Scarica Riassunto completo "L'italia nel novecento" di M. Gotor e più Sintesi del corso in PDF di Storia Contemporanea solo su Docsity! STORIA CONTEMPORANEA – CAP 2 - L’Italia della Grande Guerra – La guerra pose fine a un periodo di pace in Europa e provocò una serie di cambiamenti che influenzarono l’intero 900. Gli imperi centrali (Germania e Austria-Ungheria) + (Bulgaria e Impero Ottomano) combatterono contro le potenze della Triplice Intesa (Francia, Gran Bretagna e Russia) + Stati Uniti, l’Italia e il Giappone, dal 1914 al 1918. Il 23 maggio 1915, l’Italia dichiarò guerra all’Austria-Ungheria. Fino a quel momento, il capo del governo Salandra aveva preferito mantenere una posizione di neutralità, motivandola con il carattere difensivo della Triplice Alleanza, stipulata nel 1882 con Austria e Germania. In verità, assunse questa posizione per avere tempo di contrattare con entrambi i fronti le condizioni più vantaggiose per un suo intervento. L’8 aprile 1915, il governo offrì il suo appoggio agli Imperi centrali in cambio del Trentino, Gorizia, Gradisca, isole della Dalmazia e primato sull’Albania, ma l’Austria-Ungheria rifiutò queste richieste ritenendole eccessive. L’Italia di conseguenza indirizzò le sue attenzioni alle potenze della Triplice Intesa e, il 26 aprile 1915, Salandra e il ministro degli esteri Sonnino, stipularono il Patto di Londra, con l'appoggio del sovrano, tenendo all'oscuro gli altri membri del governo e il Parlamento. Gli accordi prevedevano la cessione all'Italia del Trentino con Trento, dell'Alto Adige fino al Brennero, della Venezia Giulia, di Trieste e dell'Istria, della Dalmazia, eventuali compensi coloniali e la base di Valona in Albania per avere una maggiore sicurezza Marittima nell'Adriatico. Interventisti e neutralisti Troviamo i conservatori, guidati da Salandra e Sonnino, che proponevano di rafforzare il ruolo della monarchia e dell'esecutivo a discapito di Giolitti, dei socialisti e del Parlamento. Per gli stessi motivi il Re, gli ambienti militari e di corte e il Corriere della Sera erano favorevoli all'ingresso dell'Italia in guerra. Nel fronte interventista erano protagonisti i nazionalisti, di cui D'Annunzio, che ambivano l'espansione dell'Italia in virtù di un inesauribile volontà di potenza. Seguendo poi gli irredentisti, i sudditi austriaci delle regioni italiane appartenenti all'Impero asburgico, che volevano concludere il processo di unificazione territoriale avviato con il Risorgimento. Troviamo anche i repubblicani, i socialisti rivoluzionari (guidati da mussolini che, espulso in quell'occasione dal Psi, fondò il Popolo d’Italia) e sindacalisti rivoluzionari come Labriola e Corridoni. Capeggiati da Giolitti, il quale riteneva che se l'Italia non fosse entrata in guerra avrebbe potuto comunque ottenere dall'Austria, in cambio della sua neutralità, dei riconoscimenti territoriali di apprezzabile rilievo. Nei primi mesi di guerra i neutralisti godettero del favore dell'opinione pubblica, ma in seguito si fecero largo gli interventisti. Dal 1915 al 1916 i soldati, comandati dal generale Luigi Cadorna, assaltarono le fortificazioni austro-ungariche lungo il fiume Isonzo e sull'Altopiano del Carso. Nonostante fossero più numerosi dell'avversario riuscirono a conquistare poco terreno al prezzo di 25.000 caduti. Nel corso del 1916 le operazioni militari proseguirono su tutti i fronti, ma con un'inversione di strategia da parte degli imperi centrali che assunsero una posizione difensiva in Oriente per convergere con una battaglia di dissanguamento sulla Francia e obbligarla ad arrendersi. Sul fronte italiano si registrarono sanguinose battaglie sull'Isonzo che continuarono ad adottare la tattica della guerra di usura, portando alla presa di Gorizia. Le prime difficoltà militari introdussero un’insoddisfazione nell'opinione pubblica che determinarono la crisi del governo Salandra, sostituito da un esecutivo di coalizione guidato da Paolo Boselli. Nel 1917 due eventi cambiarono le sorti della guerra: lo scoppio della rivoluzione russa, che provocò il ritiro di quel paese dal conflitto; l'intervento degli Stati Uniti a fianco degli alleati. Gli Stati Uniti decisero di entrare in guerra dopo che la Germania annunciò La ripresa della guerra sottomarina nell'Atlantico e per assicurarsi la restituzione dei prestiti dati alla Francia e all'Inghilterra. Il 1917 si rivelò drammatico per l'Italia: nel fronte interno (ovvero ciò che avviene in casa, lontano dalla guerra) si trovava la popolazione che deve sostenere la guerra e lavorare in caso di bisogno; mentre nel fronte si verificarono diversi episodi di autolesionismo ed ammutinamenti. Dimensione di guerra totale. Le figure femminili nella guerra: per la prima volta le madri diventano capofamiglia, in quanto gli uomini sono in guerra, e devono scegliere per la famiglia, lavorare in fabbrica. Sul piano militare, gli austriaci riuscirono a sfondare il 24 ottobre 1917 le linee a Caporetto, infliggendo agli italiani una disfatta destinata a diventare proverbiale: i nemici penetrarono in gran parte del Veneto, e due settimane dopo, l'esercito regio riuscì ad arrestare l'avanzata austriaca lungo la linea difensiva del fiume Piave. L'umiliante ritirata di Caporetto provocò la nascita di un nuovo governo di solidarietà Nazionale, presieduto dal liberale Vittorio Emanuele Orlando che sostituì alla guida dell'esercito Luigi Cadorna con il Generale Armando Diaz, affiancato con il grado di vice-comandante da Pietro Badoglio. Diaz seppe allentare i morsi della disciplina e migliorare le condizioni di vita nelle trincee. Soltanto nel corso del 1918 maturarono le condizioni per porre fine all'inutile strage. Organizzata ad agosto la linea di resistenza, l'esercito franco-inglese passò alla controffensiva potendo ormai servizi dell'appoggio degli statunitensi che sbarcarono in Europa. Purtroppo, con loro arrivò anche la terribile influenza spagnola, così denominata perché soltanto i giornali di quella nazione non belligerante ne parlarono in quanto non sottoposti alla censura militare. In Italia il morbo contagiò quattro milioni e mezzo di soldati. Sul fronte italiano gli austro-ungarici erano ormai sul punto di arrendersi. I vertici militari italiani decisero di anticipare l'offensiva prevista per il 1919. Così, dopo essere riuscito a respingere nella seconda battaglia del Piave l'attacco austriaco che puntava a invadere la Pianura Padana, l'esercito regio passò alla controffensiva prevalendo nella decisiva battaglia di Vittorio Veneto. Gli italiani avanzarono in Veneto, in Friuli, in Cadore fino a raggiungere Trento e Trieste. Il 4 novembre 1918, nei pressi di Padova, i comandi supremi dei due eserciti nemici firmarono l'armistizio di Villa Giusti con cui posero fine all'Impero austro-ungarico e sancirono la vittoria dell'Italia. Il 18 gennaio 1919 si aprì a Versailles la conferenza di pace di Parigi, alla quale parteciparono 27 paesi, con l'esclusione della Russia e delle potenze sconfitte. Scoppiarono dei contrasti tra il Presidente del Consiglio Orlando e il ministro degli Esteri Sonnino: Orlando sosteneva la politica delle nazionalità e, in contrasto con la posizione imperialista di Sonnino, si mostrò disposto a rinunciare alla Dalmazia, richiedendo in cambio l'annessione di Fiume; Sonnino, invece, non intendeva perdere la Dalmazia sì che l'Italia rivendicò entrambi i territori finendo per non ottenere nessuno. Nel 1919, in polemica con il presidente degli Stati Uniti Wilson, Orlando abbandonò la conferenza. Le potenze vincitrici ne approfittarono per proseguire i lavori senza l'Italia, che subì uno smacco diplomatico destinato ad alimentare il mito revanscista della Vittoria mutilata, (espressione coniata da D'Annunzio nel 1918). Il 10 settembre 1919 con la firma del Trattato di Saint-Germain si decise il destino dell'impero austro-ungarico: l'Italia ricevette il sud Tirolo Trieste e l'Istria. Nei confronti della Germania, la pace di Versailles si rivelò umiliante e inutilmente vessatoria tanto da alimentare il rancore degli sconfitti e la propaganda dei nazionalisti. La guerra ha portato grandi cambiamenti di mentalità, soprattutto per chi ha vissuto la trincea: i soldati rivivono per tutta la vita l’orrore della guerra dando luogo alla dimensione di isteria. Vedere uccidere le persone normalizza la violenza e i reduci la portano nella società civile. Anche in casa si vive di attesa e speranza della persona cara in guerra. Nella mentalità dell’epoca, l’onore della nazione coincide con quello dell’esercito: non andare in guerra poteva sembrare di non essere in grado di combattere. La guerra mette in campo il valore della nazione. I bambini vengono socializzati a pensare in obiettivo alla guerra, pensarsi militari. Lo stato emana delle leggi speciali per le persone che hanno perso un caro in guerra, soprattutto per riconoscere pensioni e soccorsi; queste categorie avevano dei vantaggi nella vita sociale. scatenarono una spietata guerriglia contro le organizzazioni dei socialisti e del movimento operaio. I possidenti agrari finanziarono le prime squadre, formate da giovani ex combattenti, studenti, esponenti della piccola borghesia che indossarono una camicia nera come divisa. La violenza squadrista, a colpi di manganello e di somministrazioni forzate di olio di ricino, rappresentò l'arma più efficace del fascismo nascente, che avviò un offensiva reazionaria funzionale a soffocare ogni prospettiva di cambiamento in senso democratico del regime liberale. Le autorità liberali non bloccarono quasi mai i fascisti quando intervenivano nelle manifestazioni aggredendo i partecipanti. Gli scontri di quegli anni provocano un elevato numero di morti, perché le forze dell'ordine, quando erano chiamate a ripristinare l'ordine pubblico, sparavano ad altezza d'uomo mirando soprattutto a sinistra. Dall'autunno del 1920 in poi e per tutto l'anno successivo, le squadre fasciste diedero vita a una sorta di “biennio nero” in cui la logica della conquista superò quella della sfida. Giolitti pensò di avere ancora lo spazio per collocarsi al centro delle due opposizioni, socialisti e fascisti. Le elezioni anticipate del maggio 1921 sancirono l'alleanza dei cosiddetti Blocchi nazionali dei fascisti con i liberali e i nazionalisti che ottennero in tutto 105 seggi, di cui 35 per i fascisti e 10 per i nazionalisti. L'alleanza Giolitti-Mussolini-Corradini fu superata sia dal Partito Popolare, sia dal Partito Socialista. Turati sostenne che i socialisti riuscivano particolarmente bene nella <<rivoluzione di parole>>, mentre i fascisti eccellevano nella <<rivoluzione di sangue>>. Nell'agosto 1921, il nuovo governo, guidato dall’esponente del Partito socialista riformista italiano (Psri) Bonomi, promosse un patto di pacificazione tra fascisti e socialisti, cui Mussolini aderì anche se ciò non significa la fine della violenza squadrista. La crisi, suscitata dal fallimento della Banca italiana di sconto, che gettò sul lastrico migliaia di piccoli risparmiatori, portò all'uscita di scena di Bonomi, il quale venne sostituito alla guida del governo dal giolittiano Luigi Facta nel 1922. Il 1° agosto 1922 si registrò il fallimento dello sciopero generale in difesa della legalità promosso dai socialisti e il 1° ottobre 1922 il partito espulse alcuni riformisti che fondarono il Partito socialista unitario, contribuendo a un ulteriore e definitiva frammentazione di quel campo. Giolitti scelse di attendere passivamente l'esito della crisi per essere richiamato in servizio come salvatore dell'Italia. Mussolini seppe cogliere l'occasione fornita dal vuoto di potere prodotto dal collasso del regime liberale: trattò personalmente con tutti con l'abilità di far credere di essere singolarmente indispensabili per la buona riuscita della nuova combinazione di governo con i fascisti, così da neutralizzarli uno alla volta, una finta promessa dopo l'altra, facendo leva sulle ambizioni di ciascuno. Il 29 ottobre 1921, era partito da Aquileia un convoglio per portare nella capitale la salma di unMilite Ignoto, il soldato scelto per rappresentare la tragedia della guerra e di tutti quei morti in battaglia privati di una degna sepoltura. Per cinque giorni una marcia su Roma pacifica e commossa aveva attraversato l'Italia e migliaia di persone si erano inginocchiate al passaggio del treno per rendere omaggio a quel corpo senza nome ed elaborare così un lutto collettivo. Il Milite Ignoto fu tumulato nell'Altare della patria di Piazza Venezia il 4 novembre, in occasione del terzo anniversario della vittoria nella prima guerra mondiale. Quell’imponente manifestazione rappresentò il culmine della cerimonialità dell'Italia liberale, incentrata sulla religione della patria, che aveva riunificato la nazione grazie alla celebrazione dell'anonimo sacrificio di migliaia di giovani. Mussolini prese il potere con un piano: istituzionale, implicò l'avvio di trattative con i liberali per ottenere l'ingresso dei fascisti in un governo di coalizione eversivo, comportò l'organizzazione di una marcia su Roma per esercitare una pressione di natura extraparlamentare sul sovrano Le squadre fasciste, che stabilirono il loro quartiere generale a Perugia, avevano pianificato di concentrarsi intorno a Roma il 27 ottobre per poi conquistare i centri nevralgici della capitale, mentre Mussolini avrebbe atteso a Milano, per sottolineare la sua distanza dalla marcia. Il re Vittorio Emanuele III, nella prima mattinata del 28 ottobre, si rifiutò di firmare lo stato di assedio che il capo del governo Facta gli aveva presentato la sera prima e che, nel frattempo, era già stato affisso, durante la notte, per le vie di Roma. L'imprevisto diniego del sovrano fece precipitare la situazione in favore dei fascisti che stavano incontrando più difficoltà del previsto a raggiungere la capitale; non soltanto a causa del dispositivo di difesa messo in atto dai militari, ma perché nelle principali città del nord avevano incontrato l'opposizione dell'esercito regio. I possibili motivi che indussero Vittorio Emanuele III a non firmare lo stato di assedio furono: la volontà di evitare lo scoppio di una sanguinosa guerra fratricida oppure il timore per l'infedeltà di un parte dell'esercito, in cui alcuni generali avevano stretto legami con il movimento fascista. Tuttavia le classi dirigenti liberali, di cui Vittorio Emanuele III era il massimo esponente, iniziarono a pensare di potersi servire del sovversivismo fascista per assestare un colpo definitivo alla sinistra socialista. Il re incaricò Salandra di formare un nuovo governo anche con i fascisti, ma Mussolini rifiutò l'accordo rivendicando per sé la carica principale. Prese atto della ferrea volontà di Mussolini di partecipare al governo soltanto a condizione di guidarlo e, il 30 ottobre gli diede l'incarico. La sera stessa, le squadre fasciste entrarono in città sfilando davanti al re. In tal modo finiva un colpo di Stato anomalo, in cui l'elemento di “guerra psicologica" aveva svolto un ruolo fondamentale. Mussolini formò un governo di coalizione con i liberali, i nazionalisti e i cattolici popolari. Il 16 novembre 1922, egli annunciò le sue intenzioni al Parlamento con il cosiddetto “discorso del bivacco”. Nonostante i toni sprezzanti usati da Mussolini, i liberali e i popolari riproposero il loro appoggio al governo. (Bonomi, De Gasperi, Facta, Giolitti e Salandra votarono a favore). Mussolini colse un risultato politico eccezionale: con solo 35 deputati, minacciando un colpo di stato militare che non avrebbe avuto la forza di realizzare e “marciando” su Roma, ottenne il potere dal re, piegando la volontà della stragrande maggioranza del Parlamento e convincendo l'opinione pubblica che imponevano la necessità di una <<rivoluzione fascista>>. Il 3 dicembre 1922 l'esecutivo promulgò una legge che diede per un anno pieni poteri all’esecutivo nell'ambito della pubblica amministrazione per ridurre le funzioni dello Stato, diminuire la spesa e riordinare il sistema tributario. Consentì l'istituzione del Gran Consiglio del fascismo, un organo ibrido di collegamento tra il partito, il governo e lo Stato che avocò a sé alcune funzioni prima appartenenti