Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Riassunto Completo di tutta la Letteratura Italiana, Appunti di Letteratura Italiana

Riassunto completo e aggiornato di tutta la letteratura italiana, dal medioevo fino all'eta contemporanea. Utile per il concorso A-12 e A-22 per la scuola, per preparare esami universitari. Sono presenti collegamenti e discorsi tratti da diversi libri per creare un ottima sintesi di tutti gli autori fondamentali della letteratura italiana.

Tipologia: Appunti

2021/2022

In vendita dal 15/07/2022

andreag97
andreag97 🇮🇹

4.7

(12)

19 documenti

1 / 88

Toggle sidebar

Spesso scaricati insieme


Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica Riassunto Completo di tutta la Letteratura Italiana e più Appunti in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! © Caterina Parrini Medioevo Feudalesimo, latino e letterature romanze La parola Medioevo (età di mezzo) fu usata dalla cultura umanistica dei secoli XV e XVI, che voleva indicare come periodo ideale l’età classica, individuando nel Medioevo un periodo buio e negativo, da contrapporre al “nuovo”, il nascente Umanesimo. Questa “età di mezzo” andava dalla caduta dell’Impero romano d’Occidente (476) e la nascita della nuova cultura umanistica del ‘400 e del ‘500. Il Medioevo si divide tra Alto Medioevo, prima del 1000, e Basso Medioevo, in cui ci sarà una ripresa dello sviluppo economico e culturale. Dal punto di vista linguistico, abbiamo una situazione duale: il latino è l’unica lingua scritta; la lingua parlata derivante dal latino si era progressivamente imbastardita fondendosi con apporti provenienti dalle varie lingue dei popoli germanici. La lingua parlata e la lingua scritta si erano così sempre più allontanate, tanto che le varie lingue parlate avevano finito per essere chiamate “volgari” (da vulgus=popolo). La cultura in volgare era quindi essenzialmente orale; solo nel Basso Medioevo le lingue volgari erano diventate via via lingue scritte, sviluppando letterature nazionali. Il latino resterà lingua dotta, lingua della filosofia, della teologia, della scienza, oltre che lingua letteraria. Le varie lingue nazionali (o “volgari”) sono anche dette “romanze”, dall’avverbio latino romanice usato nell’espressione romanice loqui che significa “parlare al modo dei cittadini che in origine erano romani”. Il termine “romanzo” indicherà presto il genere letterario più diffuso in lingua romanza, cioè la narrativa cavalleresca, sino al moderno romanzo. Il tessuto culturale del mondo latino viene distrutto dalle invasioni barbariche del V secolo. Fino al tentativo di Carlo Magno di restaurare l’impero (800 d.C.) si assiste al degrado della lingua latina scritta che si contamina con le parlate locali, imbastardendosi; a questo si unisce la scomparsa delle scuole pubbliche. In questo periodo il ceto intellettuale coincide quasi totalmente con il clero, dato che la Chiesa è l’unica che porta avanti le scuole (episcopali), mentre nei monasteri continua l’attività degli amanuensi. La cultura era essenzialmente orale, occasioni favorevoli per la sua diffusione erano le feste religiose e le fiere dove i giullari si esibivano in facezie e, andando avanti nel tempo, in testi poetici e canti; una specie di figure laiche di intellettuali, per questo osteggiati dalla Chiesa. La scrittura era capacità di pochissimi, quasi esclusivamente del clero, che lo esercitava negli scriptoria dei conventi e dei monasteri. Il libro era un oggetto raro e prezioso. Dal latino parlato alle lingue romanze Nei primi due secoli dopo Cristo nell’Impero romano si parlava una varietà popolare di latino. L’autorità di Roma e la forza del potere politico centrale garantiva tuttavia l’unità della lingua parlata: le lingue dei popoli dominati da Roma venivano assimilate dal latino, influenzandone la pronuncia e il lessico ma senza modificarlo in profondità, andando a creare un “sostrato” del latino, che nel tempo andò a influenzarlo. Nel III secolo, con la crisi del prestigio di Roma, il latino perde forza e aumenta la distanza tra latino scritto e latino parlato. Anche la diffusione del Cristianesimo contribuisce a ridurre l’autorità del latino ufficiale e a incoraggiare la diffusione di un latino popolareggiante e di neologismi introdotti dalla nuova religione. Il frazionamento del latino volgare aumenta dal V sec. con le invasioni barbariche, che influenzano con le loro lingue i vari latini volgari, accentuando le differenze linguistiche: è l’azione del “superstrato”, lo strato linguistico successivo al latino a questo sovrapposto. SUPERSTRATO strato linguistico sovrapposto al latino, dato dalle lingue germaniche LATINO SOSTRATO © Caterina Parrini strato linguistico precedente al latino, costituito dalle lingue dei popoli dominati dai Romani Dal VI sec. in Italia, Francia e Spagna la conoscenza del latino scritto è ormai molto ridotta, creando confusione nella lingua scritta tra latino e lingue parlate. Carlo Magno insisterà per ripristinare lo studio del latino, ma questo porterà a una maggiore separazione tra latino e volgare. Il primo documento di volgare romanzo è il Giuramento di Strasburgo del 14 febbraio 842. In Italia sarà 120 anni dopo, il Placito Capuano del 960. Subito dopo il 1000 la situazione linguistica europea è chiara, sono nate le lingue romanze o neolatine, in dieci varietà principali: § castigliano, catalano, portoghese (penisola iberica) § provenzale (lingua d’oc), francese (lingua d’oil) § italiano, sardo (Italia) § dalmatico (Dalmazia e isole adriatiche) § ladino o retoromanzo (Alto Adige, Friuli, Cantone dei Grigioni in Svizzera) § romeno (Romania) In Germania si era invece affermata una lingua non neolatina, ma una lingua germanica, il tedesco; nelle isole britanniche l’anglo-normanno, imposto dai conquistatori normanni dopo la vittoria di Hastings (1066), di nuovo poi soppiantato dall’anglo-sassone, la lingua comune prima dell’invasione. I primi documenti di volgare italiano In Italia il volgare si afferma in ritardo rispetto al resto d’Europa, per la mancanza di un potere politico unico centrale e per il maggior prestigio conferito al latino dalla tradizione di Roma e della Chiesa. Un primo esempio di forma intermedia tra latino e volgare (o forse di un latino corrotto) si ha con l’Indovinello veronese, risalente alla fine del VIII secolo p all’inizio del secolo IX, inserito da un copista veronese in un codice liturgico elaborato nella Spagna araba. Il primo documento dove si trova la piena coscienza dell’uso del volgare è del 960, con il Placito Capuano, primo di altri quattro del 960-63: si tratta di quattro sentenze giudiziarie volute dal giudice di Capua, in volgare per essere più chiari ai presenti. Un secolo dopo troviamo la Postilla amiatina in Toscana su un documento notarile per una donazione a un’abbazia, la testimonianza di Travale in Maremma e un conto di spese a Pisa per l’apprestamento di una nave, mentre in Sardegna abbiamo il Privilegio logudorese a favore di alcuni mercanti pisani del 1080-85 e a Roma un’iscrizione su un affresco nella chiesa di San Clemente (1080). In Italia non è presente un volgare unico, ma una pluralità di volgari con una omogeneità di fondo, che Dante chiama “lingua italica” o “lingua del sì”. Nel De vulgari eloquentia Dante individua quindici varietà: genovese, toscano, spoletino, romano, apulo occidentale, siciliano, sardo, lombardo, trevisano, veneziano, friulano, istriano, romagnolo, anconetano, apulo orientale. © Caterina Parrini di quella provenzale, più lontana dalla concretezza delle situazioni reali. La figura della donna è più evanescente e il “centro lirico” è costituito da una riflessione sulla natura e sugli effetti dell’amore. Si insiste sull’introspezione psicologica del poeta e l’esperienza dell’amore diventa un’esperienza intellettuale, sottoposta a considerazioni di carattere scientifico o aspetti materiali della vita animale e vegetale, anche dovuto all’attenzione per la scienza e la natura della cultura laica della corte sveva. Il metro ispirerà tutta la tradizione lirica italiana e si rifà alla poesia trovadorica, escludendo però quelle forme legate alla lotta politica e alla cronaca. Le strutture metriche sono tre: la canzone, la canzonetta e il sonetto. La canzone è composta da endecasillabi alternati spesso a settenari ed è il metro più usato dalla Scuola. La canzonetta è composta da versi brevi (settenari, doppi settenari, ottonari e novenari), ha una struttura dialogica e narrativa, si presta quindi a argomenti meno nobili. Il sonetto è stato usato per la prima volta da Giacomo da Lentini, è composto da quattro strofe di endecasillabi (due quartine e due terzine). Gli argomenti trattati sono vari: discorsivi, filosofici, morali, teorici, ma anche amorosi e scherzosi. È di minore impegno rispetto alla canzone e può aprirsi anche, in misura minima, alla realtà quotidiana. Il linguaggio della lirica siciliana è sempre aulico e elevato. Il volgare siciliano ne costituisce la base, seppur depurata attraverso il filtro del latino, del provenzale, degli altri volgari italiani: è un volgare illustre e interregionale. Abbiamo una scarsa documentazione del volgare siciliano, perché la produzione poetica della Scuola fu raccolta e ricopiata da copisti in Toscana, che ne avevano alterato la lingua. La linea poetica toscana si considera erede di quella siciliana e rifacendosi ad essa la rende un canone; anche Dante citerà il linguaggio illustre dei Siciliani nel De vulgari eloquentia per la “gravità” del loro stile, di fatto ponendo se stesso e i poeti dello Stil novo come i soli legittimi continuatori di quell’esperienza. Giacomo da Lentini e gli altri Siciliani La sua attività come funzionario imperiale è documentata dal 1233 al 1241 e le sue poesie risalgono a questo periodo. Fu noto anche in Toscana come il Notaro (anche Dante nella Commedia lo chiama così). Di lui restano 38 componimenti (tra canzoni, canzonette e sonetti) e del sonetto fu probabilmente l’inventore. Fu quasi certamente il caposcuola, e dunque il fondatore, del canone lirico che sarà istituzionalizzato alla fine del secolo. Dante stesso lo considera il massimo rappresentante dei Siciliani. Giacomo da Lentini padroneggia gli schemi della tradizione provenzale, ma li rinnova introducendo innovazioni sul piano tematico e delle immagini. Nei temi, tende all’interiorizzazione, all’analisi dei movimenti psicologici dell’io e alla descrizione della fenomenologia dell’amore, che viene scomposto nella relazione tra il piacere, che viene prodotto dagli occhi, e il nutrimento, che ha sede nel cuore. Sul piano delle immagini, procede con analogie che rimandano al mondo sociale e a quello naturale e vegetale (ricordiamo la propensione dei Siciliani a considerare scientificamente la realtà). Da Giacomo da Lentini in poi derivano due tendenze principali: § una “tragica”, di meditazione amorosa e di elevato contenuto morale e teorico, in cui si distinguono Guido delle Colonne (1210-1280) e Stefano Protonotaro (attivo tra il 1250 e il 1266); § l’altra più narrativa e colloquiale, tendente alla canzonetta popolareggiante, in cui si distinguono Rinaldo d’Aquino a Giacomino Pugliese. Questa seconda linea ha diversi punti di contatto con quella © Caterina Parrini che sembra giullaresca, estranea alla Scuola siciliana vera e propria, la cui massima espressione è il Contrasto di Cielo d’Alcamo, dal sapore popolaresco e dal carattere parodico. I rimatori Siculo-toscani e Guittone d’Arezzo Dopo la battaglia di Benevento (1266) e il declino della potenza sveva, la civiltà letteraria toscana decade rapidamente. I funzionari imperiali avevano intrattenuto frequenti rapporti con gli esponenti ghibellini dei Comuni dell’Italia centrale e centro-settentrionale. Questa comunanza politica e culturale spiega la diffusione della poesia siciliana in Toscana e a Bologna e la sua profonda influenza sui rimatori di queste aree geografiche, sino alla piena affermazione dello Stil novo, e dunque per un quarantennio (dal 1240 al 1280). Il tramonto della civiltà letteraria siciliana coincide infatti col suo trapianto in Toscana. I nuovi rimatori riprendono sì il sonetto e la canzone e la loro tematica amorosa, ma sperimentano anche altre forme metriche, come la ballata, e danno un ampio spazio alla canzone politica sul modello provenzale, che era sempre rimasta estranea all’esperienza poetica della corte sveva. Gli autori infatti non sono più funzionari di un imperatore, al quale spettano tutte le decisioni politiche, ma cittadini, quasi sempre borghesi, che partecipano in prima persona all’attività politica e cercano di influenzarla con i loro componimenti poetici. La lingua non è più il volgare illustre siciliano, ma il toscano ora più ora meno depurato. Tra i rimatori siculo-toscani, un ruolo di primo piano spetta a Bonagiunta Orbicciani da Lucca (attivo fra il 1240 e il 1280) e soprattutto Guittone d’Arezzo. Al primo va attribuita la priorità del trapianto dell’esperienza siciliana in Toscana, al secondo, per ragioni di giovinezza, la sua diffusione. Di Guittone (nato a Arezzo fra il 1230 e il 1235, morto nel 1294) restano circa 300 componimenti poetici, comprendenti da un lato poesie amorose e civili, dall’altro poesia morali e religiose, fra le quali alcune laudi. L’apporto più originale di Guittone va individuato nella canzone politica e civile, ispirata alla tradizione provenzale. L’alta eloquenza, il forte sarcasmo, la sdegnata passione che Guittone esercita rivelano la diretta e viva partecipazione del cittadino comunale che si impegna nella lotta politica, ben diversa dalla poesia provenzale prodotta da letterati che esprimevano invece gli interessi del proprio signore. La poesia comico-realistica Dopo il 1260 si diffonde in Toscana una linea di poesia “comica” che si contrappone con intenti parodici a quella elevata e tragica dei Siculo-toscani e degli Stilnovisti. La poesia comica offre un orizzonte tematico interamente laico e mondano. I motivi più frequenti sono l’amore sensuale per una donna, che è il malizioso rovesciamento della donna-angelo stilnovista, i piaceri del gioco e del vino, il bisogno di denaro, l’aggressione verbale personale, la fortuna, l’insofferenza per i legami coniugali; il gusto è quello dell’esagerazione, del paradosso, della caricatura. Il più noto esponente, oltre a Folgore da San Gimignano e Guittone d’Arezzo, è Cecco Angiolieri. Cecco Angiolieri Nasce a Siena da un’importante famiglia nel 1260, ma non tiene fede alle tradizioni familiari, piuttosto conduce una vita sregolata e inquieta. Ha molti problemi con la giustizia e gestisce i suoi beni in modo sregolato. Nel 1296 viene bandito dalla città e muore in povertà nel 1312. © Caterina Parrini La sua opera conta oltre cento sonetti. Le tematiche costanti sono l’amore per i piaceri carnali – il sesso e la tavola – e per i divertimenti come il gioco d’azzardo. I personaggi principali sono l’amante Becchina. una donna sposata e meschina, il padre avaro e la moglie pettegola e arcigna. L’unione di questi temi contribuisce alla creazione di un vero e proprio personaggio narrativo, rappresentato nei testi in prospettiva autobiografica. Nel canzoniere di Cecco c’è una intenzione parodistica, accompagnato da un lessico e da moduli della tradizione illustre; questi vengono spesso capovolti e usati a fini ironici, capovolgendone il significato attraverso stonature e intromissioni basse. Il pubblico di Cecco è lo stesso di quello degli Stilnovisti: chi si avvicinava alla lirica illustre, rideva anche dei propri vizi delle proprie meschinità ben rappresentate dai sonetti di Cecco. Il Dolce stil novo La definizione è di Dante, che nel canto XXIV del Purgatorio, la usa per distinguere la sua poetica dalla precedente tradizione. La nuova poetica si afferma a Firenze tra il 1280 e il 1310, i principali esponenti furono Guido Guinizzelli (un bolognese, definito l’iniziatore, opera tra il 1260 e il 1276), Dante, Lapo Gianni, Gianni Alfani, Dino Frescobaldi, Cino da Pistoia, Guido Cavalcanti. Dante cerca, introducendo la questione del Dolce stil novo nella sua Commedia, di promuovere e fondare la nuova scuola fiorentina. Aveva elaborato una complessa strategia che lo mettesse in un rapporto sia di continuità che di rottura con la tradizione dei Siciliani e dei Siculo-toscani. Lo Stil novo doveva rappresentare il culmine di un processo iniziato dai Siciliani, ma allo stesso tempo sottolineare la rottura rappresentata dalla nuova poetica, in modo da valorizzarne la novità. In particolare si vuole distinguere e “saltare” l’esperienza guittoniana, più eterogenea e ritenuta meno nobile. Tematicamente, la nuova poetica si distingue per due ragioni: l’amore non è semplice corteggiamento, ma innalzamento spirituale, adorazione di una donna vicino alla figura di Dio, una donna-angelo, capace di mediare tra Dio e il poeta, capace di salvezza spirituale (che si manifesta nel gesto del saluto). L’altra ragione è la nuova attenzione per i “sintomi” dell’amore: si registrano i turbamenti, i sentimenti, i movimenti psicologici (aspetto ripreso da Catullo e Saffo). Non si fa distinzione tra amore, poesia e elevazione spirituale e religiosa; sono ormai aspetti correlati e legati insieme da una disposizione d’animo: la gentilezza. La lirica d’amore deve quindi perseguire l’obiettivo dell’elevazione spirituale. I movimenti dell’amore generano turbamenti che possono essere registrati quasi scientificamente (collegamento ai Siciliani, escludendo l’esperienza di Guittone). Dal punto di vista stilistico le novità (sottolineate già nel nome) riguardano soprattutto l’elevazione: i guittoniani erano giudicati rozzi e plebei; lo Stil novo voleva invece usare un volgare illustre, quanto più elevato e puro e insieme melodioso e musicale. Si ricerca una soavità espressiva compatibile con il clima rarefatto e aristocratico e la delicatezza dei sentimenti e delle immagini di questa nuova poesia. Il pubblico è quindi più aristocratico e ristretto, proviene dalla nobiltà feudale e dagli strati intellettuali più elevati. Gli stilnovisti si considerano una cerchia eletta che trova nella propria superiorità culturale e d’animo le ragioni di un prestigio sociale non più dipendente unicamente dalla nobiltà di sangue, ma da quella di cuore, la “gentilezza”. © Caterina Parrini L’opera parla dell’amore di Dante per Beatrice, ma la sua interpretazione non è semplice: può essere letta come narrazione autobiografica, ma anche come un romanzo, oppure come un testo mistico-simbolico e perfino come un saggio di teoria letteraria sul genere lirico. Pur potendo parlare della Vita nuova come di un’autobiografia della giovinezza di Dante, alcune caratteristiche la allontanano dal genere: ci sono pochi riferimenti a fatti concreti, proprio perché ogni avvenimento è inserito in un sistema simbolico. Nell’opera convergono i vari elementi della cultura dantesca, di origine sia religiosa sia profana. Il modello sono le Confessioni di Sant’Agostino (V sec.), da cui Dante deduce la tendenza all’introspezione soggettiva e all’autoanalisi, oltre che la trattazione del significato dell’esperienza amorosa. Inoltre Dante legge anche il De amicitia di Cicerone, in cui si afferma l’importanza dell’amore come manifestazione della soggettività, disinteressata e nobile. A livello stilistico, con questa opera si intende il passaggio di Dante dalla vicinanza al modello dei siculo- toscani all’adesione alla recente tradizione stilnovistica; questo passaggio avviene anche per l’influenza di Guinizzelli e di Cavalcanti. Egli riusa gli insegnamenti dei maestri, approdando però a una sua poetica: al centro della sua attenzione non stanno più gli effetti dell’amore sull’interiorità del poeta, ma la rappresentazione della donna amata, le cui lodi costituiscono il primo scopo della scrittura. La donna ha un valore teologico: con il suo saluto dà beatitudine, è tramite tra mondo terreno e verità divina. Con la Vita nuova Dante pone le fondamenta della sua “mitologia” personale, che culminerà nella Commedia: utilizza dati biografici, artistici, filosofici creando un sistema coerente e organico, aperto alla possibilità di reinterpretazioni e di sviluppi, ma stabile nelle sue caratteristiche di fondo. Le Rime Raccoglie tutte le composizioni poetiche escluse dalla Vita nuova e dal Convivio. Non è una raccoltà d’autore quindi, e anche per questo gli argomenti trattati sono di vario tipo, così come lo stile usato. Si tratta di 54 testi di sicura attribuzione (34 sonetti, 15 canzoni e 5 ballate). Il periodo va dal 1283 al 1307. Sono contraddistinte da una tendenza alla definizione realistica della materia trattata e da una ricerca sperimentale, oltre che da una costante presenza del tema amoroso. Le Rime si dividono in cinque gruppi: § rime stilnovistiche, di argomento amoroso, composte negli anni della Vita nuova (1283-1293), fortemente influenzate dal modello cortese e dei Siculo-toscani, ma con un più diretto riferimento alle fonti siciliane; § Tenzone con Forese Donati, 1290-96, genere comico e fortemente realistico; § rime allegoriche e dottrinali sul genere delle tre canzoni commentate nel Convivio; § rime “petrose” (dicembre 1296), dedicate all’amore sensuale per Petra, donna sensuale e crudele, indifferente all’amore del poeta, interessata solo a conquistarlo, ispirate al trovatore provenzale Arnaut Daniel; § rime dell’esilio (1302-1307), dominate da temi civili (giustizia, pace, libertà), in cui Dante radicalizza la critica alla civiltà comunale e ai suoi valori. In queste si vede già la necessità di inserire la propria vicenda personale entro le coordinate della storia contemporanea, cioè di interpretare in chiave politica la propria esperienza privata. Convivio È un’enciclopedia del sapere medievale, rielaborata in chiave personale. È scritta in volgare e strutturata in trattati contenenti tra loro temi affini, organizzati in forma di commento a testi poetici introduttivi (canzoni). Il titolo è dato dal fatto che Dante spiega di voler allestire un “banchetto” metaforico, dove saranno serviti tutti gli argomenti del sapere. © Caterina Parrini La struttura prevedeva ben 15 trattati dedicati al commento di 14 canzoni (uno era introduttivo), ma sono stati scritti solo i primi 4 trattati. La datazione dell’opera è intorno al 1304, e probabilmente fu interrotta nel 1308, con l’impegno della Commedia. I tre temi del Convivio sono dunque la difesa del volgare (trattato I), l’esaltazione della filosofia (trattati II e III), la discussione intorno all’essenza della nobiltà (data per virtù e non per nascita), a cui si riconnette la proposta della monarchia universale rappresentata dall’Impero e dalla tradizione romana. La scelta del volgare è correlata alla scelta di un nuovo pubblico, nei confronti del quale viene disegnato un nuovo ruolo per l’intellettuale. Esso è concepito da Dante come il risultato della tradizione classica (intellettuale=sapiente) quanto di quella comunale (intellettuale=funzionario), ma in una prospettiva influenzata dal modello religioso cristiano (intellettuale=guida etica). L’intellettuale deve quindi diffondere la cultura e offrire