionale con 2 caratteristiche: è fondato su un ordinamento giuridico che regola le modalità di accesso al potere politico e il suo esercizio; e si avvale di funzionari specializzati sottoposti alla legge (sia per il loro reclutamento che per la loro attività). Il tipo ideale dello stato razionale si contrappone a quello patrimoniale (Oriente) in cui il potere politico è in possesso del signore e i funzionari sono suoi dipendenti. Queste caratteristiche dell’Occidente si creano in un processo di razionalizzazione (che Weber indaga in economia e società) che ha 3 fattori: o fattore religioso: influenza della demagizzazione che rende possibile un intervento razionale del potere politico, per affrontare problemi nella società. Per l’affermarsi dello stato di diritto è importante l’elaborazione giuridica del diritto di cittadinanza e quindi l’esperienza delle città occidentali e del feudalesimo contrattuale (che limitano l’esercizio del potere politico) o il diritto romano: fondamentale perché ha reso possibili le cause sopra indicate. Con la caduta dell’impero romano il diritto viene conservato dai notai italiani (che lo avevano adattato alla commercializzazione) e nell’ambito delle università (dove si forma una dottrina giuridica sistematica). Il diritto romano è importante per il suo formalismo giuridico (antidoto alla giustizia sostanziale, sottoposta all’arbitrio) esso si presta alla creazione di una burocrazia specializzata (risorsa cruciale per lo stato moderno) infatti nella creazione degli stati assoluti, i sovrani trovano nel diritto romano uno strumento per promuovere la centralizzazione politico- amministrativa (attraverso l’unificazione giuridica) e si valgono di giuristi che contribuiscono a rafforzare tale tendenza. Si forma così un diritto calcolabile che contribuisce a introdurre la calcolabilità di cui il capitalismo ha bisogno l’influenza dello stato nel capitalismo è presente anche in altri ambiti: nel processo di liberazione della forza lavoro; ma anche nello sviluppo del credito. Weber sintetizza il rapporto di dipendenza tra borghesia capitalistica e stato notando che le città occidentali perdono le loro libertà originarie e si trasformano in una serie di stati in concorrenza tra loro; questo conflitto è la massima possibilità per il capitalismo moderno (il singolo stato deve competere per il capitale). Ma manca ancora un presupposto all’affermazione del capitalismo industriale ovvero: un attore sociale con motivazioni adeguate che si assume questo compito. Ovvero è necessario che la borghesia cittadina maturi un orientamento economico favorevole al capitalismo moderno; il protestantesimo contribuisce a formare la borghesia. Infatti ciò che contribuisce a creare il capitalismo è l’impresa razionale durevole, la contabilità razionale, il diritto razionale, ma serve anche l’attitudine razionale e la razionalizzazione della condotta; tutti questi elementi congiungono i fili dell’opera di Weber e mostrano che nella spiegazione del capitalismo sono fondamentali fattori religiosi ma anche istituzionali. 4.Il contributo teorico di Weber: Per Weber il compito della teoria nelle scienze sociali non è creare leggi generali; la sua non è una teoria dello sviluppo economico in generale ma la costruzione del modello idealtipico del capitalismo moderno lui sostiene la storicità della società, quindi rifiuta il tentativo di prevedere il futuro, applicando leggi naturali alla società; per questo in Weber non c’è una trattazione sistemica del futuro del capitalismo. In Economia e società fa una generalizzazione sui rapporti tra forme di organizzazione dell’economia e fenomeni istituzionali, è una cassetta degli attrezzi che si devono applicare all’indagine storico-empirica (non concludono l’analisi, la preparano) questo approccio è un ostacolo alla creazione di categorie ad alta generalizzazione; questa prospettiva di Weber influenzerà tutte le scienze contemporanee. In Storia economica il futuro non è trattato dice solo che della morale”. Vuole trovare criteri di orientamento dell’azione attraverso lo studio dei fatti morali e dell’influenza che le forme specifiche di organizzazione sociale hanno su di essi. Durkheim sente la necessità di dare un fondamento scientifico all’ordine sociale inquanto cittadino della terza repubblica (nata dal crollo del secondo impero e dalla sconfitta della Germania dopo la Rivoluzione che porta la Francia a continue instabilità sociali) Durkheim cerca di dare nuova stabilità alla Francia radicando la sociologia nell’Università e rendendola strumento formativo importante. È fondamentale (in lui) il problema dell’ordine sociale, perciò si scontra con l’utilitarismo individualista, perché vuol mostrare l’influenza delle istituzioni nel comportamento individuale (anche economico) ciò avvicina Durkheim alla sociologia tedesca, risente dell’influenza dello storicismo tedesco. Il suo primo contributo alla sociologia economica è la critica alla teoria dell’azione degli economisti e dalla creazione di una teoria istituzionalista; il contributo più importante è l’analisi degli effetti destabilizzanti che l’organizzazione delle attività economiche nella società moderna ha a causa delle forme anomale di divisione del lavoro. l’intento di Durkheim è formare la sociologia come disciplina generale volta ad indagare diversi aspetti del comportamento con il metodo scientifico e l’indagine empirica. 1.1La critica all’utilitarismo e la fondazione di una teoria istituzionalista All’inizio della sua carriera Durkheim si accosta agli esponenti della scuola storica di economia tedeschi; i suoi studi di questo periodo sono raccolti in “la scienza positiva della morale in Germania” dove riprende la critica degli storicisti all’economia politica: non è possibile studiare i fenomeni economici prescindendo dal contesto storico; il comportamento degli individui è influenzato da norme morali che mutano con la società, questi fattori influenzano lo sviluppo economico e ne sono influenzati. Durkheim riconosce agli economisti il fatto di aver capito che la società, come la natura, è influenzata da leggi sue proprie studiabili scientificamente; così gli economisti hanno preparato il capo alla sociologia; il loro errore è stato però quello di prescindere dall’influenza delle istituzioni sociali sull’economia (perciò la sociologia resta astratta e deduttiva occupata a costruire l’ideale dell’uomo egoista sistematico, ma l’uomo reale è più complesso). L’errore degli economisti dipende dall’individualismo utilitarista che orienta la loro analisi (società costituita da individui che entrano in relazioni scelte volontariamente per perseguire il loro interesse; le istituzioni sono frutto di accordo tra individui) Durkheim sviluppa 2 critiche a ciò: • Le cause non individualistiche della divisione del lavoro: Durkheim mette in discussione il fatto che si possa dedurre la società dall’individuo, infatti per lui la vita individuale è nata dalla vita collettiva; ciò è verificabile nello sviluppo storico: l’individualismo è una caratteristica tipica della società moderna, mentre nelle società più antiche il comportamento individuale è condizionato dalle regole