al parlamento. LaMilizia volontaria per la sicurezza nazionale (Mvsn), una nuova forza armata che ebbe la funzione di disciplinare la spinta sovversiva dello squadrismo, assorbì le squadre d'azione fasciste. Giovanni Gentile, nominato ministro dell'istruzione, promosse una riforma scolastica: elevò l'obbligo scolastico a 14 anni d'età esame di stato finale, con commissari esterni introdusse l'obbligo dell'insegnamento della religione cattolica sin dalle elementari finanziò le scuole cattoliche stabilì la supremazia degli insegnamento delle materie classiche e umanistiche sugli altri indirizzi di studio, essendo l'unico che poteva consentire l'accesso a tutti i tipi di università Il Presidente del Consiglio si adoperò affinché nel Partito Popolare si affermasse la corrente più clerico-conservatrice, per parte di Papa Pio XI, anche se il il congresso di Torino dell'aprile 1923 deluse le sue aspettative in quanto prevalse la tesi del sacerdote siciliano Don Sturzo. Subito dopo l'esito congressuale, Mussolini prese l'iniziativa allontanando i ministri popolari dal governo così da spezzare in due il partito e dimostrare alla Santa Sede che, anche senza il Ppi nell'esecutivo, le rivendicazioni dei cattolici avrebbero potuto trovare un accoglimento maggiore. Nel luglio successivo, le pressioni di Mussolini presso le più alte gerarchie vaticane e l'espressa volontà di Pio XI obbligarono Don Sturzo, che in quanto sacerdote doveva obbedienza al papa, ad abbandonare l'incarico di segretario del partito. Il varo di una nuova legge elettorale di tipo maggioritario, approvata dalla Camera dei deputati nel luglio 1923, rappresentò il provvedimento che più di ogni altro determinò la nascita del regime fascista. La cosiddetta legge Acerbo introdusse due novità: istituì un collegio unico nazionale, diviso in 16 circoscrizioni, e attribuì alla lista vincitrice un premio di maggioranza, assegnando i ⅔ dei seggi a quel partito o a quella lista che avesse conseguito almeno il 25% dei voti. Nell'aprile 1924 si tennero nuove elezioni anticipate: la lista nazionale, sostenuta dall'azione squadristica dei fascisti e che comprendeva anche esponenti liberali e cattolici della componente clerico-moderata. In Parlamento arrivò una nuova generazione di italiani, la stragrande maggioranza dei quali provenienti dalle trincee e per ⅔ con meno di 40 anni. Il 30 maggio, il segretario del Partito socialista unitario GiacomoMatteotti denunciò in Parlamento le violenze e i brogli elettorali occorsi e chiese l'annullamento delle elezioni. Il 10 giugno 1924 un manipolo di squadristi lo rapì a Roma e lo uccise. Il cadavere di Matteotti, abbandonato in fretta e furia nella campagna romana, fu ritrovato due mesi più tardi e la sua morte suscitò un'ondata di indignazione nel Paese che sembrò travolgere il fascismo. I deputati dell'opposizione, guidati dal liberal-democratico Amendola, decisero, con l'accezione del piccolo gruppo di comunisti che rientrarono in aula, di abbandonare il 26 giugno 1924 i lavori parlamentari con la cosiddetta Secessione dell'Aventino e domandarono al Re di ristabilire la legalità, scontrandosi contro un muro di gomma. Subito dopo il rapimento di Matteotti, il duce chiese e ottenne la fiducia del Senato. Tra i votanti a favore risultò anche Benedetto Croce. Il 27 dicembre 1924 “Il Mondo” pubblicò la prima puntata di un memoriale: lo scritto accusava direttamente il duce di avere promosso il delitto e altre aggressioni squadriste, tra cui quella nei confini di Amendola, che sarebbe morto in Francia due anni dopo a causa delle ripetute violenze subite. In quelle ore il capo del fascismo sembrò con le spalle al muro, chiuso tra l'eventualità di dimettersi e la necessità di passare al contrattacco. Il 31 dicembre ricevette a Palazzo Chigi i capi della Milizia che lo invitarono a reagire giocando di sponda con quegli ambienti intransigenti. Il 3 gennaio 1925, nel corso di un discorso davanti al parlamento, Mussolini si assunse la <<responsabilità politica, morale e storica di tutto quanto>> era avvenuto in Italia sino a quel momento e rivendicò che <<se il fascismo è stato un'associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere>>. Tra il 1925-1926 Mussolini subì ben quattro attentati; il più discusso fu l'ultimo attuato a Bologna il 31 ottobre 1926, dal quindicenne Anteo Zamboni che esplose un colpo di pistola verso il capo del governo, mancandolo, e venne linciato sul posto dai fascisti e impiccato. Questa scia di attentati fornì al regime il pretesto per introdurre un pacchetto di leggi speciali repressive, leggi fascistissime: 1. assunse il potere di nominare e revocare i ministri, rispondendo della sua azione solo davanti al re, e di decidere l'ordine del giorno dei lavori del Parlamento 2. tutta la stampa doveva essere sottoposta al controllo dei Prefetti per essere censurata in caso di contenuti antigovernativi e antinazionali e i giornalisti non iscritti al Pnf non poterono più lavorare 3. proibì il diritto di sciopero dei lavoratori e stabilì che soltanto i sindacati legalmente riconosciuti avrebbero potuto stipulare contratti collettivi 4. prescrisse lo scioglimento di tutte le forze politiche dell'opposizione, ammettendo l'esistenza del solo Partito nazionale fascista e il controllo di tutte le associazioni di cittadini da parte della polizia 5. modifico il sistema delle autonomie locali: il Podestà, nominato dal re su proposta del capo del governo e direttamente subordinato ai Prefetti, prese il posto della figura del sindaco 6. restaurò la pena di morte per reati come l'attentato alla vita del re e del capo del governo. Stabilì anche il confine di polizia per gli antifascisti, ossia il domicilio obbligatorio in località lontane e isolate. Inoltre, creò l’Ovra, una polizia politica segreta proposta al controllo e alla repressione degli avversari del regime. Per i più grandi delitti contro le personalità istituzionali venne costruito un Tribunale speciale per la difesa dello Stato che operava con sentenze inappellabili. Nell'ottobre 1935 lo scoppio della guerra di Etiopia indusse la società delle Nazioni a stabilire delle sanzioni contro l'Italia che restarono in vigore fino al luglio del 1936. Il governo fu costretto ad abbracciare una politica economica di tipo autarchico, puntato cioè alla totale autosufficienza produttiva del Paese. Mussolini creò una campagna propagandistica: il 18 dicembre 1935, milioni di italiani si misero in fila per donare l'oro alla patria, ossia le loro fedi nuziali, riuscendo a raccogliere oltre 37 tonnellate di metallo prezioso per sostenere i costi della guerra e per aiutare il paese a superare il momento di difficoltà. Davanti all'Altare della Patria si celebrò una sorta di sposalizio simbolico tra la nazione e il regime. La scelta dell'autarchia e le politiche economiche del regime non si rivelarono economicamente vantaggiose per il Paese: l'Italia non rimase soltanto un paese arretrato ma accentuò il divario rispetto agli altri Stati europei. Il corpo di Mussolini costituì il principio e la fine della propaganda fascista, con lui il suo governo si identificava. Il duce doveva presentarsi come figura carismatica, che incarnava lo spirito del popolo e rappresentava un modello che tutti gli italiani dovevano imitare. Per far sì che la fotografia mostrasse la potenza, la grandiosità del duce, veniva fotografato in modi particolari: era sempre inquadrato dal basso, in modo da poter conferirgli una statura eroica e maestosa, che lo elevava al di sopra degli uomini comuni. Molto popolare era la figura del duce atleta: le foto dovevano suggerire il possesso del proprio corpo virile, agile, veloce. I comizi del duce assumevano la forma di un dialogo con gli ascoltatori con la prevalenza di un sistema di comunicazione non verbale: smorfie del viso, mascella contratta e prominente, le pose del corpo, le mani sui fianchi, le gambe divaricate, i saliscendi dei toni della voce; che in realtà rappresentavano un modo assai efficace per entrare in contatto diretto con il popolo. Il ministero della cultura popolare MinCulPop, istituito nel 1937, ebbe il compito di fare esaltare per primo queste virtù nazionali. Lo stesso Mussolini curò la costruzione di un rapporto diretto con gli italiani: creò un servizio specifico della segreteria particolare per rispondere alle migliaia di lettere che quotidianamente riceveva. Chi scriveva al duce lo faceva per confidarsi con lui, per chiedere il suo aiuto; l'ufficio rispondeva inviando piccole somme di denaro o una foto del dittatore corredata della sua firma che lasciava al destinatario l'illusione di avere stabilito un contatto personale con il capo del fascismo. Questo culto del duce da parte degli italiani non è soltanto il risultato dell'azione di propaganda del regime: deriva anche da una spinta spontanea che colpì molti osservatori stranieri stupiti dalla quantità di foto presenti nei diversi negozi. Un coinvolgimento esorto con la violenza e la paura, ma anche il frutto della capacità di persuasione del duce e della creazione di una serie di istituzioni delle masse. Per conseguire un tale risultato si rivelò fondamentale e ottenere il controllo della comunicazione di massa,censurando in modo preventivo giornali, libri, trasmissioni radio, spettacoli cinematografici e teatrali. L'organo di stampa, controllato direttamente dal duce, stabiliva. con le sue veline, il contenuto delle notizie da dare ai lettori, ad esempio omettendo notizie sulle malattie del dittatore, edulcorando i fatti di cronaca nera e vietando ai giornalisti di elogiare altri esponenti politici al di fuori di Mussolini e del re. Con ogni probabilità di controllo dei mezzi di comunicazione di massa e la pratica della censura ottennero il loro risultato più efficace nell'affermare nel senso comune la falsa idea che il regime fascista fosse riuscito a cancellare la corruzione in Italia. Il mito di un fascismo onesto e austero, impegnato a fare piazza pulita del malaffare presente nelle vecchie istituzioni liberali, in realtà diffondevano affari illeciti e arricchimenti illegittimi da parte di gerarchie spregiudicate, dediti a traffici e a malversazioni di ogni genere. La progressiva fascistizzazione dello Stato e della società civile avvenne grazie all'attività di una serie di organizzazioni che accompagnavano la vita dell'italiano medio dalla fanciullezza alla vecchiaia: nel 1925 il regime istituì l'Opera Nazionale dopolavoro (Ond), con l'obiettivo di organizzare il tempo libero dei lavoratori con iniziative ludiche e sportive; 1926: Opera Nazionale Balilla, giovani 6-18 anni 1930: i Fasci giovanili di combattimento, educazione sportiva e militare dei giovani 17-21 anni, in cui si dividevano in avanguardisti (uomini) e giovani fasciste (donne) Gruppi universitari fascisti (Guf) organizzarono gli universitari che svolgevano i littoriali dello sport e della cultura, con gare atletiche e letterarie tra studenti Con queste iniziative il fascismo seppe rispondere a un'effettiva domanda di socialità, protezione e assistenza che attraversava larghe fasce della popolazione italiana. Le adesioni al partito aumentarono nel 1928, quando si decise che i tesseramenti avrebbero avuto la precedenza nelle liste di collocamento, e si impennarono tra il 1930-1933, quando l'iscrizione divenne obbligatoria per accedere ai concorsi pubblici. Sul piano simbolico, rituale e gestuale, nel 1925 il regime proibì la stretta di mano nelle pubbliche amministrazioni, sostituita da un più virile e militaresco saluto romano. Anche il vestiario subì un processo di disciplinamento e la camicia nera divenne la divisa ufficiale dello squadrismo e poi del Pnf. Risuonavano parole d'ordine e slogan divenuti di uso comune quali: <<Credere, obbedire, combattere>>, <<Tanti nemici, tanto onore>>. Il colore dominante divenne il nero, che richiamava simbolicamente la morte, intesa come minaccia ma anche come ricerca di una bella morte, estremo sacrificio con cui il militare fascista esaltava il proprio spirito guerriero. Avvenne una pulizia del linguaggio: iniziò dalla toponomastica e dai cognomi per estendersi ai vocaboli stranieri, ormai entrati nell'uso comune. Il jazz americano venne boicottato in quanto “musica negroide” e Louis Armstrong assunse il nome di Luigi Braccioforte. Per la propaganda svolsero una funzione speciale la radio con la creazione del Eiar, e il cinema con la nascita dell'Istituto Luce che produceva cinegiornali proiettati in tutte le sale prima del film. Nel 1937 nacque Cinecittà, che divenne la sede di un complesso di teatri di posa pensati per competere con gli Studios Hollywoodiani. I furgoni cinematografici dell'Istituto Luce iniziarono a percorrere la provincia italiana per proiettare nelle più sperdute piazze del paese, l'immagine di Mussolini, magnificando le conquiste del regime, dalle bonifiche ai successi imperiali in Africa. Recupero dei mezzi più tradizionali come le scritte murali con epigrafi solenni o motti attribuiti al duce. Il progetto di fascistizzazione della società italiana si estese anche nella scuola, occasione privilegiata per plasmare le coscienze ed educare i giovani al culto del duce. Risale al gennaio 1929 l'adozione del libro unico di Stato. Nei sussidiari dominava la propaganda dei valori del fascismo come la famiglia con la donna “angelo del focolare”, celebrata soltanto ed esclusivamente nella sua funzione riproduttrice di madre e di moglie, custode del fronte interno, mentre il maschio, guerriero e cacciatore, era impegnato nella battaglia quotidiana del lavoro fuori casa. Nel 1929 gli insegnanti dovettero subire l'imposizione del giuramento di fedeltà al fascismo. Il controllo del regime si fece sentire anche nel mondo della cultura con il progetto di definire il profilo di una nuova civiltà fascista. Nel 1925 fondò l'istituto fascista di cultura a tutela e diffusione della dottrina e degli studi fascisti in Italia e nel mondo. La dittatura espresse una volontà e un progetto totalitari, ossia un esperimento e un'esperienza di dominio politico integrale. Essa non puntò sulla passivazione delle masse, ma su una loro costante mobilitazione e politicizzazione che doveva instaurare un rapporto mistico tra il corpo del duce e il suo popolo. Tra il 1923-1925, gli oppositori del fascismo denunciarono il suo carattere totalitario. In seguito Mussolini rivendicò il concetto come valore positivo nella voce fascismo da lui redatta all'interno dell'enciclopedia italiana a quattro mani con Giovanni Gentile. Concetto di totalitarismo imperfetto: una formula che non serve tanto ad attenuare il carattere dittatoriale del regime ma a spostare il fuoco dell'attenzione dalla volontà e dai programmi del duce alle sue effettive realizzazioni. Infatti, il fascismo a differenza di altri regimi totalitari come lo stalinismo e il nazismo, non riuscì mai a esercitare un totale controllo sulle masse e sulla società italiana. La chiesa cattolica, la monarchia e le istituzioni a essa legate come il Senato, la diplomazia e l'esercito riuscirono, almeno parzialmente, a limitare il potere del fascismo, adattandosi a convivere in alleanza con il regime, seppur conservando un proprio grado di relativa autonomia così da poterne ricavare vantaggi economici e politici. Giovanni Gentile mantenne una posizione di prestigio e di conseguente potere nel regime fascista: assunse un ruolo fondamentale di intermediario tra la cultura italiana e il fascismo e rimase un punto di riferimento ideologico del regime. Il rapimento e l'omicidio di Matteotti indussero alcuni politici e intellettuali liberali, che avevano guardato con partecipazione all'ascesa del fascismo, a prenderne progressivamente le distanze. Tra il 1926-27, il clima, ormai divenuto invivibile, costrinse molti antifascisti ad abbandonare l'Italia. Nel 1928 una bomba scoppiata a Milano poco prima del passaggio del re Vittorio Emanuele III provocò 20 morti. Ancora oggi non si conoscono gli autori e i mandanti della strage. Ma come autori dell'attentato furono accusati i comunisti e tutti gli oppositori di Mussolini. Gli imputati accusati di antifascismo venivano processati da un apposito Tribunale speciale dello Stato attivo sino al 1943. Per soddisfare la spinta nazionalistica presente nel fascismo, Mussolini riuscì ad ottenere, con il Patto di Roma nel 1924, Fiume dalla Jugoslavia e a stringere nel 1927 un'alleanza con l'Albania che divenne una sorta di Stato satellite dell'Italia. Per la politica coloniale, due fasi: 1. 