un modello eticamente consapevole e ragionato: ciò non esclude un impegno anche direttamente politico, purché giocato dentro le coordinate generali di una concezione religiosa della storia umana e del suo destino. De vulgari eloquentia Composto da Dante tra il 1303 e il 1304; il tema dell’opera è la definizione di una lingua volgare illustre, capace di affiancare il latino con pari diritti espressivi, nonché una rassegna delle forme retoriche. Il I libro dimostra la nobiltà del volgare illustre, superiore al latino, considerato lingua artificiale e non naturale, cioè appresa dalla nascita senza studio. A sostegno di questa tesi Dante ricostruisce una storia universale delle lingue: Dio ha infuso negli uomini una lingua sacra conservata solo nell’ebraico dopo che con la costruzione della torre di Babele era nata la confusione delle lingue. Nell’Europa meridionale si stabiliscono i parlanti di tre lingue diverse ma imparentate: la lingua d’oil, d’oc e la lingua del sì. Per combattere la confusione dovuta a queste tante lingue si è affermata la necessità di lingue artificiali e regolarizzate dalla grammatica (come il latino). Dante definisce poi le caratteristiche dei tre volgari e delle loro letteratura e riserva un’analisi particolareggiata dei volgari del sì, d’Italia. Escludendo le parlate meno qualificate, analizza poi quattordici varietà di volgare, offrendo una precoce classificazione su base geografica e linguistica. Nessuna delle varietà coincide con il volgare illustre usato dai migliori scrittori, neanche il toscano. Così non resta che definirlo nei suoi caratteri ideali. Il volgare deve essere illustre, cardinale, regale e curiale. Illustre perché capace di dare lustro a chi lo usa, cardinale perché cardine di tutti gli altri volgari, regale perché se ci fosse una reggia troverebbe lì collocazione, curiale perché risponde alle norme stabilite dagli italiani più prestigiosi. Il libro II comincia a definire gli usi possibili del volgare illustre e si caratterizza come un trattato di retorica. La forma più degna per il volgare illustre è la canzone, e deve rifarsi a uno stile tragico, con il metro più splendido, l’endecasillabo, e un registro sublime. L’opera risponde all’esigenza, fortissima in Dante, di intervenire a livello teorico intorno alle proprie scelte artistiche, allargando la riflessione dalla poetica a categorie filosoficamente più vaste. Dante vuole dare dignità al volgare trasformandolo in una lingua convenzionale come il latino e riconoscendogli tuttavia un carattere naturale e spontaneo che il latino non aveva. La Monarchia L’unica opera di Dante a essere stata pubblicata, scritta in latino, raccoglie in forma organica le idee politiche dell’autore. Queste si trovano espresse anche in altri suoi scritti come il Convivio, del quale quest’opera rappresenta il continuo, essendo scritta tra il 1310 e il 1313 o 1315. L’opera è divisa in tre libri. Il I sostiene la necessità, storica e filosofica, della monarchia universale. Essa può garantire all’uomo le condizioni indispensabili alla realizzazione delle proprie potenzialità spirituali e pratiche. Lo scopo è allontanare l’uomo dall’uso del libero arbitrio nella ricerca di beni materiali, tendenza che porta inevitabilmente a guerre e violenze. L’imperatore potrebbe condurre l’uomo su una via giusta, verso il fine © Caterina Parrini della conoscenza e dell’azione positiva. Non è un caso che Cristo sia nato sotto l’impero di Augusto, periodo di pace e di massima estensione del potere universale di Roma. Il II libro è dedicato a considerazioni di carattere storico, alla luce di una concezione provvidenzialistica e teologica della storia. L’Impero romano ha avuto origine dalla volontà di Dio stesso, perché la parola di Dio si potesse diffondere meglio grazie all’unificazione del mondo sotto un’autorità unica. Il III libro è dedicato al rapporto tra Impero e Chiesa, tema controverso e attuale del tempo. Dante afferma che entrambe le autorità sono derivate direttamente da Dio e sono prive di subordinazione reciproca. Entrambe sono destinate alla realizzazione dell’uomo, nel rispetto della sua duplice natura, spirituale e materiale e del conseguente duplice fine di esso: la felicità terrena (l’imperatore) e la beatitudine eterna (responsabilità del papato) > teoria dei due soli La Divina Commedia Il titolo era originariamente solo “Commedia”; l’aggettivo “divina” compare nella prima edizione veneziana del 1555, riprendendo una definizione critica di Boccaccio contenuta nel Trattatello in laude di Dante. Esso allude al contenuto dell’opera, ma è anche riferito al suo valore artistico. Il problema del titolo è strettamente congiunto a quello del genere letterario: nel Medioevo la commedia si riferiva a uno stile medio, diverso da quello alto della tragedia e da quello basso dell’elegia. La distinzione medievale era su base solo stilistica, ma non tematica. Per Dante (nel De vulgari eloquentia), è l’unico genere capace di spaziare in più registri stilistici, benché con la restrizione dell’ambito medio-basso. La commedia viene riconosciuta come genere centrale del volgare. La datazione è ovviamente incerta. Ipoteticamente, si pensa che Dante abbia iniziato l’Inferno nel 1304, ultimandolo tra il 1308 e il 1309, e il Purgatorio intorno al 1312. Solo nel 1316 Dante si sarebbe rimesso a lavoro sul Paradiso, completato poco prima della morte. Il numero cardine della Commedia è il 3, il numero della Trinità cristiana. Il poema è diviso in tre, la materia è distribuita in canti, nel numero complessivo di 100, 33 per cantica più uno introduttivo. L’opera racconta del viaggio di purificazione dell’autore attraverso i tre regni ultraterreni, viaggio che lo condurrà fino alla visione di Dio. Il viaggio avviene quando l’autore ha 35 anni, ossia nel 1300, l’anno in cui Bonifacio VIII indisse il giubileo. Lo accompagneranno in questo viaggio Virgilio, che rappresenta la ragione umana e viene inviato da Beatrice in suo aiuto, per i due regni, fino a che sarà la stessa Beatrice, figura della fede, a condurlo fino a Dio. Nella concezione tolemaica la sfera terrestre è posta al centro dell’universo; intorno a questa girano nove sfere celesti contenute l’una nell’altra, la decima le contiene tutte ed è dove risiede Dio. L’Inferno è un imbuto creato dalla caduta di Lucifero, conficcato sotto l’emisfero settentrionale, l’unico abitato. Nell’emisfero meridionale è invece sorto un monte isolato nell’oceano: il Purgatorio. Alla cima del monte si trova il Paradiso. L’ordine delle sfere è diviso in nove cieli: i primi sette hanno i nomi dei pianeti del sistema solare, gli ultimi due sono costituiti dalla sfera delle Stelle fisse e dal Primo mobile. Il tutto è contenuto nell’Empireo. © Caterina Parrini Paradiso Il Paradiso è la città celeste perfetta e definitiva, non soggetta a turbamenti o trasformazioni. In essa sono accolti i giusti dopo la morte, e il loro numero è stato stabilito da Dio da sempre: raggiunto tale numero il mondo finirà e con il Giudizio universale avverrà la suddivisione finale tra salvi e dannati e tutti rivestiranno i propri corpi mortali. Dal punto di vista spaziale, il Paradiso è tutto ciò che sta al di sopra della sfera del fuoco, che segna il confine tra le cose contingenti e le cose trascendenti. Il Paradiso si divide in nove cieli o sfere concentrici sempre più grandi, contenuti tutti nell’Empireo, una specie di decimo cielo che si distingue per essere immobile. Nell’Empireo ha propriamente sede Dio, benché la sua presenza si manifesti in forma mediata anche in ogni altra parte dell’universo: all’interno è contenuto il nono cielo, al quale la potenza divina si trasmette come movimento rapidissimo. Da lì questo movimento si trasmette via via ai cieli sottostanti, differenziandosi, grazie all’intervento degli angeli. Raggiunge infine la terra (al centro dell’universo) influenzandola in diversi modi a seconda dell’influsso degli astri. A differenza degli altri due luoghi, nel Paradiso le anime sono in un unico luogo, l’Empireo, tuttavia esse appaiono a Dante nel cielo che in vita le ha più influenzate. Non tutte le anime raggiungono però lo stesso grado di beatitudine, che consiste nella visione di Dio, e per questo sono distribuite in luoghi diversi. A Dante inoltre è concesso di vedere le anime nell’Empireo come dopo il Giudizio universale, cioè con il loro corpo terreno. Nel paradiso manca la tensione tra Dante e gli interlocutori; forte è però la sua ricerca continua della beatitudine, compiuta attraverso un continuo interrogarsi della coscienza assistito dalla guida di Beatrice. Si legge inoltre un pessimismo sulla situazione storica, coniugato però alla piena fiducia nel trionfo finale del bene. Dante concepisce il Paradiso in termini fisici, realistici e usa infatti elementi materiali come luci e suoni per descriverlo. © Caterina Parrini Giovanni Boccaccio (1313-1375) Boccaccio nasce a Certaldo o a Firenze dal mercante Boccaccino di Chelino, illegittimo, ma riconosciuto dal padre, che lo fa studiare a casa a Firenze (qui apprende il culto di Dante). Viene avviato alla mercatura. Nel 1327 segue il padre a Napoli, dove lavora per la corte angioina. Giovanni sta al banco della filiale e conosce direttamente la vivace vita napoletana. Non avendo nessuna vocazione per la professione di banchiera, il padre lo avvia allo studio di diritto canonico; segue gli studi per due anni e conosce il giurista a poeta Cino da Pistoia, grazie al quale si indirizzerà verso lo studio della tradizione lirica volgare. Giovanni frequenta la corte angioina e si occupa di letteratura, scrivendo epistole in latino e opere in volgare varie Rime, la Caccia di Diana, il Filocolo, il Filostrato, il Teseida, tutte opere scritte tra il 1333 e il 1340. In questo periodo frequenta la biblioteca reale e studia da autodidatta. In questo periodo si crea un mito letterario, secondo la tradizione cortese e stilnovista: quello dell’amore per Fiammetta, presunta figlia di Roberto d’Angiò. Inoltre si inventa un’autobiografia ideale, come la nascita a Parigi e l’origine nobile, funzionale a questo mito. Nell’inverno 1340-41 la famiglia rientra a Firenze, Giovanni si inserisce nella vita culturale cittadina e scrive due opere che si collegano alla tradizione allegorica toscana e in cui è presente la lezione di Dante: la Commedia delle Ninfe e l’Amorosa visione. Subito dopo compone l’Elegia di Madonna Fiammetta e il Ninfale fiesolano. Nel 1348 è a Firenze durante la peste, l’anno dopo comincia il Decameron, concluso nel 1351. Nel 1350 conosce Petrarca, con cui diventa amico. In seguito a questa amicizia i suoi interessi umanistici diventano sempre più vivi e pressanti; inoltre il comune gli affida incarichi prestigiosi: una missione a Avignone presso Innocenzo VI e l’incarico di invitare Petrarca per corsi all’università. Ritorna a Napoli, visita la biblioteca di Montecassino e trascrive alcuni codici. Comincia il suor apporto col grecista Leonzio Pilato, che invita a Firenze per tenere il primo corso di greco antico. Scrive in latino varie opere di compilazione erudita e, in volgare, Vita o Trattatello in laude di Dante. Il papa nel 1360 gli concede i benefici ecclesiastici, per garantirgli sicurezza economica. Fra il 1360 e il 1361 un tentativo fallito di colpo di stato fa ricadere su di lui e gli amici sospetti ed è costretto a ritirarsi a Certaldo. Tenta di trovare un incarico a Napoli, ma senza successo. Lavora ancora a opere erudite in latino. Comincia a scrivere il Corbaccio, che dimostra un radicale cambiamento nel rapporto con le donne, dalla filoginia alla misantropia. Ritornando gli esuli a Firenze e Boccaccio rinizia a collaborare con la Repubblica. Compie una serie di viaggi personali e per studio, incontrando Petrarca a Padova e tornando a Napoli. Cura un’edizione delle oepre di Dante, a cui premette il Trattato. La salute peggiora, soffre di obesità e scabbia. Accetta lo stesso l’incarico della Repubblica di commentare pubblicamente la Commedia, ma non riesce a concluderla. Si ritira a Certaldo dove lavora alla Genealogia deorum gentilium, opera da lui considerata espressione dei suoi interessi umanistici. Muore il 21 dicembre 1375 a Certaldo. Periodo napoletano Il Filocolo e altre opere della giovinezza Il Filocolo è un’opera in cinque libri che ebbe larga diffusione in Europa. Quest’opera, come le altre di questo periodo, sono caratterizzate da un forte sperimentalismo, che alterna prosa e versi e vari generi letterari. La storia è narrata su invito di Maria, figlia di Roberto d’Angiò, che sarà poi Fiammetta. Il romanzo alterna motivi epici, lirici, comici, elegiaci, a allusioni a episodi della corte angioina contemporanea. Il titolo allude alla “fatica d’amore” del protagonista, il cui nome rimanderebbe a quello, secondo il greco approssimativo di Boccaccio. La storia narra di due ragazzi, Biancifiore, cristiana, e Florio, figlio di un re saraceno. I due crescono insieme, leggono l’Ars amandi di Ovidio, e alla fine si innamorano. L’amore è ostacolato dal re, che allontana Florio e poi vende la ragazza. Florio resiste alle altre donne, e inizia il suo viaggio alla ricerca dell’amata fino ad © Caterina Parrini arrivare in Italia, a Napoli, prendendo il nome di Filocolo. A Napoli partecipa al gioco delle questioni d’amore diretto da Fiammetta: una brigata di giovani discute su questioni amorose, diretti dalla ragazza (come poi nel Decamerone). I due amanti si rincontrano a Alessandria e riescono finalmente a sposarsi. Florio si converte alla religione cristiana e, alla morte del padre, viene incoronato re. Nello stesso periodo, alla corte di Napoli, Boccaccio scrive altre opere, che risentono del clima cortese e sono rivolte alla creazione di un privato mito letterario. Si passa dal poemetto mondano mitologico Caccia di Diana al poema epico Teseida, dal poema romanzesco Filostrato al romanzo d’avventura e d’amore in prosa secondo la tradizione cortese francese come il citato Filocolo e alle Rime di ispirazione stilnovistica con inserti giocosi. Periodo fiorentino Commedia delle Ninfe fiorentina Una volta tornato a Firenze il pubblico cambia: non è più cortese, ma borghese, e la tradizione letteraria fiorentina pesa sulle scelte di Boccaccio. Si ricollega al genere allegorico didattico, innovando la tecnica del “mescolato” già utilizzata. L’opera già dal titolo si vuole collegare alla realtà cittadina. In un ambiente idillico pastorale vicino all’Arno, il pastore Amleto, ancora rozzo e grossolano, incontra sette ninfe e si innamora di una di loro, Lia. Nel giorno della festa di Venere, le ninfe sir accolgono intorno all’uomo e gli raccontano le loro storie d’amore. All’elemento amoroso e allegorico religioso, si unisce quello epico-celebrativo, perché due ninfe parlano dell’origine di Napoli e di Firenze. Amorosa visione È un poema in terzine suddiviso in cinquanta canti. Il poeta visita in sogno, sotto la guida di una donna gentile, un castello, in cui sono rappresentate scene allegoriche e appaiono personaggi celebri come Aristotele, Boezio, Avicenna, Orfeo, Socrate. Alla fine la guida promette il pieno possesso della donna amata, Fiammetta, purchè sappia rispettare i precetti virtuosi imparati durante il viaggio. L’opera è piuttosto macchinosa, la meno riuscita del periodo. Ninfale fiesolano Poemetto di 473 ottave, che vuole cantare le origini di Firenze e di Fiesole, fondate dai discendenti dei due protagonisti dell’opera, il pastore Africo e la ninfa Mensola. Questi due nomi sono anche i nomi di due fiumi della zona, che secondo Boccaccio deriverebbero dai due protagonisti. Il racconto è semplice: il tono è popolaresco e meno erudito. Le scelte linguistiche e stilistiche sono quelle della letteratura “comica”, col rifiuto dello stile tragico e anche delle soluzioni “mescolate” finora usate. Elegia di Madonna Fiammetta L’opera più matura scritta prima del Decameron. Il genere elegiaco, visibile dal titolo, è svolto in una prosa romanzesca, distribuita in nove capitoli + prologo. Al genere elegiaco si mescola quello romanzesco e epistolare. Il risultato è un romanzo -monologo in prima persona. Si tratta di una lunga lettera che Fiammetta rivolge alle donne innamorate, raccontando il suo amore, e chiedendo non perdono, ma pietà; la donna non si rivolge al cielo ma chiede un riscatto attraverso la letteratura e l’eternità delle parole. Fiammetta è una donna sposata, ma ama Panfilo, che però deve ritornare da Napoli a Firenze. Panfilo promette di tornare dopo quattro mesi, ma questo non succede. La donna soffre e aspetta il suo amore, ma scopre il tradimento di lui. L’angoscia la pervade, ma Fiammetta deve nasconderlo al marito, che la crede ammalata. Tenta addirittura il suicidio, ma invano. Non le resta allora che meditare sulla sua vita e la consapevolezza di una sorta di primato nella sfortuna. © Caterina Parrini Francesco Petrarca (1304-1374) Petrarca può essere considerato il fondatore della lirica moderna; tale fondazione si lega alla scoperta della coscienza moderna, a una forma di un’interiorità nuova segnata dalla complessità, dal conflitto. Petrarca sancisce il primato della lirica come genere letterario migliore per esaltare il momento soggettivo dell’espressione artistica. Petrarca inoltre genera una nuova figura di intellettuale che, essendo ormai escluso dalla reale partecipazione alla vita sociale e politica, è diventato uno specialista della cultura, attività autonoma e separata da quella sociale e politica, addirittura superiore. Inoltre l’intellettuale è un senza patria, sradicato dal luogo di origine, esiliato. La poesia ha il primato dell’interiorità, e per questo fonda un linguaggio autonomo che non vuole mescolarsi con la realtà (v. plurilinguismo e sperimentalismo formale di Dante), ma che fa ricorso al monolinguismo, a un linguaggio sempre più elevato e elitario, alla tradizione classicistica e anti-sperimentalista. Petrarca rifiuta il terreno mondano, tende a un distacco dalla vita pratica. Nasce da qui la ricerca di una forma artistica estranea al coinvolgimento pratico e la ricerca di una classicità che vada al di là della contingenza storica ed esprima un modello formale armonioso e perfetto, ma anche astratto. Il padre di Petrarca, notaio di parte bianca, viene esiliato da Firenze nel 1302; due anni dopo nasce a Arezzo Francesco Petrarca. Egli trascorre la sua infanzia a Incisa in Valdarno, poi la famiglia si sposta a Pisa e l’anno dopo a Avignone, dove nel 1305 si era trasferita la corte pontificia. Tra il 1316 e 1326 compì gli studi giuridici, prima a Montpellier, poi a Bologna. A causa della morte del padre, è costretto a rientrare a Avignone. Qui il poeta trascorre momenti spensierati, immerso nell’ambiente mondano della corte papale. Avviene il presunto incontro decisivo con Laura, all’alba del 6 aprile 1327, nella chiesa di Santa Chiara. Nel 1330 prende gli ordini minori per motivi soprattutto economici, che lo obbligano al celibato, ma gli permettono di vivere più serenamente. Entra al servizio come cappellano di Giovanni Colonna e compie molti viaggi a Parigi, in Germania e infine a Roma (1337). Qui cresce l’amore per il mondo classico e l’odio verso Avignone, accusata di aver usurpato il trono papale. Al rientro in Provenza, decide infatti di ritirarsi in campagna, a Vaucluse. In questo periodo ha un figlio (da una donna a noi sconosciuta) e legge le Confessioni di Sant’Agostino. Nel 1340 è invitato a ricevere la corona poetica dal Senato di Roma e dall’Università di Parigi, e sceglie Roma, dove viene incoronato al Campidoglio l’8 aprile 1341. Ha una crisi spirituale, a causa della morte di alcuni amici, tra cui Roberto d’Angiò, e dal sentimento di vanità della vita e i suoi sensi di colpa per le sue passioni mondane. Nasce la seconda figlia. Inizia a comporre il Secretum. In questo periodo si sposta spesso da Avignone a Parma, a Napoli, a Verona. Nel ’43 conosce a Avignone Cola di Rienzo e ne diventa amico, sostenendolo anche durante l’insurrezione romana del ’47, a cui vorrebbe partecipare, ma che fallisce prima del suo arrivo, facendolo fermare a Parma. Infuria la peste nera 1348, muoiono alcuni amici e Laura stessa (6 aprile). Viaggia ancora in Italia, stringe amicizia con Boccaccio. Tra il ’51 e il ’53 vive ritirato in Vaucluse, ma decide poi di tornare in Italia. Si stabilisce a Milano, rifiutando Firenze per la caotica situazione politica. A Milano è trattato con tutti gli onori e è impiegato in iniziative diplomatiche in Italia e all’estero. Nel 1361 fugge da Milano per la peste e si stabilisce prima a Padova, poi a Venezia, dove vive dal 1362 e ’68. Nel 1368 accetta l’invito a Padova, e si fa costruire una casa su un terreno donatogli sui Colli Euganei, dove vive dal 1370. Si dedica ancora agli studi e alla revisione del Canzoniere. Muore a Arquà tra il 18 e il 19 luglio 1374. © Caterina Parrini La formazione culturale La sua formazione dipende dalla lettura privata e non dall’insegnamento di maestri. La sua biblitoeca contava più di 200 titoli: autori classici latini (prediletto da Petrarca era Virgilio), padri della Chiesa (fondamentale Sant’Agostino), opere dei classici greci, quasi sconosciuti fino a quel momento, come opere di Platone e Aristotele, nonché l’Iliade e l’Odissea. L’amore del poeta per i libri è innanzitutto amore per le fonti originali della produzione filosofica e letteraria antica. Nutrendosi direttamente dei classici, Petrarca eliminò dal proprio latino ogni influenza del volgare, restituendolo all’equilibrio e alla dignità dei maggiori scrittori cristiani e classici. Egli così propose e rilanciò uno strumento linguistico prestigioso, intendendo farne la lingua degli intellettuali di ogni parte d’Europa. Il latino umanistico si fonda sulla proposta petrarchesca. Meno nutrita era la sezione dedicata agli scrittori della letteratura romanza. Petrarca inoltre si cimenta nel volgare solo per i testi lirici del Canzoniere e nei Trionfi, in quanto vede il volgare come lingua del privato, della coscienza, dell’interiorità. Il latino è per lui lingua pubblica, degli intellettuali europei, capace di esprimere la funzione prestigiosa del dotto. Epistolario Conta di cinquecento lettere in latino, comprese in cinque raccolte (Familiares, Sine nomine, Senili, Variae, Epistolae metricae). Delle cinque raccolte solo una è stata messa insieme dopo la morte. Questa raccolta diventerà l’esempio per moltissimi intellettuali dall’Umanesimo in poi. Le lettere coprono tutta la vita di Petrarca, dalla giovinezza agli ultimi mesi di vita. Nelle lettere Petrarca tende alla confessione e lo sfogo, senza abbandonare la ricerca però di equilibrio e perfezione formale. Le lettere sono concepite fin da subito come opere letterarie e dedica ad esse la stessa cura che dedica a altre opere, dividendole secondo un ordine cronologico e tematico. Caratteristica dell’epistolario è la tendenza a fornire un’interpretazione delle proprie vicende personali e della propria stessa personalità complessiva, fornendo una rappresentazione sublimata e ideale di sé e della propria vita. Petrarca sottolinea infatti le sue qualità di dotto e di moralista, non le sue