sociali; l’individualismo è frutto dell’evoluzione della società indagata in “La divisione del lavoro sociale”. L’influenza della società non è visibile solo nella storia della specie umana ma anche in quella dei singoli individui nell’educazione (attraverso la quale si impongono al bambino modi diversi di sentire e agire) perciò per comprendere il comportamento individuale occorre studiare le cause sociali che influiscono sull’azione, bisogna cioè studiare le istituzioni (ovvero ogni credenza o forma di condotta istituita dalla società). in “La divisione del lavoro sociale” Durkheim sviluppa la sua critica all’utilitarismo e si concentra sulle origini e le conseguenze della crescita della divisione del lavoro; vuole mostrate che la spiegazione degli economisti a questo fenomeno è inadeguata e vuol mettere in evidenza come una società basata sull’elevata differenziazione delle attività e dei ruoli non può fare a meno di istituzioni non contrattuali, di regole morali condivise. Secondo gli economisti la divisione del lavoro si sviluppa per cause individuali e piscologiche (perché aumenta i vantaggi goduti dai singoli). Per Durkheim è un errore perché i vantaggi, in termini di produttività e benessere, che si hanno con una maggiore divisione del lavoro, non possono essere conosciuti prima dai singoli individui e spingerli a specializzarsi; cioè è un errore considerare gli effetti di un fenomeno come le sue cause. La causa della divisione del lavoro è, per lui nei cambiamenti nella morfologia della società (distribuzione della popolazione, quantità e qualità dei rapporti sociali) che si riflette nella solidarietà, determinata dall’insieme delle norme sociali condivise che legano gli uomini e regolano i loro rapporti. La sua spiegazione si basa quindi sull’analisi dei meccanismi che permettono il passaggio da una società semplice (solidarietà meccanica) a una superiore (solidarietà organica). o Il tipo ideale di società semplice ha piccole dimensioni, prevalgono gruppi segmentati con poche relazioni tra loro e omogenei al loro interno (bassa divisione del lavoro); l’ordine sociale è garantito dalla solidarietà meccanica che si basa su una forte coscienza collettiva (insieme di credenze, sentimenti comuni alla media dei membri) che regola il comportamento individuale (poco spazio all’autonomia); il problema dell’ordine è risolto meccanicamente grazie all’adesione a un sistema di valori condiviso (indicatore di ciò è la prevalenza del diritto penale con sanzioni repressive). o Col tempo questa segmentazione diminuisce, grazie ad un aumento della popolazione che porta ad una maggiore densità materiale; la popolazione è più concentrata, crescono le città e migliorano le vie di comunicazione, si intensificano i rapporti sociali e aumenta la densità morale. Ciò si riflette in un’accentuata lotta per l’esistenza che spinge gli individui a specializzarsi per sopravvivere: la crescita della divisione del lavoro è dovuta quindi alla pressione della società sugli individui; ciò fa emergere le società superiori qui vi è una solidarietà organica stimolata dalla divisione del lavoro che creda dipendenza tra i soggetti. Questo tipo di solidarietà regola meno comportamenti individuali, in modo meno rigido e indica dei comportamenti “base” che lasciano spazio alle scelte individuali (più compatibile ad una società differenziata) così si diffonde l’individualismo (indicatore del mutamento il diritto civile, restitutivo). • Le condizioni non contrattuali del contratto. Ne “la divisione del lavoro sociale” c’è un’altra critica agli economisti: infatti anche dove l’individualismo si è affermato come criterio morale che guida l’azione, non mancano regole sociali. In questa società crescono le relazioni contrattuali ma anche quelle non contrattuali regolate da istituzioni giuridiche o morali (i rapporti familiari con diritti e doveri…) nella società moderna l’intervento dello stato nelle relazioni sociali non è solo nell’ambito della giustizia e della guerra ma anche nell’ambito dell’educazione, nella protezione della salute nel funzionamento dell’assistenza pubblica, e nella comunicazione; l’azione sociale è presente anche nell’ambito delle relazioni contrattuali; infatti affinché le relazioni contrattuali si possano sviluppare sono necessarie norme (diritto contrattuale) ma tra glie elementi non contrattuali dei contratti vi sono anche costumi e norme morali. Quindi solo in presenza di una regolazione giuridica si può affermare la regolazione contrattuale (che così soddisfa i bisogni individuali senza ledere quelli collettivi). • Le origini delle istituzioni. Perché ci sia ordine sociale bisogna frenare l’interesse individuale; ciò avviene solo con istituzioni forti, che sono frutto di interazione tra individui che si sviluppa a fronte di determinati problemi della vita collettiva; ma quando si affermano acquisiscono autonomia e un carattere costrittivo e si impongono ai singoli. Le istituzioni non hanno origine contrattuale, ma nascono in momenti di effervescenza della società; nei quali aumenta l’interazione tra gli individui, che porta a scogliere gli interessi individuali e gli egoismi in forti identità collettive (es periodo della Riforma, o della Rivoluzione francese…). Questi momenti sono temporanei ma sprigionano ideali che si pongono alla base delle istituzioni (elaborazione sul piano normativo degli ideali guida che nelle fasi più stabili della vita sociale vengono adattati alle esigenze e ai problemi emergenti). Così le istituzioni rendono possibili le relazioni sociali e le attività economiche perché regolano i conflitti di interesse e rendono possibile la definizione degli interessi individuali (che dipendono da un criterio di valutazione che li fonda); così Durkheim da molto peso all’esperienza religiosa come creatrice di valori poi rielaborati in momenti di mobilitazione collettiva (lui da meno importanza, rispetto a Weber, al conflitto tra gruppi di interessi, nel processo di rielaborazione dei valori e ciò è un limite nella sua capacità di spiegare i processi concreti di formazione delle istituzioni). 