1934: Mussolini si oppose alle mire espansionistiche della Germania nazista nei riguardi dell'Austria intervenendo a scongiurare la missione dell'Austria alla Germania inviando 4 divisioni ai confini del Brennero. Nell'aprile 1935 il duce convocò una conferenza con la Francia e l'Inghilterra, ponendosi alla guida di un fronte in funzione antitedesca e ribadendo la necessità di riaffermare gli accordi di Locarno, la tutela dell'Indipendenza austriaca e il rispetto della Pace di Versailles. Mussolini sperava anche che la Francia e l'Inghilterra non si sarebbero opposte alla ripresa della politica espansionistica che aveva già in animo di attuare in Africa. 2. Fece un accordo strategico con la Germania nazista: nell'ottobre 1935 l'Italia aggredì l’Etiopia. Nel corso del conflitto gli italiani utilizzarono i gas asfissianti contro le popolazioni civili in dispregio del Protocollo di Ginevra del 1925 che ne aveva proibito l’impiego. Il 5 maggio 1936, l'esercito regio, guidato dal Generale Badoglio, fece il suo ingresso in Addis Abeba e quattro giorni dopo, nel corso di una grandiosa cerimonia notturna, Mussolini poté celebrare la fondazione dell'Impero fascista, mentre Vittorio Emanuele III assunse anche il titolo di imperatore di Etiopia. La campagna militare terminò rapidamente, ma subito dopo iniziò una lunga guerriglia che le truppe italiane non riuscirono mai a soffocare del tutto, nonostante la durissima repressione. Nelle settimane successive alla vittoria nella campagna di Etiopia il regime toccò il picco del suo consenso interno perché un'ondata di orgoglio nazionalista percosse gli italiani. Indotto dal successo, il duce rafforzò la sua potenza imperialista e l'alleanza con la Germania nazista: nell'ottobre del 1936 stipulò un patto di amicizia con Hitler, Asse Roma-Berlino, che comportò l'uscita dell'Italia dalla società delle Nazioni. Nel maggio 1938, dopo l'annessione dell'Austria da parte del III Reich, ricevette Hitler a Roma e a Firenze, un evento trasformato dalla propaganda ufficiale del regime nella celebrazione dell'alleanza con la Germania nazista. Il governo fascista promulgò il 17 novembre 1938 il Decreto provvedimenti per la difesa della razza italiana. Da un giorno all'altro gli ebrei italiani, molti dei quali erano convinti fascisti, persero i più elementari diritti di cittadinanza: non poterono più frequentare, insegnare e dirigere nelle scuole e nelle università; avere momento gli inglesi, guidati dal generale Montgomery, passarono alla controffensiva. In ambito produttivo l’ingresso del potentissimo apparato economico statunitense, sostenuto da un ingentissimo finanziamento pubblico, immise nel teatro di guerra nuovi aerei, carri armati, navi da guerra e mitragliatrici. Uno scambio di merci internazionali capace di tenere insieme gli Stati Uniti, l’Unione Sovietica, la Gran Bretagna e le sue colonie orientali in un unico movimento circolare su scala globale. Nel gennaio 1943, il presidente degli USA Roosevelt, Churchill e i generali francesi De Gaulle e Harry Giroud si incontrarono segretamente a Casablanca per pianificare la strategia bellica degli alleati: aiutare ulteriormente l’Unione Sovietica con opportuni rifornimenti attaccare direttamente la Germania dal ventre molle dell’Asse, ossia l’Italia, programmando uno sbarco degli alleati in Sicilia subito dopo la conclusione della guerra nell’Africa del Nord imporre a Hitler una resa senza condizioni In Africa, gli Alleati riuscirono a spezzare le ultime resistenze dell'esercito italo-tedesco soltanto nel maggio 1943. Al seguito delle divisioni tedesche e di soldati che presero parte alla campagna di Russia si trovarono anche dei militari italiani, organizzati nel Corpo di spedizione italiano in Russia (Csir) e nell’Armata italiana in Russia (Armir). Nell’agosto 1942, le corazzate naziste guadarono il fiume Don e iniziarono ad assediare Stalingrado, mentre l’unione sovietica pativa una grandissima crisi alimentare. Dal novembre 1942 a Stalingrado si svolse una delle più grandi e sanguinose battaglie della storia che si protrasse sino al febbraio 1943, e si concluse con la vittoria dell’Armata rossa al termine di un'eroica resistenza. Sul fronte sovietico combatterono soldati italiani, male equipaggiati per poter resistere all’inverno russo e armati in modo inadeguato, che si resero protagonisti di un drammatica ritirata. Si dovettero registrare quasi 90.000 morti e dispersi, 26.000 feriti e congelati e circa 70.000 prigionieri. Quando in Italia iniziarono ad arrivare le prime drammatiche notizie dal fronte russo, si diffuse una sorta di spontaneo antifascismo popolare, che iniziò a serpeggiare fra gli italiani così duramente colpiti dalla guerra e delusi dalle irresponsabili promesse di una facile vittoria. La convergenza di fattori militari, produttivi e diplomatici fece sì che, nel giro di sei mesi, le sorti del conflitto si ribaltarono quasi del tutto: gli Alleati si trovarono contemporaneamente all’attacco sul fronte Orientale, su quello Pacifico e su quello Mediterraneo. I servizi segreti inglesi prepararono lo sbarco in Sicilia degli Alleati grazie a un’elaborata attività spionistica e di depistaggio. Il 10 luglio 1943 gli alleati sbarcarono in Sicilia: da quel momento il fascismo in Italia, dopo oltre 20 anni di dittatura, cominciò ad avere le ore contate. Si diffuse un sentimento di scoramento condiviso da moltissimi italiani: lo rivelano anche i risultati di un’attività di spionaggio dei britannici che organizzarono ad Alessandria d’Egitto un servizio di controllo segreto della posta spedita dall’Italia ai prigionieri di guerra. Le missive, nonostante fossero preventivamente sottoposte alla censura fascista, consentirono ai servizi segreti di raccogliere numerose e dettagliate notizie riguardanti le effettive condizioni di vita degli italiani sotto il regime. che si erano fatte particolarmente dure. Gli alleati anglo-americani, al comando del generale Eisenhower, nel giro di un mese completarono l’occupazione della Sicilia. La criminalità mafiosa locale svolse un ruolo di rilievo nel facilitare le operazioni di sbarco e di avanzamento nell’isola. Alla fine della guerra gli anglo-americani si impegnarono a fare aggiungere una dichiarazione al trattato di pace stipulato a Parigi il 10 febbraio 1947: gli Alleati concessero un salvacondotto giudiziario a quanti, prima e dopo la caduta del fascismo, avevano aiutato in modo palese o segreto la causa dell’Inghilterra e degli Stati Uniti, due nazioni contro le quali, fino all’8 settembre 1943, l’Italia era stata in guerra. Gli Alleati consideravano l’operazione in Italia soltanto un tassello di una più vasta strategia militare su scala mondiale e, perciò, intensificarono i bombardamenti sulle principali città italiane. Il 19 luglio 1943 colpirono Roma e Papa Pio XII lasciò, per la prima volta dal 1870, le mura vaticane per recarsi nel popolare quartiere di San Lorenzo. Una serie di bombardamenti rase al suolo ⅔ di Foggia, cui toccò il triste primato, di essere la città italiana più colpita nel corso della seconda guerra mondiale. Il 25 luglio 1943, in una drammatica seduta del Gran consiglio, firmato dal presidente della Camera Dino Grandi, mise in minoranza Mussolini, prevedendo la sua estromissione dal governo e chiedendo al re di assumere il comando delle forze armate. L’intervento dei vertici militari, avallato da Vittorio Emanuele III, determinò la caduta di Mussolini, il risultato di un colpo di Stato preparato da giorni dal re. Ciò che accadde a Roma il 25 luglio colse di sorpresa gli alleati ma fu la conseguenza politica dello sbarco in Sicilia di due settimane prima. Questi ambienti erano propensi a liberarsi di Mussolini, visto come il principale ostacolo a un cambiamento di alleanze dell’Italia ritenuto necessario per la salvezza della nazione. Mussolini sciolse la riunione e il segretario del Pnf Carlo Scorza lanciò il rituale <<saluto al duce>>. Nell’agosto 1943, il nuovo capo del governo Badoglio inviò in Spagna per trattare con gli emissari britannici le condizioni dell’armistizio nella vana speranza di evitare la formula della resa incondizionata, di ottenere la sospensione dei bombardamenti terroristici sulle città italiane e un adeguato sostegno degli alleati all’esercito regio contro i tedeschi. L’indomani il capo del fascismo, trascorse la sua ultima giornata al potere come se nulla fosse accaduto, impegnato nelle quotidiane incombenze di governo. Nel pomeriggio, dopo avere visitato la zona bombardata di San Lorenzo, si recò in udienza da Vittorio Emanuele III. Mussolini entrò a Villa Savoia alle 17:00 indossando ancora le consuete vesti duce, capo del governo e del fascismo, convinto del fatto che, in base al regolamento, le decisioni del Gran consiglio avessero soltanto un valore consultivo, ma ne uscì alle 17:30 in stato di arresto, scortato da cinque carabinieri che lo obbligarono a salire su un autoambulanza e lo condussero presso una caserma romana. Quando la sera del 25 luglio si sparse via radio la notizia della destituzione di Mussolini, scene di sfrenata gioia popolare accolsero la fine della dittatura. Nelle città si tennero cortei spontanei, la folla distrusse statue, stemmi ed altri simboli del regime, bruciò le immagini del duce. Gli individui erano stati fascisti perché giovani, perché innamorati del duce, perché ci credevano, perché tenevano famiglia, perché volevano fare carriera, perché desideravano il bene dell’Italia, perché bramavano l’impero, perché odiavano i socialisti e i comunisti, perché disprezzavano il parlamento, perché schivano la democrazia con le sue pastoie, perché era comodo stare dalla parte dei vincitori, perché tutti lo erano intorno al loro e chi non lo era appariva come un perdente. Per la maggioranza degli italiani la caduta di Mussolini non significò soltanto la fine della dittatura, ma anche della guerra. In quella sera di luglio il comunicato di Vittorio Emanuele III trasmesso dalla radio non si limitò ad annunciare che il re aveva accolto le dimissioni di Mussolini, bensì nominò al suo posto come capo del governo Badoglio, il quale si affrettò a dichiarare che la guerra continua fianco dell’alleato tedesco. In realtà, il nuovo capo del governo con il consenso del re, imbastì delle trattative segrete con gli anglo-americani per ottenere l’armistizio. Il 3 settembre, il governo Badoglio firmò l’armistizio che costituì una resa incondizionata dell’Italia. Le autorità pubblicizzarono l’accordo l’8 settembre. L’Italia precipitò in una crisi nazionale: la goccia che fece traboccare il vaso fu la decisione, all’alba del 9 settembre, del re Vittorio Emanuele III, di Badoglio, di alcuni esponenti della casa reale, delle esecutivo e dei vertici militari di abbandonare Roma per Brindisi, controllata dagli Alleati. L’opinione pubblica percepì l’atto come una fuga. La decisione del re di lasciare Roma servì a mantenere la continuità dello Stato, grazie alla protezione degli alleati, in cui era prevedibile che la reazione tedesca si sarebbe scatenata con inaudita ferocia. I tedeschi nei giorni successivi occuparono facilmente oltre ⅔ dell'Italia. Nel sentire comune la data dell’8 settembre è rimasta quasi sinonimo di catastrofe nazionale; per alcuni studiosi quel passaggio avrebbe rappresentato simbolicamente la morte della patria. La maggioranza degli italiani, dopo l’8 settembre, abbracciò una posizione di tipo attendista, incentrata anzitutto sulla necessità di salvare la pelle e aspettare la pace. L’8 settembre in realtà ha costituito l’inizio della riscossa verso la libertà e la rinascita del Paese sotto la guida dell'antifascismo. La resistenza italiana, rispetto alle altre esperienze di lotta partigiana in Europa, e nei riguardi della stessa storia nazionale precedente: nonostante le divisioni fazionarie interne sul piano dell'ideologia, dei valori e della prospettiva politica nel fronte dell’antifascismo e malgrado la guerra civile in corso con i fascisti, gli italiani scelsero di combattere la resistenza o di sostenerla psicologicamente e materialmente a rischio della loro stessa vita. I valori di base dell’antifascismo e dell’impegno a combattere per la libertà della propria patria, umiliata e ferita, permisero al movimento resistenziale non soltanto di svolgere una funzione difensiva e di supporto dell’azione militare degli Alleati, ma anche propulsiva per costruire un nuovo Stato. Sul piano politico, i rappresentanti di tutte le forze antifasciste istituirono il Comitato di liberazione internazionale (Cln) composto dal Partito comunista, Partito socialista di unità proletaria, Partito liberale, Democrazia cristiana, Partito democratico del lavoro e Partito di azione. Sul piano militare, gli eserciti alleati sbarcarono a Salerno riuscendo, nel giro di una settimana, a fare arretrare i tedeschi. Il 1 ottobre, gli alleati riuscirono a entrare a Napoli, già autonomamente liberatasi grazie a una coraggiosa rivolta popolare durata quattro giornate di combattimenti tra le barricate; le <<Quattro giornate di Napoli>> furono uno dei primi atti della resistenza italiana. Il 13 ottobre 1943 il governo Badoglio ruppe definitivamente gli indugi dichiarando guerra alla Germania e l’Italia ottenne dagli anglo-americani l’ambiguo titolo di “cobelligerante”, ossia non pienamente alleato ma neppure più nemico. L’offensiva anglo-statunitense sul fronte mediterraneo nel luglio 1943, contro l’Italia e quella russa sul fronte occidentale, nel 44, contro la Germania costituirono due azioni militari funzionali a organizzare lo sbarco delle truppe alleate nell’Europa settentrionale. Questa strategia si proponeva di stringere Hitler e il suo esercito in una duplice morsa, dal nord al sud del vecchio continente, mentre l’Armata Rossa avrebbe continuato ad avanzare al centro della Germania, puntando al cuore del nemico. Il 6 giugno 1944 iniziò una delle più vaste e complesse operazioni militari della storia: lo sbarco in Normandia: il “D-Day”, il giorno più lungo, che provocò uno dei più ingenti spargimenti di sangue tra militari e civili di tutta la seconda guerra mondiale.Nei due mesi successivi gli Alleati sconfissero la resistenza tedesca avanzando gradualmente nel territorio francese e il 25 agosto 1944 obbligarono i tedeschi alla resa. Dal 4-11 febbraio 1945, Churchill, Stalin e Roosevelt si riunirono a Jalta, per discutere dei futuri assetti dell’Europa. Sul fronte occidentale, gli alleati lanciarono l’assalto finale contro il nazismo il 7 febbraio 1945. Nel giro di due mesi l’esercito statunitense occupò tutta la Germania meridionale. Dopo l’attacco finale dei sovietici su Berlino, Hitler ordinò la resistenza a oltranza e il 30 aprile si suicidò intendo una capsula di cianuro in un bunker della cancelleria. Due giorni prima i partigiani avevano fucilato Mussolini. Il 2 maggio il sovietici entrarono a Berlino; il 7 maggio il comando militare tedesco firmò la capitolazione senza condizioni; l’8 maggio il nuovo presidente degli Stati Uniti Truman, Churchill e Stalin annunciarono la fine della guerra in Europa. Sul fronte del Pacifico, il conflitto proseguiva volgendo definitivamente a favore degli Stati Uniti. Gravi perdite umane e materiali subiti dagli americani nella battaglia di Okinawa, a causa degli attacchi dei kamikaze giapponesi, volontà dei militari nipponici di resistere a oltranza, indussero i vertici militari statunitensi a cambiare strategie. Il duplice intento di risparmiare tempo e vite dei soldati statunitensi e di ammonire l’Unione Sovietica su nuovi equilibri e rapporti di forza post bellici, convinsero il neo presidente Truman a ordinare di sganciare le prime bombe atomiche della storia. Tra il 6-9 agosto 1945 due micidiali ordigni rasero al suolo Hiroshima e Nagasaki. Soltanto il giorno precedente l’Unione Sovietica dichiarò guerra al Giappone. Il Giappone, messo in ginocchio