insicurezze psicologiche e morali (il tema dell’amore per Laura ad esempio è censurato). Canzoniere L’opera più importante di Petrarca è senza dubbio il Canzoniere, scritto in volgare (l’unico con i Trionfi), chiamato dal poeta Rerum volgarium fragmenta. Per il contenuto privato e la lingua scelta, Petrarca sarà sempre incerto del valore dell’opera, a cui si dedica comunque assiduamente per migliorarlo, riscriverlo e correggerlo. Nonostante questo l’opera diventerà un modello da seguire e imitare, il fondamento della lirica moderna, facendo nascere il “petrarchismo”. È composto da 317 sonetti, 29 canzoni, 9 sestine, 7 ballate e 4 madrigali. La struttura è stata organizzata da Petrarca tra il 1373 e il 1374, anche se già nel 1136 forse lavorava a una raccolta di testi poetici. L’opera è un tentativo di ricostruire e ricomporre la personalità psicologica del poeta, lacerato da esperienze e passioni contrastanti, per superare le sue contraddizioni. La novità dell’opera consiste appunto nell’esaltazione e nella valorizzazione dell’interiorità dell’io. Il libro, nella sua forma definitiva, si presenta come diario: i testi sono in prima persona e parlano delle esperienze di un unico personaggio, coincidente con l’autore. Il criterio di ordinamento dei testi è cronologico, ma non in senso temporale, piuttosto personale: vuole ricostruire un itinerario che trasmetta sia il senso dell’immediatezza dell’esistenza, sia un esempio morale. L’opera risulta quindi essere, oltre che un diario, un’autobiografia. Il tema principale è l’amore per Laura. Il racconto ripercorre gradualmente le varie fasi dell’innamoramento, soffermandosi sulle minime vicende di un amore infelice: il poeta non dichiara l’amore e la donna non sembra disposta ad accoglierla. Questa situazione cambia spesso, facendo sembrare l’unione dei due, senza però che © Caterina Parrini questo accade. A un certo punto si verifica la morte di Laura, accolta con disperazione dal poeta. Piano piano il poeta ne rielabora la figura, idealizzandola, come Dante con Beatrice. Si afferma la coscienza dei limiti della propria passione e il rimpianto per la sua mancata realizzazione. Questa idea continua fino a che Petrarca non introduce l’idea dell’adesione ai valori religiosi per allontanarsi dai bisogni terreni, nel tema risolutivo della conversione e del pentimento. Il tema dell’amore è comunque trattato secondo i modi tipici della tradizione cortese e stilnovistica: la donna è spesso ritratta astrattamente, idealizzata. L’io-poeta è però diverso: la soggettività è frantumata, mutevole, sempre costretta a mettersi in gioco, divisa tra intenzioni opposte. È un nuovo io, le cui armi sono l’autoanalisi e l’introspezione. La morte della donna porta anche a una divisione formale dell’opera, tra le rime per la donna in vita e in morte. La donna, morta, collabora, con il suo insegnamento morale, a ricostruire. la personalità e l’identità del poeta, prima divise tra tentazione erotica e sublimazione religiosa. Lo stile di Petrarca, pur rifacendosi alla tradizione stilnovistica, ha delle sue caratteristiche specifiche, come era quello di Dante. A differenza di Dante però Petrarca sceglie il monolinguismo e il monostilismo: la ricerca del poeta è puntata sulla intensificazione espressiva e al tempo stesso sulla soavità formale, da raggiungere attraverso una selezione del lessico, delle forme metriche, delle soluzioni stilistiche. La lingua risulta fuori dal tempo, immutabile e superiore. I Trionfi Unica altra opera, oltre al Canzoniere, scritta in volgare. Il poeta ci lavorò a lungo, dal 1351 fino quasi alla morte. Sono un poema incompiuto diviso in sei parti, alcune delle quali in più canti/capitoli. Il metro è la terzina incatenata (o dantesca). Il modello è chiaramente la Commedia, dalla quale Petrarca prende l’impalcatura allegorica, la metrica e la rigida struttura dell’insieme. Nell’anniversario del suo innamoramento, il poeta è in Vaucluse e gli si presentano sei visioni: • Trionfo di Amore: Amore si presenta al poeta su un carro di fuoco seguito da amanti famosi; anche il poeta segue il carro dove si trova Laura e finisce sull’isola di Venere, Cipro, dove si rende conto della propria schiavitù. • Trionfo di Pudicizia: con l’aiuto di noti rappresentanti della castità, Laura sconfigge Amore e lo rinchiude nel Tempio della Pudicizia a Roma • Trionfo della Morte: Laura soccombere; la morte è presentata al poeta come un atto di fiducia in Dio. • Trionfo di Fama: galleria di uomini illustri. • Trionfo del Tempo: svela la vanità della Fama, distruggendola. • Trionfo dell’Eterno: la vanità delle cose mondane è riscattata dalla forza rasserenante di Dio, verso il quale si protende il poeta, nella speranza di vedervi la bellezza di Laura definitivamente beata. La vicinanza al modello del poema allegorico è mostrata dall’intento enciclopedico ed erudito dell’opera, che ne appesantisce il racconto con lunghi elenchi di personaggi storici e fantastici. Il riferimento a Dante è testimoniato dalla volontà di fare della propria vicenda personale terrena un esempio ultraterreno. Mancano però in Petrarca la continuità dell’ispirazione dantesca e una solida capacità narrativa o realistica. Secretum Opera scritta in latino, il cui titolo originale era De secreto conflictu curarum mearum. Insieme all’Epistolario è la fonte più attendibile per conoscere il mondo interiore del poeta; inoltre rispetto ad esso il Secretum non ha l’intento di costruire una figura pubblica dotata di caratteristiche esemplari. Essa è costituita da tre versi endecasillabi, di cui il primo e il terzo rimano tra loro, mentre il secondo rima con il primo e il terzo della terzina successiva. Ogni canto del poema è terminato da un ulteriore verso, che chiude la rima con il secondo verso della terzina che lo precede (dividendo per tre il numero dei versi di un canto si ottiene quindi sempre il resto di 1). © Caterina Parrini contro quella stoica, basata sulla virtus, e il trattato De falso credita et ementita Constantini donatione, scritto nel 1440, che dimostra, la falsità del documento di donazione di Costantino, con il quale il papato sosteneva i fondamenti giuridici de suo potere temporale. Lorenzo de’ Medici (1449-1492) Nasce da Piero de’ Medici e Lucrezia Tornabuoni, ebbe una formazione culturale e filosofica influenzata dall’Accademia Platonica: i suoi maestri furono Landino, Argiropulo e Marsilio Ficino. La sua produzione fu inoltre influenzata da Luigi Pulci, suo compagno di brigata. La sua prima produzione vede rime di ispirazione e petrarchesca e opere con influenza del registro comico burlesco, come la Nencia da Barberino. Si tratta di un poemetto rusticale, a cui anche Pulci si ispirerà nella sua Beca da Dicomano, che unisce i motivi tipici della poesia colta d’amore al tono scherzoso e popolaresco. Al periodo degli esordi segue una seconda fase (1476-84) in cui la produzione diventa lirica, spinto da Poliziano e Marsilio Ficino, di ispirazione stilnovistica, su modello della Vita Nuova. Racconta la morte di una donna, Simonetta Cattaneo, che ha le doti divine di Beatrice, e del successivo amore per una fanciulla. L’ultimo periodo riguarda i componimenti della seconda metà degli anni ’80 e inizio dei ’90. Sono caratterizzati da un lato dal classicismo umanistico di Poliziano e dall’altro dell’affiorare della tematica religiosa. Queste due istanze lo accompagneranno fino alla morte, che avverrà, appunto, accanto a Poliziano e Savonarola. Lorenzo è scisso in questa fase da una tendenza pagana sfondo naturalistico e sensuale e una devota, in cui si avverte un senso di precarietà personale e politica. L’opera di questa ultima fase è la Canzona di Bacco, scritta per il carnevale del 1490. Si tratta di un trionfo, un testo fatto per essere cantato da un corteo di maschere ispirate a soggetti mitologici. A differenza di altri canti carnascialeschi, questi non cadevano nell’eccessiva scurrilità consueta di questi brani. Niccolò Machiavelli (1469-1527) Machiavelli nasce a Firenze da una famiglia borghese, riceve una formazione umanistica fondata sui classici latini. Dalla tradizione fiorentina raccoglie l’eredità di Salutati e Bruni, che sollecita l’intellettuale a un impegno in prima persona. Non si riconosce nei seguaci del Savonarola e, dopo la sua caduta, assume diverse incarici politici e diplomatici. Diviene segretario della neonata Repubblica fiorentina, fino al 1512 quando cadrà e i Medici rientreranno a Firenze. Machiavelli si ritira in campagna dove si dedica alla scrittura del Principe e dei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio. La speranza è sempre quella di poter rientrare in politica, cosa che avviene nel 1525, col rientro dei Medici. Muore il 1527 dopo che, caduti i Medici, era stato di nuovo escluso dall’attività politica. Altre opere importanti sono i dialogi De Re Militari (1521), la Vita di Castruccio Castracani (1520), Decennale primo e secondo (1504-6 e 1516), il Discorso intorno alla nostra lingua (1515-16) a favore del fiorentino, le commedia La mandragola (1518) e Clizia (1525), storia grottesca di un amore senile. Il Principe Il trattato, considerato il fondamento della moderna teoria politica, è scritto tra marzo e dicembre 1513, durante il periodo di confino di Machiavelli; è dedicato a Lorenzo de’ Medici, con l’intento di dargli consigli utili per liberare l’Italia dagli invasori e riunirla sotto la sua guida. I capitoli sono 26 e, dopo una lettera dedicatoria aggiunta in fase successiva alla stesura, ci sono quattro sezioni tematiche di diversa ampiezza. La prima sezione (I-XI cap) riguarda i diversi tipi di principato in generale. La seconda (XII-XIV) affronta i problemi delle milizie mercenarie e proprie. La terza (XV-XXIII) è centrata sui comportamenti e le virtù che il principe deve avere. Nella quarta (XXIV-XXVI) l’autore esamina la situazione italiana e il decisivo problema della fortuna e del suo potere sulla vita degli uomini. L’ultimo capitolo contiene l’esortazione finale rivolta al casato dei Medici e si contraddistingue per la prevalenza dell’aspetto emotivo. © Caterina Parrini Per Machiavelli il principe deve avere virtù politica, e così facendo si separa la capacità politica dalla morale o dalla religione. Si deve quindi puntare all’obiettivo e perseguirlo con tutti i mezzi, cercando il consenso anche con la forza. Il principe, per governare con successo, deve guardare il fine e non il mezzo; la religione stessa è vista come mezzo per far obbedire il popolo e portarlo all’unione, rendendolo più governabile. Per comandare il principe deve essere temuto e amato, ma soprattutto temuto. Il libro prosegue analizzando la situazione italiana e le varie vicissitudini politiche. Un altro punto importante è per Machiavelli il rapporto tra virtù e fortuna: il principe deve adattarsi e sapersi destreggiare continuamente tra le difficoltà che gli si parano davanti. Alla base di tutto il pensiero di Machiavelli c’era soprattutto la sostanziale malvagità umana, immutabile nel tempo e, quindi, perfettamente prevedibile come la storia stessa nel suo continuo ripetersi. Studiando la storia del passato si possono individuare dei modelli e delle regole generali sempre valide: le leggi della politica. © Caterina Parrini Il poema cavalleresco Alle origini del poema cavalleresco e della sua fioritura nel Quattrocento c’è un’ampia e duplice tradizione narrativa di origine medievale. Il primo ramo è quello epico carolingio, che viene dalla Chanson de Roland e che narra della guerra tra Cristiani e saraceni. La materia del poema incontra un rapido successo in tutti i paesi neolatini, anche per l’attualità della lotta antimusulmana delle Crociate. Queste “canzoni di gesta” perdono via via il loro peso epico e penetrano dalla Francia in tutta Italia, ma soprattutto nella pianura padano. In Toscana il ciclo carolingio è diffuso soprattutto dai romanzi in prosa di Andrea da Barberino: romanzi in cui l’attrattiva è data dall’intreccio avventuroso e in cui i valori propri dell’epica, come la guerra santa, la civiltà feudale, la presenza del divino nella vita umana, sono scomparsi. Il successo di questa materia cresce nel Quattrocento e aumenta la produzione di cantari, poemi e poemetti in ottave destinati alla recitazione nelle piazze. Il genere diventa popolare ed è studiato per un pubblico analfabeta. La stampa modificherà poi il quadro: i testi diventeranno sempre più ampie e complessi, non più legata alla recita canterina. In questo periodo la cultura alta si interessa al ciclo carolingio: a Firenze con il Morgante di Pulci e a Ferrara con l’Orlando innamorato di Boiardo. Ludovico Ariosto (1474-1533) La vita di Ariosto risulta molto semplice se paragonata a quella di altri grandi scrittori, più umana e vicina. Ariosto nasce a Reggio Emilia l’8 settembre 1474; il padre è a servizio degli Estensi a Reggio e la famiglia si sposta spesso per lavoro, fino a quando nel 1494 non si stabilisce a Ferrara. Ottiene l’autorizzazione dal padre di dedicarsi agli studi letterari, frequenta il vivace ambiente ferrarese dove frequenta anche Bembo. Si dedica alla produzione lirica in volgare, ma si impegna anche nella poesia latina. Dal 1497 è ufficialmente accolto alla corte estense, dove riceve regolare stipendio. In seguito alla morte del padre, deve farsi carico della numerosa famiglia e si reca a Canossa come capitano della rocca. Nel 1503 viene assunto a servizio a Ferrara dal cardinale Ippolito d’Este. Prende gli ordini minori. Seguono numerosi viaggi: a Mantova, a Roma dal papa Giulio II e poi da Leone X. Si lega alla donna con cui aveva già una relazione, Alessandra Benucci, con la quale andrà a nozze segrete. Nel 1516 esce la prima edizione dell’Orlando furioso, che ha immediato successo. In seguito al rifiuto di seguir il cardinale in Ungheria, romperà il rapporto con lui, e si legherà al fratello Alfonso. Per lui farà numerosi viaggi, a Roma, a Firenze, fino a dover accettare, per problemi economici familiari, l’incarico di Commissario ducale in Garfagnana. Qui vive dal 1522 al 1525, con numerosi problemi e difficoltà. Dopo il ritorno a Ferrara, seguirà una vita tranquilla, dedita soprattutto alla revisione del suo poema, che vedrà anche una terza riedizione (1532), e alla rappresentazione delle sue commedie. Nel 1532 Ariosto accompagna Alfonso all’incontro a Mantova con Carlo V; sulla via del ritorno si ammala di enterite e dopo alcuni mesi muore. Orlando Furioso Ariosto inizia la stesura dell’Orlando Furioso nel 1505, quando ha poco più di trent’anni e vi lavorerà per tutta la vita. L’opera è la continuazione di quella di Boiardo, l’Orlando innamorato. Nel 1516 pubblica la prima versione, nel 1521 la seconda, con dei ritocchi per lo più formali; la versione definitiva esce alcuni mesi prima della morte, nel 1532. L’impegno maggiore risiede nella revisione linguistica, secondo le teorie di Pietro Bembo. Vengono inoltre aggiunti dei canti, da quaranta a quarantasei. Il progetto è innanzitutto encomiastico: come Boiardo, Ariosto intreccia vicende amorose e epiche, tutto volto a esaltare il signore d’Este, così come aveva già fatto Boiardo, che aveva a sua volta ripreso dall’Eneide di © Caterina Parrini Francesco Guicciardini (1483-1540) Nasce a Firenze nel 1483 da una ricca famiglia di antica nobiltà. Dopo gli studi in giurisprudenza ebbe numerosi incarichi pubblici, dapprima per conto della Repubblica, poi dei Medici (1508-16). Di questo periodo sono le Storie fiorentine, che abbracciano il periodo tra il 1378 e il 1509, e soprattutto il Discorso di Logrogno, uno scritto di teoria politica dove G. sostiene una riforma in senso aristocratico della Repubblica fiorentina, proponendo un sistema affine a quello veneziano. Il secondo periodo di attività politica riguarda quello per i papi Medici: Lezione X (1513-21) e Clemente VII (1523-34). Con il ritorno della Repubblica a Firenze in seguito al Sacco di Roma, è costretto a vita privata per aver servito i Medici. Scrive in questo periodo Considerazioni intorno ai Discorsi di Machiavelli sulla prima Deca di Tito Livio e la redazione finale dei Ricordi. La critica a Machiavelli riguarda soprattutto la sua filosofia della storia: non si può considerare la storia antica come maestra, visto che non esistono leggi o modelli assoluti che permettano di giudicare la realtà. Essendo la realtà frammentaria, non si possono offrire spunti teorici fissi e inconfutabili. Tornati i Medici nel 1531, viene scelto dal Duca Alessandro dei Medici come consigliere e luogotenente e assume la carica di governatore di Bologna. Nel 1534 viene destituito e torna a Firenze, dove spinge all’elezione di Cosimo de’ Medici. Si ritira a vita privata, dove scriverà Storia d’Italia. Muore nel 1540. I Ricordi (1512 1° ed.-1530 ultima ed.) Il libro si compone di 221 osservazioni brevi, destinate a un ambito familiare. La struttura dell’opera è aperta e abbraccia gli argomenti più svariati. Ci sono cinque diverse versioni, nelle quali ci sono numerosi cambiamenti e spostamenti. I pensieri sono collegati solamente tramiti piccoli raggruppamenti tematici. La consapevolezza dell’autore è che la realtà non possa essere incasellata e definita secondo regole astratte, come pensava Machiavelli. G. non può enunciare regole precise, ma suggerisce di seguire il principio della “discrezione”, cioè della capacità di adattarsi agli infiniti casi particolari che la realtà presenta, per seguire la mobilità della fortuna. L’uomo saggio è capace di impiegare quindi questa “discrezione” per difendere il proprio “particulare”, per mantenere la propria posizione e curare i propri interessi individuali. Storia d’Italia (1561) Questa è l’opera più vasta e impegnativa, che si propone di rifondare la storiografia, uscendo dalla prospettiva municipale della storiografia tradizione. L’opera è composta da 20 libri e pubblicata nel 1561ed è la prima opera di storiografia di respiro europeo; inoltre, la seconda novità sta nella metodologia, poiché viene inaugurato un nuovo criterio di ricerca storiografica, basato sulla scrupolosa ricerca delle fonti e dei documenti. G. abbraccia il periodo che va dal 1492, anno della morte di Lorenzo il Magnifico, e il 1534, anno della morte di Clemente VII, comprendendo anche i fatti più luttuosi della recente storia italiana, come il sacco di Roma (1527) e la calata di Carlo VIII (1494). Accurata è la descrizione dei personaggi nella loro complessità psicologica e degli avvenimenti storici. G. è capace di cogliere e raccontare la realtà dei fatti e della storia nel suo farsi; sottolinea inoltre di come al centro dei nodi della storia ci siano i conflitti individuali dei singoli. © Caterina Parrini Il pieno Cinquecento La poesia lirica in Italia: l’esaurimento del petrarchismo e la svolta di Torquato Tasso Con Tasso il filone petrarchista viene completamente rinnovato, approdando a una moderna lirica italiana. Tasso compie questo passaggio grazie all’introduzione di nuovi temi (il bacio, gli aspetti del corpo della donna, il vestiario) e con metafore, similitudini e metonimie. Il rinnovamento è anche metrico: su questo agisce l’uso degli intermezzi nelle opere sceniche e l’affermazione del melodramma. Dal periodo tra l’Orlando Furioso e la Gerusalemme Liberata emerge un fitto dibattito teorico sull’opposizione tra poema romanzesco e poema epico o eroico. Negli ultimi anni del Cinquecento ci si sposta a favore del secondo: Tasso viene considerato il fondatore del poema epico moderno, basato sulla verosomiglianza storica e su una presenza dell’elemento fantastico e meraviglioso. Torquato Tasso (1544-1595) Tasso nasce a Sorrento l’11 marzo 1544. L’anno seguente inizia il Concilio di Trento, aprendo così la nuova cultura della Controriforma. Mai come adesso il controllo del potere sugli intellettuali si esercita e questo si vede anche in Tasso: dà un consenso obbligato a questa nuova cultura, ma cerca di ribellarsi ad essa in nome di una libertà di pensiero ereditata dalla cultura umanistico-rinascimentale, uscendone però pieno di sensi di colpa che lo porteranno addirittura a autodenunciarsi all’Inquisizione, che lo assolverà portandolo a una paradossale delusione. La giovinezza del poeta è segnata da diverse sventure: il padre è lontano poiché a servizio come cortigiano e militare. Vive con la madre e la sorella in numerose città: Sorrento, Salerno, Napoli, Roma. Quando piò finalmente nel 1554 ricongiungersi col padre a Roma, la madre muore. Dopo aver vissuto a Bergamo e a Urbino, nel 1559 è a Venezia con il padre dove si dedica alla scrittura di un poema sulla prima crociata, Gierusalemme. Tra il 1560 e ’65 si dedica agli studi tra Padova e Bologna. Nel 1565 entra a servizio del cardinale Luigi d’Este, e a Ferrara godrà della vita di corte e della simpatia delle sorelle del duca. Inizia a lavorare a un nuovo poema, il Goffredo, la futura Gerusalemme Liberata, a cui lavorerà per dieci anni, periodo di grande serenità per il poeta se non per la morte del padre nel 1569. Nel 1572 entra a Ferrara alla corte del duca Alfonso II senza obblighi lavorativi, libero di dedicarsi alla letteratura; in questo periodo scrive L’Aminta. Inizia un periodo di grave crisi psichica e forte insoddisfazione per il suo poema, che viene fatto leggere a letterati e teologi e sottoposto all’Inquisizione, che lo assolve. Numerosi sono i rimaneggiamenti e tagli. Un altro motivo di crisi è il rapporto con la corte estense. Tasso, ingenuamente, vorrebbe passare a servizio dei nemici storici della famiglia, i Medici, e i suoi comportamenti preoccupano notevolmente il duca Alfonso II. Questo convince Tasso a ritirarsi nel convento di San Francesco, da cui però evade presto, iniziando la peregrinazione nei luoghi simbolici del suo passato. Nel 1579 torna a Ferrara, ma pubblicamente dà in escandescenze offendendo il duca e la corte; viene rinchiuso in ospedale come pazzo. La prigionia dura circa sette anni (fino al 1586), durante la quale il poeta può fare solo brevi passeggiate e ricevere poche visite. L’attività letteraria è febbrile: corregge il suo poema, scrive moltissime lettere, scrive e rielabora molto dei suoi ventisei Dialoghi. Viene pubblicata la Gerusalemma liberata a insaputa dell’autore, il cui grande successo di pubblico è causa di dispiacere e tormento per il poeta. Tra il ’79 e ’84 si hanno varie edizioni, solo l’ultima delle quali autorizzata, pur molto censurata; persino il titolo non è di autore. Nel 1586 esce dalla prigionia e si sposta in numerose città, Mantova, Bergamo, Roma, Napoli. Gli ultimi anni si divide tra Roma e Napoli. © Caterina Parrini Nel 1592 conclude il rifacimento finale della sua opera, intitolata Gerusalemme conquistata, che esce nel 1593. Gli ultimi anni son dedicati a opere di carattere religioso, sotto la protezione del Papa Clemente VIII, che gli promette una pensione a l’incoronamento al Campidoglio come poeta. Questo non avverrà perché Tasso morirà, gravemente malato, il 25 aprile del 1595. Le Rime La composizione di testi lirici non è da Tasso mai interrotta: produrrà circa duemila liriche durante tutta la sua vita, dalla grande varietà tematica, liriche d’amore, d’occasione, di