1.2Le conseguenze sociali della divisione del lavoro Durkheim è ottimista sulle capacità della società ad ampia divisione del lavoro, di creare quella solidarietà di cui ha bisogno; ma si rende conto che questo non è scontato nei lavori successivi da “il suicidio”. Lo sviluppo della divisione del lavoro si accompagna a tensioni e conflitti sociali. Lui per studiare gli effetti socialmente destabilizzanti della divisione del lavoro, considera come eccezionali le situazioni in cui la specializzazione non si accompagna alla crescita della solidarietà. Distingue 2 modalità attraverso le quali la divisione del lavoro produce effetti socialmente destabilizzanti: • La divisione anomica: ovvero quando la divisione del lavoro cresce più rapidamente rispetto alle regole istituzionali. Per lui il forte sviluppo economico è la principale fonte di anomia della società modera, perché esso si è affermato senza un’adeguata istituzionalizzazione. Due forme in cui si manifesta l’anomia sono: le crisi industriali e commerciali e l’antagonismo tra capitale e lavoro. le crisi economiche, più frequenti, sono dovute all’espandersi del mercato come meccanismo di regolazione delle attività economiche. Nelle società meno avanzate la produzione è destinata al consumo (il rapporto tra i due fattori è delimitato in uno specifico ambito territoriale). La crescita della divisione del lavoro e della produzione comporta uno scarto tra produzione e consumo, che genera crisi ricorrenti (il produttore non ha più sotto gli occhi il mercato e perciò la misura viene oltrepassata). Il mercato tende a ristabilire l’equilibrio tra produzione e consumo, ma ciò avviene attraverso continue destabilizzazioni delle relazioni sociali (fallimenti e disoccupazione sono un segno). L’anomia si manifesta anche nei rapporti tra capitale e lavoro, che riguarda sia il mercato che l’organizzazione del lavoro; nel mercato la diffusione dell’occupazione è avvenuta senza un’adeguata regolamentazione giuridica perciò non vi è una tutela adeguata del lavoratore rispetto all’andamento del mercato; a ciò corrisponde (per la divisione del lavoro) una parcellizzazione dei compiti, una routinizzazione e una perdita di qualità del lavoro che rende l’operaio appendice della macchina. Ciò entra in contrasto con l’ideale di arricchimento e perfezionamento individuale (alla base della coscienza collettiva nella società moderna) e delle difficoltà di integrazione dei singoli nell’ordine sociale. • La divisione coercitiva: il disordine sociale non è solo frutto dell’anomia ma anche di regole sbagliate; infatti vi sono regole che creano una divisione coercitiva del lavoro in 2 sensi: o l’assegnazione di ruoli specializzati. Un’elevata divisione del lavoro presuppone un allentamento della coscienza collettiva e più spazio a scelte individuali; si afferma così un culto dell’individuo che sostiene che ognuno sia destinato alla funzione che 2.Spreco delle risorse produttive e consumo vistoso Thorstein Veblen vive nella seconda metà dell’800 negli Stati Uniti, usciti dalla guerra di secessione e segnati da processi di trasformazione economica rapida; tra il 1860 e il 1914 la popolazione triplica e la produzione e l’occupazione crescono a ritmi vertiginosi; grandi magnati controllano quote considerevoli del patrimonio nazionale; questo è anche il periodo della crisi dell’agricoltura tradizionale e di intensi conflitti industriali che coinvolgono la classe operaia in crescita. In questo contesto matura la riflessione di Veblen (figlio di immigrati norvegesi luterani) ha una formazione economica ma manifesta una forte insoddisfazione per l’economia tradizionale, incapace di fornire strumenti di conoscenza adeguata per comprendere i grandi cambiamenti di fine secolo; anche per lui le aspettative ottimistiche della teoria economica si scontrano con gli sconvolgimenti sociali derivanti dal capitalismo guidato dal mercato; per Durkheim ciò si traduce nel tentativo di creare una teoria generale della società; Veblen vuole rifondare su basi istituzionali l’analisi economica traendo ispirazione dalla prospettiva evoluzionista sviluppata da Darwin. La sua economia istituzionale può essere messa a confronto con l’istituzionalismo sociologico di Durkheim sia per l’apporto di una teoria non individualista dell’azione umana, sia per la messa a fuoco di un problema di ricerca storico- empirica non affrontato dall’economia: quello degli effetti sociali del capitalismo liberale basato sul mercato; e dei cambiamenti in esso prima della crisi degli anni ’30. 2.1La critica della teoria economica e l’economia istituzionale Veblen prende, dai primi scritti, raccolti nel volume “il posto della scienza nella civiltà moderna” le distanze dall’economia classica e neoclassica; la sua critica riguarda 3 aspetti centrali: la teoria dell’azione economica (concezione individualistica della natura umana) la staticità dell’economia tradizionale (il suo interesse per l’equilibrio) e il nesso tra il perseguimento dell’interesse individuale e il benessere collettivo. Secondo lui l’economi tradizionale ha una visione della natura umana passiva e immutabile; l’uomo è visto come calcolatore di piaceri e pene, un mero fascio di desideri. In realtà non si può parlare di natura umana in termini astorici ed il comportamento dell’uomo non è comprensibile in termini individualistici, al di fuori dell’influenza della società (attraverso modelli di comportamento consolidati: cioè istituzioni). Un carattere biopsichico di base che connota il comportamento umano è la tendenza a fare, a sviluppare nuove attività (visione vicina a quella di Homo faber, piuttosto che al calcolatore massimizzante dell’economia neoclassica). Il suo obiettivo è sottrarre l’analisi della concezione dell’azione umana e dell’economia ad una fondazione astorica e spostare l’attenzione sul ruolo delle istituzioni come elementi che plasmano il comportamento; anche per lui l’azione umana è socialmente condizionata (gli uomini sono guidati da valori e norma ricevuti dalla società) con il cambiamento storico si modifica le istituzioni e il comportamento individuale (questa variabilità non è indagata dalla teoria economica tradizionale, che per lui è guidato dall’idea di equilibrio e influenzata dalla meccanica, ciò gli da un approccio analitico-deduttivo e lo allontana dalle dinamiche reali). L’economia deve essere in grado di guardare i grandi cambiamenti in corso e per farlo deve guardare alle scienze biologiche e al loro impianto evoluzionistico e deve porre al centro le istituzioni. (Con Spencer abbiamo visto come l’evoluzionismo si concilia con l’individualismo della teoria economica favorevole al laissez faire ciò si ha anche in America con Sumner da cui Veblen è influenzato). Veblen seppur influenzato dall’evoluzionismo non ha un approccio individualista e critico del darwinismo sociale; al centro, per lui, ci sono le istituzioni che evolvono per far fronte ai problemi di adattamento posti dall’ambiente, ma la selezione delle istituzioni non comporta che si affermino necessariamente quelle più efficaci: lui rifiuta l’idea di un’evoluzione unilaterale che porta alla convergenza istituzionale. Le istituzioni sono risposte collettive ai problemi di adattamento all’ambiente che gli uomini devono affrontare (la vita dell’uomo è un processo di adattamento selettivo, l’evoluzione della struttura sociale è un processo di selezione naturale delle istituzioni: il progresso è una selezione naturale delle abitudini mentali più idonee a un processo di adattamento degli individui a un ambiente progressivamente mutato). Veblen ha perciò una visione evoluzionista delle istituzioni che emergono per regolare i rapporti tra gli uomini in società e con l’ambiente, ma una volta formatesi selezionano i comportamenti che condizionano le risposte ai futuri problemi di adattamento. La crescita della popolazione, il miglioramento delle conoscenze e lo sviluppo tecnologico, fanno sorgere problemi di adattamento. Per lui scienza e tecnica sono il motore del cambiamento ma il processo non è lineare, esse definiscono il potenziale di mutamento del processo produttivo che si riverbera sulle altre istituzioni; ma per far emergere nuove istituzioni si devono superare le resistenze