dai appartamenti nucleari, accettò la resa incondizionata il 15 agosto e firmò l’armistizio il 2 settembre 1945 da allora l’Italia ha conosciuto oltre settant’anni interrotti di pace. Accanto alla Resistenza armata e alla Resistenza militare di quei soldati che non si arresero ai tedeschi, si svolse una terza forma di lotta più silenziosa, ma non meno tenace. Il riferimento riguarda i prigionieri italiani che, caduti nelle mani dei tedeschi, si rifiutarono di collaborare con loro e, nel rispetto del giuramento di fedeltà al re, non vollero arruolarsi nell’esercito repubblichino. Per questo motivo i nazisti li deportarono nei territori del III Reich per rinchiuderli nei lager con lo status di Internati militari italiani (Imi) così da non riconoscere loro le garanzie previste dalla convenzione di Ginevra sul trattamento dei prigionieri di guerra e poterli costringere a condizione di lavoro particolarmente degradanti. Se la Resistenza armata si affermò come la forma di lotta più importante perché si era costretta ad agire in uno scenario di guerra contro dei nemici disposti a uccidere e a morire per difendere se stessi e i propri valori, il successo dipese da una forma di Resistenza civile meno appariscente, ma altrettanto importante. Col trascorrere dei mesi, divenne la protagonista silenziosa di tante forme di opposizione quotidiana ai fascisti e nazisti, svolgendo una funzione logistico-organizzativa e di sostegno psicologico-ideale. Le motivazioni di questa resistenza civile non scaturrono esclusivamente da ragioni di carattere politico e ideologico, bensì derivarono anche da sentimenti di pietà, solidarietà e umanità o da convincimenti di ispirazione pacifista, religiosa e patriottica che rappresentarono l’eredità più preziosa del movimento partigiano. I tedeschi e i fascisti di Salò dispiegarono una controguerriglia che prese di mira proprio le popolazioni con una serie di stragi. Il più delle volte questi eccidi costituirono delle rappresaglie in risposta ad atti di guerriglia compiuti dai partigiani, ma poterono essere anche azioni preventive realizzate con finalità terroristiche territori a forte presenza resistenziale. A volte le stragi naziste servirono a reprimere rivolte popolari, ma spesso gli eccidi rappresentarono delle gratuite esplosioni di rancore e di vendetta, di superiorità e di disprezzo con cui i tedeschi vollero punire un popolo nemico, quello italiano, che aveva improvvisamente tradito e cambiato bandiera. E’ esemplare il caso di Sant’Anna di Stazzema, un borgo sulle pendici delle Alpi Apuane: il battaglione tedesco raggiunse alle prime luci dell’alba l’abitato, guidato nel corso della notte da alcuni italiani che facevano da battistrada, e cominciò la carneficina soprattutto di donne, anziani e bambini. Prima di proseguire oltre, i nazisti appiccarono il fuoco alle case e ai cadaveri nelle stalle. All’indomani dell’armistizio dell’8 settembre 1943 anche nell’Italia meridionale la presenza tedesca, tra Napoli e il Garigliano, provocò delle conseguenze violentissime sulla popolazione. Su gran parte di questi tragici episodi calò la consegna del silenzio silenzio e la cappa della rimozione, una scelta motivata dal clima della Guerra fredda, ma anche dalla necessità di ristabilire buone relazioni diplomatiche con la nuova Germania Ovest, e dall’opportunità di non coinvolgere in eventuali processi giudiziari quei soldati italiani accusati, come tedeschi, di avere commesso crimini di guerra in Etiopia, Albania, Grecia e Jugoslavia. Nella resistenza non mancarono momenti di aspro conflitto; accadde anche che fossero partigiani di altro orientamento ideologico a eliminare quelli comunisti. Sempre ai confini orientali della penisola si registrarono i massacri delle foibe, il tragico risultato di una conflittualità tra gli italiani e le popolazioni slave che si trascinava da tempo. Dopo la fine della Grande guerra e nei primi anni del secondo conflitto mondiale, il dominio italiano nei territori slavi era stato particolarmente duro con provvedimenti di nazionalizzazione etnica e linguistica, trasferimenti ed espulsioni di una parte degli abitanti autoctoni ed energici processi di fascistizzazione forzata, in ambito educativo e scolastico, contro chi parlava croato o sloveno. Allo scopo di eliminare i nemici, i fascisti utilizzarono, sin dal 1940, delle voragini naturali disseminate sull’altopiano del Carso triestino e in Istria, denominate foibe. Diverse testimonianze attestano che essi erano soliti gettare nel baratro, dopo un colpo alla nuca, gli oppositori sloveni e croati. All’indomani della caduta del fascismo alcune migliaia di italiani finirono vittime di una feroce ondata di vendette promossa dai resistenti jugoslavi legati al capo comunista Tito, di origine croata. Costoro per ritorsione li gettarono, a volte ancora vivi, dentro le foibe attuando un regolamento di conti. In alcune zone del Friuli le locali forze partigiane di orientamento comunista integrarono le azioni delle formazioni jugoslave, in nome di un comune internazionalismo proletario. Esse entrarono in conflitto con altri resistenti italiani impegnati, invece, a bloccare gli eccidi e a difendere il territorio nazionale dalle mire espansionistiche di Tito che puntava alla deitalizzazione di Trieste dove le armate jugoslave realizzarono una serie di stragi nel corso dei cosiddetti <<Quaranta giorni>>. In quelle settimane il Pci, spiazzato dalla fuga in avanti di Tito, adottò una duplice strategia: coprì e giustificò sulla stampa di partito l’azione del leader jugoslavo in nome dell’internazionalismo proletario con Togliatti, sollevò il tema della difesa dell’italianità di Trieste e sostenne gli ordini del giorno in tal senso del governo di Roma I militari e i partigiani Titini approfittarono del fatto che gli Alleati fossero impegnati in serrate trattative con Stalin per risolvere la questione di Trieste ed il fronte orientale italo-jugoslavo, per avviare una brutale repressione contro difensori dell’italianità della città. Durante la Resistenza avvennero anche tragici e controversi episodi di vendetta di giustizia sommaria, amministrata da improvvisati tribunali partigiani contro soggetti sospettati di delazione o accusati di collaborazionismo. Il maggior numero di omicidi a sfondo politico, che assunsero la forma di un vero e proprio regolamento di conti e rimasero spesso impuniti, avvenne nel cosiddetto triangolo rosso, tra Bologna, Modena e Reggio Emilia, negli negli ultimi mesi del conflitto e nell’immediato dopoguerra. Davanti a fatti tanto drammatici, ampie fasce della popolazione italiana preferirono aspettare alla finestra allo sviluppo degli eventi senza schierarsi né con i fascisti e i tedeschi né con i partigiani. Assunsero questa posizione per indifferenza politica e ideologica, o per semplice paura andando a formare la cosiddetta <<zona grigia>> dell’attendismo che, pur essendo numericamente la più numerosa, non è riuscita a scalfire il valore etico-civile della Resistenza come momento storico-politico di rifondazione dello Stato e della nazione italiana. Bisogna considerare che molte bande partigiane si aggregano in modo casuale in quanto i loro aderenti non avevano motivazioni ideologiche definite, bensì un carattere soprattutto generazionale, essendo giovani ribelli, nati e educati sotto la dittatura. Molti non sapevano dove andare e cosa fare della loro vita, mossi da un generico ideale di rigenerazione del paese. Il 22 gennaio 1944 le truppe anglo-americane sbarcarono ad Anzio con l’obiettivo di raggiungere Roma, ma i tedeschi le bloccarono dopo pochi chilometri, costringendo i nemici a una logorante battaglia di posizione protrattasi sino alla primavera inoltrata. In febbraio la Sicilia, la Sardegna e le zone nel frattempo liberate del Mezzogiorno furono restituite alla giurisdizione del governo italiano andando a formare il Regno del Sud, affiancato da una Commissione di controllo alleata, cui spettava il coordinamento delle azioni militari. Si occupò di aspetti di tipo civile che guardavano al prossimo futuro di un’Italia nuova; ad esempio, si impegnò a defascistizzare i libri di testo di storia nelle scuole superiori. Soltanto il 18 maggio 1944 gli Alleati riuscirono a sfondare la linea Gustav che passava per Cassino e la provincia di Frosinone. In questa zona, i soldati nordafricani, inquadrati nel corpo di spedizione francese in Italia, si resero protagonisti di migliaia di violenze sessuali su donne, uomini e bambini. La conquista della fortezza di Cassino costò la distruzione della millenaria abbazia benedettina bombardata dagli Alleati e costrinse i tedeschi a ritirarsi più a nord, lungo la linea Gotica, che attraversava l’Appennino tosco emiliano da Massa Carrara a Pesaro, aprendo così alle forze Alleate la strada per Roma. Nel gennaio 1944, in occasione del primo congresso tenuto a Bari, il Cln si espresse per l’abdicazione di Vittorio Emanuele III, accusato di avere favorito l’ascesa del fascismo, firmato le leggi razziali e assecondato l’azione di Mussolini per oltre vent’anni e chiese anche le dimissioni di Badoglio. Posizioni tanto radicali, sostenute dai comunisti, dai socialisti, dagli azionisti e dai repubblicani, non trovarono da parte dei rappresentanti meridionali molto seguito. In questo difficile contesto, in cui le richieste del Cln non corrispondevano all'effettiva forza militare e maturità politica del movimento resistenziale, fece la sua comparsa sullo scenario italiano il segretario del Pci Togliatti che, il 27 marzo 1944, sbarcò a Napoli. Ritrovava un partito strutturato e radicale pronto a trasformare la Resistenza in rivoluzione socialista. Egli deluse le aspettative perché tracciò un programma politico del tutto alternativo: bisognava rinviare la questione istituzionale monarchia/repubblica a dopo la fine della guerra e, nel frattempo, lavorare all’unità di tutte le forze antifasciste dando la priorità alla lotta di liberazione dal nazifascismo e alla ricerca di un compromesso tra il campo monarchico-badogliano e quello resistenziale-antifascista. Propose, inoltre, la formazione di un governo di unità nazionale, espressa in tutte le forze politiche antifasciste e rappresentate nel Cln. La decisione di Togliatti era legata al progetto di fare una moderna forza politica di massa, con profonde radici nella società, capace di attrarre una giovane classe di quadri dirigenti e di rappresentare non soltanto il mondo operaio, ma quello del lavoro più in generale. Tale innovativo indirizzo politico prese il nome di svolta di Salerno, dalla città ove si era trasferita la capitale del Regno del Sud in attesa della liberazione di Roma. Lo stesso Togliatti divenne vicepresidente del consiglio ed entrarono al governo esponenti liberali come Croce, ma anche democristiani, socialisti e azionisti. Il 3 giugno 1944 si ricostruì, grazie a un accordo tra comunisti, socialisti e cattolici, la disciolta Confederazione generale italiana del lavoro (Cgil). Il 9 giugno le formazioni partigiane si diedero un comando militare unificato, il Corpo volontari della libertà (Cvi), che gli Alleati riconobbero a dicembre, ribadendo così la volontà di collaborare con la resistenza. Il 4 giugno 1944 gli Alleati finalmente liberarono Roma e, come pattuito, Vittorio Emanuele III nominò luogotenente il figlio Umberto senza abdicare, ma ritirandosi a vita privata. Anche il maresciallo Badoglio lasciò la guida del governo all’ex socialista riformista Bonomi che formò un nuovo esecutivo sostenuto da tutti i partiti antifascisti. Gli alleati continuarono a risalire la penisola e, dopo duri combattimenti, cui parteciparono anche le formazioni partigiane, liberarono Firenze il 22 agosto 1944. Nel corso dell’estate, in alcune zone del Nord Italia, sorsero una ventina di repubbliche partigiane che diedero vita a brevi ma intense esperienze di autogoverno in grado di dimostrare la maturità raggiunta dal movimento resistenziale. Il 12 novembre 1944, il comandante delle forze Alleate in Italia Harold Alexander ordinò, con un proclama ai partigiani, di rimanere sulla difensiva, escludendo ulteriori attacchi fino alla primavera del 45. Sul piano militare gli Alleati decisero di stabilire il fronte lungo l’Appennino toscoemiliano per sincronizzare “a tenaglia” su scala europea le operazioni attive nel Mediterraneo con quelle in corso di svolgimento nel nord del continente. Sul piano politico, servì anche a evitare che la resistenza, ormai trasformatasi in un evento popolare rilevante, in cui i comunisti avevano conquistato un ruolo preminente, potesse sfuggire al controllo anglo-americano, al punto da far coltivare agli italiani l’illusione di potersi liberare senza gli Alleati o addirittura contro di essi. I partigiani trascorsero il rigido inverno 1944 curando i feriti, recuperando le forze, affilando le armi. La primavera del 45 si schiuse improvvisamente davanti ai loro occhi, ma il governo degli Alleati ritenevano che non fosse ancora giunta l’ora. Il 6 aprile 1945 gli Alleati cominciarono l’attacco decisivo che portò al crollo della Repubblica sociale italiana e alla liberazione di tutta l’Italia del nord dall’occupazione tedesca. La contemporanea mobilitazione degli operai e le insurrezioni delle diverse brigate partigiane nelle città accelerarono la disfatta nazifascista. Tra il 19-29 aprile furono liberate Torino, Genova e Milano e, il 25 aprile, il Comitato di liberazione nazionale Alta Italia (Clnai) emanò l’ordine dell’insurrezione generale. La sera del 25 aprile Mussolini abbandonò Milano per dirigersi verso Como. I partigiani lo La costituzione, invece, sarebbe stata scritta nel corso dei lavori di un'apposita assemblea, composta da rappresentanti popolari eletti con metodo proporzionale. La seconda questione riguardò l’amnistia: Togliatti concesse il provvedimento di clemenza per reati comuni, politici e militari compiuti in Italia fino al 18 giugno 1946. Inclusi nell’amnistia soltanto i reati puniti con un massimo di cinque anni di reclusione e, quindi, rimasero fuori quelli gravi come stragi e torture. L’amnistia si proponeva di agevolare la riconciliazione nazionale e la pacificazione civile, dimostrando che la democrazia generata dalla Resistenza doveva affermarsi con le armi della politica e non in ragione delle condanne dei tribunali. Togliatti dovette intervenire con una circolare il 2 luglio 1946 raccomandando alla magistratura un’interpretazione restrittiva nella concessione del beneficio. La decisiva consultazione elettorale del referendum istituzionale e dell’elezione dell’assemblea costituente si celebrò il 2 giugno 1946, quando, per la prima volta in Italia votarono su scala nazionale anche le donne. Quasi 25 milioni, di cui 13 milioni donne, si recarono alle urne. La Repubblica prevalse. Il risultato consegnò l’immagine di un paese diviso in due che riproponeva le tradizioni storiche monarchiche e repubblicane degli antichi Stati italiani preesistenti all’unità nazionale. Il nuovo re, il 13 giugno 1946, accettò di lasciare l’Italia. Il 28 giugno 1946, l’assemblea costituente elesse presidente provvisorio della Repubblica italiana il liberale de Nicola. I risultati elettorali consentirono a De Gasperi di formare il suo secondo governo, alla cui maggioranza di unità nazionale per la ricostruzione si aggiunse il partito repubblicano. Il principale nodo da sbrogliare riguardava i trattati di pace e il problema dei nuovi confini nazionali. Gli Stati europei sconfitti firmarono a Parigi il 10 febbraio 1947 i trattati di pace, approvati dall’assemblea costituente nel luglio successivo. Gli accordi contenevano condizioni assai dure per il Paese sul piano territoriale, militare e finanziario. L’Italia dovette rinunciare a tutte le isole greche e a ogni diritto e titolo sui possedimenti italiani in Africa; cedette alla Francia alcune piccole zone di confine sulle Alpi occidentali, perse la maggior parte della Venezia Giulia, con l’Istria, fiume e Zara, assegnate alla Jugoslavia; Trieste e la zona di Capodistria formarono un territorio libero diviso in due zone dagli anglo-americani e dagli jugoslavi, che nel 1954 passarono all’Italia e alla Jugoslavia, come ribadito