devozione, religiose. Diversamente da Petrarca, modello per Tasso, questi non poté mai dare un’organizzazione sistematica alla pubblicazione, che furono curate solo dal 1567 al 1593. La scrittura artistica va per Tasso sempre di pari passi a quella teorica: per lui la lirica deve tendere a una fusione di altezza espressiva e colloquialità, di ricercatezza e di naturalezza, di comune e di sublime. Fondamentale la musica, che passa soprattutto attraverso la metrica; T. infatti, oltre alle tradizionali canzoni e sonetti, presenta un gran numero di madrigali (=Componimento poetico di origine popolare, che compare in Italia almeno dal sec. 14°, consistente all’inizio in un breve quadretto di natura campagnola e pastorale, talvolta tendente all’epigramma, con uno schema metrico fisso (due o tre terzine di endecasillabi variamente rimati seguiti da 1 distico a rima baciata o 2 a rima alternata), più tardi di tono complimentoso e galante, in endecasillabi o settenari). Lo stile non è classicamente armonioso, ma mosso, vario, rotto, ricalcando l’animo stesso dello scrittore, continuamente in movimento. Il modello lirico è Petrarca e i poeti petrarchisti; Tasso li imiti e cita interi versi, ma manca in lui quel centro equilibratore proprio della loro ricerca, di un motivo unico e dominante. Anche solo dal punto di vista tematico, Tasso si muove tra diversi campi di indagine, con una tendenza centrifuga rispondente alla sua personalità. Le liriche a tema erotico-sensuale sono quelle più convincenti, dedicate a donne veramente amate o incontrare occasionalmente nell’ambiente della corte; il soggetto muta il suo coinvolgimento, a volte tragicamente partecipe, a volte distaccato. La ricerca di apprezzamento e di un equilibrio psicologico concorsero alla stesura di liriche encomiastiche, per ringraziare un signore o l’altro. Nelle liriche tarde troviamo il tema religioso e devozionale, con confessioni addolorate, richieste di aiuto e perdono, fino ai temi controriformistici di espiazione, sofferenza risanatrice, contrizione. Teatro L’Aminta (1573)è una “favola boschereccia” in cinque atti, secondo le norme aristoteliche, composta per una festa di corte del duca Alfonso II. La trama è essenziale: il pastore Aminta ama non ricambiato la ninfa Silvia; i due giovani si credono rispettivamente morti, prima lei a causa di un lupo, poi lui per essersi buttato da una rupe per disperazione. Chiarita la falsità delle due notizie, i due possono ricongiungersi. Il clima dell’opera, sereno e disteso, rispecchia il periodo creativo di Tasso, ma è comunque attraversato da una vena di tragicità. L’amore è esaltato, ma rarefatto e segue perfettamente il clima del mito di Arcadia, nel quale Tasso nasconde personaggi reali della corte e in cui convoglia la sua voglia di evasione da un clima ormai sentito pesante e ipocrita. Non esiste nell’opera un’unica interpretazione dell’amore: questo non salva in maniera univoca i personaggi, ma li mette in pericolo, li strazia, li minaccia e poi di nuovo li solleva. Nel 1587 viene composto Re Torrismondo, rappresentata nel 1618, tragedia in cinque atti; la trama riguarda una cupa storia di incesto e di morte: Torrismondo, re di una regione nordica, e Alvida, principessa norvegese, infatti, si uccidono quando scoprono di essere fratelli. La tragedia vale come testimonianza dell’incupimento della scrittura di Tasso: il desiderio di morte nega qualsiasi valore dell’esistenza, neanche l’amore riesce a riscattare i personaggi. © Caterina Parrini Il Seicento Il Barocco L’età della Controriforma va dal Concilio di Trento agli anni ottanta del Seicento, 1545-1690. Può essere divisa in due fasi: la prima, 1545-1610, è caratterizzata, sul piano economico, da una permanenza dello sviluppo e, sul piano letterario, dalla resistenza dei modelli classicistici, per quanto già corrosi dall’interno (è il Manierismo); la seconda 1610-1690 è qualificata da una profonda crisi economica e, a livello artistico, dall’abbandono di criteri classicistici e dall’affermazione di una nuova percezione (è il Barocco). La seconda fase corrisponde dal punto di vista economico alla prima grande crisi manifatturiera e mercantile in Europa che determinò gravi conseguenze in tutta Europa. In Inghilterra si afferma il potere sovrano del popolo e del Parlamento. Il Barocco respinge la tradizione di misura e equilibrio del classicismo perché si ispira a una nuova visione del mondo e a un nuovo modo di percepire le cose, prodotti dalla rivoluzione scientifica e dalla fine delle vecchie certezze. L’uomo è ormai solo, inquieto, può cercare di capire le cose solo con i sensi e il proprio ingegno. Da qui i due estremi del Barocco: da un lato realistica, turpe nel registrare il reale, dall’altro astratta e concettuale. Il pubblico va conquistato con la meraviglia e la sorpresa. La Chiesa usa l’arte barocca per conquistare l’interesse delle masse e per condurre più efficacemente la sua azione controriformistica. Il Manierismo aveva una tendenza più elitaria, il Barocco si spinge verso il pubblico per affascinarlo e sedurlo colpendone immaginazione e fantasia. Il genere lirico Il genere lirico, nei primi trenta anni del Seicento, ha una grande fioritura, in rottura con il classicismo e petrarchismo allora dominanti, in linea con il gusto delle corti insieme a quello epico-eroico. C’è una grande ricerca dal punto di vista grafico e tematico. Si sviluppa la poesia figurata e sul piano tematico prevalgono la frammentazione dei particolari e la tendenza alla narratività. Le poesie vengono dedicati a particolari del corpo e il brutto può comparire al pari del bello. La poesia non è più solo intima e sentimentale, ma anche ludica e cerebrale, un gioco di ingegno. Aumentano, specialmente dopo la crisi economica, i temi funebri, il terrore della morte e i motivi del teschio e dello scheletro. Il poeta mira allo shock del lettore, soprattutto attraverso la metafora Giovan Battista Marino (1569-1625) Nato a Napoli nel 1569, passa la sua giovinezza accolto da varie famiglie napoletane, poiché il padre lo aveva cacciato di casa per la sua vita scapestrata. Dopo due incarcerazioni per accuse di immoralità, fuggì a Roma dove risiede dal 1600 al 1605. Dopo tre anni a Ravenna, risiede a Torino fino al 1615al servizio del duca Carlo Emanuele di Savoia. Nel 1609 riceve la nomina a cavaliere, ma si scontra con il segretario del duca, il poeta Murtola, fino a arrivare a un’aggressione con la pistola. Pubblica nel 1614 i suoi versi lirici col titolo La Lira e anche Dicerie religiose. Dal 1615 al 1623 fu a Parigi chiamato a corte da Maria de’ Medici, fino a quando la donna non perse potere con l’ascesa di Luigi XIII. Pubblica nel 1616 Gli epitalami, poesie per nozze, nel 1619 La Galeria, liriche dedicate a oggetti d’arte, nel 1620 La Sampogna, idilli mitologici e pastorali. Non senza problemi di censura, pubblicò nel 1623 il poema lunghissimo deidcato al re, L’Adone. Nello stesso anno fa ritorno a Roma, dove muore. Nello stesso anno escono postumi le Lettere e La strage degli innocenti. Per Marino è fondamentale meravigliare il lettore e sottolinea soprattutto la necessità di leggere “col rampino”, con il gancio, prendendo spunto da ogni tipo di lettura, moderna e antica, accozzando e variando, creando una metaletteratura, una letteratura che nasce dalla letteratura non per imitazione, ma per costruzione e finzione, un grande serbatoio da cui attingere in modo indiscriminato. © Caterina Parrini La Lira (1608) Il titolo richiama la lira, simbolo della poesia. La suddivisione è per generi e per temi, non c’è più un’unità tematica come in Petrarca. L’attenzione non è più sulle vicende interiori e psicologiche dei personaggi, è tutta proiettata sui dati esterni, su particolari oggettivi, su quadretti di vita comune. Prevale l’aspetto visivo; di qui la tendenza alla variazione, alla combinazione, alla contaminazione di spunti e generi letterari diversi. L’Adone (1623) Un immenso poema epico in venti canti pubblicato a Parigi nel 1623, con dedica al re di Francia. Inizialmente pensato come poemetto idillico-mitologico, poi concorrente della Gerusalemme liberata; il poema infatti mescola motivi mitologici e classicheggianti a quadri tipicamente contemporanei. Trama: Adone fa innamorare di sé Venere, suscitando l’ira di Marte che, per vendicarsi, lo fa uccidere da un cinghiale. L’opera non segue un ordine narrativo consequenziale e rigoroso, ma procede attraverso episodi secondari e digressioni, dando al poema un aspetto ridondante di colori e di vicende, in una prospettiva policentrica e multiforme, tipica del gusto barocco. è il poema della curiosità, della conoscenza che viene attraverso i sensi, che contrappone all’eroismo dei cavalieri descritti nei poemi epici tradizionali la ricerca di una vita lussuosa e ricca di sensualità. La trattatistica scientifica: Galileo Galilei (1564-1642) Nasce a Pisa e passa la sua giovinezza a Firenze, tornando a Pisa per studiare Medicina. Nel 1589 lì riceve il primo incarico per insegnare matematica, poi a Padova fino al 1610. Nel 1609 costruisce un cannocchiale, con il quale fece importanti scoperte astronomiche che spiegherà nel Sidereus Nuncius (1610). Nel 1623 pubblica Il Saggiatore. Quando le opere di Copernico furono messe all’indice G. fu convocato a Roma al Sant’Uffizio, condannato alla prigione a vita e ammonito dal continuare gli studi sulla teoria copernicana. Nel 1623 pubblica Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano. Minacciato di tortura, nel 1633 è costretto all’abiura. Finisce la sua vita nella sua villa di Arcetri, a Firenze, vecchio e cieco. Sul piano letterario G. riprende dalla tradizione umanistica l’uso del dialogo e dell’epistola, ma rinnova il genere trattatistico, rendendolo adatto a un pubblico più vasto. L’epistola è utilizzata per intessere una rete di comunicazione con tutti i dotti dell’epica, da Keplero a Sarpi; il dialogo per rendere la discussione più viva, drammatica. G. introduce inoltre, come scrittore, la novità della lingua: usa il volgare fiorentino, del tutto naturale per lui. Da qui in avanti, la trattatistica sarà redatta in volgare, sottraendo al latino il primato della scienza. Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632 pubbl) L’opera uscì dopo aver cambiato il titolo e modificato il proemio, in modo da poter escludere la censura. La scelta del dialogo è funzionale all’efficacia. La situazione è un incontro di quattro giornate a Venezia tra il nobile fiorentino Salviati, copernicano, il nobile veneziano Sagredo, rappresentante del pubblico curioso ma non specialista, l’aristotelico Simplicio, personaggio immaginario. Il Dialogo si presenta, nonostante la lettera nicodemica iniziale, come una confutazione del sistema tolemaico- aristotelico a favore di un sistema copernicano. La dimostrazione del sistema avveniva quindi in una cornice quasi teatrale, ironica, atta a intrattenere i lettori mentre si educavano alla teoria. Nel 1633 il libro è esaminato e censurato, Galilei costretto a recersi a Roma per l’abiura. Il Dialogo è inserito nell’Indice. © Caterina Parrini Il Settecento La classe borghese si impone in questo secolo come la nuova forza economica e sociale in grado di trasformare i modelli culturali e le strutture economiche. Il primo obiettivo fu la riduzione dei privilegi degli ecclesiastici e dei nobili a favore di una maggiore considerazione di tutti i cittadini. La Rivoluzione scientifica ebbe ripercussioni in tutti gli ambiti del sapere, favorendo la mentalità razionale e facendo diminuire l’oscurantismo religioso: nasce l’Illuminismo. Questo nuovo modo di pensare influenza ogni sfera della vita: si spinge verso il libero mercato, verso stati più liberi in cui i diritti dei cittadini contano. Vengono favorite discussioni sulla ricerca della felicità individuale e collettiva e sulla definizione dei diritti inalienabili dell’essere umano. In Italia l’ansia di rinnovamento si manifesta con un netto allontanamento dalla poetica del Barocco seicentesco e del marinismo e con un ritorno al classico della tradizione. In nome del ritorno alla tradizione e all’ordine morale, alla poesia pura, pastorale, si costituisce a Roma nel 1690 l’Accademia d’Arcadia. La letteratura teatrale Carlo Goldoni (1707-1793) Goldoni nacque a Venezia nel marzo 1707. Seguendo il volere del padre, si laurea in legge e intraprende la professione d’avvocato, ma l’amore del teatro è più forte; a quattordici anni aveva addirittura seguito una compagnia di comici fuggendo da casa. Dal 1730 si avvicina al teatro, recitando e scrivendo, mentre la professione d’avvocato non dà risultati convincenti. Goldoni contrae debiti e si impegna con una promessa di matrimonio, da cui fuggirà spostandosi da Venezia a Milano (1733) e conoscendo Giuseppe Imer, capocomico del teatro veneziano San Samuele. Il ritorno a Venezia con lui gli regala il successo della tragicommedia in versi Belisario, rappresentata con successo alla fine del 1734. Dal 1737 al ’41 dirige a Venezia il teatro San Giovanni Crisostomo, rappresentando anche opere proprie. Nel 1743 si arriva a una sua commedia interamente scritta da lui, dove lo spazio all’improvvisazione è escluso, La donna di garbo. Coinvolto in una truffa e indebitato, fugge con la moglie fermandosi a Pisa, tornandosi a dedicare parzialmente alla professione di avvocato. Compone nel 1745 Il servitore di due padroni. A Livorno conosce il capocomico Gerolamo Medebach, che seguirà l’anno seguente a Mantova e per il quale scriverà L’uomo prudente e La vedova scaltra. Il capocomico gli proporrà una collaborazione (1748- 52) al Teatro Sant’Angelo, per il quale Goldoni deve scrivere ogni anno otto opere: La putta onorata, La famiglia dell’antiquario, La locandiera, Il teatro comico, Le femmine puntigliose, La bottega del caffè, Il bugiardo. Dal 1753 al ’62 lavoro per il teatro San Luca, con alcuni insuccessi e molti successi: Gli innamorati (1758) e, in dialetto, Il campiello e I rusteghi (1560). Tra il ’61 e il ’62 esce con la trilogia della villeggiatura, Siòr Todero brontolon, Le baruffe chiozzotte. Nel frattempo Goldoni pubblica molte sue commedie. Dopo il trionfo a Roma de La buona figliola, si reca a Parigi, dove subisce una grande delusione: gli si chiede di rinunciare alle innovazioni da lui introdotte, per fornire scenari a commedie dell’arte tradizionali. Nel 1765 viene nominato insegnante d’italiano delle figlie del re Luigi XV a Versailles, dove si trasferisce. Si trasferisce poi a Parigi ricevendo una pensione, ma malato e stanco; tra il 1775 e il 1780 è nuovamente a Versailles al servizio delle sorelle di Luigi XVI. Tornato a Parigi definitivamente nel 1780, comincia dopo tre anni la stesura dei Mémoires, editi a Parigi in tre volumi nel 1787. L’anno seguente l’editore Zatti pubblica tutte le sue opere teatrali. Muore nel febbraio 1793. © Caterina Parrini L’Illuminismo lombardo L'illuminismo in Italia prese soprattutto la forma delle riforme politiche ed economiche. I centri cutlurali furono sicuramente Milano e Napoli. L’illuminismo lombardo ebbe un suo carattere più politico ed economico. Mosse i suoi primi passi dall'Accademia dei trasformati, fondata nel 1743. Nell'accademia, caratterizzata da una componente in prevalenza aristocratica, si dibatteva delle nuove teorie illuministiche, tentando tuttavia di conciliarle con le tradizioni classiche. Tra i componenti dell'Accademia dei Trasformati vi era anche Pietro Verri, che tuttavia se ne distaccò ben presto per dar vita assieme al fratello Alessandro all'Accademia dei Pugni nel 1761, il cui nome fu ispirato all'animosità con cui si discuteva. Collegato all'Accademia dei Pugni vi era la rivista Il Caffè, foglio culturale vicino alle teorie illuministiche ispirato ai primi giornali moderni come il The Spectator. Oltre ai fratelli Verri, tra i frequentanti dell'Accademia dei Pugni vi fu un altro dei più celebri illuministi italiani: Cesare Beccaria. Del Beccaria è la più celebre opera dell'illuminismo italiano: il trattato giuridico Dei delitti e delle pene pubblicato nel 1763, nel quale, rifacendosi alle teorie dei philosophes e ad alcune legislazioni recenti come quella della zarina Elisabetta Petrovna, egli propone con logica rigorosa l'abolizione della tortura e della pena di morte. L'opera fu ammirata anche da Voltaire e dagli Enciclopedisti ed ebbe molta influenza su sovrani come Caterina II di Russia, Maria Teresa d'Austria, ma soprattutto sul Granducato di Toscana, dove Pietro Leopoldo nel 1786 abolì la tortura e la pena di morte, seguito poi dal fratello Giuseppe II d'Austria. L'illuminismo portò nuovi stimoli anche all'arte e alla poesia: un'importante poeta dalle idee illuministe fu Giuseppe Parini, altro grande esponente dell'illuminismo lombardo, che satireggiò la nobiltà e i suoi privilegi nel poema Il Giorno, mentre nel teatro incoraggiò i commediografi e i drammaturghi verso idee nuove: è il caso di Vittorio Alfieri e Carlo Goldoni. Giuseppe Parini (1729-1799) Nasce a Bosisio, in Brianza. Pur essendo di famiglia modesta, può studiare a Milano entrando in contatto con la cultura illuminista e frequentando la scuola dei Barnabiti fino al ’52. Nel ’53 è accolto nell’Accademia dei Trasformati, uno dei centri più prestigiosi culturalmente a Milano. Conclusi e presi gli ordini nel 1754, diventa precettore presso una famiglia nobile. Nel 1763 pubblica Il Mattino, seguito nel’65 da Il Mezzogiorno, due pometti dedicati a ritrarre i vizi della nobiltà parassita e corrotta. Parini ottenne presto un nuovo incarico presso il conte Giuseppe Maria Imbonati, come precettore del figlio Carlo (amante della madre di Manzoni). Per lui scrisse l’ode L’educazione (1764). Nel 1768 ottiene la nomina a poeta ufficiale del Teatro Regio, per il quale curava opere e festeggiamenti; l’anno dopo gli furono affidati la direzione della Gazzetta di Milano e una cattedra di “belle lettere” presso le Scuole Palatine. Nel triennio in cui la città fu occupata dai francesi (1796-99) continua la sua attività di docente. Nonostante un primo avvicinamento alle idee della rivoluzione, il moderatismo del poeta poi lo porta ad allontanarsi dai francesi. In questo periodo si conclude anche l’attività letteraria, lasciando incompiuto il Giorno, nelle due parti Il Vespro e La Notte. Tornati a Milano gli austriaci, muore dopo pochi mesi a Milano. In Parini temi e istanze nuove si incanalano dentro forme e strutture largamente tradizionali. Tutto è governato dal principio della moderazione: vivendo a metà tra tendenze e tradizioni spesso diverse e in contrasto, Parini sceglie di non aderire fino in fondo a nessuna. Vuole trasformare i contenuti conservando le strutture. La nobiltà deve essere modernizzata e svuotata dei suoi vizi; la fede cristiana va fusa con i principi egualitari e le dottrine sociali dell’Illuminismo. Mentre l’Illuminismo lombardo sosteneva la funzione pratica della letteratura, che doveva portare avanti battaglie socialmente progressive, Parini rifiutava la riduzione della letteratura all’utile, sostenendo piuttosto che la poesia dovesse nascere dal difficile incontro tra finalità sociali e bellezza, cioè tra utilità e gratuita (v. Orazio). © Caterina Parrini Il Giorno Il Giorno è un poemetto didascalico-satirico in endecasillabi sciolti, che mira a rappresentare, attraverso l'ironia e la satira antifrastica, i costumi dell'aristocrazia milanese decaduta del Settecento. Il poemetto era inizialmente diviso in tre parti; il progetto iniziale prevedeva una divisione in tre parti: Mattino, Mezzogiorno e Sera. L'ultima sezione venne poi divisa in due parti rimaste incompiute ma delle quali conosciamo alcuni appunti e ci sono pervenuti frammenti poetici: Vespro e Notte. Il Mattino e il Mezzogiorno furono pubblicati a Milano rispettivamente nel 1763 e nel 1765. Il poema completo uscì postumo nel 1801. L’opera indaga e racconta la vita di un “giovin signore”, che deve essere educato secondo la moda e il costume aristocratico. Si mettono in risalto la vacuità e l’inutilità degli sfarzi e degli usi nobiliari, il vuoto psicologico del protagonista, privo di ogni possibilità di cambiamento. La critica è più etica che politica: l’inutilità sociale del nobile è una colpa, aggravata dal privilegio che gode; a esso si contrappongono le classi più umili, modello di operosità, virtù e castigatezza. Le ultime due parti, Il vespro e La Notte, riflettono la delusione di Parini e la fine del periodo d’oro dell’Illuminismo lombardo, che ha fallito nei suoi propositi di riforma. Si attenua la vena polemica, ma aumenta la consapevolezza della decadenza di un intero ceto che ha perso la sua funzione storica. Le Odi Accanto a numerose poesie d’occasione, Parini scrisse numerose odi per tutta la sua vita, in particolare dal 1757 al ’95. Possiamo individuare tre fasi: § 1757-70 circa, temi sociali e civili, impegno in una dimensione schiettamente pubblica; § 1777-85, non abbandona la dimensione civile, ma si concentra sulla funzione sociale della cultura e dell’educazione, piuttosto che su grandi tematiche pubbliche; § 1787-95, caratterizzato dal ripiegamento malinconico e nostalgico sui temi dell’interiorità esistenziale. Cesare Beccaria (1738-1794) Cesare Beccaria nacque a Milano (allora appartenente all'impero asburgico), figlio di Giovanni Saverio di Francesco, discendente da una ramo dell'importante famiglia pavese dei Beccaria, e di Maria Visconti di Saliceto, il 15 marzo 1738. Fu educato a Parma dai gesuiti e si laureò in Giurisprudenza. Nel 1760 Cesare sposò Teresa Blasco contro la volontà del padre, che lo costrinse a rinunciare ai diritti di primogenitura (mantenne però il titolo di marchese); da questo matrimonio ebbe quattro figli. Il padre lo cacciò da casa dopo il matrimonio, così dovette essere ospitato da Pietro Verri, che lo mantenne anche economicamente per un periodo. La moglie morì il 14 marzo 1774, a causa della sifilide o della tubercolosi. Beccaria, dopo appena 40 giorni di vedovanza, firmò il contratto di matrimonio con Anna dei Conti Barnaba Barbò, che sposò in seconde nozze il 4 giugno 1774, ad appena 82 giorni dalla morte della prima moglie. Da Anna Barbò ebbe un altro figlio, Giulio Il suo avvicinamento all'Illuminismo avvenne dopo la lettura delle Lettere persiane di Montesquieu e del “Contratto sociale” di Rousseau, grazie ai quali si entusiasmò per i problemi filosofici e sociali ed entrò nel cenacolo di casa Verri, dove aveva sede anche la redazione del Caffè, il più celebre giornale politico- letterario del tempo, per il quale scrisse sporadicamente. Dopo la pubblicazione di alcuni articoli di economia, nel 1764 diede alle stampe Dei delitti e delle pene, capolavoro ispirato dalle discussioni in casa Verri del problema dello stato deplorevole della giustizia penale. Inizialmente anonimo, è un breve scritto contro la tortura e la pena di morte che ebbe enorme fortuna in tutta Europa e nel mondo e in particolare in Francia. © Caterina Parrini Nel 1766 Beccaria viaggiò poi controvoglia fino a Parigi, e solo dietro l'insistenza dei fratelli Verri e dei filosofi francesi desiderosi di conoscerlo. La sua giustificata gelosia per la moglie