delle vecchie, infatti le istituzioni ereditate dal passato sono difese dai gruppi sociali privilegiati in quell’assetto; alla lunga però vi è un adeguamento delle istituzioni che consente la valorizzazione di nuove conoscenze e tecnologie (i temi e modi di questo processo non sono definiti a priori). L’evoluzione è un processo continuo e la società sconta un ritardo strutturale nell’adeguamento delle istituzioni: ciò dipende dall’esito del conflitto che oppone i gruppi sociali meno esposti alle conoscenze moderne da quelli (più impegnati nella produzione) hanno una visione più razionale delle cause e degli effetti dei fenomeni. Ciò ha 2 conseguenze: quanto maggiore sarà il ritardo nell’adeguamento istituzionale, tanto maggiore sarà il costo al quale una società andrà incontro in termini di spreco di risorse; ciò porta a conflitti sociali dovuti alla carenza delle istituzioni nel regolare i problemi di adattamento. Veblen non crede che il conflitto di classe sia agente del mutamento, ma vede un’attrazione delle classi inferiori, verso i modelli di vita della classe agiata. L’altra conseguenza è la possibile coesistenza di società in cui il rapporto tra tecnologia e istituzioni è diverso. Veblen non credeva ad un inevitabile convergenza istituzionale che porta all’affermarsi di un unico modello istituzionale. In “la Germania imperiale e la rivoluzione industriale” fa un’indagine di sociologia economica comparta, in cui analizza il rapido sviluppo della Germania nella seconda metà dell’800 confrontandola con la Gran Bretagna. La tesi è che ci sono percorsi di sviluppo differenti basati sulla capacità di inserire nuove tecnologie in un contesto istituzionale ancora tradizionale; il successo di questo inserimento spiega il rapido sviluppo della Germania. L’innesto tra tecnologie moderne e istituzioni tradizionali a 2 vantaggi: si può sfruttare la solidarietà di gruppo e la subordinazione all’autorità, come strumenti che accrescono la capacità della forza lavoro di cooperare. Inoltre l’innesto delle tecnologie moderne evita, momentaneamente, di imporre le istituzioni che si sono sviluppate con esse (come in Gran Bretagna) che hanno frenato lo sfruttamento della tecnologia per il benessere sociale e il suo adeguamento in seguito alla crescita di nuove conoscenze; ha portato alla perdita del dinamismo imprenditoriale, la subordinazione dell’attività produttiva ai profitti finanziari, il conflitto di classe e il diffondersi dello sciupo vistoso (standard di consumo che distraggono risorse dal benessere collettivo) e la resistenza al cambiamento dell’economia che porta ad obsolescenza (per Veblen lo sviluppo inglese è stato influenzato dal fatto che è un isola e dalla sua posizione nelle vicende belliche). Con questa analisi Veblen da un contributo su 2 aspetti: la varietà dei processi di sviluppo che possono seguire strade diverse, non c’è un solo modo di avviare lo sviluppo economico: accanto alla via dal basso (seguita da Gran Bretagna e Stati Uniti) vi sono vie dall’alto in cui lo sviluppo è promosso dallo Stato che vuol salvaguardare gli equilibri sociali e i valori tradizionali (come in Germania e in Italia). Per lui ci sono dunque equilibri multipli (combinazioni diverse tra economia e istituzioni). 2.2I costi sociali del capitalismo Veblen utilizza la sua teoria del cambiamento per mettere a fuoco i problemi di adeguamento delle istituzioni nella società moderna (nel contesto americano, fine ‘800 inizio ‘900) per lui c’è un ritardo nell’adeguamento delle istituzioni agli sviluppi delle conoscenze tecnologiche e ciò porta a costi crescenti in termini di benessere collettivo. Nella fase iniziale del capitalismo c’è un nesso tra perseguimento dell’interesse individuale e benessere collettivo (favorito dal mercato) nella fase successiva questa relazione si allenta e l’organizzazione economica porta alla perdita del benessere collettivo rispetto alle potenzialità della tecnica. Veblen per spiegare ciò guarda ai cambiamenti della produzione e del consumo. Nella prima fase della rivoluzione industriale (seconda metà ‘700) si afferma il sistema dell’industria meccanica; la produzione fa capo alle imprese private in cui i proprietari-imprenditori sono sia capitalisti che organizzatori della produzione (coniugano potere economico e capacità tecniche) le imprese sono di piccole dimensioni e nessuna controlla il mercato dei beni in cui è inserita; la ricerca del profitto avviene attraverso la maggior efficienza, sotto lo stimolo della concorrenza; in questo quadro maturano gli schemi interpretativi dell’economia, con l’idea che il perseguimento dell’interesse individuale favorisca il benessere collettivo. Effettivamente le forma di organizzazione dell’economia portano ad una maggiore produzione di beni a costi più bassi per la collettività. Vi è congruenza tra il potenziale produttivo e le istituzioni che consentono di valorizzare tale potenziale a vantaggio della società. quindi il quadro istituzionale del capitalismo liberare è valido per un determinato periodo storico che si chiude a fine ‘800 con ulteriori sviluppi tecnologici. Le nove tecniche rendono possibile la produzione di massa e richiedono ingenti investimenti industriali; la proprietà e la gestione dell’aziende si separano; la prima va nelle mani dei capitani d’industria (che gestiscono gli investimenti e sono interessati al profitto finanziario) sono finanziatori di società azionarie; mentre la gestione è affidata a manager (che hanno conoscenze tecniche e organizzative: sono ingegneri della produzione). Questa separazione porta a problemi per il benessere collettivo: la ricerca del profitto non conduce più al benessere collettivo (attraverso maggior produzione di beni a prezzi più bassi) ma spinge i capitani d’industria alla compravendita di imprese per mera speculazione finanziaria e ciò danneggia sia la produzione che l’occupazione (portando alla chiusura non necessaria di aziende). Fenomeni di crisi dovuti a questa ricerca del profitto crescono e generano depressioni cicliche e disoccupazione. Inoltre per lui la ricerca del profitto può ostacolare una maggiore efficienza: l’incremento di produttività, dovuto alla nuova tecnologia, può portare ad un maggior volume di beni disponibili a prezzi più basso, ciò è impedito dall’esigenza, dei capitani d’industria, di trovare profitti elevati; che spingono per trasformare il mercato concorrenziale in mercato monopolista (attraverso cartelli e trust, che limitano la produzione e tengono alti i prezzi). Si crea così una volontaria soppressione dell’efficienza che si manifesta anche nella crescita dei costi di vendita (indotti dalla lotta di concorrenza) che gravano sui costi di produzione; così vi è uno spreco di risorse e una perdita del benessere collettivo. Lui affronta il tema del consumo ne “La teoria della classe agiata” (brillante critica alla società americana) dove vi è una critica stringente delle motivazioni individualistiche e utilitaristiche dell’azione che è un tema centrale dell’istituzionalismo di Veblen. Non è la ricerca di maggiori possibilità di consumo di beni a favorire un incentivo a impegnarsi in attività economiche. Nella società