nel trattato di Osimo nel 1975. De Gasperi raggiunse con l’Austria un accordo con cui si impegnava a concedere un’ampia autonomia all’alto Adige, che restava entro i confini italiani. Nel gennaio gennaio 1947, De Gasperi compì una missione negli Stati Uniti che, sul piano economico, conseguì un esito inferiore alle attese, ma sul piano politico si rivelò decisiva, ribadendo l’importanza del cosiddetto vincolo esterno nel determinare le vicende italiane di politica interna. De Gasperi ricevette dagli americani una sorta di investitura quale leader anticomunista e filo-occidentale e l’invito a rompere l’alleanza con i socialisti e comunisti. Questo esito dipese anche dalle pressioni esercitate da settori più clericali e conservatori della DC, sensibili alle richieste di Pio XII e delle gerarchie cattoliche, nettamente contrarie al proseguimento della collaborazione del partito con i comunisti. Il nuovo esecutivo, che poteva godere del sostegno dell’Uomo Qualunque e dei monarchici, vide da subito la partecipazione dei liberali, dei repubblicani e del nuovo Partito socialista dei lavoratori italiani. La svolta centrista venne ispirata dalla cosiddetta dottrina Truman, che garantiva il pieno sostegno economico-finanziario dell’amministrazione statunitense a tutte le nazioni minacciate dal comunismo, a condizione che escludessero i partiti comunisti e socialisti dal governo. L’economista Luigi Einaudi, governatore della Banca d’Italia, divenne anche ministro del bilancio. Il 5 giugno 1947, il segretario di Stato degli Stati Uniti George Marshall incluse anche l’Italia nell’omonimo piano, un vasto programma di ricostruzione economica europea vincolato alla rappresentazione di piani di sviluppo coordinati su scala continentali, improntati alla dottrina liberista e caratterizzati da una certa uniformità di indirizzo politico a livello generale. Tra luglio e novembre 1947, il ministro del bilancio promosse una manovra monetaria, la cosiddetta <<linea Einaudi>>, che si pose l’obiettivo di frenare l’inflazione anche a prezzo di ridurre i consumi e di comprimere i salari, senza però produrre un ristagno produttivo. Lo scopo si raggiunse diminuendo la liquidità al sistema monetario, incrementando le riserve bancarie obbligatorie, aumentando il costo del denaro e stabilizzando il cambio lira-dollaro rafforzando il valore della divisa nazionale. Il terzo e il quarto governo De Gasperi proseguì la smobilitazione dei funzionari dello Stato legati alla Resistenza. Un tragico fatto di sangue caratterizzò questo cambio di fase politica: il 1 maggio 1947, nei giorni in cui si apriva la crisi del terzo governo De Gasperi, che si sarebbe risolta con l’esclusione dei comunisti e dei socialisti dall’esecutivo, si consumò la strage di Portella della Ginestra: circa 2000 braccianti erano confluiti nella vallata in prossimità di Palermo per celebrare la festa dei lavoratori e il successo alle elezioni regionali, dove l’alleanza tra socialisti e comunisti aveva sconfitto la Democrazia cristiana. Quel giorno, dalla sommità delle colline circostanti, un gruppo di banditi guidati da Salvatore Giuliano iniziò a sparare sui manifestanti. La Cgil programmò lo sciopero generale, ma il ministro dell’interno Mario Scelba minimizzò l’accaduto, rubricandolo sotto la specie dell’atto di banditismo e negando che avesse qualsivoglia matrice politica. A livello locale la strage colse l’obiettivo minimo di bloccare l’ascesa dei comunisti e dei socialisti per favorire uno sbocco moderato della situazione politica dell’isola con un governo di minoranza a guida democristiana che si reggeva con il sostegno esterno dei liberali e dei monarchici. Uno spirito di collaborazione tra democristiani e comunisti, con il voto comune all’articolo 7 della Costituzione, nel quale si sanciva che i rapporti tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica dovessero continuare a essere regolati dai Patti Lateranensi. Il 22 dicembre 1947, i padri costituenti approvarono la nuova Carta che entrò in vigore il 1 gennaio 1948. La Costituzione italiana assunse un carattere giuridicamente composito di matrice liberal-democratica, cattolica, socialista e comunista. A differenza dello Statuto albertino, che in virtù di una struttura flessibile aveva subito molteplici modifiche, rimanendo in vigore anche sotto il fascismo, la Carta si caratterizzò per una struttura rigida così da rendere particolarmente complicate le procedure di riforma. Inoltre, non si limitava a definire e a sancire i diritti e i doveri dei cittadini in atto ma prospettava anche degli obiettivi da raggiungere soprattutto nel campo del lavoro e della giustizia sociale, lasciando ampio spazio all’iniziativa del Parlamento. Le elezioni del 18 aprile 1948 segnarono una svolta cruciale nella vita del paese. La campagna elettorale, ormai condizionata dal nuovo clima della Guerra fredda, registrò pesanti ingerenze da parte delle gerarchie vaticane, degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica. Esponenti politici e partiti che avevano avevano collaborato tra loro si scontrarono. La Democrazia cristiana si presentò come presidio della libertà personale contro la barbarie dei comunisti difesa all’avanzata del marxismo in Italia tutela della proprietà privata e della libera iniziativa contro il collettivismo garante dei rapporti economici e culturali con gli Stati Uniti contro l’invadenza dell’imperialismo sovietico diga in grado di difendere i valori cattolici e di arrestare la diffusione del materialismo e dell'ateismo nel paese Il partito di De Gasperi seppe offrire una proposta politica <<pigliatutto>> assorbendo non soltanto i voti dell’elettorato moderato e conservatore o quelli della destra nostalgica del fascismo, ma anche quelli dei gruppi sociali più sensibili alle istanze di rinnovamento e di modernizzazione della società italiana. Sostegno della Chiesa cattolica con i suoi parroci e vescovi, che temevano di perdere l’aiuto economico statunitense. Il Fronte popolare che univa i socialisti e i comunisti in un’unica lista, formulò un programma di riforme di struttura: in campo industriale con la nazionalizzazione dei grandi complessi monopolistici e, nel Mezzogiorno, con un’ampia politica di bonifica per garantirne la rinascita in campo agricolo propose l’esproprio della grande proprietà terriera, la valorizzazione della piccola e media impresa e la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende La democrazia cristiana trionfò alle elezioni. Il Paese, per la sua posizione politica di frontiera e di cerniera tra due blocchi, si trasformò nell’epicentro non soltanto dell’anticomunismo politico, quello democratico e quello antidemocratico, ma anche della cosiddetta <<guerra fredda culturale>>, ossia un conflitto tra due superpotenze dell’epoca per conquistare, mediante l'istituzione di appositi centri studi e il finanziamento di imprese editoriali, il cuore e le menti delle élite intellettuali dell’Italia e del resto dell’Europa. Nel maggio 1948 il liberale Einaudi divenne presidente della Repubblica. Nello stesso mese De Gasperi formò il suo quinto governo, composto da quattro partiti: Dc, Psli, Pri, Pli; avviando così una nuova formula centrista, imperniata sul ruolo preponderante della Democrazia cristiana. Nonostante il notevole successo elettorale, De Gasperi fu obbligato a costituire un governo di coalizione perché al Senato la Democrazia cristiana non aveva la maggioranza da sola. Tuttavia, il leader coinvolse i partiti laici minori così da rinforzare l’azione dell’esecutivo anche per i due motivi politici: per contenere più efficacemente i condizionamenti di tipo clericale del Vaticano per conservare, sul piano economico e sociale, un profilo prudentemente riformatore e potere contrastare meglio le prevedibili pressioni dei settori maggiormente conservatori del mondo imprenditoriale italiano La politica estera di De Gasperi assunse due orientamenti principali che avrebbero ispirato la storia repubblicana anche nei decenni successivi: l’europeismo e l’atlantismo. si impegnò per avviare e sostenere il processo politico, civile, culturale ed economico di costruzione della comunità europea rapporti con gli Stati Uniti, il 4 aprile 1949 venne stipulato il Patto atlantico e ratificato l’ingresso dell’Italia nella Nato L’adesione alla Nato era messa in discussione dall’opposizione delle sinistre che avrebbero preferito per l’Italia l’assunzione di una posizione di neutralità sul modello assunto dalla Jugoslavia nel blocco orientale. La partecipazione alla Nato avrebbe implicato nel novembre 1956 l’ingresso dell’Italia anche nell’organizzazione Stay-behind: si trattava di una struttura paramilitare clandestina, formata da cittadini addestrati a piani di difesa e di sabotaggio nel caso in cui si fosse registrata un’invasione sovietica nei paesi dell’Europa occidentale, scaturita da un accordo segreto tra la Cia e il Sifar, i servizi segreti delle forze armate italiane. Sul piano militare il generale Giovanni de Lorenzo organizzò la struttura: i gladiatori erano civili di ogni professione, presenti soprattutto nel Nord Italia. Sul piano giuridico la legittimità dell’esistenza di Gladio rimane un nodo irrisolto perché, da un lato, il Sifar e la Cia non erano organismi legittimati a stipulare trattati internazionali segreti in nome dello Stato italiano, ma dall’altro, quegli accordi, la cui bozza riservata approvata da de Lorenzo datata 18 ottobre 1956, si sarebbero potuti configurare come l’applicazione estensiva delle norme contenute nell’articolo 3 del trattato Nato. I governi centristi si concentrarono sul problema della crescente disoccupazione, che tanto angustiava gli statunitensi promotori del piano Marshall, i quali intravedevano il rischio di ingrossare ulteriormente le file del Partito comunista, e su quello delle condizioni di perdurante arretratezza in cui versava l’Italia meridionale. Il ministro del lavoro Fanfani varò nel 1949 il cosiddetto <<Piano Ina-Casa>>, un programma di edilizia popolare che rientrava nell’ideologia democratico-cristiana del solidarismo cattolico. L'iniziativa permise la costruzione di abitazioni per le famiglie a basso reddito, ma centrò anche I trattati di Roma prevedevano la costituzione di un’assemblea parlamentare europea, composta da 142 deputati nominati dai parlamenti dei 6 paesi membri l’introduzione di politiche comuni nel settore dei trasporti e dell'agricoltura la creazione di un Fondo sociale su base continentale il varo di una Banca europea degli investimenti Il miracolo economico produsse un rapido e radicale cambio degli stili di vita e dei consumi degli italiani nell’alimentazione, nel vestiario, nell’ambito della casa e del tempo libero. La vita quotidiana si riempì di nuovi oggetti: comparvero l’asciugacapelli e il ferro da stiro elettrici, il frigorifero, lavatrici e la televisione in bianco e nero. I cittadini della penisola presero l'abitudine di riunirsi davanti alla televisione. come nel resto dell’Occidente. La rivoluzione colpì anche il settore della motorizzazione privata: le vetture avevano bisogno di un sistema viario più efficiente e nel 1955 il governo avviò il piano autostrade, dando inizio ai lavori per unire Milano a Napoli; unendo il paese come mai avvenuto prima. Negli stessi anni visse un’irripetibile stagione la stampa di partito: ogni partito aveva il suo foglio di riferimento, nel caso dei comunisti con <<L’Unità>>. Gli anni del boom fecero emergere anche nel Belpaese due nuovi soggetti sociali che occuparono stabilmente il mondo della produzione, del consumo e della comunicazione secondo un modello di sviluppo basato su un processo di americanizzazione dei costumi, dei valori e degli stili di vita. 1. donna: angelo del focolare, regina della casa, madre, casalinga che governava lo spazio domestico con il suo tesoro di moderni elettrodomestici. Questa centralità pubblicitaria della figura femminile corrispose sul piano sociale a una nuova marginalizzazione della donna, allontanata dalla vita pubblica e politica dopo il protagonismo vissuto durante la guerra 2. giovane: prima di allora si era bambini o adulti, e la linea di demarcazione veniva stabilita all’ingresso nel mondo del lavoro o alla procreazione. Si trattava di un segmento sociale nuovo e autonomo, che aveva la particolarità di consumare senza produrre e che, perciò, iniziò a essere oggetto delle speciali attenzioni del mondo pubblicitario e dell’industria dell’abbigliamento, dello sport e del divertimento. La gioventù italiana, tra gli anni 50-60, la prima cresciuta senza dittature e guerre, voleva soprattutto divertirsi assorbendo i modelli anglo-americani e l’idea di modernità da essi veicolato L’evento simbolico del boom economico nazionale coincise con le olimpiadi, celebrate a Roma nel 1960: le nuove costruzioni di opere pubbliche e di infrastrutture e i successi sportivi italiani accesero i riflettori su un Paese rigenerato. La capitale dell’Italia, con la sua eterna bellezza diffusa per la prima volta nella storia della tv in mondovisione, si mostrò capace di coniugare il moderno e l’antico. Tre profondi fenomeni sociali accompagnarono il miracolo economico: l’emigrazione dal Sud al Nord di milioni di cittadini la crisi dell’Italia delle campagne lo sviluppo intensivo dell’urbanizzazione Lo spopolamento del mezzogiorno, doloroso sul piano antropologico e affettivo, ebbe l’effetto benefico indiretto su quello economico e sociale di aumentare il livello del reddito pro capite di quei territori. In prevalenza operai, ma anche insegnanti e impiegati pubblici attratti dalla prospettiva di un posto sicuro al Nord e da un lavoro ministeriale a Roma. Il processo di spaesamento degli immigrati era spesso traumatico poiché in Italia, come all’estero, dovettero subire la diffidenza, il disprezzo e i comportamenti razzisti degli abitanti locali che resero difficile l’integrazione nelle città. Il trauma dello sradicamento, era anzitutto linguistico: in quello stesso giro di anni, la televisione pubblica si cimentò nella titanica impresa di provare a uniformare la lingua degli italiani intorno a uno standard medio romanocentrico, ma la società tornava a dividerla garantendo un’eccezionale sopravvivenza di diversi dialetti. All’inizio degli anni 60 questi radicali mutamenti economico-sociali contribuirono a determinare la crisi del centrismo e l’ingresso dei socialisti nell’area di maggioranza per diversi motivi: l’inizio della distensione mondiale tra i blocchi della Guerra fredda fece cadere gli ostacoli frapposti dall’amministrazione statunitense a un coinvolgimento dei socialisti al governo i socialisti aumentarono le loro distanze dai comunisti e mostrandosi intenzionati ad accettare la collocazione atlantica dell’Italia Una grave crisi percorse i comunisti italiani tanto che numerosi esponenti, in particolare provenienti dal mondo intellettuale, decisero di abbandonare il partito. Inoltre, la morte nel 1958 di Pio XII determinò la nascita di un nuovo clima progressista. Il suo successore Giovanni XXIII, si mostrò più incline a favorire il confronto tra i cattolici e i marxisti e a rivedere l’atteggiamento della chiesa nei confronti della società e della politica italiana. Infine, il risultato delle elezioni del 58 diffusero la consapevolezza che lo sviluppo economico dell’Italia doveva essere accompagnato da riforme sociali più strutturali e inclusive di quelle praticate sino a quel momento. Il processo che portò alla fine del centrismo alla nuova formula del <<centrosinistra organico>> si sviluppò non senza conflitti, il cui sintomo più evidenti fu il continuo oscillare della Dc fra tentativi di formare governi che guardavano a destra, ed esecutivi di apertura ai socialisti. Nel febbraio 1959, a seguito delle dimissioni da presidente del consiglio di Fanfani, Segni formò un esecutivo monocolore democristiano, con il sostegno di liberali, del partito monarchico e l’appoggio del Msi. In ottobre, la corrente democristiana dei dorotei prevalse per pochi voti al congresso in alleanza con la destra del partito. I vincitori scelsero come segretario di transizione e di mediazione Aldo Moro: era convinto che la destra politica