lontana e il suo carattere ombroso e scostante, fecero sì che appena possibile tornasse a Milano, lasciando solo il suo accompagnatore Alessandro Verri a proseguire il viaggio verso l'Inghilterra. Il carattere riservato e riluttante di Beccaria, tanto nelle vicende private quanto nelle pubbliche, ebbe nei fratelli Verri, e soprattutto in Pietro, un fondamentale punto di appoggio e di stimolo soprattutto quando iniziò ad interessarsi allo studio dell'economia. Beccaria era a tratti paranoico e aveva spesso sbalzi d'umore, la sua personalità era abbastanza indolente e il carattere debole, poco brillante e non portato alla vita sociale; ciò non gli impediva però di esprimere molto bene i concetti che aveva in mente, soprattutto nei suoi scritti. Tornato a Milano nel 1768 ottenne la cattedra di Scienze Camerali (economia politica), creata per lui nelle scuole palatine di Milano e cominciò a progettare una grande opera sulla convivenza umana, mai completata. Entrato nell'amministrazione austriaca nel 1771, fu nominato membro del Supremo Consiglio dell'Economia, contribuendo alle riforme asburgiche sotto Maria Teresa e Giuseppe II. Fu criticato per questo dagli amici (tra cui Pietro Verri), che gli rimproveravano di essere diventato un burocrate. Il suo rapporto con la figlia Giulia, futura madre di Alessandro Manzoni, fu conflittuale per gran parte della sua vita; ella era stata messa in collegio (nonostante Beccaria avesse spesso deprecato i collegi religiosi) subito dopo la morte della madre e lì dimenticata per quasi sei anni: suo padre non volle più sapere niente di lei per molto tempo e non la considerò mai sua figlia, bensì il frutto di una relazione extraconiugale delle numerose che la moglie aveva avuto. Giulia uscì dal collegio nel 1780, frequentando poi gli ambienti illuministi e libertini. Nel 1782 la diede in sposa al conte Pietro Manzoni, più vecchio di vent'anni di lei: il nipote Alessandro nacque nel 1785, ma pare fosse in realtà il figlio di Giovanni Verri, fratello minore di Pietro e Alessandro, e amante di Giulia. Prima della morte del padre, Giulia abbandonò il marito, nel 1792, per andare a vivere a Parigi insieme al conte Carlo Imbonati, rompendo i rapporti definitivamente col padre, e temporaneamente anche con il figlio. Beccaria morì a Milano il 28 novembre 1794, a causa di un ictus, all'età di 56 anni, e trovò sepoltura nel Cimitero della Mojazza, fuori Porta Comasina, in una sepoltura popolare (dove fu sepolto anche Giuseppe Parini) anziché nella tomba di famiglia. Quando tutti i resti vennero traslati nel cimitero monumentale di Milano, un secolo dopo, si perse traccia della tomba del grande giurista. Beccaria fu influenzato dalla lettura di Locke, Helvetius, Rousseau e, come gran parte degli illuministi milanesi, dal sensismo di Condillac. Fu influenzato anche dagli enciclopedisti, in particolare da Voltaire e Diderot. Partendo dalla classica teoria contrattualistica del diritto, derivata in parte dalla formulazione datane da Rousseau, che sostanzialmente fonda la società su un contratto sociale (nell'omonima opera) teso a salvaguardare i diritti degli individui e a garantire in questo modo l'ordine, Beccaria definì in pratica il delitto in maniera laica come una violazione del contratto, e non come offesa alla legge divina, che appartiene alla coscienza della persona e non alla sfera pubblica. La società nel suo complesso godeva pertanto di un diritto di autodifesa, da esercitare in misura proporzionata al delitto commesso (principio del proporzionalismo della pena) e secondo il principio contrattualistico per cui nessun uomo può disporre della vita di un altro. Dei delitti e delle pene (1764) Diviso in 42 brevi capitoli, ognuno dei quali tratta un aspetto specifico. Lo scopo è quello di mostrare la totale assurdità del sistema politico, adibito a un mostruoso meccanismo di potere e soprusi, dietro al quale si nasconde l’ingiustizia dell’intera società che lo esprime. L’opera si scaglia in particolare contro la pena di morte, vertice di inciviltà gestito dallo stato, e contro la tortura, inutile e barbara. Oltre alla critica, l’opera propone un nuovo sistema di giustizia che responsabilizzi lo Stato verso i singoli, dando delle pene socialmente utili e che possano risarcire la collettività. Un altro punto è la laicizzazione della giustizia e la differenziazione di peccato e reato. © Caterina Parrini L’Ottocento Nella seconda metà del Settecento si sviluppa il Neoclassicismo, che ambisce al recupero della classicità autentica come ideale di compostezza e equilibrio delle forme. A questo si accompagna un rinnovato interesse, oltre che per i classici letterari, per l’archeologia. Nello stesso periodo si svolgono varie esperienze collocabili nel Preromanticismo; ci si riavvicina alla poesia primitiva, alle leggende celtiche e germaniche, al Medioevo. In Germania questa nuova sensibilità si concretizza nello Sturm und Drang e poi in Goethe (1749-1832). Di Romanticismo vero e proprio si inizierà a parlare in seguito a un articolo del gennaio 1816 di Madame de Stael, in cui si esortavano gli italiani a rivolgersi verso le letterature straniere contemporanee, le novità, uscendo dal un grigio provincialismo. Per i romantici, la letteratura avrebbe dovuto assumere una civiltà morale e civile, per portare avanti e esaltare l’anima della nazione, recuperare le convinzioni religiose e i momenti più importanti della storia passata in cui riconoscersi. In Italia è acceso il dibattito sulla lingua italiana: c’è insofferenza verso l’uso frequente di neologismi (francesismi e esotismi soprattutto) e ci sono posizione puriste (A. Cesari e B. Puoti teorizzano la necessità del ritorno al toscano trecentesco) e classiciste (V. Monti e P. Giordani, allontano le posizioni fiorentiniste per una lingua letteraria italiana, radicata nella tradizione ma aperta alle innovazioni). Ugo Foscolo (1778-1827) Nasce a Zante nel 1778, si trasferisce poi a Spalato e a Venezia nel ’93 per ricongiungersi alla madre. In questi anni sviluppa l’amore per la letteratura, classica e moderna, e studia l’italiano, il greco antico e il latino. A Venezia entra nell’ambiente intellettuale e conosce molti personaggi in vista, come Cesarotti, Pindemonte. La discesa dei francesi (1796) accende l’entusiasmo rivoluzionario di Foscolo ed è per questo costretto a lasciare Venezia, fino a quando i francesi non si impossessano della città e F. si arruola come tenente della Repubblica Cispadana. Con il Trattato di Campoformio (Venezia ceduta dai francesi all’Austria) Foscolo subisce una enorme delusione e le sue posizioni ideologico-politiche piegano sempre di più verso il pessimismo. Nel 1801 si sposta a Milano. Alla fine del 1798 inizia a Bologna la stampa delle Ultime lettere di Jacopo Ortis, che uscirà a Milano tra il 1801 e il 1802. Arruolato a difesa della Repubblica Cisalpina, viene ferito e pubblica A Luigia Pallavicini caduta da cavallo. A Milano intreccia una relazione con la moglie del conte Arese, Antonietta Fagnani, per la quale scrive l’ode All’amica risanata. Tra il 1802 e il 1803 pubblica varie edizioni delle sue poesie, l’ultima e definitiva consta di dodici sonetti e due odi. Dal 1804 al 1806 è in Francia con la divisione italica e si dedica alla traduzione dell’Iliade e del Viaggio sentimentale di Sterne. In questi anni intreccia una relazione con Fanny, Sophia Hamilton, da cui avrà una figlia. Nel 1806 ritrova a Venezia la madre e la sorella, dopo dieci anni di separazione, e riallaccia i rapporti con vecchi amici tra cui Pindemonte, a cui dedica Dei sepolcri, stampato nel 1807. A marzo 1808 è nominato professore di eloquenza latina e italiana presso l’Università di Pavia, ma neanche dopo un anno la cattedra viene soppressa. Sono anni di grandi polemiche e critiche, che costano a Foscolo un numero sempre maggiore di nemici. Anche l’amicizia con Vincenzo Monti si spessa intorno al ’10. In più viene censurata la tragedia Ajace dopo la sua rappresentazione alla Scala; i francesi ci vedono troppi riferimenti e critiche al potere in carica e questo segna la rottura definitiva tra il poeta e il potere napoleonico. Dopo vari spostamenti tra Venezia e Milano, nel 1812 il poeta si sposta a Firenze per un anno, dove scrive la tragedia Ricciarda e il pometto le Grazie. Dopo la sconfitta di Napoleone a Lipsia (ottobre 1813), dovendo giurare fedeltà al nuovo potere austriaco, fugge in esilio in Svizzera, poi in Germania e infine in Inghilterra. Sarà un decennio duro a causa dei © Caterina Parrini problemi di salute e delle ristrettezze economiche. In queste difficili condizioni continua a scrivere incessantemente, dedicandosi a molti saggi critici su Dante, Petrarca, Ariosto. Scrive Lettere dall’Inghilterra e lavora all’Ortis. Muore vicino Londra il 10 settembre 1827. Poetica e idee Foscolo si trova metà tra l’Illuminismo e il Romanticismo: dal primo deriva la sua visione laica della storia e della società e la sua solida prospettiva materialistica; dal secondo la visione eroica della vita e della forza che attribuisce alla poesia, come strumento per riscattare la negatività e resistere al tempo. Le Odi, i Sonetti e Le Grazie richiamano il Neoclassicismo, Ortis e Dei sepolcri preannunciano il Romanticismo. Altre tematiche sono: § sentimento patriottico e il desiderio di appartenere totalmente al proprio paese § l’idea che la virtù e le capacità di un uomo sopravvivano a lui dopo la morte grazie al ricordo e le opere lasciate ai posteri § l’ammirazione per i grandi del passato § l’arte e la bellezza possono salvare l’uomo dai suoi tormenti interiori e da una realtà triste e cupa § rimpianto per gli ideali di armonia e bellezza del mondo greco e latino. Ultime lettere di Jacopo Ortis (1801-02) L’opera è considerata il primo romanzo epistolare della letteratura italiana, nel quale sono raccolte le 67 lettere che il protagonista, Jacopo Ortis, mandò all'amico Lorenzo Alderani, che dopo il suicidio di Jacopo le avrebbe date alla stampa corredandole di una presentazione e di una conclusione. Trama Jacopo Ortis è uno studente universitario veneto di passione repubblicana, il cui nome è nelle liste di proscrizione. Dopo aver assistito al sacrificio della sua patria si ritira, triste e inconsolabile, sui colli Euganei, dove vive in solitudine. Passa il tempo leggendo Plutarco, scrivendo al suo amico Lorenzo Alderani e trattenendosi a volte con il sacerdote curato, con il medico e con altre brave persone. Jacopo conosce il signor T., le figlie Teresa e Isabellina, e Odoardo, che è il promesso sposo di Teresa, e comincia a frequentare la loro casa. È questa, per Jacopo, una delle poche consolazioni, sempre tormentato dal pensiero della sua patria schiava e infelice. In un giorno di festa aiuta i contadini a trapiantare i pini sul monte, commosso e pieno di malinconia, un altro giorno con Teresa e i suoi visita la casa del Petrarca ad Arquà. I giorni trascorrono e Jacopo sente che il suo amore impossibile per Teresa diventa sempre più grande. Jacopo viene a sapere dalla stessa Teresa che essa è infelice perché non ama Odoardo, al quale il padre l'ha promessa in sposa per questioni economiche, nonostante l'opposizione della madre che ha perciò abbandonato la famiglia. Ai primi di dicembre Jacopo si reca a Padova, dove si è riaperta l'Università. Conosce le dame del bel mondo, trova i falsi amici, s'annoia, si tormenta e, dopo due mesi, ritorna da Teresa. Odoardo è partito ed egli riprende i dolci colloqui con Teresa e sente che solo lei, se lo potesse sposare, potrebbe dargli la felicità. Ma il destino ha scritto: "l'uomo sarà infelice" e questo Jacopo ripete tracciando la storia di Lauretta, una fanciulla infelice, nelle cui braccia è morto il fidanzato ed i genitori della quale sono dovuti fuggire dalla patria. I giorni passano nella contemplazione degli spettacoli della natura e nell'amore per Jacopo e Teresa, i quali si baceranno per la prima e unica volta in tutto il romanzo. Egli sente che lontano da lei è come essere in una tomba e invoca l'aiuto della divinità. Si ammala e, al padre di Teresa che lo va a trovare, rivela il suo amore per la figlia. Appena può lasciare il letto scrive una lettera d'addio a Teresa e parte. Si reca a Ferrara, Bologna e Firenze. Qui visita i sepolcri dei "grandi" a Santa Croce. Poi, portando sempre con sé l'immagine di Teresa e sentendosi sempre più infelice e disperato, viaggia fino a Milano dove incontra Giuseppe Parini. Vorrebbe fare qualcosa per la sua infelice patria, ma Giuseppe Parini in un ardente colloquio lo dissuade da inutili atti d'audacia, affermando che solo in futuro e con il sangue si potrà riscattare la Patria, ma chi lo farà rischierà a © Caterina Parrini sua volta di divenire un tiranno; anche uccidere il tiranno è divenuto però inutile, benché il popolo possa sperare ormai solo in questo. Inquieto e senza pace decide di andare in Francia ma, arrivato a Nizza si pente e ritorna indietro. Quando viene a conoscenza che Teresa si è sposata sente che per lui la vita non ha più senso. Ritorna ai colli Euganei per rivedere Teresa, va a Venezia per riabbracciare la madre, poi ancora ai colli e qui, dopo aver scritto una lettera a Teresa e l'ultima all'amico Lorenzo Alderani, si uccide, piantandosi un pugnale nel cuore. Segue una spiegazione finale di Lorenzo sul destino di Jacopo. Odi e sonetti (1797-1893) I temi ricorrenti sono: la morte che pacifica l’anima, l’amore, importanza dell’autoritratto, nostalgia dell’infanzia perduta, l’esilio, la patria, la potenza della parola poetica § Ai novelli repubblicani, ode (1797) § A Bonaparte liberatore, ode (1797) § A Luigia Pallavicini caduta da cavallo, ode (1800) § All'amica risanata, ode (1802) § Non son chi fui, perì di noi gran parte, sonetto (1802) § Che stai?, sonetto (1802) § Te nudrice alle Muse, sonetto (1802) § E tu ne' carmi avrai perenne vita, sonetto (1802) § Perché taccia il rumor di mia catena, sonetto (1802) § Così gl'interi giorni in lungo incerto, sonetto (1802) § Meritamente, però ch'io potei, sonetto (1802) § Solcata ho fronte, sonetto (1802) § Alla sera, sonetto (1803): aspirazione all’equilibrio e alla pace e intensa carica di energia e irrequietezza della psicologia dell’autore. § A Zacinto, sonetto (1803): motivi biografici fusi a quelli mitici, parallelismo tra lui e Ulisse. § Alla Musa, sonetto (1803) § In morte del fratello Giovanni, sonetto (1803): legame tra poeta e fratello defunto fondato sulla sventura e sulla comune necessità di trovare conforto nella tomba. Dei Sepolcri (aprile 1807) Composta da 295 endecasillabi sciolti. L’idea è nata nel poeta a seguito di una discussione avuta nel salotto letterario di Isabella Teotochi Albrizzi con il letterato Ippolito Pindemonte, a cui è dedicato il componimento, ispirandosi a ciò che era stato prescritto nell'editto di Saint Cloud, emanato da Napoleone nel giugno 1804 ed esteso al Regno d'Italia solo nel 1806, sulla regolamentazione delle pratiche sepolcrali. L'editto stabiliva che le tombe dovevano essere poste al di fuori delle mura cittadine, in luoghi soleggiati e arieggiati, e che fossero tutte uguali e senza iscrizioni. Si volevano così evitare discriminazioni tra i morti. Per i defunti illustri, invece, era una commissione di magistrati a decidere se far incidere sulla tomba un epitaffio. Questo editto aveva quindi due motivazioni alla base: una igienico-sanitaria e l'altra ideologico-politica. Foscolo non è innovativo per il tema sepolcrale, trattato già dai poeti preromantici inglesi; l'innovazione sta nel fatto che l'autore mette nell'opera i principali temi della sua poetica. Vi troviamo infatti il materialismo, il significato della civiltà e della poesia, la condizione storica dell'Italia e le possibilità di riscatto d'identità individuale e sociale del poeta. Il sepolcro è per Foscolo il luogo che alimenta la memoria e che permette ai morti di continuare a vivere nel ricordo dei propri cari. L’opera è così divisibile: § versi 1-90: utilità delle tombe e dei riti funebri come legame tra vivi e defunti, ricordo delle imprese dei morti. © Caterina Parrini servizio dei Visconti di Milano a quello della Repubblica di Venezia e per questo accusato di tradimento e condannato a morte. La seconda tragedia, l’Adelchi, invece, fu edita nel 1822, mentre cominciava a profilarsi, nella mente di Manzoni, la visione narrativa del romanzo. Il testo si compone di cinque atti in endecasillabi sciolti e narra la storia dei figli del re longobardo Desiderio, Adelchi e Ermenegarda, al tempo della guerra franco-longobarda (772). Per ragioni di Stato Ermengarda, figlia del re dei Longobardi Desiderio, viene ripudiata come sposa da Carlo Magno. Per vendicarsi, Desiderio vuole fare incoronare dal Papa i figli di Carlomanno (fratello già defunto di Carlo Magno) rifugiatisi presso di lui alla morte del padre. Carlo Magno manda un ultimatum a Desiderio, il quale rifiuta e gli dichiara guerra. Grazie al tradimento dei duchi longobardi l'esercito di Carlo Magno avanza verso Pavia. Ermengarda, che si era rifugiata presso la sorella Ansberga (Anselperga) nel monastero di San Salvatore a Brescia, viene a conoscenza delle nuove nozze di Carlo Magno e, in preda al delirio, muore. Sempre grazie all'aiuto di traditori, Carlo Magno riesce a conquistare Pavia e fa prigioniero Desiderio. Adelchi, che aveva prima cercato inutilmente di opporsi alla guerra contro i Franchi, combatterà poi fino alla morte. Condotto in fin di vita alla presenza di Carlo e del padre prigioniero, invoca, prima di morire, clemenza per il padre e lo consola per aver perduto il trono: non aver più alcun potere infatti non lo obbligherà più "a far torto o patirlo". I promessi sposi Il romanzo richiama i grandi romanzi della letteratura straniera, primo fra tutti l’Ivanhoe di Walter Scott. Questo romanzo storico ha però come ambientazione la Milano del Seicento, ricostruita con grande precisione. La critica alla sopraffazione degli invasori spagnoli del Seicento richiama quella agli austriaci, che occupano l’Italia dell’Ottocento. L’ambientazione storica permette a Manzoni la libertà di criticare la sopraffazione e i malcostumi degli austriaci, senza andare incontro alla censura. I personaggi sono inventati, ma molti ispirati a figure realmente esistite. La redazione del libro fu lungo e tormentata: § prima fase 1821-23, romanzo senza titolo poi chiamato Fermo e Lucia. Ad esso fu poi aggiunta nella quarantana una Appendice storica su la colonna infame, che documenta i processi agli untori durante la peste del 1630. § 1827, prima edizione a stampa, cambiamenti linguistici, strutturali e ai personaggi § 1840-42 pubblicazione a dispense. Cambiamenti linguistici per avvicinarsi al toscano Il dramma dei due protagonisti schiacciati dal potere dei più forti diventa simbolo della condizione umana: ne scaturisce una visione dura e pessimista della vita perché, nonostante la fiducia nella Provvidenza, alla quale i due protagonisti fanno continuamente riferimento, le sofferenze patite non troveranno mai un vero compenso in questo mondo, ma solo nella vita ultraterrena dove i giusti saranno ricompensati. La conclusione del romanzo, pur essendo lieta, non porta al recupero della dimensione originaria dei protagonisti, dimostrando un rifiuto da parte dell’autore del lieto fine ideale e idillico tipico della letteratura europea tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento. L’opera è definita da Calvino “romanzo dei rapporti di forza”, forze sociali, naturali e individuali che si oppongono tra bene e male all’interno del disegno della Provvidenza. I personaggi, quattro laici ( Renzo, Lucia, don Rodrigo, Innominato) e quattro religiosi (don Abbondio, Padre Cristoforo, il cardinale Borromeo, la monaca Gertrude), sono analizzati dettagliatamente. © Caterina Parrini Giacomo Leopardi (1798-1837) Leopardi nasce a Recanati (allora nello Stato Pontificio) dal conte Monaldo, uomo colto ma conservatore, e dalla marchesa Adelaide Antici, donna rigida, fredda e ossessionata dalla religione. Prima studia con il padre e con precettori ecclesiastici, poi da autodidatta, grazie anche all’enorme biblioteca del padre. Questi anni di “studio matto e disperatissimo” minano duramente la salute fisica di Leopardi. Impara le lingue classiche e alcune lingue moderne e si forma sui classici antichi e moderni. Si dedica alla filologia e traduce varie opere classiche, tra cui alcune odi di Orazio, il primo libro dell’Odissea e il secondo dell’Eneide (1816), pubblicando anche su alcune riviste italiane. Nell’estate del 1817 inizia a raccogliere appunti con regolarità, registrando riflessioni e spunti di lavoro fino al 1832 su quello che sarà poi lo Zibaldone. Stringe una preziosa amicizia epistolare con Pietro Giordani. Si innamora della cugina per la quale scrive Il primo amore. Si orienta verso la poesia e scrive nel 1818 All’Italia e Sopra il monumento di Dante, oltre che il Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica. Nel 1819 tenta una prima fuga da Recanati, fallendo, e nel 1822 soggiorna per un periodo a Roma dallo zio, ma resta deluso dalla città e dall’ambiente intellettuale romano. Tra il 1819 e 1821 scrive L’infinito, Alla luna, Ad Angelo Mai (1820), La sera del dì di festa, Bruto Minore (1821). Nel 1823 è di nuovo a Recanati; nel 1824 compone la maggior parte delle Operette morali, nello stesso anno escono a Bologna i suoi primi versi. Accetta di curare per l’editore Stella classici greci e latini, collaborazione grazie alla quale riesce a allontanarsi dalla casa paterna. Nel 1825 parte per Milano, poi per Bologna e pubblica un commento al Canzoniere di Petrarca. Nel 1827 si reca a Firenze dove conosce Manzoni, Pietro Viesseux e gli intellettuali dell’Antologia. Si reca poi a Pisa e di nuovo a Recanati a partire dalla fine del 1828 a causa del poco denaro, trasferimento che lo mette a dura prova. Scrive Le ricordanze, Il sabato del villaggio, Il canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Nel 1831 escono i Canti. Grazie all’aiuto di Pietro Colletta e degli amici toscani che gli versano un assegno mensile, Leopardi riesce a spostarsi nuovamente a Firenze e poi nel 1833 a Napoli con l’amico Antonio Ranieri. Muore qui nel 1837. Poetica e idee Nonostante Leopardi all’inizio della sua carriera si schieri vicino alle posizioni classiciste, anche per i suoi studi, moltissimi elementi della sua poetica e del suo stile lo avvicinano al Romanticismo europeo. Si parla di varie fasi del pessimismo, da quello individuale a quello storico e poi cosmico. 1. Pessimismo individuale. Il primo corrisponde all’idea che il dolore sia un fatto personale, dovuto a esperienze vissute individualmente. 