moderna l’economia è organizzata in proprietà privata del mercato, la possibilità di maggior consumo sono ricercate come fonte di maggior prestigio e di onere sociale; le motivazioni profonde delle attività economiche hanno a che fare con la ricerca di prestigio in un confronto antagonistico con gli altri membri della società. per i gruppi poveri, la necessità di guadagnarsi da vivere è un forte incentivo, ma anche le loro motivazioni si modificano con la crescita economica della società moderna, essi pian piano fuoriescono dal livello di sussistenza e vengono attratti dal consumo come mezzo di reputazione (spinta all’integrazione consumistica delle classi inferiori). Ciò si diffonde nelle grandi città (dove i criteri di riconoscimento sociale tradizionali vengono meno) ciò è il motivo per cui il conflitto di classe non può essere motore del cambiamento. Al centro di “la teoria della classe agiata” vi è l’idea dello spreco vistoso (una causa della perdita del benessere collettivo) i consumatori non soddisfano in modo razionale le loro esigenze, ma il loro comportamento è influenzato dall’interdipendenza sociale, dal tentativo di emulare gli altri e di acquisire uno status superiore; vi è e politiche: la classe operaia richiede riconoscimenti sociali e politici; negli ultimi decenni del secolo cominciano a manifestarsi le difficoltà del capitalismo liberale di tenere insieme crescita economica, integrazione sociale e rapporti tra gli stati. La concorrenza pesa sulle realtà più arretrate e alimenta richieste di protezione; ma il protezionismo (agrario e industriale) spinge a una più intensa politica coloniale. I conflitti interni e tra gli stati si acuiscono fino a sfociare nella prima guerra mondiale. La guerra ha costi sociali e economici altissimi e accelera il mutamento istituzionale, ma le condizioni restano instabili. Negli anni ’20 l’Europa è provata e fa ricorso ai prestiti degli Usa, ma la situazione rimane problematica (il commercio stenta a riprendersi, mentre la produzione di manufatti aumenta grazie allo sviluppo tecnologico, e il protezionismo ostacola gli scambi); con la Grande crisi del ’29 (crollo della borsa di New York) i prestiti americani cessano e la situazione peggiora, ciò porta a un fallimento a catena delle imprese. La grande crisi spinge tutti i paesi ad allontanarsi dal liberalismo interno e esterno; esso viene progressivamente sostituito da un nuovo quadro istituzionale (come scrive David Landes nasce una nuova prospettiva basata sull’assunto che la mano dello stato è indispensabile sia nei buoni che nei cattivi momenti; soltanto lo stato può garantire la crescita dell’economia, quindi l’economia deve porsi al servizio dello stato). in questo sondo si apre la riflessione di Karl Polanyi e di Joseph Schumpeter: essi studiano le cause del declino del capitalismo liberale e i processi cambiamento negli anni ’30 che portano alla formazione di un capitalismo più regolato (economia reincorporata nella società). 1.Dominio del mercato e autodifesa della società Polanyi non è un sociologo economico, si muove tra la storia economica, l’antropologia e la sociologia della vita economica, in un processo che riflette le sue esperienze (nasce a Budapest, poi va a Vienna nel dopoguerra, poi in Inghilterra dove si accosta al socialismo laburista) e in quest’ultimo periodo lavora al tema della trasformazione del capitalismo liberale e si avvicina a studi di antropologia e sociologia economica in “La grande trasformazione” 1944; infine si traferisce a New York e insegna alla Columbia (economia delle società primitive). 1.1L’economia come processo istituzionale Polanyi è un istituzionalista (la sua riflessione metodologica è raccolta in “economie primitive, arcaiche e moderne” ’68 e in “la sussistenza dell’uomo” ‘77). Istituzionalismo vuol dire, per lui, che l’azione economica non è comprensibile in termini individualistici, ma è influenzata dalle istituzioni, critica quindi l’idea dell’uomo economico. Infatti la ricerca del guadagno non è sempre stata alla base del comportamento economico (in questa analisi si richiama agli studi dell’antropologia sulle popolazioni primitive: di Malinowski nella Nuova Guinea e di Thurnwald) cos’ mostra che la spinta al guadagno non è naturale per l’uomo. Le economie primitive funzionano sulla base di reti di obbligazioni condivise, che motivano il comportamento individuale; solo negli ultimi secoli, quando l’economia ha iniziato ad essere regolata dal mercato, il guadagno diventa importante (critica quindi l’idea di Smith di uomo economico). Per Polanyi l’economia non può essere separata dal contesto storico (non è possibile formulare leggi economiche generali). Nella realtà esistono sistemi economici in cui le attività di produzione, distribuzione e scambio di beni sono regolate da istituzioni che si modificano storicamente. Lui individua 3 forme di integrazione (ovvero tre principi fondamentali di regolazione dell’attività di produzione, distribuzione e scambio di beni) ciascuna forma si distingue dalle altre per l’organizzazione dell’attività economica e per i rapporti con le altre sfere della vita sociale: ✓ Reciprocità: (nelle economie primitive) beni e servizi sono scambiati sulla base dell’aspettativa di riceverne altri, secondo modalità fissate da norme sociali condivise, che si fondano su istituzioni (che sanzionano i comportamenti sbagliati) questo avviene nella famiglia e nella parentela, anche se gli scambi di servizi non avvengono necessariamente tra gli stessi gruppi ( il gruppo A può dare al gruppo B, che da al gruppo C che da al gruppo A…) le istituzioni che sostengono la reciprocità sono organizzate simmetricamente. L’economia delle società primitive si basa, quindi sul flusso di doni e contro-doni, regolati da norme condivise che sanciscono obblighi nei riguardi dei diversi gruppi parentali. La reciprocità continua anche nelle società più avanzate nelle famiglie (sostegno economico dei genitori ai figli). ✓ Redistribuzione: (società più evolute dell’antichità) i beni vengono prodotti ed allocati in base a norme che stabiliscono le modalità delle prestazioni lavorative e l’entità delle risorse da trasferire a un capo politico che le redistribuisce ai membri della società, secondo delle regole. Ci sono redistribuzioni più egualitarie e altre meno. È necessaria la presenza di un centro politico che abbia il potere necessario per far accettare le complesse modalità di trasferimento e allocazione dei beni (es: i grandi imperi antichi, il feudalesimo europeo). Quindi le istituzioni politiche sono più importanti di quelle familiari (che persistono) nella redistribuzione (che presuppone un’organizzazione statuale e amministrativa, che facciano rispettare obblighi di fedeltà politica). Qui non v’è ricerca del guadagno ma l’azione economica e motivata da obbligazioni politiche. Questa può persistere nelle società più evolute e Polanyi dopo il declino del capitalismo, intravede una ripresa di forme di redistribuzione (la tassazione redistribuisce risorse e potere d’acquisto) ✓ Lo scambio di mercato: (forma di integrazione dell’economia, che raggiunge il culmine nel corso del XIX secolo) questo