e sociale italiana avesse una capacità di condizionamento dei vertici civili, burocratici e militari dello Stato una forza di massa ben superiore alla sua espressione elettorale coagulatasi in Parlamento intorno al Msi. Di conseguenza, il processo strategico di apertura ai socialisti doveva essere accompagnato da un di più di prudenza. Fanfani formò nel luglio 1960 un nuovo governo che guardava a sinistra, da lui stesso definito di <<restaurazione democratica>>. I dirigenti democristiani favorevoli a un accordo con il partito di Nenni, capitanati dal presidente del consiglio e da Moro, erano convinti che non spingendo la Dc nelle braccia di un accordo con la destra in nome di un intransigente anticomunismo, si sarebbe potuta contenere l’iniziativa politica e sociale del Pci, che, per essere indebolito, andava anzitutto diviso dai socialisti. Però, continuava a covare un fuoco di accese tensioni tra antifascisti e anticomunisti. La scintilla definitiva di un cambio di fase politica scoccò in occasione del congresso di Napoli della Dc nel gennaio 1962, ove il segretario Moro convinse i delegati della necessità di sostenere l’alleanza con i socialisti: il partito di Nenni concordò con Fanfani alcune linee programmatiche in materia economica e sociale e i liberali uscirono dalla maggioranza. Alla testa dell’opposizione si mise il ministro della difesa Giulio Andreotti, punto di riferimento degli ambienti tradizionalisti del Vaticano, che Moro nel frattempo aveva riservatamente ammorbidito inviando a Giovanni XXIII una nota dettagliatissima per spiegare la posizione della Dc e avviando una consultazione dei vescovi italiani da cui ricevette a maggioranza l’assenso all’integrazione dei socialisti nel governo. L’esecutivo Fanfani procedette alla nazionalizzazione dell’industria elettrica con l’istituzione di un apposito ente pubblico, l’Enel. Le ragioni dei sostenitori della nazionalizzazione dell’energia elettrica, in virtù di un superiore interesse pubblico, trovarono una funesta conferma nella tragedia del Vajont, ove si registrò il più grave disastro ambientale della storia d’Italia. Nella notte tra il 9-10 ottobre 1963 una frana si abbatté sul bacino idroelettrico, causando un’ondata anomala che provocò quasi 2000 morti e la distruzione di diversi borghi della Valle al confine tra il Veneto e il Friuli. Sempre nel 1963 la maggioranza approvò la legge di riforma dell’istruzione, che istituì la scuola media unica ed elevò l’obbligo a 14 anni. I due provvedimenti si proposero l’obiettivo di rendere la scuola più democratica, un luogo che garantisse pari opportunità di partenza e di confronto agli studenti, a prescindere dalle loro condizioni sociali d’origine. In ambito sociale Fanfani varò l’assicurazione obbligatoria per le malattie, la legge per la riconversione industriale e il piano verde per il rilancio dell’agricoltura. L’introduzione di un’imposta diretta su dividendi azionari e la concessione di aumenti salariali nei rinnovi contrattuali propiziarono una fuga di capitale all’estero che bloccarono gli intenti riformatori dell’esecutivo. Sul piano della politica internazionale Fanfani perseguì un indirizzo che, nell’ambito di un chiaro atlantismo, assunse un’impronta filo-araba, a tutela degli interessi energetici e petroliferi del Paese. L’Italia si presentò in quell’aria come la meno coloniale tra le potenze europee, rappresentante dell’Occidente con il consenso e per conto degli Stati Uniti, svolgendo un rilevante ruolo di mediazione diplomatica e politica. Fanfani era convinto che l’Italia, essendo di gran lunga la più debole tra le grandi potenze potenze mondiali, dovesse trarre il massimo vantaggio possibile da questa situazione, inserendosi nelle rivalità tra i paesi più influenti in questo modo il Paese, pur essendo uscito sconfitto dalla Seconda guerra mondiale seppe recuperare le posizioni perdute in Medio Oriente, in Iran e in Nord Africa, a discapito di due potenze imperiali come la Francia e l’Inghilterra, al contrario costrette ad arretrare. Parallelamente la Penisola ricavò notevole beneficio dalle condizioni bipolari della Guerra fredda non soltanto mantenendo i rapporti privilegiati con gli Stati Uniti, ma potendo contare su con contatti commerciali e industriali privilegiati anche con l’unione sovietica (Fiat, Eni). Ciò avvenne grazie ai buoni uffici del Pci e del mondo cooperativo: mentre finanziavano le loro strutture organizzative con opportune percentuali di intermediazione, collaborarono anche a rafforzare le posizioni economiche e il prestigio del Paese. Alle elezioni politiche del 63 la Democrazia cristiana subì un arretramento di consensi, trassero vantaggio da una parte liberali e dall’altra il Pci. Dopo le dimissioni di Fanfani, Moro ricevette l’incarico di formare un governo tripartito (Dc, Pri, Psdi) con l’appoggio esterno dei socialisti, ma dovette rinunciare per il rifiuto della direzione politica di questi ultimi a ratificare l’accordo programmatico che egli aveva stretto con Nenni. Il presidente della Repubblica Segni affidò l’incarico di formare un esecutivo di decantazione a Giovanni Leone che varò un monocolore Dc, nel giugno 1963, con l’appoggio esterno dei repubblicani, dei socialdemocratici e dei socialisti. I tempi della svolta maturarono nel dicembre 1963, quando Moro raccolse i risultati del suo paziente impegno riuscendo a formare il primo governo di centrosinistra organico. Nenni divenne vicepresidente del Consiglio esprimendo ben 6 ministri, fra cui quello del bilancio con Antonio Giolitti, nipote del liberale Giovanni. Il primo governo Moro entrò in crisi già nel luglio 1964 a causa di un provvedimento che riguardava un minimo finanziamento dell’istruzione privata. Tuttavia, nel determinare la crisi di governo si rivelarono ben più rilevanti sul piano politico le divergenze emerse in due ambiti come l’indirizzo economico e quello urbanistico. Dalla metà degli anni 50 in poi l’Italia si era distinta in ambito petrolifero grazie alle intuizioni di Mattei: era convinto che l’Italia dovesse aprirsi uno spazio autonomo nel terreno dell’approvvigionamento energetico, base necessaria su cui edificare la propria libertà perché non poteva esistere l’indipendenza politica senza prima quella economica. Per cogliere l’obiettivo era necessario contrastare l’egemonia delle grandi imprese petrolifere anglo-americane mediante un robusto intervento dello Stato, che sapesse coniugare in modo originale finalità pubbliche con strumenti privatistici e una contrattazione diretta con i Paesi produttori del greggio con un gioco a tutto campo, dall’Unione Sovietica alla Cina, all’Iran, ai Paesi arabi. Nel marzo 1961, in occasione di un incontro con un collaboratore del presidente degli Stati Uniti, Mattei spiegò come intendeva impostare i nuovi rapporti competitivi con gli Stati Uniti e l’unione sovietica in materia di politica petrolifera. L’imprenditore pubblico cominciò a stringere librari e artistici colpiti dall’inondazione dell’Arno. Il bisogno di un nuovo protagonismo generazionale si mescolava con un’ansia incerta ma pungente di ribellione che contestava i valori perbenisti e i modelli di vita borghesi respirati fino a quel momento in famiglia, a scuola, all’università, nei rapporti con la religione e l’autorità costituita. Cominciarono ad affacciarsi alla ribalta musicale o ad ottenere un crescente seguito popolare, una serie di cantanti: i fenomeni maschili di questi anni furono soprattutto Gianni Morandi, Adriano Celentano e Lucio Battisti. Tra il 67-68 si diffusero nelle principali città italiane, i cineclub, che affiancarono le più tradizionali sale parrocchiali: liceali e universitari cominciarono a frequentarli per gustare capolavori del nuovo cinema francese e tedesco e le prime prove dei registi italiani. Un altro prodromo dei cambiamenti di costume in atto si evince dal rumore sollevato dal cosiddetto <<scandalo della Zanzara>>, dal nome del giornalino scritto dagli studenti di un liceo di Milano. Nel febbraio 1966 uscì un articolo dedicato alle nuove abitudini sessuali dei giovani, che portò alla denuncia e al processo dei suoi autori, in seguito assolti dalle accuse di stampa oscena e corruzione di minori. La vicenda divise l’opinione pubblica in colpevolisti (Dc e Msi) e innocentisti, tra cui i partiti di sinistra,che presero le difese del diritto di libertà di espressione degli studenti. Il secondo governo Moro durò dal 64-66. Si ripropose il dibattito che aveva occupato la prima esperienza sulle nazionalizzazioni e sull’urbanistica, si abolì la mezzadria, si protrasse di un quindicennio la Cassa del Mezzogiorno e si presero provvedimenti a favore dell’edilizia popolare e della viabilità dei porti. Moro costituì il suo terzo governo di centrosinistra organico che rimase in carica sino al giugno 1968. Il centrosinistra aveva esaurito la sua spinta propulsiva subendo un'involuzione che aveva spento le aspettative iniziali. La promessa di realizzare uno Stato sociale più efficiente vicino ai ceti sociali più bassi e una riforma della pubblica amministrazione più prossima ai bisogni dei cittadini vennero mancate e prevalsero i continui litigi all’interno della maggioranza. La pratica di governo e la gestione amministrativa produssero anche un deterioramento della vita dei partiti. A causa dell’insuccesso elettorale del maggio 1968, i socialisti decisero di non entrare nel nuovo governo di centrosinistra. Gli successe il breve esecutivo di Mariano Rumor che si concluse nell’agosto 1969. – CAP 9 - Dalla scossa del Sessantotto alla svolta sovversiva del 1974 – Il movimento studentesco scoppiato nel 68 assunse un carattere internazionale che interessò tutti i Paesi occidentali e parte di quelli orientali. Subì l’influenza del movimento pacifista americano contro la guerra in Vietnam, delle battaglie per l’affermazione dei diritti dei neri e contro ogni tipo di discriminazione portata avanti da Martin Luther King, dell’impegno femminista e della lavorazione teorica della <<New left>> statunitense. Il 68 riguardò soprattutto le scuole superiori e l’università, ove si svolsero le prime occupazioni. Il 27 novembre 1967, l’occupazione a Torino di Palazzo Campana diede inizio a una serie di agitazioni studentesche e di occupazioni universitarie che dilagarono in tutta la penisola. Gli studenti bloccarono le lezioni e avviarono forme di sperimentazione didattica, suscitando lo sconcerto della maggioranza dei professori e l’adesione di una parte di essi, quella più giovane e politicizzata a sinistra. I rettori reagirono duramente ricorrendo più volte alle forze dell’ordine. Nel corso del 68 si diffusero anche forme di vita sociale e collettiva nelle cosiddette comuni, in cui si espresse la contestazione verso il modo di essere della famiglia tradizionale. Esistettero due modelli diversi di comune: 1. di tipo naturalista, proto-ecologista e anarchico-libertario, situato in luoghi di campagne isolati dove i partecipanti adottarono uno stile di vita hippie all’insegna dello slogan <<Peace & love>>. Il desiderio principale di questi giovani era di evadere dallo stile di comportamento borghese mediante il viaggio che coincideva con un'autentica scoperta di se stessi: un trip della mente, che prevedeva l’assunzione di droghe naturali e sintetiche, oppure con un sacco a pelo e lo zaino e spalla nell’Europa settentrionale o verso l’Oriente. La scoperta dell’amore libero, nella convinzione che la gelosia fosse un sentimento borghese. 2. si trovava in città il più delle volte aveva origine con l’occupazione dei locali sfitti o abbandonati. Assunse un carattere Underground che implicò un assidua militanza politica vicino al mondo delle fabbriche, dell’immigrazione e della marginalità sociale. Organizzavano picchetti davanti alle industrie svolgevano interminabili discussioni politiche e sedute di autocoscienza all’interno di una prospettiva di carattere dichiaratamente rivoluzionario Negli anni 70, quanti scelsero di vivere in una comune aderirono a quella ribellione con anima e corpo, rimanendone segnati per sempre. Forse il culmine del 68 italiano si raggiunse a Roma il 1 marzo 1968, nel corso dei scontri tra la polizia e gli studenti presso la facoltà di architettura di Valle Giulia. In quella occasione i manifestanti reagirono per la prima volta in modo violento. Gli scontri suscitarono un ampio dibattito nel paese. Il 7 dicembre a Milano si verificò l’altro evento simbolo del 68 italiano: un gruppo di studenti milanesi, capeggiati dal leader del movimento Mario Campana, contestarono l’apertura della stagione del teatro della scala, organizzando un lancio di uova e di ortaggi sulle pellicce delle signore in procinto di entrare. A Torino, l’alleanza tra operai e studenti fece incontrare due diversi tipi di emarginazione e di conseguente frustrazione psicologica e sociale: quella del giovane <<operaio-massa>> meridionale di recente immigrazione, costretta a lavorare in fabbrica per 48 ore. Il 7 marzo 1968, gli studenti solidarizzarono in piazza con gli operai e accompagnarono la loro mobilitazione in Fiat per il mese successivo che puntava a ridurre il lavoro e l’orario a 44 ore settimanali. Cominciarono a prendere forma una serie di organizzazioni leaderistiche che rappresentarono una specificità del lungo 68 italiano. Prevalsero due fenomeni: la frammentazione, con la costruzione dei micropartiti e la radicalizzazione del conflitto politico e sociale. Tra le numerose sigle si ricordano <<Potere operaio>>, <<Avanguardia operaia>>, <<Lotta continua>>. Questi gruppi extraparlamentari, amati da un’accesa rivalità fazionaria e in concorrenza tra loro, avevano in comune l’obiettivo di portare avanti una lotta continua contro il sistema capitalistico borghese in nome per conto di un’avanguardia operaia che avrebbe dovuto stabilire l’autonomia del nuovo potere operaio. Con tali premesse politico-ideologiche il 68 italiano ha anticipato la grande mobilitazione operaia dell’anno successivo, il cosiddetto <<autunno caldo>>. I bassi salari e la disoccupazione avevano rappresentato da sempre due caratteristiche strutturali del sistema produttivo italiano, ma, nel corso di quella stagione di lotte, il fenomeno subì un’inversione di tendenza. Sul piano simbolico e politico il movimento del 68 finì a Torino il 3 luglio 1969 con la cosiddetta <<rivolta di corso Traiano>>, ove operai e studenti si unirono davanti agli stabilimenti della Fiat di Mirafiori e partirono in corteo, sfuggiti al controllo dei sindacati e dei partiti. L’assalto della Celere fu improvviso e violento, ma i manifestanti reagirono e si consumarono scontri durissimi che segnarono un salto di qualità nella conflittualità sociale e nella solidarietà raggiunta tra il mondo delle fabbriche e le avanguardie studentesche. Nell’autunno 1969 i metalmeccanici si misero alla testa di una serie di vittoriose rivendicazioni salariali, seguiti dalle altre categorie industriali. I successi ottenuti riguardarono anche l’abolizione delle cosiddette "gabbie salariali” e l’affermazione di nuove forme di democrazia sindacale come l’assemblea e i consigli di fabbrica. I giovani cattolici, sulla spinta evangelica del Concilio Vaticano II, si sentirono attratti dal 68 e contribuirono a rafforzarlo culturalmente. La parte del mondo cui si iniziò a guardare con maggiore attenzione fu l’America centromeridionale dove negli stessi anni si erano organizzati gruppi cattolici di base che combattevano a mano armata i regimi militari diffusi in quel subcontinente oltre al mito di Che Guevara e a quello del prete colombiano Camilo Torres, il mondo cattolico guardò la cosiddetta teologia della liberazione. Questa spiritualità evangelica radicale, impegnata soprattutto nella virtù della carità, animò una serie di comunità di base, composte da laici e da ecclesiastici, e gruppi religiosi del cosiddetto dissenso, che vissero la loro fede dentro esperienze legate a una rigorosa dimensione sociale e ad atti pubblici di contestazione delle gerarchie ecclesiastiche dal forte significato simbolico. Di solito in queste comunità di base si affermò la pratica della mediazione diretta delle fonti testamentarie, in particolare la Bibbia, si