2. Pessimismo storico. Con il maturare del pensiero Leopardi con gli anni allarga la sua riflessione, tendendo a valutare che la felicità degli altri è solo apparente, che la vita umana non ha uno scopo per il quale valga la pena di lottare, e che tutti gli uomini sono condannati all'infelicità terrena. Afferma che essi vivevano in uno stato di felicità, per quanto illusoria, solo nell'età primitiva, quando vivevano nello stato di natura, non condizionati dall'incivilimento dovuto alla ragione, ma vollero uscire da questo stato di beata ignoranza per mettersi alla ricerca del vero. La ragione fece evolvere l'uomo e rivelò la vanità delle pie illusioni, scoprì il male, il dolore e l'angoscia. Leopardi giunge così a considerare il dolore come il frutto negativo dell'evoluzione storica: lo sviluppo del sapere razionale ha negato a tutti gli uomini quella spontanea e libera immaginazione che permetteva di trovare conforto al dolore. L'infelicità dell'uomo è dunque un prodotto della ragione moderna, e per Leopardi le epoche passate sono migliori di quelle presenti. La natura, in questa fase del pensiero leopardiano, è ancora considerata benigna, perché, provando pietà per l'uomo, gli ha fornito l'immaginazione, ovvero le illusioni, le quali producono nell'uomo una parvenza di felicità. 3. Pessismismo cosmico. Contrariamente alla sua posizione precedente, afferma che l'infelicità è legata alla stessa vita dell'uomo, destinato quindi a soffrire per tutta la durata della sua esistenza. Per il poeta © Caterina Parrini (che non rinnega comunque la sua dottrina sul piacere come "attesa" e "assenza di dolore"), la natura, che ora viene considerata maligna, dopo aver generato un uomo, tende a eliminarlo per dar luogo ad altri individui in una lunga vicenda di produzione e distruzione, destinata a perpetuare l'esistenza e non a rendere felice il singolo. In altri momenti Leopardi approfondisce la sua meditazione sul problema del dolore e conclude scoprendo che la causa di esso è proprio la natura, perché essa stessa ha creato l'uomo con un profondo desiderio di felicità, pur sapendo che egli non può mai raggiungerla. Leopardi considera la natura come una matrigna crudele e indifferente ai dolori degli uomini, una forza oscura e misteriosa governata e da leggi meccaniche e inesorabili. Il valore della solidarietà e dell’amicizia è l’unica possibilità per l’uomo, che in quello può trovare un barlume di speranza. Leopardi introduce innovazioni anche a livello metrico e stilistico. L’utilizzo della canzone, già usata nel Trecento da Petrarca, è rinnovato grazie alla libertà rispetto a metri e schemi fissi. Egli scrive infatti componimenti con strofe di lunghezza variabile in cui endecasillabi e settenati si alternano liberamente, e versi sciolti, che non seguono uno schema fisso di rime. La musicalità è ricreata grazie a figure retoriche come allitterazioni, anafore e rime nel mezzo del verso. Lo Zibaldone (1817-32 scrittura) Lo Zibaldone di pensieri è una raccolta di 4526 pagine autografe compilate dal luglio 1817 al dicembre 1832, nelle quali Leopardi depositò ragionamenti e brevi scritti sugli argomenti più vari. Inizialmente l'opera non era dotata dell'organicità di un testo letterario, essendo semplicemente il frutto di una scrittura immediata, di getto: Leopardi iniziò a datare i singoli testi solo a partire dal 1820, così da orientarsi agevolmente nel mare magnum di appunti (da lui definiti un «immenso scartafaccio»), arrivando perfino a stilare due indici (nel 1824 e nel 1827). Operette morali (1824-32 scrittura) Le Operette sono una raccolta di 24 prose filosofiche in forma di dialogo o novella scritte tra il 1824 e 1832. Racchiudono l'essenza del pessimismo del poeta, trattando argomenti quali la condizione esistenziale dell'uomo, la tristezza, la gloria, la morte e l'indifferenza della Natura L'Operetta che sancisce il passaggio dal Pessimismo Storico al Pessimismo Cosmico è "Dialogo tra la Natura e un Islandese", in cui la natura viene descritta per la prima volta come "matrigna" e malvagia. Sono: Storia del genere umano, 19 gennaio / 7 febbraio 1824 § Dialogo di Ercole e di Atlante, 10 / 13 febbraio '24 § Dialogo della Moda e della Morte, 15 / 18 febbraio '24 § Proposta di premi fatta dall'Accademia dei Sillografi, 22 / 25 febbraio '24 § Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo, 2 / 6 marzo '24 § Dialogo di Malambruno e di Farfarello, 1 / 3 aprile '24 § Dialogo della Natura e di un'Anima, 9 / 14 aprile '24 § Dialogo della Terra e della Luna, 24 / 28 aprile '24 § La scommessa di Prometeo, 30 aprile / 8 maggio '24 § Dialogo di un fisico e di un metafisico, 14 / 19 maggio '24 § Dialogo della Natura e di un Islandese, 21 / 30 maggio '24 § Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare, 1 / 10 giugno '24 § Dialogo di Timandro e di Eleandro, 14 / 24 giugno '24 § Il Parini, ovvero Della Gloria, 6 luglio / 30 agosto '24 § Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, 16 / 23 agosto '24 § Detti memorabili di Filippo Ottonieri, 29 agosto / 26 settembre '24 § Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez, 19 ottobre / 5 novembre '24 § Elogio degli uccelli 29 ottobre / 5 novembre '24 § Cantico del gallo silvestre 10 / 16 novembre '24 © Caterina Parrini Gioacchino Belli (1791-1863) Giuseppe Gioachino Belli nasce il 7 settembre 1791 a Roma. A seguito della proclamazione della Repubblica francese (1798), il piccolo Gioachino si rifugia con la madre a Napoli dove, per una serie di vicissitudini, conoscono la miseria più nera. Tornato al potere papa Pio VII, il padre Gaudenzio Belli ottiene un buon incarico nel governo pontificio a Civitavecchia. All'età di tredici anni Gioachino viene mandato a scuola dai gesuiti al collegio romano e rimasto presto orfano d'ambedue i genitori, ottenne modesti impieghi privati e pubblici. Intorno al 1810, iniziò la sua carriera letteraria e fondò con altri l'Accademia Tiberina, nel quadro della arretratissima cultura locale, divisa fra sonetteria arcadica e gusto dell'antiquaria. A venticinque anni sposò senza amore e di malavoglia una ricca vedova, Maria Conti, dalla quale ebbe un unico figlio, Cito. Il matrimonio era d'altronde caldeggiato dal cardinale Consalvi, un potentissimo prelato che trova un'ottima sistemazione per il giovane Belli, sistemazione di cui il poeta aveva estremo bisogno. Raggiunta una discreta agiatezza poté dunque dedicarsi con maggiore impegno agli studi e alla poesia, un periodo durante il quale scrisse la maggior parte dei suoi inimitati Sonetti romaneschi. Compì anche numerosi viaggi, a Venezia (1817), a Napoli (1822), a Firenze (1824) e a Milano (1827, 1828, 1829), stabilendo contatti con ambienti culturali più avanzati e scoprendo alcuni testi fondamentali della letteratura sia illuministica che romantica. Nel 1828 si dimise dalla Tiberina e, con un gruppo di amici liberali, apri in casa sua un gabinetto di lettura; ma dopo la morte della moglie (1837), il Belli ripiombò in gravi angustie economiche e morali, oltre a perdere la sua finora inesausta vena poetica. Da quel momento in poi, salvo un breve periodo di ripresa avvenuta a seguito della caduta della Repubblica Romana da lui duramente avversata, Belli si chiude in un definitivo silenzio, arrivando addirittura a rinnegare tutta la sua produzione precedente, per paura che questa nuocesse alla carriera del figlio, impiegato nella amministrazione pontificia. Per questo incaricò l'amico monsignor Tizzani di distruggerla dopo la sua morte, che avviene a Roma il 21 dicembre 1863. Fortunatamente, l'amico si guardò bene dall'eseguire la volontà del poeta, salvaguardando un inestimabile patrimonio di versi e anzi consegnando il corpus delle opere belliane quasi integralmente, al figlio di lui. Sonetti romaneschi (1831-37 stesura, pubbl. postuma) Si tratta della produzione più corposa di poesie durante l'Ottocento: consta di ben 2279 sonetti, un compendio delle contraddizioni della plebe romana, i cui personaggi sono di volta in volta strumenti e bersagli della satira; tipi umani, psicologici e sociali - che oscillano in un registro che va dal comico all'ironico al grave - ben rappresentano la diversità di un microcosmo unico, ma anche esprimono opinioni individuali, di gruppo o corali. Le vicende descritte dai sonetti, lungi dall'appiattire la rappresentazione della plebe romana all'uniformità, sottolineano il carattere naturale e spontaneo dei popolani. Possiamo individuare due aspetti: § La descrizione della vita popolare - non imbrigliata dall'educazione né condizionata dalla civilizzazione - in bozzetti, con intenti comico-parodistici, ma anche spietatamente critici. Narrazione dei vari lavori bassi del popolo affamato e ignorante, che si lascia liberamente governare dai potenti di turno, confidando solamente nell'ideologia di tirare a campare, o nell'affidamento a rituali magici e superstiziosi. § La seconda parte è molto simile ai sonetti delle "pasquinate", ovvero motteggi e frecciate contro il potere e i suoi massimi rappresentanti: la Chiesa, la politica, i magistrati, gli intellettuali. La Roma papalina è descritta da Belli come una sorta di inferno dantesco, dove ogni peccato e corruzione ha una determinata casta della popolazione, e un preciso luogo nel centro antico. Tra i più bersagliati dal Belli vi è il Rione Borgo, uno dei più malfamati e degradati della città, assieme alla Suburra. Il tono di Belli tuttavia è quello canzonatorio, mai spietato, aggressivo e feroce, come fosse rassegnato alla descrizione di una "commedia" dantesca in forma di pantomima, in cui i personaggi dei ceti sociali alti e bassi sono collegati, pur nelle loro opposizioni, fra loro, nel grande ventre di Roma. © Caterina Parrini Il Verismo La seconda metà dell’Ottocento è caratterizzata dal ritorno al realismo, influenzato anche dal movimento filosofico positivista, che diffondeva una nuova fiducia nelle possibilità della scienza e dell’uomo. Dal punto di vista letterario nasce in Francia il Naturalismo, il cui scopo è secondo Zola quello di rappresentare la realtà in modo oggettivo e distaccato. In Italia, gli stessi criteri ispirano il Verismo e in particolare Verga, che concentra l’attenzione sulle misere condizioni di vita dei pescatori e dei contadini siciliani, condannati a un destino di povertà da cui è impossibile fuggire. Gli esponenti sono Luigi Capuana e Federico De Roberto; altri scrittori che si rifanno alla corrente sono Matilde Serao, Salvatore Di Giacomo, Grazia Deledda. Il Verismo inaugura un nuovo modo di raccontare: § l’esposizione deve essere oggettiva e impersonale § l’autore non deve mai comparire nella storia, ma fungere da macchina da presa § i personaggi devono esprimersi in modo realistico per la loro collocazione geografica e appartenenza sociale § i luoghi e i personaggi devono essere descritti in modo minuzioso e realistico Nel Naturalismo francese c’è una maggiore fiducia nel potere sociale e politico del romanzo; Verga, invece, non crede che la letteratura possa modificare la condizione dei “vinti”. Giovanni Verga (1840-1922) Nasce a Catania nel 1840 da famiglia borghese ma che vantava antiche tradizioni nobiliari. Fu allievo di un poeta di gusto romantico, A. Abate, e ne subì l'influsso nei suoi primi romanzi: Amore e patria (1857), rimasto inedito, e I Carbonari della montagna (4 voll., 1861-62), racconto storico sul periodo murattiano; ma già tra il 1862 e il 1863 pubblicava nel giornale fiorentino La nuova Europa un romanzo d'argomento contemporaneo: Sulle lagune. Si era iscritto (1858) alla facoltà di giurisprudenza di Catania, ma non proseguì gli studi. Dal 1860 al 1864 fece parte della guardia nazionale. Dopo un primo viaggio a Firenze (1865), nel 1866, con Una peccatrice, cominciò la serie dei romanzi passionali, che comprende Storia di una capinera (1871), Eva, Tigre reale, Eros (1875. Del 1876 è la prima raccolta di novelle (Primavera e altri racconti). Lo scrittore si era intanto stabilito a Firenze (1869-71), poi (1872) a Milano, dove prevalentemente visse fino al 1893. Nel 1869 aveva conosciuto a Firenze Giselda Foianesi che poco dopo (1872) sposò M. Rapisardi, ma ebbe in seguito un'intensa relazione con Verga. Il lungo soggiorno milanese diede a V. una maggiore esperienza dei problemi artistici e della vita italiana: il tardo romanticismo, la Scapigliatura, la crisi della società risorgimentale, le suggestioni degli ambienti mondani. Di qui il fondo letterario della sua prima maniera, e quell'infatuazione cupa e passionale che è insieme reminiscenza libresca e irrisolto residuo autobiografico. Ma il deciso inizio della seconda maniera è segnato dalle novelle di Vita dei campi (1880): un verismo asciutto, rapido, animato da sentimenti autentici e da vivo amore per il paese natio, eppure talvolta irrigidito da un presupposto sistematico in specie nell'eccessiva carica dialettale dello stile; ma sono qui alcune delle pagine più valide di V.: Fantasticheria e L'amante di Gramigna. Con I Malavoglia V. dà inizio a un ciclo narrativo, I vinti (inizialm. intitolato La marea), articolato in cinque romanzi: oltre I Malavoglia, Mastro don Gesualdo, La duchessa di Leyra, L'onorevole Scipioni, L'uomo di lusso, e dunque la storia di cinque sfortunate ambizioni, da quelle della povera gente in cerca dei mezzi materiali per sostenersi a quelle del raffinato aristocratico (ma nella composizione del ciclo V. non andò oltre il primo capitolo del terzo romanzo, che fu pubbl. post. da F. De Roberto, 1922). Subito dopo I Malavoglia V. pubblicò (1882) Il marito di Elena, che nasce dalla stessa filosofia della vita de I Malavoglia; poi le Novelle rusticane (1883; ed. defin. 1920), dove si continuano o si preannunciano motivi dei due romanzi maggiori; quindi Per le vie (1883), novelle dov'è ritratta, con la solita asciuttezza di © Caterina Parrini tono e rapidità di ritmo, la vita dei bassifondi milanesi e nelle quali, come in una raccolta posteriore, Don Candeloro e C.i (1894), V. abbandona il regionalismo nativo per rientrare negli ambienti caratteristici del realismo straniero, rappresentando con ironica amarezza bozzetti di vita teatrale o piccolo-borghese. Stanno di mezzo fra quel regionalismo e questo realismo le novelle di Vagabondaggio (1887), mentre su un registro di più ironica rappresentazione si collocano I ricordi del capitano d'Arce (1891). Ma certo l'opera di maggiore impegno di quegli anni, come testimonia la sua lunga elaborazione (tre stesure: 1884, 1888, 1889), è il romanzo Mastro don Gesualdo. Negli anni che corrono fra il 1881 e il 1889 V. ha conquistato una tecnica più potente, un fare più complesso, più sensibile, che si manifesta nella preparazione discreta e pietosa di alcuni episodi, nella costruzione dei capitoli. Di particolare vivezza anche il paesaggio, ove il protagonista porta tutta la sua sofferta inquietudine: paesaggio dei campi e della cittadina siciliana, popolata da tipi umani diversissimi. A completare l'esperienza letteraria di V. venne a inserirsi a un certo momento nell'attività narrativa una interessante produzione teatrale (sovente ispirata, nell'argomento, a trame di racconti dello stesso autore), che introducendo sulle scene un linguaggio scarno ed essenziale contribuì a combattere i residui sentimentali del teatro borghese del tempo: Cavalleria rusticana (1884); In portineria (1885); La Lupa (1896); La caccia al lupo (1902); La caccia alla volpe (1902); Dal tuo al mio (1903); Rose caduche (composta tra il 1873 e il 1875; pubbl. post., 1928). Anche nel teatro l'ispirazione più alta si attua nel vigoroso racconto di una dolente umanità, specialmente nell'opera più valida, Tornato a Catania, V. visse in uno scontroso riserbo, dedicandosi, negli ultimi anni, all'amministrazione dei suoi beni; solo nel 1919 fu riconosciuto dalla più autorevole critica (L. Russo) il valore della sua opera. Due anni prima della morte avvenuta nel 1922 gli giunse la nomina a senatore. Poetica e idee Verga si dedicherà principalmente alla forma-romanzo con protagonisti personaggi umili, i “vinti”, per loro non c’è possibilità di riscatto. Nell’universo di Verga è assente la speranza della fede, non esiste la Provvidenza. L’universo descritto è un universo chiuso, in cui è assente la possibilità di rivincita e evoluzione sociale (morale dell’ostrica): chi cerca di cambiare la sua posizione, finisce per essere schiacciato. La lingua è connotata da espressioni dialettali e da modi di dire e proverbi popolari, anche se la lingua di riferimento resta l’italiano. Lo sguardo del narratore è obiettivo, la narrazione oggettiva. I personaggi sono introdotti senza descrizione, direttamente nell’ambiente in cui vivono e li conosciamo attraverso ciò che dicono e fanno. Verga non ebbe immediato successo di critica e pubblico, che lo considerava eccessivamente triste e difficile, preferendogli letteratura d’evasione. Solo grazie a Capuana che ne sottolineò gli aspetti innovativi, l’opera di Verga arrivò piano piano al grande pubblico, fino a che, nel dopoguerra, non venne compresa la sua attualità. I Malavoglia (1881 pubbl.) Il romanzo è scritto dal 1878 al 1880 e esce nel 1881, senza riscuotere successo. è formato da 15 capitoli. La vicenda si svolge tra il 1863 e il 1877. I Malavoglia ritraggono la storia d'una poverissima famiglia di pescatori siciliani e la triste sorte di quello d'essi che ha tentato di sottrarsi all'umile e faticoso lavoro: il giovane 'Ntoni. La forza poetica del romanzo sta nell'amara rassegnazione dei "vinti" dinanzi all'accanirsi del destino. La rassegnazione è dolorosissima ma nei cuori oppressi dall'angoscia splende il senso di una legge primitiva e insopprimibile: l'attaccamento alla famiglia e all'onestà tradizionale. I Malavoglia sono un poema più che un romanzo. Si può dividere l'intera opera fondamentalmente in tre parti: § La prima parte (capitoli I-IV) inizia con la presentazione dei membri della famiglia Toscano, in ordine di età, alla quale seguono la partenza di 'Ntoni per il servizio militare, lo sfortunato affare dei lupini e la © Caterina Parrini § Il mistero § Malaria § Gli orfani § La roba (1880): storia di Mazzarò che vorrebbe in punto di morte, portare con sé tutta la roba che ha accumulato in vita § Storia dell'asino di S. Giuseppe § Pane nero § I galantuomini § Libertà (1882): la rivolta dei contadini di Bronte avvenuta nel 1860 § Di là del mare Nelle dodici novelle raccolte in Per le vie (1883) va in scena il mondo milanese e sono rappresentati personaggi malinconici e solitari. § Il Bastione di Monforte § In piazza della Scala § Al veglione § Il canarino del n. 15 § Amore senza benda § Semplice storia § L'osteria del "Buoni Amici" § Gelosia § Camerati § Via Crucis § Conforti § L'ultima giornata Nel 1887 appare Vagabondaggio, dodici novelle segnate ancora dal contatto col mondo agricolo siciliano. § Vagabondaggio § Il maestro dei ragazzi § Un processo § La festa dei morti § Artisti da strapazzo § Il segno d'amore § L'agonia di un villaggio § ...E chi vive si dà pace § Il bell'Armando § Nanni Volpe § Quelli del colèra § Lacrymae Rerum Molto diversa è l’esperienza de I ricordi del Capitano D'Arce (1891), costruita sulle vicende sentimentali della moglie di un capitano di marina. § I ricordi del Capitano d'Arce § Giuramenti di marinaio § Commedia da salotto § Né mai, né sempre! § Carmen § Prima e poi § Ciò ch'è in fondo al bicchiere § Dramma intimo § Ultima visita © Caterina Parrini § Bollettino sanitario L’ultima raccolta è Don Candeloro e C. (1894) che ruota attorno al ondo del teatro dove la realtà non riesce a separarsi dalla finzione della scena. § Don Candeloro e C. § Le marionette parlanti § Paggio Fernando § La serata della diva § Il tramonto di Venere § Papa Sisto § Epopea spicciola § L'opera del Divino Amore § Il peccato di donna Santa § La vocazione di suor Agnese § Gli innamorati § Fra le scene della vita Teatro Il teatro di Verga nasce spesso dal riadattamento di novelle e racconti. Cavalleria rusticana, interpretata nel 1884 da Eleonora Duse, ottenne un grande successo e fu poi musicata da Mascagni. Sulla scia di questo successe produsse In portineria e il dramma Dal tuo al mio, rappresentato a Milano nel 1903, che non ebbero successo. Il dramma, sullo sfondo storico dei Fasci siciliani del 1894, parla della politica italiana e del cancro del trasformismo. © Caterina Parrini Carlo Lorenzini, detto Collodi (1826-1890) Nasce a Firenze. Repubblicano, partecipò alle guerre d’indipendenza e lavorò come giornalista. Scrisse per i bambini, oltre a Pinocchio (1881 a puntate, 1883 volume), Giannettino (1876) e Minuzzolo (1877). Compose anche racconti, macchiette e bozzetti, alcuni dei quali di notevole valore artistico. Dal 12 aprile di quell'anno, e fino all'8 dicembre 1886, fu direttore del Giornale per i Bambini. All'apice del successo, il 26 ottobre 1890, Collodi si sentì male sulle scale di casa mentre stava rientrando, alle 22:30. Portato nel suo letto, morì pochi minuti dopo, forse per un aneurisma, poco meno di un mese prima di compiere 64 anni. Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino La prima metà apparve originariamente a puntate tra il 1881 e il 1882, pubblicata come La storia di un burattino, poi completata nel libro per ragazzi uscito a Firenze nel febbraio 1883. Racconta le esperienze accidentali di una marionetta animata, Pinocchio, scolpita e prediletta da Mastro Geppetto, un povero falegname che si considera come suo padre. Benché sia stato scritto nel 1881, il romanzo è ambientato in un'epoca storica precedente, presumibilmente ai tempi del Granducato di Toscana o all'indomani dell'Unità d'Italia. Pinocchio è un'icona universale e una metafora della condizione umana. Federico De Roberto (1861-1927) Nacque a Napoli nel 1861, da Federico senior, ex ufficiale di stato maggiore del Regno delle Due Sicilie e dalla nobildonna di origini catanesi, ma nata a Trapani, Marianna Asmundo. Trasferitosi con la famiglia a Catania nel 1870 (a nove anni) dopo che il giovanissimo Federico subì la dolorosa perdita del padre, travolto da un treno sui binari della stazione di Piacenza. Da allora, salvo una lunga parentesi milanese e una più breve a Roma, Federico visse all'ombra gelosa della figura materna, donna Marianna Asmundo Ferrara, che con la sua personalità forte e possessiva esercitò un grande influsso sulla vita del figlio. Svolse un’intensa attività giornalistica, critica e saggistica. Si occupò di Leopardi e di Flaubert, ma anche di Verga. Negli ultimi anni di vita aderì al nazionalismo e promosse l’interventismo in occasione della Grande Guerra. Alla morte del Verga, nel 1922, il De Roberto riordinò in modo accurato le opere del grande scrittore suo conterraneo ed iniziò uno studio biografico e critico che però rimase interrotto per la sua prematura morte avvenuta a Catania per un attacco di flebite il 26 luglio 1927 nella casa di via Etnea 221, a pochi passi dal Giardino Bellini. De Roberto riprende da Verga e da Capuana la concezione dell’impersonalità come metodo volto a far aderire la forma al soggetto scelto. Si ispira al mondo nobiliare e borghese. I Viceré (1894) Dopo il primo romanzo, L’illusione, del 1891, De Roberto compone quello che sarà il suo capolavoro. La narrazione è incentrata sulle vicende della famiglia Uzeda per circa un trentennio. è quindi definibile come romanzo storico, ma senza nessuna fiducia nella storia, vista come perenne sopraffazione dei più forti a danno dei più deboli. Trama Inizia nel 1855 con la morte della principessa Teresa Uzeda di Francalanza, crudele e dispotica, che nomina eredi due figli, il primogenito Giacomo e il prediletto terzogenito Raimondo, lasciando solo legati minori agli © Caterina Parrini § L'incendio nell'oliveto, Milano, Treves, 1918. § Il ritorno del figlio; La bambina rubata. Novelle, Milano, Treves, 1919. § La madre, Milano, Treves, 1920. § Il segreto dell'uomo solitario, Milano, Treves, 1921. § Il Dio dei viventi, Milano, Treves, 1922. § Il flauto nel bosco. Novelle, Milano, Treves, 1923. § La danza della collana, Milano, Treves, 1924. § La fuga in Egitto, Milano, Treves, 1925. § Il sigillo d'amore, Milano, Treves, 1926. § Annalena Bilsini, Milano, Treves, 1927. § Il fanciullo nascosto, Milano, Treves, 1928. § Il vecchio e i fanciulli, Milano, Treves, 1928. § Il dono di Natale, Milano, Treves, 1930. § Giaffà. Racconti per ragazzi, Palermo, R. Sandron, 1931 § Il paese del vento, Milano, Treves, 1931. § La vigna sul mare, Milano-Roma, Treves-Treccani-Tumminelli, 1932. § Sole d'estate, Milano, Treves, 1933. § L'argine, Milano, Treves, 1934. § La chiesa della solitudine, Milano, Treves, 1936. § Cosima, in "Nuova Antologia", 16 settembre e 16 ottobre 1936; Milano, Treves, 1937. Giosuè Carducci (1835-1907) Nasce il 27 luglio 1835 a Valdicastello, vicino Lucca, e fino al 1839 vive immerso nel meraviglioso paesaggio toscano della Maremma. Nella sua esperienza personale, questi anni in Toscana rivestono un ruolo fondamentale per la formazione della sua sensibilità: l’immagine di una natura incontaminata, energica e vitale accompagnerà tutta la sua produzione poetica. Dopo i primi studi, nel 1853 viene ammesso alla Scuola Normale Superiore di Pisa dove uscirà, laureato in Filologia, nel 1856. Passando da Pisa a Firenze, negli anni successivi all’Università, partecipa agli incontri della società “Amici Pedanti” che si batteva per un immediato ritorno al classicismo della letteratura contro la modernità e le nuove idee del Romanticismo, un dibattito molto sentito in Italia all’epoca in quanto ogni intellettuale e letterato del tempo si schierava – e lottava – a favore o contro il classicismo in contrasto con le idee romantiche. Suo fratello muore suicida e presto anche il padre passa a miglior vita lasciando Carducci responsabile per la madre e per l’altro fratello. Sono comunque anni di intensa attività editoriale, non si da per vinto, cura varie edizioni di classici italiani e, negli stessi anni, sposa Elvira Menicucci da cui ebbe quattro figli. Nel 1859 cade il Granducato di Toscana, evento questo che suscita in lui un grande entusiasmo in vista dei moti risorgimentali, e fino agli anni immediatamente successivi all’Unità d’Italia insegnerà prima in un liceo di Pistoia poi all’Università di Bologna, dove vive a partire dal 1860. In questo periodo sale in lui una crescente delusione verso la nuova classe dirigente dello Stato Unitario – è soprattutto insofferente verso la mancata liberazione di Roma - e comincia ad appoggiare ideali repubblicani e giacobini fino ad un aspro anticlericalismo, tutti atteggiamenti questi che lo metteranno in cattiva luce davanti al governo ufficiale che arriverà addirittura a sospenderlo dall’insegnamento. Il 1870 si apre per Giosuè Carducci con altri gravi lutti: perde la madre e uno dei figli avuti nel primo matrimonio. Si accompagna però a questo dolore un grande successo come poeta, pubblica una raccolta di poesie e comincia una nuova relazione amorosa con una donna intellettuale entrata in contatto con lui, inizialmente, attraverso scambi epistolari: Carolina Cristofori Piva. © Caterina Parrini Intanto il suo atteggiamento giacobino si affievolisce gradualmente e nel 1876 viene candidato come democratico alle elezioni parlamentari. Pian piano comincia ad accettare il ruolo dei monarchici Savoia come garanti dell’Unità italiana e, dopo l’incontro con la regina Margherita a Bologna, nel novembre del 1878, fu tanto grande per lui il fascino esercitato dalla donna che scrisse un’ode Alla regina d’Italia avviandosi così, definitivamente, verso gli ideali monarchici. Non solo: Giosuè Carducci diventa il vate dell’Italia umbertina e viene nominato, nel 1890, senatore del Regno. Gli ultimi anni continuano ad essere caratterizzati da una febbrile attività editoriale e poetica consacrando la sua posizione di poeta ufficiale dell’Italia monarchica. Vince il premio Nobel per la letteratura nel 1904 e a pochissimi anni da questo meritato successo muore a Bologna, per una broncopolmonite, il 16 febbraio del 1907. Poetica e idee Carducci ripropone un classicismo vitale ed energico che viene ad imporsi nella cultura italiana come un modello elevato di comunicazione poetica che si mescola con un grande bisogno di realismo. La poesia deve, attraverso un linguaggio e tematiche riprese dal mondo greco e latino, raccontare la realtà contemporanea senza introdurre elementi surreali o inquietanti come quelli del romanticismo. La storia, rappresentata e rivisitata con uno sguardo affascinato che abbraccia tutte le epoche (con particolare riguardo al Medioevo e alla Rivoluzione Francese). Nella storia Carducci vuole scorgere gli ideali di vita laica e repubblicana in cui crede, la virtù dell’uomo che si costruisce da solo, lontano dalla superstizione religiosa. Il processo storico appare un crescendo verso una degradazione attuale e borghese sul cui sfondo si staglia un originario sfondo paesano e popolare che rivive attraverso il ricordo della Maremma toscana negli anni della sua infanzia. Il mondo maremmano diventa arcaico, genuino, un mondo distruttivo governato dalla natura, anche quella più crudele che gli porta via il figlioletto. Da questo punto di vista è utile ricordare Pianto Antico (1871). Questi temi si svolgono attraverso un linguaggio spesso cupo che si alterna con quello aulico e ricercato del suo più spiccato classicismo. C’è una malinconia sotterranea nei suoi versi, un senso di decadenza e un grigiore evidente. Rime nuove (1887) Nella raccolta Rime nuove (1861-1887), che è preceduta da un Intermezzo, si colgono gli echi e i motivi di Hugo, von Platen, Goethe, Heine, Baudelaire e Poe. In essa i contenuti e le forme derivano in gran parte dai precedenti scritti ma maggiormente approfonditi e maturi. Tra i temi che emergono nelle Rime nuove un posto rilevante è assunto dal culto del passato e delle memorie storiche dove il sogno della realizzazione di una società egualitaria e liberale si avverte soprattutto attraverso l'esaltazione dell'età dei comuni che vengono presi come esempio di sanità morale e di vita civile. Accanto al sogno, sul piano storico, di un popolo libero e primitivo, corrisponde sul piano sentimentale quello di un'infanzia libera e ribelle che si riversa sul paesaggio maremmano, come nel caso del sonetto Traversando la Maremma toscana, uno forse tra i più belli e noti del poeta. Anche Pianto antico è molto significativo. Odi barbare (1889) Le Odi barbare sono una raccolta di cinquanta liriche scritte tra il 1873 e il 1889. Rappresentano il tentativo del Carducci di riprodurre la metrica quantitativa dei Greci e dei Latini con quella accentuativa italiana. I due sistemi sono decisamente diversi, ma già altri poeti prima di lui si erano cimentati nell'impresa, dal Quattrocento in poi, su tutti Leon Battista Alberti, Gabriello Chiabrera e specialmente Giovanni Fantoni. Egli pertanto chiama le sue liriche barbare perché tali sarebbero sembrate non solo ad un Greco o ad un Latino, ma anche a molti Italiani. Predominano nelle Odi barbare il tema storico e quello paesaggistico con accenti più intimi, come nella poesia Alla stazione in una mattina d'autunno. E ancora una volta i temi fondamentali della poesia carducciana sono gli affetti familiari, l'infanzia, la natura, la storia, la morte accettata con virile tristezza come nella poesia Nevicata. © Caterina Parrini Il Decadentismo Alla fine dell’Ottocento il Positivismo aveva esaurito la sua energia, così come la fiducia negli Stati liberali e nella borghesia. Nasce la psicoanalisi, viene introdotta la teoria della relatività. Tra il 1890 e il 1920 si parla sempre di più di crisi della scienza, crisi della ragione e di decadentismo. Le istanze che vengono portate avanti sono: § sfiducia nella ragione e nelle sue possibilità di conoscere il reale § l’artista, con le sue capacità, può interpretare la realtà, fino ad arrivare a essere quasi un veggente § l’arte al di sopra di tutto, anche della morale corrente § l’attenzione alla natura, ai suoi suoni e sensazioni § la bellezza come ideale a cui ispirare la propria vita (>estetismo) § la chiusura dell’uomo in se stesso, incomunicabilità e il distacco dell’intellettuale Giovanni Pascoli (1855-1912) Nasce a San mauro di Romagna, quarto dei numerosi figli di Ruggero e di Caterina Vincenzi Alloccatelli Vincenzi. Dal padre, Ruggiero, amministratore della tenuta La Torre dei principi Torlonia, lungo il Rio Salto, fu mandato a studiare, dopo la prima elementare, a Urbino, nel collegio Raffaello, tenuto dagli Scolopi. Qui egli si trovava con i fratelli Luigi e Giacomo, più grandi di lui, e Raffaele, quando lo raggiunse la notizia della morte del padre, ucciso in un agguato il 10 agosto 1867, mentre tornava in calesse da Cesena, dove si era recato per affari. L'assassino restò impunito, anche se non mancarono i sospetti, a lungo coltivati da Pascoli. L'anno dopo morirono la sorella maggiore, Margherita, e la madre, seguite dai fratelli Luigi (1871) e Giacomo (1876). Dal 1873, vinta una borsa di studio, Giovanni si era trasferito a Bologna a studiare lettere, allievo di G. Carducci, entrando in un periodo di sbandamento spirituale e d'irrequietezza. Amico di Andrea Costa, aderì ai primi movimenti socialisti e si legò agli ambienti dell'estremismo. Per aver partecipato, nel maggio 1876, a una manifestazione ostile nei confronti del ministro dell'Istruzione, R. Bonghi, perse la borsa di studio; dal 7 sett. al 22 dic. 1879 fu addirittura in carcere, accusato di attività sovversive. Ripresi nel 1880 gli studi interrotti, P. si laureò nel 1882 con una tesi su Alceo; subito dopo fu nominato professore di lettere latine e greche nel liceo di Matera; nel 1884 fu trasferito con lo stesso incarico a Massa, dove chiamò presso di sé le sorelle Ida (n. 1863) e Maria (n. 1865); dal 1887 al 1895 insegnò al liceo di Livorno. Dal 1895 al 1897, P. insegnò come professore straordinario grammatica greca e latina nell'università di Bologna; dal 1897 al 1903, come ordinario, letteratura latina a Messina; nel 1903 fu trasferito a Pisa, dove insegnò grammatica latina e greca sino al 1905, quando fu chiamato a succedere al Carducci sulla cattedra bolognese di letteratura italiana. Il prestigioso trasferimento, accettato come risarcimento tardivo, non rimase senza conseguenze per l'opera stessa del poeta. Più volentieri peraltro che alle relazioni intellettuali e all'insegnamento universitario, da lui sentito come un peso, P. applicava il suo ingegno allo studio e al lavoro poetico, a cui amava dedicarsi soprattutto in quella casa di Castelvecchio in Garfagnana, dove s'era sistemato nell'estate del 1895 e che soltanto nel 1902 aveva potuto acquistare. Qui si ritrovava con Maria, la sua Mariù (procurandogli un grande dolore, Ida s'era sposata il 30 settembre di quello stesso anno 1895, mentre egli aveva rinunciato ai propri propositi matrimoniali), appena glielo permettevano i doveri dell'insegnamento, e qui venne seppellito, pur essendo morto a Bologna nel 1912. Opere § Myricae (1891-1900 ed def.): 22 poesie inizialmente, fino a arrivare a 156, grande varietà di metri. Titolo si rifà a una egloga di Virgilio. © Caterina Parrini Novecento Luigi Pirandello (1867-1936) Nasce a Girgenti da una famiglia di proprietari terrieri. Dopo il liceo a Palermo, si fidanzò con la cugina e si trasferì a Roma, dove frequentò lettere. Nel 1889 si trasferì all’Università di Bonn, dove si laureò due anni dopo. Di questi anni sono i primi componimenti (Mal giocondo 1889, Pasqua di Gea 1891). Rotto il fidanzamento, torna a Roma e inizia a frequentare ambienti intellettuali. Nel 1901 pubblica L’esclusa. Nel 1894 si sposò e accettò l’insegnamento della lingua italiana al magistero di Roma. A causa dell’allagamento di una delle miniere di zolfo di famiglia, le condizioni economiche peggiorano, come l’equilibrio psicologico della moglie; è costretto per arrotondare a lavorare duramente per riviste e giornali. Pubblica in questi anni Il fu Mattia Pascal (1904), I vecchi e i giovani (1909), Suo marito (1913), Si gira... (1915) e due volumi saggistici, Arte e scienza e L’umorismo (1908). Il 1910 esordisce come autore teatrale. La malattia della moglie peggiora ed è costretto al ricovero in una causa di cura nel 1919, dove morirà nel 1959; sono anni di grande solitudine. La rappresentazione di Sei personaggi in cerca di autore (1921) e Enrico IV (1922) gli portano una enorme fama che gli permette di lasciare l’insegnamento e di dedicarsi alla regia, fondando poi il Teatro d’arte di Roma. Lì fu scritturata Marta Abba, compagnia di vita e sua attrice prediletta. Nel 1924 si iscrive al partito fascista, ma i suoi lavori non furono ben accolti dal regime. Gli ultimi anni li trascorse spesso all’estero. Nel 1934 riceve il premio Nobel. Muore a Roma nel 1936. Teatro Prima fase - Teatro Siciliano Nella fase del Teatro Siciliano Pirandello è alle prime armi e ha ancora molto da imparare. Anch'essa come le altre presenta varie caratteristiche di rilievo; alcuni testi sono stati scritti interamente in lingua siciliana perché considerata dall'autore più viva dell'italiano e capace di esprimere maggiore aderenza alla realtà. § La morsa e Lumìe di Sicilia Roma, Teatro Metastasio, 9 dicembre 1910; § Il dovere del medico, Roma, Sala Umberto, 20 giugno 1913; § La ragione degli altri, Milano, Teatro Manzoni, 19 aprile 1915; § Cecè, Roma, Teatro Orfeo, 14 dicembre 1915; § Pensaci, Giacomino!, Roma, Teatro Nazionale, 10 luglio 1916; § Liolà, Roma, Teatro Argentina, 4 novembre 1916; Seconda fase – il teatro umoristico grottesco § Così è (se vi pare), Milano, Teatro Olimpia, 18 giugno 1917; § Il berretto a sonagli, Roma, Teatro Nazionale, 27 giugno 1917; § La giara, Roma, Teatro Nazionale, 9 luglio 1917; § Il piacere dell'onestà, Torino, Teatro Carignano, 27 novembre 1917; § La patente, Torino, Teatro Alfieri, 23 marzo 1918 § Ma non è una cosa seria, Livorno, Teatro Rossini, 22 novembre 1918; § Il giuoco delle parti, Roma, Teatro Quirino, 6 dicembre 1918; § L'innesto, Milano, Teatro Manzoni, 29 gennaio 1919; § L'uomo, la bestia e la virtù, Milano, Teatro Olimpia, 2 maggio 1919; § Tutto per bene, Roma, Teatro Quirino, 2 marzo 1920; § Come prima, meglio di prima, Venezia, Teatro Goldoni, 24 marzo 1920; § La signora Morli, una e due, Roma, Teatro Argentina, 12 novembre 1920; © Caterina Parrini Terza fase – Il teatro nel teatro § Sei personaggi in cerca d'autore, Roma, Teatro Valle, 10 maggio 1921; § Enrico IV, Milano, Teatro Manzoni, 24 febbraio 1922; § All'uscita, Roma, Teatro Argentina, 29 settembre 1922; § L'imbecille, Roma, Teatro Quirino, 10 ottobre 1922; § Vestire gli ignudi, Roma, Teatro Quirino, 14 novembre 1922; § L'uomo dal fiore in bocca, Roma, Teatro degli Indipendenti, 21 febbraio 1923; § La vita che ti diedi, Roma, Teatro Quirino, 12 ottobre 1923; § L'altro figlio, Roma, Teatro Nazionale, 23 novembre 1923; § Ciascuno a suo modo, Milano, Teatro dei Filodrammatici, 22 maggio 1924; § Sagra del Signore della Nave, Roma, Teatro Odescalchi, 4 aprile 1925; § Diana e la Tuda, Milano, Teatro Eden, 14 gennaio 1927; § L'amica delle mogli, Roma, Teatro Argentina, 28 aprile 1927; § Bellavita, Milano, Teatro Eden, 27 maggio 1927; • di uno o di nessuno, Torino, Teatro di Torino, 4 novembre 1929; § Come tu mi vuoi, Milano, Teatro dei Filodrammatici; 18 febbraio 1930; § Questa sera si recita a soggetto, Torino, Teatro di Torino, 14 aprile 1930; § Trovarsi, Napoli, Teatro dei Fiorentini, 4 novembre 1932; § Quando si è qualcuno, Buenos Aires, Teatro Odeón, 20 settembre 1933 (in spagnolo); § La favola del figlio cambiato, Roma, Teatro Reale dell'Opera, 24 marzo 1934; § Non si sa come, Roma, Teatro Argentina, 13 dicembre 1935; § Sogno, ma forse no, Lisbona, Teatro Nacional, 22 settembre 1931. Romanzi § 1901 - L'esclusa, pubblicato a puntate su La Tribuna; in volume: Milano, Fratelli Treves, 1908. § 1902 - Il turno, Catania, Niccolò Giannotta, Editore. § 1904 - Il fu Mattia Pascal, Roma, Nuova antologia. § 1911 - Suo marito, Firenze, Edizioni Quattrini (poi Giustino Roncella nato Boggiolo, in Tutti i romanzi, Milano, Mondadori, (1941) § 1913 - I vecchi e i giovani, 2 volumi, Milano, Fratelli Treves. § 1916 - Si gira..., Milano, Fratelli Treves (poi Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Firenze, R. Bemporad & figlio, 1925). § 1926 - Uno, nessuno e centomila, Firenze, R. Bemporad & figlio. Novelle per un anno Pirandello è uno dei più grandi scrittori di novelle, raccolte dapprima nell'opera Amori senza amore. In seguito l'autore si dedicò maggiormente, per tutta la sua vita, cercando di completarla, alla raccolta Novelle per un anno, così intitolata perché il suo intento era quello di scrivere 365 novelle, una per ogni giorno dell'anno. Arriverà a 241 nel 1922, solo postume ne usciranno ancora 15. Escono a Firenze per Bemporad nel 1922-1928; a Milano, Mondadori, nel 1934-1937. © Caterina Parrini Italo Svevo (1861-1928) Nasce a Trieste da una famiglia ebrea di origine tedesca di agiati commercianti. Studia coi fratelli in un collegio in Baviera. Tronato a Trieste si iscrive all’Istituto superiore commerciale e inizia a collaborare nel 1880 con il giornale triestino L’Indipendente. Lo stesso anno, a causa del fallimento economico del padre, deve accettare un incarico in banca, dove rimarrà circa venti anni. Nel 1892 pubblica a sue spese Una vita, che non riscosse successo. Nel 1895 si sposa con la figlia di un ricco industriale, rinunciando alla sua fede ebraica per un rito cattolico. In seguito al secondo insuccesso col romanzo Senilità (1898), lascia il lavoro per entrare nell’azienda del suocero, ma continua a scrivere senza pubblicare. Compie viaggi in Francia e Inghilterra. Conosce nel 1905 Joyce. Tra il 1909 e il 1910 conosce la psicoanalisi freudiana. Dal 1919 inizia a scrivere La coscienza di Zeno, che pubblica nel 1923, ricevendo la recensione di Montale che ne agevola il riconoscimento da parte del pubblico francese. Muore per un incidente d’auto nel 1928. Opere § Una vita (1892) § Senilità (1898) § La coscienza di Zeno (1923) § Racconti come L’assassinio di via Belpoggio (1890), La tribù (1897), Lo specifico del dottor Menghi (1904), ecc. © Caterina Parrini Giuseppe Ungaretti (1888-1970) Figlio di genitori toscani, nasce a Alessandria d’Egitto, dove trascorre la giovinezza. Nel 1912 si sposta a Parigi dove frequenta alcuni intellettuali, tra cui Picasso e Marinetti. Allo scoppio della Prima GM si arruola e combatte sul Carso come volontario. Nel 1942 Ungaretti ritornò in Italia e venne nominato Accademico d'Italia e, "per chiara fama", professore di letteratura moderna e contemporanea presso l'Università "La Sapienza" di Roma. Muore a Milano nel 1970. Opere § Il porto sepolto, 1923. § Natale, Napoli, 26 dicembre 1916. § Allegria di naufragi, Firenze, Vallecchi, 1919. § L'allegria, Milano, Preda, 1931. § Sentimento del Tempo, Firenze, Vallecchi, 1933. § Poesie disperse, Milano, A. Mondadori, 1945. [1915-1927] § La guerra, I edizione italiana, Milano, 1947. § Il dolore. 1937-1946, Milano, A. Mondadori, 1947. § Derniers Jours. 1919, Milano, Garzanti, 1947. § La terra promessa. Frammenti, Milano, A. Mondadori, 1950. § Gridasti soffoco..., Milano, Edizioni Fiumara, 1951. § Un grido e paesaggi, Milano, Schwarz, 1952. Umberto Saba (1883-1957) Nasce a Trieste, studia al liceo a Trieste e all’Università di Pisa. Tra il 1905 e 1906 è a Firenze e sposa nel 1909 Carolina Wolfler. Nel 1912 si sposta a Bologna e poi a Milano. Durante la Prima GM presta servizio con mansioni amministrative e finita la guerra acquista una libreria antiquaria a Trieste. Si dedica a un percorso psicoanalitico a causa di disturbi nervosi, Le leggi razziali (1938) lo costringono a spostarsi a Firenze, Roma e Milano. Nel 1950 si susseguono una serie di ricoveri in clinica a Roma, Trieste e Gorizia. L’anno seguente riceve la laurea honoris causa dall’università di Roma e un premio dall’Accademia dei Lincei. Muore a Gorizia nel 1957. Opere § Canzoniere (1921, ultima pubbl. 