implica che lo scambio di beni attraverso il commercio sia regolato dai mercati nei quali si forma prezzi in base al libero incontro tra domanda e offerta, ma richiede anche che la produzione di beni e servizi e la distribuzione dei redditi siano dipendenti da mercati regolati dai prezzi. Polanyi sottolinea che l’esistenza di forme di commercio con prezzi regolati dal mercato è un fenomeno che c’è anche nelle società più antiche, dove produzione e distribuzione erano regolate sulla base di reciprocità e redistribuzione. In tali contesti si possono trovare anche scambi con prezzi regolati dall’incontro di domanda e offerta. Più tarda è la diffusione di questo meccanismo nella sfera della produzione e della distribuzione dei redditi; solo quando ciò avviene su larga scala che si può parlare di scambio di mercato come forma di integrazione dell’economia. È necessaria l’esistenza di mercati regolatori dei prezzi e dei prerequisiti istituzionali (indicati da Marx e Weber): proprietà privata dei mezzi, lavoro salariato, piena commerciabilità… solo in questo caso si può parlare di motivazioni utilitaristiche all’azione economica che sono un portato delle particolari istituzioni che fondano lo scambio di mercato. Altri due aspetti metodologici in Polanyi sono fondamentali: ✓ L’idea di sistema economico, tipica della tradizione della sociologia economica, utilizzata in connessione con quella di forma di integrazione, che acquisisce un carattere prevalente in una determinata economia, se si estende alla sfera produttiva e regola l’uso della terra e del lavoro (nelle società primitive la forma di integrazione della terra e del lavoro è la parentela, nei grandi imperi la forma di integrazione è la redistribuzione). ✓ Le forme di integrazione non sono stadi dello sviluppo, non c’è una sequenza temporale necessaria, di solito più forme si combinano in un sistema economico in cui una è prevalente. Perciò bisogna relativizzare il valore analitico dell’economia classica e neoclassica che generalizza impropriamente i suoi modelli analitici, universalizza le motivazioni utilitaristiche e le leggi dei mercati autoregolati. Polanyi per evitare queste “fallacia economicista” introduce la distinzione tra significato formale e sostanziale di economia. Il significato formale è l’economizzare: il processo razionale di allocazione di risorse scarse (tipica della logica neoclassica) ed è formare perché si riferisce alla logica formale del rapporto mezzi-fini che può essere applicato a vari campi. Il significato sostanziale fa riferimento alla sussistenza umana (sottolinea che l’uomo dipende dalla natura e dagli altri uomini) questo è l’oggetto dell’economia. La fallacia economica lega la sussistenza all’allocazione razionale di risorse scarse; ma ciò avviene solo dove si è affermato lo scambio di mercato (in altri sistemi il soddisfacimento dei bisogni avviene in base a regole che non coincidono con quelle della massimizzazione dell’interesse individuale). Perciò le scienze sociali sono importanti perché danno un concetto più ampio di economia che permette di studiare sistemi economici diversi. 1.2La grande trasformazione Si occupa delle cause e delle conseguenze del crollo della civiltà del diciannovesimo secolo. La grande trasformazione che investe la società occidentale dagli anni ’30, porta al superamento del capitalismo liberare, lo spazio del mercato viene ridimensionato e lo stato assume un ruolo più rilevante nella regolazione dell’economia. Polanyi ha l’obiettivo di indagare le origini toriche del mercato autoregolato, le sue conseguenze sociali e gli effetti che ne derivano per il funzionamento dell’economia (dagli ultimi decenni dell’800 alla Grande Crisi degli anni ’30). Per Polanyi l’economia di mercato è un sistema economico regolato dai mercati, in cui la produzione e la distribuzione delle merci è affidata a questo meccanismo di autoregolato: tutta la produzione è in vendita sul mercato e tutti i redditi derivano da queste vendite (si produce solo se c’è una domanda e prezzi tali da garantire un profitto e si guadagna un reddito che dipende dal valore del proprio lavoro sul mercato). La nascita dell’economia di mercato autoregolato deriva da molti fattori ma in particolare: da l’invenzione di macchinari complessi che rivoluzionano il modo di produrre. Queste macchine sono utilizzate con profitto solo se è possibile smerciare il più gran numero di beni che con esse si fabbrica e solo se è possibile alimentarle stabilmente con materie prime e lavoro: ovvero ci deve essere un mercato ampio e tutti i fattori produttivi devono essere disponibili. Polanyi (come Weber) sottolinea l’importanza della disponibilità sul mercato di tutti i fattori produttivi perché possa dispiegarsi il calcolo economico su cui si basa la produzione nella nuova forma economica; ed entrambi sostengono che la figura sociale che avvia la nuova fase di produzione è il commerciante, che investendo il suo capitale nelle nuove macchine disponibili, si trasforma in imprenditore e crea la fabbrica moderna; ciò è possibile solo grazie allo sviluppo dei mercati e della motivazione all’azione economica da parte dei membri della società che fanno funzionare i mercati. Polanyi quindi sottolinea il carattere storico e non naturale delle motivazioni all’azione economica legate alla ricerca del guadagno individuale. L’affermazione dello scambio di mercato come forma di integrazione dell’economia si ha quando esso si estende alla sfera produttiva (mentre l’esistenza del mercato nel commercio di beni ha origini più antiche). I mercati per la terra e il lavoro emergono come conseguenze di interventi politici che si sviluppano tra il ‘400 e l’800 in forme differenti nei vari paesi. Nelle terre ciò porta all’eliminazione del controllo feudale, fino al riconoscimento giuridico della commerciabilità dei diritti di proprietà; con la crescita delle città e delle necessità di mantenimento della popolazione, si sviluppa la piena commercializzazione dei beni prodotti dalla terra e i proprietari terrieri sono spinti a incrementare la produzione e la vendita sul mercato, mentre vengono eliminate le restrizioni giuridiche che limitano la quota di produzione commercializzabile. Ma è sulla formazione del mercato del lavoro che si concentra l’analisi di Polanyi (in riferimento all’Inghilterra) anche qui per lo sviluppo del mercato autoregolato vengono eleminiate alcune forme di controllo sociale e giuridico (corporazioni di origine medioevale). In Inghilterra il lavoro resta a lungo sottoposto a restrizioni, nel 1795, viene introdotto lo (Speenhamland Low) un sistema di sussidi “storia dell’analisi economica” Schumpeter sostiene che la teoria economica è caratterizzata da un insieme di proposizioni analitiche di cui viene argomentata la validità a determinate condizioni; le proposizioni della teoria economica non dipendono dalla loro validità empirica immediata. Schumpeter difende, analiticamente, la validità dell’economia neoclassica, ma sostiene che per analizzare le attività economiche concrete occorre tener conto della loro collocazione nel processo storico; perciò la storia economica è importante perché permette di comprendere come i fattori economici e quelli non economici si combinano nell’esperienza concreta e come questa combinazione cambia nel tempo. Le attività economiche e i loro cambiamenti nel tempo vengono condizionate anche da fattori istituzionali e ciò viene indagato dalla sociologia economica (la sociologia economia chiede come le persone giungono a comportarsi come si comportano). Per Schumpeter l’economia scientifica comprende il complesso delle tecniche storiche, statistiche e teoriche e i risultati che esse aiutano a ottenere (questa è l’economia sociale). 