appoggiarono i movimenti di liberazione del Terzo mondo, declinato sotto la specie del solidarismo cristiano e si fece volontariato nelle periferie urbane Il 25 aprile 1969 esplose una bomba nello stand della Fiat alla fiera campionaria di Milano, provocando 20 feriti. Un altro ordigno scoppiò poco dopo nella filiale della Banca nazionale delle comunicazioni presso la stazione centrale. Il commissario Antonino Allegra, capo dell’ufficio politico della Questura meneghina, indicò che gli attentati erano di provenienza anarchica. L’episodio più grave si registrò il 4 ottobre 1969, quando ignoti deposero un ingente quantità di esplosivo nella scuola materna slovena di Trieste, per protestare contro il vertice tra il presidente della Repubblica Saragat e il maresciallo Tito. L’ordigno non esplose per un difetto tecnico, evitando una sicura strage di bambini sloveni e di maestre dell’asilo. L’escalation della spirale di violenza coincise con il culmine dell’<<autunno caldo>>, ossia si svolse nel pieno delle aspre lotte sociali e sindacali per il rinnovo del contratto di lavoro dei metalmeccanici: il 12 dicembre 1969, a Milano, esplose una bomba dentro la Banca dell’agricoltura di Piazza Fontana che fece 16 morti. In quel pomeriggio si registrarono altri 4 attentati che non aumentarono il numero dei morti. La strage di Piazza Fontana del 1969 rappresentò un momento di svolta nella politica italiana, con l'obiettivo di condizionare il cambiamento politico e sociale del Paese. Le indagini furono depistate per accreditare una responsabilità anarchica o di estrema sinistra, mentre si scoprì che il responsabile della strage era un neofascista. Si ipotizzava che l'obiettivo fosse innescare una serie di eventi che avrebbero portato a uno scioglimento anticipato delle Camere, nuove elezioni e un governo con l'appoggio della destra. Tuttavia, la reazione popolare e la tensione politica portarono il presidente del Consiglio Rumor a ritirare il suo appoggio al piano, che evidenziava un disegno destabilizzante. Inoltre, si evidenziò un coinvolgimento di funzionari pubblici con un passato fascista nell'alta burocrazia dello Stato, che favorivano la copertura della pista nera e la manipolazione dell'opinione pubblica. Si ipotizza che dietro questi eventi vi fosse un tentativo di spostare l'opinione pubblica a destra e preparare il terreno per governi autoritari o presidenzialismi. Diritti sociali: maggio 1970, Statuto dei lavoratori, una riforma che stabilì nuove norme a tutela della dignità degli operai e dei loro diritti di rappresentanza politica e sindacale. Diritti civili: dicembre 1970, legge sul divorzio. Profilo istituzionale: nascita delle Regioni a statuto ordinario, già previste dalla costituzione Statuto lavoratori (1970) Reca norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà e attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento. E’ uno dei punti più alti della stagione delle riforme degli anni 70. Lo Statuto dei lavoratori fa entrare la Costituzione nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro. Il golpe Borghese e Fronte nazionale Il paese continuava ancora a essere scosso da vaste lotte sociali operaie e studentesche. L’8 dicembre 1970 aborti un tentativo di colpo di Stato promosso da Borghese, divenuto il capo dell’organizzazione neofascista “Fronte nazionale”, da lui fondata a Roma nel settembre 1968. Egli avrebbe organizzato l’azione insieme alcuni generali delle forze armate già coinvolti nel contro il corpo e le sedi diplomatiche in giro per il mondo. In cambio l’Italia si impegnò ad assicurare alla controparte palestinese due condizioni: concesse dei salvacondotti giudiziari ai miliziani arabi catturati sul suolo nazionale dalle forze dell’ordine nell’atto di compiere attentati verso obiettivi italiani o stranieri tollerò il continuo traffico di armi che dal Nord Europa, servendosi dell’Italia come una passerella, i palestinesi utilizzavano per combattere gli israeliani in medio oriente. La stipulazione degli accordi avvenne sotto l’urgenza di una trattativa svolta dal colonnello Minerva. Venne inviato il 20 settembre 1973 in Libia e la sua missione raggiunse l’obiettivo di ottenere il rinvio della scadenza di un ultimatum che minacciava una rappresaglia contro gli interessi italiani se non fossero stati liberati dei miliziani arrestati a Ostia nell’atto di compiere un attentato contro un aereo israeliano. Il colonnello Minerva, quando l’autorità giudiziaria lo interrogò sul significato della sua missione, spiegò che il governo richiese il suo intervento per mediare, trattare e trovare idonei strumenti al fine di evitare che gli israeliani e i palestinesi si battessero in Italia. Il governo italiano strinse quell’accordo di non belligeranza grazie all’azione sul campo del colonnello Giovannone. Crisi economica – anni di piombo Lo shock petrolifero del 1973 quadruplicò il prezzo del greggio e la nuova impennata dei prezzi del 1979 lo triplicò portandolo a 32 dollari al barile. La crisi di materie prime si affiancò a una parallela crisi monetaria, con la fine del sistema inaugurato nel 1944 a Woods: nel 1971 gli Stati Uniti sospesero la convertibilità del dollaro con l’oro e proprio nel 73 si decretò la fine dei cambi fissi. Portarono a una svalutazione della valuta americana che contribuì ad aumentare il tasso tendenziale dell’inflazione, combinandosi con una stagnazione senza precedenti con inevitabili riflessi anche in Italia. Tra il 73-80 L’Italia visse l’età dell’oro: continuò a crescere del 3,7% annuo, con un tasso superiore a tutti i paesi europei, agli Stati Uniti e comparabile soltanto a quello del Giappone. Ciò conferma che l’onda della ricostruzione del boom economico e l’ingerente migrazione di lavoratori dall’agricoltura verso l’industria e i servizi non avevano smesso di continuare a dispiegare i loro benefici effetti. Austerità Rumor Per attenuare gli esiti della crisi petrolifera, il governo Rumor varò delle misure di contenimento della spesa energetica che incisero direttamente sulla vita quotidiana degli italiani, obbligati a circolare a targhe alterne, pari o dispari, per risparmiare sulla benzina, ad andare a piedi, a utilizzare nei giorni festivi soltanto i mezzi pubblici o le biciclette. L’illuminazione pubblica venne ridotta del 40%, con l’obbligo di tenere spente le insegne e le scritte pubblicitarie, bar e ristoranti dovettero chiudere entro la mezzanotte e gli spettacoli di cinema e di teatro un’ora prima. Gli edifici divennero più freddi in quanto le scuole, gli ospedali, gli uffici e le case private ridussero gli orari del riscaldamento. Gli anni 70 si rivelarono un decennio importante per l’industrializzazione del Mezzogiorno. Per la prima volta nella storia nazionale l’economia meridionale tenne il passo di quella settentrionale. In questo modo l’Italia, riuscì a rimanere agganciata alle dinamiche economiche europee dei paesi più industrializzati. I limiti dell’intervento pubblico nel sud sono stati tre: il meridione è rimasto fondamentalmente assistito dalla mano pubblica e non non si sono verificate le condizioni per un suo sviluppo auto propulsivo e autonomo la continua emigrazione non soltanto operaia, bensì anche di giovani laureati, della piccola e media borghesia, partiti verso le università del Nord senza fare poi ritorno a casa. La perdita di questo capitale umano ha impoverito il mezzogiorno di preziose risorse che la nascita di nuovi centri universitari non è riuscita ad arginare. ingerenza crescente nel tessuto economico e civile della criminalità organizzata: la sacra corona unita in Puglia, la camorra in Campania, la ‘ndrangheta in Calabria e la mafia in Sicilia. Le pressioni economiche, sociali e civili spiegate dalle diverse mafie alterano le condizioni di investimento delle imprese con la pratica del taglieggio sistematico, il racket del pizzo. Inoltre condizionano le forme e i modi di organizzazione della politica, aumentano il tasso di corruzione e impauriscono e demoralizzano la società civile, cui forniscono beni e servizi di assistenza e protezione che lo Stato ha difficoltà a erogare. Una serie di debolezze strutturali nel sistema economico nazionale: l’eccessiva dipendenza dalle materie prime importate dall’estero che, quanto aumentarono il loro costo a causa della crisi petrolifera, fecero crescere i prezzi dei nostri prodotti, riducendone la competitività sul mercato internazionale l’elevato e crescente debito pubblico che aumentò a causa del ricorso alla cassa integrazione, grazie alla quale gli operai di un’azienda in crisi percepivano comunque una parte del loro salario. Welfare nell’istruzione, nella sanità e nel lavoro, perché la spesa pubblica si impennò proprio nel momento in cui iniziò a manifestarsi una seria crisi fiscale dello Stato, la cui soluzione avrebbe dovuto prevedere una più rigorosa lotta all’evasione e un aumento delle imposte. problema di una pubblica amministrazione caratterizzata da un accentramento farraginoso e dalla mancanza di una cultura del risultato e della valutazione. Il fenomeno alimentò un diffuso senso comune che trovò dal 1975 in poi, nel comico Paolo villaggio e nel personaggio del ragionier Ugo Fantozzi, una corrosiva maschera satirica in grado di mettere alla berlina gli usi e i costumi del ceto medio impiegatizio nazionali che si recava al cinema per ridere di se stesso. propensione dei contribuenti a evadere e a illudere il fisco in modo sempre più esteso. Tale elemento si accompagnò con un’ampia incidenza del lavoro sommerso o in nero che continua ad alimentare un’economia parallela in grado di sfuggire a ogni controllo tributario, ma la maggioranza delle forze politiche preferirono tollerare la situazione per paura di perdere il loro consenso. Nel 69 il governo varò il meccanismo delle pensioni di anzianità che permise al lavoratore di ritirarsi in anticipo con assegni ridotti mentre nel 73, l’esecutivo di centro sinistra introdusse il meccanismo delle pensioni baby: prevedeva che un dipendente pubblico avesse la facoltà di smettere di lavorare con soltanto 19 anni, sei mesi e un giorno di contributi. Significò che migliaia di italiani iniziarono a gravare sulle casse dello Stato intorno ai quarant’anni, con una prospettiva di vita allungata sì che avrebbe potuto consentire loro di ricevere persino il triplo di quanto effettivamente versato all’erario. l’incremento del costo della vita che spinse l’inflazione a raggiungere le due cifre. Colpì in particolare i lavoratori autonomi i quali furono indotti ad aumentare i prezzi dei loro beni e servizi per conservare un livello di reddito adeguato all’incremento del costo della vita, alimentando così una spirale inflazionistica. Negli anni 70 l’Italia imboccò la strada della ricostruzione dei margini di profitto per le imprese. Berlinguer e Moro, il compromesso storico Il segretario del PCI nell’ottobre 1973 lanciò la strategia del compromesso storico, ossia un’alleanza con la DC, in grado di provare a risolvere la crisi italiana. L’elaborazione di questo disegno avveniva in un contesto interno segnato dagli attentati in serie della strategia della tensione e dal radicalizzarsi delle azioni sovversive dell’antifascismo militante della sinistra extraparlamentare, in una situazione ove il fronte reazionario come quello rivoluzionario si rivelavano comunemente interessati a schiacciare ogni tentativo di politica gradualistica e riformatrice in Italia. Berlinguer era divenuto segretario del PCI nel 72 e aveva rivolto il suo sguardo in particolare all’indirizzo del mondo giovanile, davanti alla scelta di compiere il salto decisivo nel baratro della lotta armata, ossia la scelta di impegnarsi seriamente nell’agire politico in un partito popolare e di massa. A condizione di abbandonare il movimentismo studentesco operaio che stava imboccando una strada sovversiva, in cui avrebbe avuto piena cittadinanza la violenza difensiva e attacco fino alla pratica dell’omicidio politico. Moro elaborò una strategia autonoma ma dialogante con quella del compromesso storico: era giunto per entrambi il tempo di ricostruire ponti, non di continuare a scavare i fossati tra le due forze politiche più popolari del paese. L’obiettivo comune era quello di portare gradualmente l’Italia oltre le colonne d’Ercole della Guerra fredda. Moro e Berlinguer guardavano entrambi lontano ma in direzioni diverse. Per Moro il periodo di collaborazione con Berlinguer era funzionale a far respirare la Dc, a costringere la presunta diversità del PCI a confrontarsi con la concreta pratica di governo e a costruire un nuovo assetto politico in cui, dopo una fase di coabitazione alla guida del Paese, i democristiani e i comunisti sarebbero tornati ad essere alternativi. Per Berlinguer, invece, il compromesso non avrebbe dovuto rappresentare una mera operazione di governo, ma assumere i caratteri di una svolta epocale, stabilendo la base di un nuovo assetto politico e sociale in cui, grazie al contributo dei cattolici e dei comunisti, l’Italia superasse la crisi in cui si era abitata. Inoltre la scelta del compromesso storico avrebbe dovuto costituire una fase di quel percorso che passava anche attraverso la messa in discussione della logica dei blocchi contrapposti determinata dalla Guerra fredda. Dal giugno 1973, dopo il fallimento del governo centrista di Andreotti con i liberali, Moro rientrò in campo e scelse il segretario del PCI come interlocutore privilegiato per realizzare il suo disegno della solidarietà nazionale. Il nuovo governo, guidato da Rumor, segnò il ritorno dei socialisti in maggioranza e durò fino al novembre 1974, ma si limitò ad avere un valore transitorio, funzionale a prospettare nuovi equilibri. Il sequestro Sossi Il 18 aprile 1974, Sossi viene sequestrato davanti alla sua abitazione da un commando composto da due brigatisti. Le Brigate Rosse chiedono come contropartita per la sua liberazione la scarcerazione di otto terroristi del Gruppo XXII Ottobre. Il procuratore generale di Genova Coco rifiuta di controfirmare l'ordinanza di scarcerazione, e sarà per questo ucciso dalle Brigate Rosse due anni dopo. Sossi viene comunque rilasciato il 23 maggio 1974. 