1959) § Storia e cronistoria del Canzoniere (1948) § Ernesto (1953, rimasto incompiuto): narrazione in terza persona della storia di un ragazzo, della sua iniziazione sessuale tramite un incontro omosessuale © Caterina Parrini Salvatore Quasimodo (1901-1968) Nasce a Modica, visse in varie città d’Italia e si dedicò giovanissimo alla poesia. dal 1941 al 1968 insegnò letteratura italiana nel conservatorio Giuseppe Verdi di Milano. Formatosi nel gusto della poesia ermetica, dopo iniziali riecheggiamenti ungarettiani e montaliani, trovò appropriata espressione alla sua densa e dolente sensualità in trepide visioni di terre, acque, stagioni, in un'aura arcanamente memore di metamorfosi e di miti (Acque e terre, 1930; Oboe sommerso, 1932; Odore di Eucalyptus ed altri versi, 1933; Erato e Apollion, 1936; Poesie, 1938; Ed è subito sera, 1942, in cui confluirono le raccolte precedenti); e successivamente, con l'approfondirsi di quel senso a coscienza del dolore, in evocazioni più aderenti alla realtà storica e sociale, dai modi sempre elegiaci ma più articolati ed effusi, anche se insidiati talora da cadute nel prosastico (Giorno dopo giorno, 1947; La vita non è sogno, 1949; Il falso e vero verde, 1956; La terra impareggiabile, 1958). Negli ultimi anni di vita intraprese molti viaggi in Europa e fuori d'Europa che gli suggerirono diverse composizioni di Dare e avere (1966), la sua ultima raccolta, che è anche un testamento spirituale. Ne deriva soprattutto un distacco dalla materia quotidiana e dalle occasioni contingenti che possono aver ispirato le singole liriche. Al graduale affrancarsi del suo linguaggio dallo stretto analogismo iniziale contribuì la sua assidua opera di traduttore dai poeti greci e latini (Lirici greci, 1940; Il fiore delle Georgiche, 1942; Dall'Odissea, 1946; Edipo re, 1947; Canti di Catullo, 1955; Fiore dell'Antologia Palatina, 1958). Curò anche alcune traduzioni da Shakespeare, e compilò un'antologia della Lirica d'amore italiana, dalle origini ai nostri giorni (1957) e un'altra della Poesia italiana del dopoguerra (1958). Un complessivo cenno a parte, inoltre, meritano varie introduzioni prevalentemente dedicate a opere di artisti contemporanei (ma non manca una su Michelangelo), nonché quelle ai volumi della collana «Poeti italiani contemporanei» diretta dallo stesso poeta.Muore a Napoli nel 1968. Opere § Acque e terre, 1930 § Oboe sommerso, 1932 § Odore di Eucalyptus ed altri versi, 1933 § Erato e Apollion, 1936 § Poesie, 1938 § Ed è subito sera, 1942 § Giorno dopo giorno, 1947 § La vita non è sogno, 1949 § Il falso e vero verde, 1956 § La terra impareggiabile, 1958 § Dare e avere (1966), § antologia: Lirica d'amore italiana, dalle origini ai nostri giorni (1957) e Poesia italiana del dopoguerra (1958). § Scritti sul teatro (1961) § Il poeta e il politico e altri saggi (1967) § Poesie e discorsi sulla poesia (post., 1971) § A colpo omicida e altri scritti (post., 1977). © Caterina Parrini La narrativa del Neorealismo Nasce nel secondo dopoguerra una letteratura “impegnata”: la nuova realtà storica spingeva alla ricerca di un linguaggio diverso, capace di rappresentare la società senza mistificazioni. Si ricercava l’autenticità, nell’idea che la letteratura fosse capace di trasmettere e testimoniare la vita popolare, l’eroica umanità del quotidiano. (>cinema Rossellini, De Sica) Gli autori potrebbero essere: Elio Vittorini, Cesare Pavese, Italo Calvino (solo nel primo periodo), Carlo Levi, Alberto Moravia, Vasco Pratolini, Primo Levi, Ignazio Silone. Cesare Pavese (1908-1950) Nasce a Santo Stefano Belbo, dove passò la maggior parte dell’infanzia. Vive a Torino e lì studia. Si laurea in Lettere nel 1932. Inizia a collaborare con l’Einaudi, ma viene costretto a tre anni di confino, durante i quali inizia Il mestiere di vivere (1952). Torna dopo solo un anno. Si dedica alla narrativa e politicamente: si iscrive al Pci e collabora con l’Unità. Muore a Torino suicida nel 1950. Opere § Lavorare stanca, Firenze, Solaria, 1936Paesi tuoi, Torino, Einaudi, 1941. [romanzo] § Prima che il gallo canti, Torino, Einaudi, 1948. [Contiene i romanzi Il carcere, scritto nel 1938-1939, e La casa in collina] § La spiaggia, in "Lettere d'oggi", a. III, nn. 7-8, 1941; poi in volume, Roma, Ed. Lettere d'oggi, 1942; Torino, Einaudi, 1956. [romanzo breve] § Feria d'agosto, Torino, Einaudi, 1946. [racconti] § Dialoghi con Leucò, Torino, Einaudi, 1947. [racconti: conversazioni a due tra personaggi mitologici] § Il compagno, Torino, Einaudi, 1947. [romanzo] § La casa in collina, Torino, Einaudi, 1948. [romanzo] § La bella estate, Torino, Einaudi, 1949. [Contiene i romanzi: La bella estate (1940), Il diavolo sulle colline e Tra donne sole] § La luna e i falò, Torino, Einaudi, 1950. [romanzo] § Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, Torino, Einaudi, 1952, postumo § Notte di festa, Torino, Einaudi, 1953. [racconti] § Fuoco grande, scritto a capitoli alterni con Bianca Garufi, Torino, Einaudi, 1959. [romanzo incompiuto] § Ciau Masino, Torino, Einaudi, 1968. Italo Calvino (1923-1985) Nasce a Cuba nel 1923 da famiglia italiana, e si trasferisce nel 1925 a San Remo. Si scrisse alla facoltà di Agraria di Torino, per poi trasferirsi a Firenze due anni dopo. Nel 1943 partecipa alla Resistenza nelle brigate comuniste Garibaldi. Dopo la liberazione si iscrisse al Pci e si laureò nel 1947 in Lettere. Comincia a scrivere su varie riviste e giornali (tra cui l’Unità) e a collaborare con Einaudi. Tra il 1959 e il 1967 diresse con Vittorini Il Menabò, in cui pubblicò alcuni suoi scritti fondamentali. Nel 1964 si sposa e si trasferisce a Parigi, dove entra in contatto col gruppo dell’Oulipo. Nel 1980 torna in Italia. Muore a Siena nel 1985. Opere © Caterina Parrini Elsa Morante (1912-1985) Nata a Roma nel 1912, ha una difficile situazione familiare che la porta a crescere a casa del marito della madre. Riesce a studiare e a diplomarsi al liceo, si rende poi indipendente scrivendo tesi di laurea e collaborando con riviste e giornali. Nel 1941 sposa Alberto Moravia, i due vissero tra Anacapri, la Ciociaria e Roma. Nel 1948 pubblica Menzogna e sortilegio con Einaudi e vincitore del Premio Viareggio. La migliorata situazione economica permette alla coppia di stabilirsi nel centro di Roma e accogliere presso la casa numerosi intellettuali. Negli anni Cinquanta viaggia molto, ma continua a scrivere. Nel 1957 pubblica L’isola di Arturo, che ha grande successo e vince lo Strega. Visita la Cina, gli Usa e l’URSS, con il marito India e Brasile. Il matrimonio termina nel 1962. Scrive le poesie Il mondo salvato dai ragazzini (1968), dove si legge la sua inquietudine per le sorti del mondo e per la politica. Nel 1974 esce La Storia, che suscita molte polemiche. Nel 1976 riesce a iniziare il suo ultimo romanzo Aracoeli, che riesce a terminare nel 1982. Muore nel 1985. Opere § Menzogna e sortilegio, 1948 § L’isola di Arturo, 1957 § La Storia, 1974 § Aracoeli, 1982 Alberto Moravia (1907-1990) Alberto Moravia nasce a Roma nel 1907 da una famiglia benestante e dedita a professioni intellettuali (il padre, in particolare, era architetto e pittore). Ancora giovanissimo, si ammala di tubercolosi ossea, malattia che lo costringe, in un’altalena di miglioramenti e ricadute, a tenersi lontano dalla scuola e, soprattutto, da quella vita di gioco e spensieratezza tipica della sua età. Durante un periodo di convalescenza, inizia la stesura di quello che è, di certo, il suo romanzo più importante, Gli indifferenti (1929). di romanziere Alberto Moravia alterna quella di giornalista, che gli permette, nonostante i problemi di salute, di viaggiare all’estero e di scrivere diversi reportage. Per via di una serie di problemi economici, inoltre, si occupa di sceneggiature cinematografiche che però, avendo origini ebraiche, non può firmare col suo vero nome a causa delle leggi razziali del 1938. Escono le raccolte di racconti L'amante infelice (1943), bloccato dalle autorità, L'epidemia (1944), ma soprattutto una delle sue opere più amate e discusse: il romanzo breve Agostino (1944), che appare in una tiratura limitata ed illustrata da due disegni di Guttuso. Negli anni Cinquanta, a Roma, e con il supporto di Carocci, Alberto Moravia fonda la rivista Nuovi Argomenti e si occupa della redazione insieme a Pier Paolo Pasolini ed Enzo Siciliano. Escono i Racconti romani (Premio Marzotto) e Il disprezzo. Nel 1955 pubblica su Botteghe Oscure la tragedia Beatrice Cenci e inizia a collaborare come critico cinematografico a L'Espresso. Nel 1957 viene pubblicato La ciociara (1957), nel 1958 si reca per un mese in URSS, nel 1959 Nuovi racconti romani e nel 1960 La noia, con cui Moravia si aggiudica il Premio Viareggio. Nel 1962 Moravia si separa definitivamente da Elsa Morante e va a vivere con un’altra scrittrice, Dacia Maraini, con cui fonda, poco dopo, la Compagnia del Porcospino nel teatro di via Belsiana a Roma. Dal 1979 al 1983 Alberto Moravia è membro della Commissione di selezione alla Mostra del Cinema di Venezia e inviato speciale del Corriere della sera (1975-1981). Per L'Espresso cura un'inchiesta sulla bomba © Caterina Parrini atomica. Nel 1984 si presenta alle elezioni europee come indipendente nelle liste del Pci, e diventa deputato al Parlamento Europeo (1984-1989). Moravia non può dirsi un intellettuale marxista: Alberto Moravia, infatti, rappresenta, piuttosto, un modello di pensatore laico e illuminista, che può servirsi del marxismo, ma come strumento di conoscenza e non come ricetta sociale e politica. Il 26 settembre 1990 lo scrittore muore nella sua casa di Roma. Opere Romanzi § Gli indifferenti, Milano, Alpes, 1929; Milano, Corbaccio, 1933; Milano, Bompiani, 1949. § Le ambizioni sbagliate, Milano, A. Mondadori, 1935. § La mascherata, Milano, Bompiani, 1941. § Agostino, Roma, Documento, 1943; Milano, Bompiani, 1945. § La romana, Milano, Bompiani, 1947. § La disubbidienza, Milano, Bompiani, 1948. § L'amore coniugale, Milano, Bompiani, 1949. § Il conformista, Milano, Bompiani, 1951. § Il disprezzo, Milano, Bompiani, 1954. § La ciociara, Milano, Bompiani, 1957. § La noia, Milano, Bompiani, 1960. § L'attenzione, Milano, Bompiani, 1965. § Io e lui, Milano, Bompiani, 1971. § La vita interiore, Milano, Bompiani, 1978. Pier Paolo Pasolini (1922-1975) Nasce a Bologna nel 1922, segue gli spostamenti della famiglia. Si iscrive a Lettere a Bologna. Aveva appena iniziato la leva quando ci fu l’armistizio, che gli permise di tornare a Casarsa, dove aveva trascorso parte dell’infanzia. Nel 1947 inizia a insegnare Lettere, ma perse la cattedra e fu espulso dal Pci a causa di un processo sulla sua condotta sessuale. Si trasferisce con la madre a Roma, riprende il lavoro a scuola e entra in contatto con numerosi intellettuali (Caproni, Gadda, Bertolucci). Nel 1955 arriva la fama con il romanzo Ragazzi di vita e la fondazione della rivista Officina. Si dedica al cinema e viaggia con Moravia in India e in Africa. Viene ucciso nel 1975. Opere Poesia § Poesie a Casarsa, Libreria Antiquaria Mario Landi, Bologna, 1942; nuova edizione tipografica, con un volume annesso a cura di Franco Zabagli, Vicenza, Ronzani Editore, 2019. § Poesie, Stamperia Primon, San Vito al Tagliamento, 1945. § Diarii, Pubblicazioni dell'Academiuta, Casarsa, 1945; ristampa anastatica 1979, con premessa di Nico Naldini. § I pianti, Pubblicazioni dell'Academiuta, Casarsa, 1946. § Dov'è la mia patria, con 13 disegni di G. Zigaina, Edizioni dell'Academiuta, Casarsa, 1949. § Tal còur di un frut, Edizioni di Lingua Friulana, Tricesimo, 1953; nuova edizione a cura di Luigi Ciceri, Forum Julii, Udine, 1974. § Dal diario (1945-47), Casa Editrice Sciascia, Caltanissetta, 1954; nuova edizione, 1979, con introduzione di L. Sciascia, illustrazioni di Giuseppe Mazzullo. © Caterina Parrini § La meglio gioventù, Biblioteca di Paragone, Sansoni, Firenze, 1954. § Il canto popolare, Edizioni della Meridiana, Milano, 1954. § Le ceneri di Gramsci, Garzanti, Milano, 1957; nuova edizione Einaudi, Torino, 1981, con un saggio critico di Walter Siti). § L'usignolo della Chiesa Cattolica, Longanesi, Milano, 1958; nuova edizione, Einaudi, Torino, 1976. § Roma 1950. Diario, All'insegna del pesce d'oro (Scheiwiller), Milano, 1960. § Sonetto primaverile (1953), Scheiwiller, Milano, 1960. § La religione del mio tempo, Garzanti, Milano, 1961; nuova edizione Einaudi, Torino, 1982. § Poesia in forma di rosa (1961-1964), Garzanti, Milano, 1964. Narrativa § Ragazzi di vita, Garzanti, Milano 1955 (nuova ed.: Einaudi, Torino 1979, con un'appendice contenente Il metodo di lavoro e I parlanti). § Una vita violenta, Garzanti, Milano 1959 (nuova edizione: Einaudi, Torino 1979). § L'odore dell'India, Longanesi, Milano 1962 § Il sogno di una cosa, Garzanti, Milano 1962. § Alì dagli occhi azzurri, Garzanti, Milano 1965. § Teorema , Garzanti, Milano 1968. § La Divina Mimesis, Einaudi, Torino 1975; Milano 1982. § Petrolio, Milano, 2005. Leonardo Sciascia (1921-1989) Dall'esperienza d'insegnante nelle scuole elementari del suo paese trasse ispirazione per un fortunato racconto-inchiesta, Le parrocchie di Regalpetra (1956), in cui coglieva acutamente le radici storico-sociali dell'arretratezza siciliana. Successivamente, senza trascurare una vena saggistico-libellista, di dichiarata ascendenza illuministica (Pirandello e la Sicilia, 1961; La corda pazza, 1970; Nero su nero, 1979; Cruciverba, 1983; ecc.), ottenne un crescente successo di pubblico con una serie di romanzi brevi di ambientazione prevalentemente siciliana (Il giorno della civetta, 1961; A ciascuno il suo, 1966; Il contesto, 1971; Todo modo, 1974; Una storia semplice, 1989), in cui la denuncia del sistema di connivenze di cui godeva la mafia coinvolgeva la politica nazionale e alludeva alla diffusione incontenibile della mentalità mafiosa. Investì poi la sua penetrante immaginazione inquisitoria nella ricerca storiografica (Atti relativi alla morte di Raymond Roussel, 1971; La scomparsa di Majorana, 1975; I pugnalatori, 1976; Dalle parti degli infedeli, 1979) fino a misurarsi con la tragica attualità del terrorismo (L'affaire Moro, 1978), anche come relatore di minoranza nella commissione parlamentare d'inchiesta sull'assassinio di A. Moro e sul terrorismo in Italia (era stato eletto alla Camera dei deputati nel 1979 nelle liste del Partito radicale). La nobiltà della sua prosa letteraria, che nella struttura classica del discorso ricercava la lucidità e la precisione illuministiche, ha rischiato di scadere in maniera in molte delle ultime prove (La strega e il capitano, 1986; 1912+1, 1986; Porte aperte, 1987; Il cavaliere e la morte, 1988). Muore nel 1989. Opere Romanzi § Il giorno della civetta, Torino, Einaudi, 1961. § Il consiglio d'Egitto, Torino, Einaudi, 1963. § A ciascuno il suo, Torino, Einaudi, 1966. § Il contesto. Una parodia, Torino, Einaudi, 1971. § Todo modo, Torino, Einaudi, 1974. © Caterina Parrini I poeti post ermetici Vittorio Sereni (1913-1983) Visse dal 1932 a Milano, laureandosi in Estetica con Banfi (1936); dopo aver insegnato nei licei (1937- 1940), collaborò a "Corrente". Chiamato alle armi nel 1939, viene congedato nel settembre 1940 e richiamato nel 1941; fatto prigioniero nel 1943 in Sicilia, viene trasportato in Nord Africa (Algeria e Marocco), ove rimane prigioniero sino al luglio 1945. Riprende l'insegnamento (1948-52) a Milano; viene poi assunto in Pirelli, all'Ufficio stampa e propaganda, ove rimane sino al 1958, quando passa alla direzione editoriale della casa editrice Mondadori. La sua poesia prende le mosse dall'ermetismo, distinguendosi fin dall'esordio (Frontiera, 1941; ed. accr. Poesie, 1942; ed. defin. Frontiera, 1966) per un dettato sobrio e disincantato. Indicato da L. Anceschi (nell'antologia da lui curata La linea lombarda, 1952) come capostipite della variante lombarda del novecentismo poetico, S. approfondì il suo stile per "arte del levare": Le sue essenziali raccolte (Diario d'Algeria, 1947, ed. accr. 1966; Gli strumenti umani, 1965; Stella variabile, 1979, ed. defin. 1981) si legano ai momenti salienti della propria vicenda umana, dalle esperienze di guerra e di prigionia agli anni dello sviluppo economico, vissuti con severo distacco critico (esemplare la polemica in versi con Fortini in Un posto di vacanza). Critico (Letture preliminari, 1973) e traduttore (Il musicante di Saint-Merry, 1981), S. scrisse anche prose che sono in stretto rapporto con la sua poesia (Gli immediati dintorni, 1962, ed. accr. Gli immediati dintorni primi e secondi, post., 1983; L'opzione e allegati, 1964, poi in Il sabato tedesco, 1980; Senza l'onore delle armi, post., 1987). Postumi sono inoltre usciti la raccolta Tutte le poesie (1986), l'ed. crit. delle Poesie (a cura di D. Isella, 1995) e volumi di lettere, tra cui il carteggio con A. Bertolucci (Una lunga amicizia. Lettere 1938-1982, 1994). Andrea Zanzotto (1921-2011) Andrea Zanzotto nasce il 10 ottobre del 1921 a Pieve di Soligo, in provincia di Treviso. I primi interessi letterari lo portano a conseguire la maturità classica come privatista e a iscriversi alla facoltà di Lettere dell’Università di Padova, dove si laurea nel 1942 con una tesi sull’opera di Grazia Deledda. Durante la Seconda Guerra Mondiale, partecipa alla Resistenza veneta riparando dal centro Italia a Pieve di Soligo. Nel 1946 emigra in Svizzera, presso Losanna, rientrando in Italia l’anno dopo, quando sembrano riaprirsi le prospettive per l’insegnamento. Nel 1950 concorre al premio San Babila per la sezione inediti. La giuria, composta dai più prestigiosi poeti del tempo, tra cui Montale, Quasimodo e Ungaretti, lo decreta vincitore del primo premio con un gruppo di poesie composte tra il 1940 e il 1948, che sarà poi pubblicato nel 1951 con il titolo Dietro il paesaggio. Seguono le raccolte Elegia e altri versi (1954) e Vocativo (1957). Mondadori pubblica nel 1962 il suo volume di versi IX Egloghe e dal 1963 si intensifica la sua presenza di critico su riviste e quotidiani. L’anno successivo viene pubblicato il suo primo libro di prose creative, Sull’altopiano. Racconti e prose (1942-1954). Dalla fine degli anni Sessanta escono importanti volumi in versi che lo consacrano definitivamente: nel 1968 La Beltà, presentata a Roma da Pier Paolo Pasolini, a Milano da Franco Fortini e recensita da Eugenio Montale; nel 1969 il poemetto polifonico Gli Sguardi, i Fatti e Senhal, composto subito dopo lo sbarco sulla luna. Negli anni Settanta pubblica la raccolta Pasque (1973), l’antologia Poesie (1938-1972) ed inizia a collaborare al Casanova di Federico Fellini. I testi per il film vengono pubblicati insieme al poemetto Filò, nell’omonimo volume. Nel 1977 vince il premio internazionale Etna-Taormina per la sua produzione © Caterina Parrini letteraria. È del 1978 la pubblicazione del primo dei tre volumi che costituiscono la trilogia Il Galateo in Bosco, che gli varrà il Premio Viareggio nel 1979. Nel 1980 continua la collaborazione con Federico Fellini scrivendo alcuni dialoghi e stralci di sceneggiatura del film La città delle donne e, nel 1983, i Cori per il film E la nave va. Esce la raccolta Fosfeni, secondo volume della trilogia, che vince il Premio Librex Montale e nel 1986 il terzo, intitolato Idioma. L’anno successivo riceve il premio Feltrinelli dell’Accademia dei Lincei. Nella prima metà degli anni Novanta escono le due raccolte di scritti critici Fantasie di avvicinamento e Aure e disincanti nel Novecento letterario; nel 1996 la raccolta Meteo, con venti disegni di Giosetta Fioroni. Nel 1995 l’Università di Trento, e seguita negli anni successivi dalle Università di Bologna e Torino, gli conferisce la laurea honoris causa. Nel 1999 esce nella collana dei “Meridiani” Mondadori il volume Le poesie e prose scelte (Premio Bagutta). Nel 2001 viene pubblicata la raccolta Sovrimpressioni, e nel 2005 la città e l’Università di Tubinga assegnano a Zanzotto il premio Hölderlin. Nel febbraio 2009 escono In questo progresso scorsoio, una conversazione col giornalista Marzio Breda, che richiama anche una vita spesa nell’impegno civile, e Conglomerati, raccolta poetica di scritti composti tra gli anni 2000 e 2009. Giova anche ricordare tra le amicizie importanti quella con Mario Rigoni Stern, di cui cade il centenario dalla nascita sempre nel 2021. Andrea Zanzotto muore il 18 ottobre 2011, solo pochi giorni dopo aver compiuto 90 anni. Linea anti novecentesca Linea poetica antinovecentesca, sull’esempio di Saba, legata alle forme metriche tradizionali, ma con tematiche attuali. Giorgio Caproni (1912-1990) Giorgio Caproni nasce a Livorno nel 1912 e visse a La Spezia durante la Prima guerra mondiale. Iniziati gli studi elementari presso le suore dell’Istituto del Sacro Cuore, li prosegue nella scuola comunale del Gigante, «un quartieraccio» di Livorno e li completa a Genova, nella scuola Pier Maria Canevari, dove si trasferisce a dieci anni con tutta la famiglia. Si iscrive alla scuola tecnica Antoniotto Usodimare, dedicandosi allo studio del violino. Alla tenera età di 13 anni si diploma in composizione all’istituto musicale Giuseppe Verdi. Sarà questa una passione duratura e determinante per la sua poetica. Accetta l’incarico di Fattorini e rinuncia agli studi musicali. A seguito del diploma magistrale, diventa maestro elementare. Nel 1938 si trasferisce a Roma. Con lo scoppio della Seconda GM è richiamato alle armi e mandato a Genova, per poi partire per la campagna di Francia. Nel 1943 si arruola con le forze partigiane della Val Trebbia; finita la guerra torna a insegnare. Muore a Roma nel 1990. Nella sua poesia canta soprattutto temi ricorrenti (Genova, la madre e la città natale, il viaggio, il linguaggio), unendo raffinata perizia metrico-stilistica a immediatezza e chiarezza di sentimenti. Nel corso della sua produzione Caproni procede sempre maggiormente verso l'utilizzo di una forma metrica spezzata, esclamativa, che rispecchia l'animo del poeta alle prese con una realtà sfuggente impossibile da fissare con il linguaggio. Questo stile è evidente anche nell'impiego della forma classica del sonetto, impiegato in forma "monoblocco", ovvero senza divisioni strofiche. © Caterina Parrini Opere Poesie 1932-1986 § Frammenti di un diario (1948-1949), a cura di F. Nicolao, con una nota di R. Debenedetti, introd. di L. Surdich, Genova 1995; § La scatola nera, prefaz. di G. Raboni, Milano 1996; § L'Opera in versi, ed. critica a cura di L. Zuliani, ibid. 1998; § Quaderno di traduzioni, a cura di E. Testa, prefaz. di P.V. Mengaldo, Torino 1998; § «Era così bello parlare»: conversazioni radiofoniche con G. C., prefaz. di L. Surdich, Genova 2004; § G. Caproni - C. Betocchi, Una poesia indimenticabile. Lettere 1936-1986, Lucca 2007; § Racconti scritti per forza, a cura di A. Dei e con la collab. di M. Baldini, Milano 2008. Mario Luzi (1914-2005) Mario Luzi nasce a Castello, vicino a Firenze, nel 1914. Nel 1932 si iscrive alla facoltà di Lettere all’università di Firenze, dove stringe amicizia con Carlo Bo e altri giovani, che si ritrovano al caffè San Marco e che costituiscono il nucleo originario della rivista “Il Frontespizio”, voce del movimento ermetico. Entra, inoltre, in contatto con i letterati della rivista “Solaria”, tra i quali si trovano Montale, Vittorini, Gadda e Bilenchi. L’esordio letterario di Mario Luzi risale proprio a quegli anni; nel 1935, infatti, pubblica la sua prima raccolta poetica, La barca. Luzi, dopo la laurea in letteratura francese, inizia a insegnare in un istituto magistrale di Parma, ma poco tempo dopo si trasferisce a Roma, dove lavora alla rassegna bibliografica per conto dei ministeri dell'Educazione e della Cultura. Dal '43 fino alla fine della Seconda guerra mondiale si sposta con la moglie Elena, sposata un anno prima, in Val d'Arno, interrompendo momentaneamente la sua attività lavorativa. Pubblica nel 1940 la raccolta Avvento notturno, che presenta le poesie composte tra 1936 e 1939, profondamente influenzate dal Simbolismo francese di Mallarmé, Rimbaud e Paul Éluard. Nel 1945 torna a Firenze e negli anni successivi pubblica le raccolte poetiche che lo consacreranno artisticamente in Italia e all’estero: Un brindisi (1946), Quaderno gotico (1947), Primizie del deserto (1952), Onore del vero (1957), Dal fondo delle campagne (1956), Nel magma (1963), Su fondamenti invisibili (1971), Al fuoco della controversia (1978). Negli anni Ottanta Luzi riceve diversi premi e riconoscimenti: nel 1985 gli viene conferito il Premio Montale, e nel 1987 gli viene consegnato il Premio Feltrinelli per la poesia all’Accademia dei Lincei a Roma. Nel 1989 esce la raccolta dei suoi saggi, Scritti. Negli anni ‘90 pubblica Frasi incise di un canto salutare (1990), Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini (1994), Sotto specie umana (1999). Nel 2004 al suo novantesimo compleanno viene nominato senatore a vita dal Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi; pubblica nello stesso anno la raccolta Dottrina dell'estremo principiante. Nel 2005 muore a Firenze, dove viene seppelito nella Basilica di Santa Croce. Nel 2008 viene pubblicata postuma la raccolta Lasciami non trattenermi. La poetica di Mario Luzi può essere suddivisa in tre fasi: la prima comprende la produzione degli anni ‘30-’40, quindi dalla prima raccolta La barca fino al Quaderno gotico, si tratta di poesia ermetica influenzata dal Simbolismo francese, anche se nella raccolta del 1947 si trovano già le premesse per la seconda fase. Questa comprende tre raccolte Primizie del deserto (1952), Onore del vero (1957), e Dal fondo delle campagne (1965) e quella del 1971 Su fondamenti invisibili; aumenta l’inquietudine e l'amarezza dei testi, in cui vengono descritti paesaggi angosciosi e tetri, in cui il poeta sembra aggirarsi nella ricerca vana del senso della vita; nell’ultima fase Luzi adotta uno stile più prosastico nei suoi componimenti e si concentra in particolare sul ricordo nostalgico della giovinezza.