2.2L’imprenditorialità e lo sviluppo economico Schumpeter è più interessato alla teoria che alla sociologia economica e ritiene necessario separare i due aspetti (combinati solo nelle analisi stoico-empiriche) tuttavia nel suo lavoro neanche l’economista teorico riesce a separarsi dalla sociologia, poiché lui si allontana dall’economia neoclassica tradizionale. In “La teoria dello sviluppo economico” (1912) lui analizza il problema del cambiamento e cerchiamo di capire perché nonostante il tentativo di creare una teoria puramente economica entrano in gioco anche variabili sociali. Il punto di partenza è l’insoddisfazione per i limiti dell’economia tradizionale, incapace di uscire dalla visione statica di equilibrio economico, che non riesce a cogliere le discontinuità e le innovazioni. La crescita per Schumpeter è destinata allo sviluppo (per il quale gli strumenti dell’economia tradizionale non funzionano); la crescita è un fenomeno graduale fatto di aggiustamenti, lo sviluppo indica discontinuità. Lo sviluppo è caratterizzato dall’introduzione di nuove combinazioni (creazione di prodotti, introduzione di metodi di distribuzione, apertura di mercati, scoperta di fonti di approvvigionamento di materie prime, la riorganizzazione di un’industria). Schumpeter è interessato alle cause endogene (interne) dello sviluppo; lui riconosce che la discontinuità, rispetto al flusso circolare, può derivare da motivi extraeconomici (es. crescita della popolazione o stravolgimenti sociali…) il suo interesse si concentra sullo sviluppo legato al fatto che alcuni individui riconoscono e attuano nuove possibilità entro i rapporti della vita economica. Lo sviluppo è quindi per lui risultato dell’azione degli imprenditori che introducono nuove combinazioni di mezzi di produzione e realizzano le innovazioni. La sua concezione dell’imprenditore si distacca da quella della teoria economica tradizionale: per lui infatti non basta distinguere il capitalista dall’imprenditore, ma bisogna distinguere nell’attività di gestione e direzione delle imprese il management (che ha carattere di routine) e l’imprenditore (che porta l’innovazione) ciò ha varie conseguenze: o L’imprenditore può essere un uomo d’affari autonomo ma anche un lavoratore dipendete (il manager, che nasce nella fase di separazione tra proprietà e gestione) o Non è necessario che l’imprenditore abbia un rapporto continuativo con una singola impresa o Gli imprenditori non appartengono a una specifica classe sociale: possono diventare capitalisti (grazie all’accumulazione di denaro) ma non è necessario che lo siano, infatti gli imprenditori possono attingere, per introdurre le innovazioni, al credito (solo in misura ridotta le somme di denaro per investimenti vengono dal risparmio accumulato, mentre per il resto derivano dal potere d’acquisto aggiuntivo realizzata dalle banche). Lui sottolinea quindi il legame tra credito e innovazione, è consapevole che la moltiplicazione del potere d’acquisto dei mezzi di produzione non sarebbe sufficiente per la realizzazione dell’innovazione se non ci fossero delle risorse non economiche che consentono di utilizzare il capitale a fini di sviluppo: queste sono le capacità di leadership (anche da questo punto di vista si allontana dall’economia classica che vede l’imprenditore come soggetto capace di calcolo razionale in modo da allocare le risorse per rispondere ai vincoli posti dal mercato) per lui la visione dell’imprenditore, dell’economia classica è plausibile, solo in un’economia routinaria ma se si esce da questa situazione le cose cambiano e si richiedono all’imprenditori qualità particolari. Le cose cambiano quando si realizza un’innovazione che determina una carenza di informazioni e condizioni di maggiore incertezza e resistenze dall’interno del soggetto che deve innovare; ma anche resistenze dell’ambiente sociale e impedimenti giuridici e politici (maggiormente nelle società meno sviluppate, ma anche in quelle sviluppate da parte di gruppi minacciati dall’innovazione) vi può essere inoltre difficoltà di trovare la cooperazione necessaria. Questi ostacoli fanno si che l’innovazione non possa essere praticata da tutti, ma solo da soggetti con specifiche qualità di leadership (che combinano in sé intuizione competenze e determinazione) lui quindi introduce fattori psicologici, legati alla personalità individuale, per comprendere l’emergenza dell’imprenditore innovatore; lascia anche intravedere collegamenti con il contesto sociale (impedimenti politici e giuridici) lui accenna anche alla marginalità sociale come possibile fonte di imprenditorialità. In un testo del 1928 cresce meglio i legami dell’imprenditore-innovatore con un particolare retroterra sociale e istituzionale; vengono così distinti 4 tipi di imprenditore: ✓ Il padrone di fabbrica: che unisce compiti amministrativi, tecnici e commerciali; è proprietario dei mezzi di produzione (di solito la proprietà è una conseguenza della capacità di innovazione) in questo contesto istituzionale i nuovi imprenditori possono venire da famiglie imprenditoriali ✓ In una fase più evoluta del capitalismo, con la separazione tra proprietà e gestione l’imprenditore assume sembianze: o di capitano d’industria (proprietario del capitale azionario che innova operando attraverso il controllo finanziario sulle aziende) o di manager di formazione tecnica (spinto ad innovare dal suo orientamento alla buona prestazione professionale) infine vi è l’imprenditore puro, il fondatore d’impresa (che intrattiene con esse solo rapporti temporanei. In “Teoria dello sviluppo economico” sono già presenti elementi fondamentali del contributo teorico di Schumpeter: sul piano economico il porre l’attenzione sul fenomeno dello sviluppo attraverso l’innovazione; che porta a due conseguenze: porta a veder il profitto come un guadagno dell’imprenditore (legato al successo della sua innovazione) che fa crescere le entrate rispetto alle spese (è una temporanea rendita di tipo monopolistico che si manifesta fino a quando l’innovazione non riesce ad essere imitata). La considerazione del processo di innovazione consente a Schumpeter di offrire una spiegazione articolata dei cicli economici: la fase espansiva del ciclo è costituita dall’introduzione dell’innovazione e dalla sua prima diffusione (che aumenta la domanda di beni di produzione e consumo) successivamente, le vecchie unità produttive, sono colpite dalla concorrenza e ciò le costringe a imitare le innovazioni o ad uscire dal mercato (con effetti recessivi dell’economia) così si entra nella fase discendente del ciclo, fino a quando non si stabilisce un equilibrio temporaneo, che verrà poi alterato da un nuovo ciclo di innovazione. La teoria di Schumpeter pur presentandosi con il tentativo di dare una spiegazione endogena dello sviluppo economico, ha collegamenti con il contesto sociale e istituzionale: l’imprenditore ha si grandi qualità personali, ma si forma in un contesto influenzato dalla stratificazione sociale e dalle istituzioni viventi (soggette a cambiamento nel tempo). L’influenza sociale sull’imprenditorialità viene esplorata nell’opera più importante della sociologia economica “Capitalismo, socialismo e democrazia” in cui centrale è il tema della trasformazione del capitalismo liberale. 2.3Può sopravvivere il capitalismo? Schumpeter si interroga sul futuro del capitalismo già alla fine degli anni ’20. L’interesse principale dell’opera “capitalismo, sociologia e democrazia” (del 1942) è nell’analisi delle trasformazioni del capitalismo liberale e degli effetti della Grande Crisi. La prospettiva è quella della sociologia economica e mette in evidenza come il funzionamento dell’economia capitalistica determina un cambiamento della cultura e delle istituzioni che fa inceppare i meccanismi di autoregolazione dei mercati; perciò si passa da un capitalismo non regolato a uno regolato, che secondo lui apre l strada al socialismo: questo esito (che non auspicava) è per lui inevitabile se non sopraggiungono cambiamenti (che non sono all’orizzonte). Quindi è sostanzialmente d’accordo con Marx ma per motivi diversi: il capitalismo non sopravvive, ma non per fattori economici, ma per le reazioni sociali e culturali che il suo funzionamento provoca. La sua argomentazione si articola partendo dall’idea che: dal punto di vista economico, il capitalismo liberale, basato sul ruolo del mercato, può continuare ad assicurare dinamismo e sviluppo; ma l’attenzione va ai fattori culturali e istituzionali, infatti il cambiamento di questi elementi (indotto dallo sviluppo del capitalismo) è il principale responsabile del declino dell’economia di mercato • Perché il declino ha cause non economiche? Schumpeter è contrario alla tesi che l’evoluzione del capitalismo implichi un aumento della disoccupazione; la crescita dei disoccupati negli anni 30 è elevatissima, ma questo è un fenomeno temporaneo, legato alla fase di recessione, che di solito segue una fase di prosperità; in questo caso il fenomeno è stato aggravato da fattori contingenti: la coincidenza con la crisi agraria (indotta da nuovi modi di produzione, che aumentano la produzione a fronte di restrizioni doganali) gli effetti deflettivi della politica monetaria al ripristino del sistema aureo, i pagamenti di guerra, il livello dei salari e l’accresciuta pressione fiscale; quindi la crisi del ’29 è frutto di molteplici cause che aggravano gli effetti della fase discendente acuta del ciclo; tutto ciò sullo sfondo dell’irrigidimento complessivo dei meccanismi di autoregolazione dei mercati “politiche anti-capitalistiche” tali politiche rendono più difficile la situazione economica per l’accresciuta pressione fiscale e l’espandersi della legislazione sociale. Secondo Schumpeter se il sistema economico fosse stato lasciato libero di riequilibrarsi, avrebbe assicurato un tasso di sviluppo tale da ridurre i problemi di povertà. Non si può eliminare del tutto la disoccupazione (perché è legata al meccanismo dell’innovazione) si possono però creare risorse per attenuare il problema della mancanza temporanea di lavoro. quindi non è il capitalismo di mercato a creare meno sviluppo ma fattori istituzionali: le politiche anticapitalistiche. Schumpeter critica l’idea che nelle fasi in cui prevale il monopolismo o l’oligopolismo ci sia necessariamente minor efficienza e minor dinamismo e che ci sia un declino delle opportunità di investimento. La presenza di monopoli porta a un controllo del mercato da parte dei produttori che va a scapito dei consumatori e dell’efficienza del sistema; per lui tale idea è errata, perché non spiega il fatto che i tassi di incremento della produzione sono aumentati nel periodo in cui hanno cominciato ad affermarsi le imprese giganti (ultimo decennio ‘800, inizio nuovo secolo). La sua critica si concentra sul ragionamento teorico: lui non contesta la validità degli assunti della teoria economica tradizionale, ma li circoscrive all’economia stazionaria, in cui si produce con la stessa combinazione di fattori produttivi. Schumpeter quindi si richiama alla sua tesi sviluppata in “Teoria dello sviluppo economico” dove ricorda che il problema comunemente studiato è come il capitalismo amministri le strutture esistenti ma il problema essenziale è come le crea e le distrugge. Quindi in lui è essenziale il processo di “distruzione creatrice” con lo sviluppo l’impulso a formarsi di nuove combinazioni si basa meno sugli imprenditori individuali e si istituzionalizza nelle imprese quest’ultima come il cumulo di vari fattori; lui considera l’imperialismo (a differenza di Polanyi) come influenzato da variabili politiche e culturali, non economiche infatti per lui esso è estraneo alle tendenze pacifiche della borghesia (è perciò un residuo della tradizione passata, ancora presente nell’aristocrazia) Schumpeter considera il fenomeno di irrigidimento dei mercati come conseguenza della crisi del ’29 e non come causa (come fa Polanyi). Ma entrambi vedono negli anni ’30 uno spartiacque che separa l’epoca del capitalismo non regolato da quella del capitalismo regolato che prepara l’avvento del socialismo. Quindi entrambi gli autori arrivano a conclusioni simili sui requisiti non economici per il funzionamento dei mercati; ciò porta all’idea che il funzionamento dei mercati concreti non è comprensibile senza prendere in esame i loro legami con la società (in che modo si combinano con le istituzioni che motivano gli attori e fanno accettare loro le conseguenze sociali dell’operare dei mercati). Polanyi sostiene che i mercati hanno un carattere utopico; per Schumpeter nessuna società basata su una rete di liberi contratti fra contraenti eguali e guidati solo dai propri scopi utilitaristici può funzionare. Si possono studiare i mercati sul piano analitico, separandoli dal contesto istituzionale ma quando l’indagine riguarda l’ambito empirico-storico è necessario tener conto delle forme e del grado di integrazione dei mercati nella società (che permette di valutare le differenze nel loro rendimento economico, sia nello spazio che nel tempo) così Polanyi e Schumpeter mostrano come l’affermarsi del mercato erode le vecchie istituzioni, genera instabilità sociale e politica e porta a sperimentare nuove istituzioni. Anche nell’analizzare la trasformazione del capitalismo c’è convergenza tra i due (pur divergendo nella valutazione politica del fenomeno): infatti Polanyi vede un passaggio a un capitalismo che limita il ruolo del mercato e lo regola socialmente e politicamente e Schumpeter vede l’avvento di un capitalismo liberista che porta poi al socialismo; Schumpeter valuta questo processo negativamente (essendo legato ai valori del capitalismo) Polanyi lo valuta positivamente sia per il futuro dei paesi occidentali che per i nuovi paesi sottosviluppati.