1974 il moto di riforma sociale sul terreno dei diritti civili culminato con il referendum abrogativo del divorzio il balzo in avanti compiuto dal Partito armato in cui le Brigate rosse, cominciarono ad acquisire un ruolo dominante lo stragismo neofascista che toccò il suo apice con due nuovi crudelissimi attentati. Il divorzio Nel 1968 il governo Leone promuove un disegno di legge che consente di indire referendum abrogativi totali o parziali rispetto a una legge dello Stato. la proposta diventa legge nel 1970. Il governo Rumor, come suo ultimo atto, indisse il referendum abrogativo della legge parlamentare del 1970, riguardante il divorzio Da una parte si collocava il fronte clericale, capitanato dalla DC, guidata da Fanfani, alleato con la destra conservatrice e quella neofascista del movimento sociale. Era convinto di riuscire a prevalere attraendo l’elettorato comunista nell’opposizione all’istituto del divorzio e grazie all’appoggio delle gerarchie ecclesiastiche romane e diocesane, persuase che nel segreto dell’urna avrebbe prevalso la coscienza cristiana degli italiani. (Divorzio no) Dall’altra parte era schierato il fronte laico e progressista, guidato dai radicali e dalla lega italiana per il divorzio, con i socialisti, i liberali, i socialdemocratici, i repubblicani e i comunisti. Dopo un'iniziale esitazione, questi ultimi decisero di schierarsi a favore della scelta referendaria, dando un contributo decisivo alla battaglia che assunse l’intensità di un autentico scontro di civiltà. (Divorzio si) Il 13 maggio 1974 il referendum vide prevalere nettamente il fronte a favore del divorzio. La DC uscì assai ammaccata dal risultato del referendum, avendo pure dovuto scontare l’impegno di una agguerrita pattuglia di cattolici democratici in dissenso alla linea ufficiale del partito e della Santa Sede. La vittoria sul divorzio rivelò che la società italiana era più avanti della politica. Scioglimento Ordine nuovo A Brescia si verificò una nuova terribile strage neofascista. Nel corso di una manifestazione antifascista in piazza della Loggia, il 28 maggio 1974, una bomba uccise 8 cittadini, colpendo giovani insegnanti, pensionati e operai. Un lunghissimo iter giudiziario ha acclarato nel 2017 con sentenza definitiva le responsabilità del dirigente di Ordine nuovo in Veneto, Maggi e Tramonte che sono stati entrambi assicurati alla giustizia. Una sentenza fondamentale nella storia dell’Italia repubblicana perché ha suggellato, ormai anche a livello giudiziario, le responsabilità della manovalanza neofascista nel periodo 69-74. quelli di più umili origini sociali provarono a inserirsi nel mondo del lavoro. Altri scelsero inquieti percorsi orientali di ricerca filosofica e religiosa, trasferendosi in paesi extra europei come l’India seguendo un viaggio via terra. Simili esperienze eccentriche di rottura netta con il proprio passato, che comportavano l’adesione a stili di vita hippie, profonde conversioni religiose e spirituali, l’allontanamento dalla famiglia di origine e l’assunzione di droghe naturali rappresentarono negli anni 70 un fenomeno sociale che alimentò un ritorno in auge dell’orientalismo. Infine una ristretta minoranza aderì alla lotta armata perseguendo un percorso abbastanza prestabilito: gli iscritti al Potere operaio entrarono nelle Brigate rosse, quelli di Lotta continua in Prima linea. Tra il 71 e 72 bisogna collocare una decisiva cesura con la nascita e il rapido radicamento di strutture di azione clandestina sia all’interno di Potere operaio sia dentro Lotta continua che assunsero la forma visibile dei servizi di ordine. Funzionarono anche come cellule riservate, sconosciute o ignorate dalla maggioranza dei militanti delle rispettive organizzazioni ma disponibili a praticare rapine di autofinanziamento e la lotta e l’azione armata. I rapporti tra i gruppi extraparlamentari erano improntati a un’accesa rivalità, interna e tra di loro, ma erano estremamente fluidi perché scorrevano all’interno di un bacino di militanza e di esperienza politica rivoluzionaria comune. All’origine, i servizi d’ordine erano nati in forma difensiva per fare fronte agli attacchi dei fascisti, per difendere le case occupate, per tenere le manifestazioni, anche se non autorizzate dalla Questura. Essi subirono una rapida evoluzione in chiave militarista che sfuggì di mano alla direzione politica e alla volontà di controllo dei dirigenti stessi dell’organizzazione, che cominciarono a subire il loro condizionamento armato, ma scelsero di governare il fenomeno per non perdere la leadership all’interno del gruppo. Elezioni ‘76 In questo contesto nazionale e internazionale, Berlinguer rilasciò un’intervista al Corriere della Sera nel giugno del 76, in cui dichiarò di sentirsi più sicuro sotto l’ombrello protettivo della Nato e di non voler uscire dal patto Atlantico. Questo passaggio conteneva un riconoscimento positivo della funzione svolta dalle alleanze internazionali ai fini della sicurezza e della sovranità dei paesi dell’Europa occidentale e faceva compiere al PCI un altro passo in avanti nella sua sua collocazione nel sistema occidentale. Negli stessi mesi, approfondì anche il suo progetto di eurocomunismo, che includeva i partiti comunisti occidentali della Francia e della Spagna, escludendo quelli dell’est. Questa posizione implicava la valorizzazione della democrazia rappresentativa, quella che i sovietici, in base alla dottrina marxista-leninista, continuavano a giudicare una sovrastruttura borghese. All’interno del campo socialista conquistò la guida del partito Bettino Craxi, con la svolta del Midas. Impresse un nuovo corso alla direzione politica del PSI che schierò in una posizione autonomista, contro il compromesso storico tra DC e PCI, ma anche contro l’alternativa di sinistra tra comunisti e socialisti, propugnata dal suo predecessore. La campagna elettorale per le politiche del giugno 1976 si svolse in un clima di attesa dello storico sorpasso sulla DC da parte del PCI e l’intervista di Berlinguer aveva l’evidente scopo di tranquillizzare l’opinione pubblica. Quanto più il PCI sembrava un passo da grande balzo verso il governo, tanto più gli episodi di destabilizzazione crescevano a dismisura, producendo l’effetto di avvelenare il clima e di ingenerare una relazione di inquietudine tra quella nuova prospettiva politica e l’effettivo aumento del disordine sociale. Il 27 maggio 1976 si aprì a Torino il processo al nucleo storico delle Brigate rosse, che gli imputati seppero trasformare in una utile cassa di risonanza propagandistica delle loro azioni, rivendicate con appositi comunicati letti in aula. Le elezioni segnarono una netta avanzata del PCI con il 34% dei consensi, ma consegnarono un risultato di stabilità per la DC rimasta al 38,7%. Moro accreditò con abilità l’immagine delle elezioni dei due vincitori e, quindi un sostegno elettorale alla linea fino ad allora eseguita di concerto con Berlinguer. Si realizzarono così le condizioni per varare il primo governo di solidarietà nazionale, un monocolore DC, con l’astensione del PCI che abbandonava l’opposizione. L’esecutivo poté contare sull’astensione anche dei socialisti, dei socialdemocratici, dei liberali e dei repubblicani. Solidarietà nazionale Dopo le elezioni del 76 il PSI è indisponibile a governi di centro-sinistra: matura l'idea di un governo DC appoggiato da tutti e cinque i partiti dell'arco costituzionale (pentapartito) nell'agosto 76 nasce il governo delle astensioni, presieduto da Andreotti: un monocolore DC, data l'astensione del PCI, PSI etc un nuovo governo Andreotti nasce lo stesso giorno del rapimento di Moro, il PCI vota la fiducia di fronte alla situazione di emergenza il PCI sostiene la politica dell'austerità per diminuire l'inflazione e avalla la moderazione nelle richieste sindacali nel 78 vede la luce e la legge sull'Equo canone per calmierare gli affitti. Lo lo stesso anno un'altra riforma istituisce il servizio sanitario nazionale Su indicazione di Moro ascese alla carica di presidente del Consiglio Andreotti, nella convinzione che il suo profilo più moderato potesse garantire meglio non soltanto il fronte internazionale, ma anche quello interno, dove conservatori e reazionari avversavano l’apertura al PCI in nome di un radicale anticomunismo. Una settimana dopo le elezioni al vertice internazionale di Puerto Rico, riservato alle sette potenze più industrializzate del mondo, l’Italia arrivò senza un governo in carica, quindi nelle condizioni politiche peggiori. Moro e Rumor, dovettero subire l’umiliazione di essere esclusi dalla coalizione di lavoro del 27 giugno 1976. L’8 luglio a Parigi si tenne una nuova riunione, in cui le potenze posero uno sguardo rivolto alla politica interna dei rispettivi paesi. Le delegazioni produssero un documento segreto, intitolato Democracy in Italy, in cui auspicavano la fine della deriva italiana con il varo di un governo centrista a guida democristiana, di cui si spinsero ad abbozzare un programma di massima, improntato a radicali politiche di austerità economica: il contenimento della spesa pubblica la riduzione dell’evasione fiscale la lotta alla corruzione e al nepotismo l’obiettivo di raggiungere una concertazione tra imprenditori e sindacati la necessità di cambiare dall’interno la DC che avrebbe dovuto liberarsi dalle pecore nere e contestare al PCI la sua egemonia culturale Tutto ciò sarebbe dovuto rimanere riservatissimo perché, se si fosse realizzata una fuga di notizie, finirebbe per essere un regalo ai comunisti. Austerità Andreotti Nell’autunno 1976 il governo Andreotti annunciò il suo programma di austerità, condiviso con il PCI. Tra le misure proposte ricorrevano il blocco per due anni della scala mobile l’abolizione di sette festività annuali per aumentare il numero dei giorni lavorativi l’incremento del 25% del prezzo della benzina, del 20% del gas, del costo dell’energia elettrica e delle tariffe postali e telefoniche Nel gennaio 1977 Berlinguer indicò al PCI la strada dell’austerità, intesa come la necessità di superare un modello di sviluppo improntato a stili di vita consumistici, che alimentavano lo sperpero delle risorse, i comportamenti parassitari, i privilegi di pochi e gli scudi ambientali tra il Nord e il Sud del mondo. La classe operaia si rendeva disponibile a sacrifici in nome della sua responsabilità nazionale, a patto di ottenere in cambio una garanzia di cambiamento qualitativo della società. Il discorso di Berlinguer venne accusato di moralismo e di pauperismo soprattutto dagli ambienti della sinistra extraparlamentare e dell’anticomunismo militante della destra antiparlamentare, che si mossero a tenaglia per contenere la sua azione politica. Soprattutto i fiancheggiatori del Partito armato e i sodali dei golpisti e degli stragisti neri, affibbiarono l’etichetta dispregiativa di “cattocomunista” alla strategia di Berlinguer e di Moro, comunemente interessati a schiacciare ogni tentativo di politica riformatrice. Movimento ‘77 muta l'atteggiamento dei giovani verso il lavoro, progressivamente considerato in termini di monetizzazione si ritiene sempre più che il lavoro non sia centrale nella costruzione sociale e identitaria e che da esso non si ricavino benefici materiali o simbolici il lavoro manuale e operaio viene letto con crescente avversione non vi è più fiducia rispetto al miglioramento della vita in futuro, conta il soddisfacimento immediato dei bisogni l'emancipazione e i bisogni esistenziali si spostano sul quotidiano e sul privato. La rottura più profonda della strategia di Berlinguer si verificò con i giovani del movimento del 77, che irrisero la politica dell’austerità e attaccarono frontalmente il governo di solidarietà nazionale e il sostegno offertogli dal PCI. Segnati dal declassamento, dalla disgregazione sociale e dalla crisi dell’università di massa, mostrarono tutta la loro insofferenza verso i sacrifici chiesti dal governo e dal PCI, ma si limitarono a rivendicare una diversa e più inclusiva ridistribuzione delle ricchezze a livello individuale, non un cambio di paradigma produttivo. Milano e le sue periferie si configurano come laboratorio di un nuovo soggetto protagonista della contestazione: il proletariato giovanile, composto da giovani e giovanissimi che non di rado condividono un senso di isolamento sociale nelle grandi metropoli e l'incapacità di coniugare i propri bisogni esistenziali in una società del lavoro in via di saturazione. Un raduno giovanile presso il parco Lambro di Milano, organizzato nel 76 dalla rivista <<re nudo>>, anticipò il 77. In quella circostanza l’iniziale clima di euforia e di liberazione collettiva dei partecipanti si sciolse in episodi di violenza, vandalismo e caos. L’evento alimentò una sorta di rito carnevalesco in cui, sotto la maschera generazionale, si nascondevano un’inquietudine e una rabbia pronta a esplodere. Un nuovo strumento mediatico, le cosiddette radio libere, autoprodotte e auto organizzate, diffusero le idee e la cultura del movimento. Esse divennero scuola di giornalismo e fucina talenti, palestra di antifascismo militante, centrali di informazione e di partecipazione, sedi di autocoscienza collettiva, generatori di controinformazione, luoghi di sperimentazione artistica, alimentatore di violenza e di istigazione agli scontri armati nelle piazze contro i neri o i celerini. La controcultura e underground dei giovani del 77 si espresse anche in forme nuove e originali come la musica punk e con riviste di taglio satirico e politico. L’ala creativa e libertaria del movimento praticava lo scontro armato nelle piazze. A colpi di P38, manifestarono il loro dissenso il 17 febbraio del 77 quando cacciarono il sindacalista Luciano Lama dall’Università di Roma occupata dagli studenti. Un atto che si configurò come un parricidio che ruppe a sinistra un doppio tabù: il credo nel PCI e nella mitologia operaia. L’area dissacrante e pacifica del movimento esprimeva un’ansia di ribellione contro i persistenti vincoli gerarchici e patriarcali presenti nella società italiana e con la frangia violenta e armata visse un rapporto all’insegna di un inevitabile ambiguità di valori e di comportamenti. Confronto Rispetto al 68 si caratterizzò per essere più plebeo e violento, con una minore interazione con gli operai e una maggiore presenza di studenti precari e lavoratori part-time. Il movimento del 77 si rivelò animato da una profonda cupezza e crescente disagio esistenziale che sfociò nel dilagare della tossicodipendenza, a causa della diffusione dell’acido LSD e dell’eroina. A Roma e a Milano quasi tutti i sabati pomeriggio si svolgevano manifestazioni studentesche. I partecipanti assalivano i negozi per realizzare espropri proletari di generi di consumo e di armi, praticavano autodistruzione di massa, distruggevano le vetrine delle sedi delle banche, bruciavano i cassonetti dell’immondizia o le macchine in sosta, attuavano blocchi stradali provocando una vasta gamma di disordini in nome l’affermazione di un’illegalità diffusa. Si è parlato di spontaneismo armato, ma in realtà i tracciati dei cortei, autorizzati dalla Questura, subivano puntuali e predeterminate deviazioni sempre in corrispondenza di furgoni o nascondigli dove erano stati in precedenza o occultati bastoni, si decretò la chiusura dei manicomi Istituzioni migliori e più vicine ai cittadini. Nel febbraio 78, si concretizzò la svolta dell’Eur, una conferenza sindacale che assunse questi indirizzi in cambio di un programma di investimenti per garantire la nuova occupazione, in particolare nel Mezzogiorno, e quindi la ripresa economica nazionale. Ciò avvenne in base al principio che i sacrifici degli operai avrebbero permesso al sistema imprenditoriale italiano di accumulare il capitale necessario per realizzare nuovi investimenti produttivi. Ciò non accadde perché continua la fuga di capitale all’estero e la propensione all’investimento speculativo in prodotti finanziari da parte della media e dell’alta borghesia italiana. La crisi della solidarietà nazionale A gennaio del 1978 si aprì una complessa crisi di governo che si protrasse per circa due mesi. Il PCI chiese di entrare direttamente nell’esecutivo ponendo in crisi il quadro politico fondato sulla non sfiducia. Il 28 febbraio Moro tenne un discorso davanti ai gruppi parlamentari della DC, riuscendo a convincerli della necessità di includere anche i comunisti nel nuovo esecutivo e di salvaguardare l’unità del partito. Sullo sfondo si stagliavano le imminenti elezioni alla presidenza della Repubblica: dopo la ritirata del 1971, la carica di capo dello Stato non gli sarebbe sfuggita. Governo DC e PCI La crisi del governo terminò l’11 marzo con il varo di un esecutivo guidato da Andreotti che, per la prima volta dal 1947, avrebbe potuto contare sul sostegno diretto del PCI. Con tale decisione Moro vedeva finalmente compiersi il suo disegno di coinvolgimento dei comunisti e di allargamento della base democratica e popolare del paese, al quale aveva dedicato gli ultimi anni del proprio impegno in un confronto serrato con Berlinguer. Il rapimento di Moro Il 16 marzo 1978, giorno in cui il nuovo governo guidato da Andreotti stava per essere presentato in parlamento per ottenere la fiducia, l'auto che trasportava Aldo Moro dalla sua abitazione alla Camera dei deputati fu intercettata e bloccata in via Mario Fani a Roma da un commando composto da 10 brigatisti che sterminarono i cinque agenti della scorta e sequestrarono il presidente della DC. Se le Brigate rosse avessero voluto uccidere Moro, lo avrebbero assassinato con gli agenti di scorta. In realtà, la loro propaganda armata ambi a cogliere un obiettivo più raffinato: eliminare l’ostaggio, dopo avere destabilizzato il quadro politico e istituzionale mediante il suo rapimento e averne distrutto l’immagine sul piano civile e morale affinché il suo disegno non avesse eredi. La notizia del sequestro produsse reazioni contrastanti: lo stesso giorno i sindacati confederali proclamarono lo sciopero generale e a Roma, Lama arringò la folla davanti a un tripudio di bandiere rosse del PCI e di quelle bianche della DC, richiamando il popolo italiano all’unità nazionale e alla resistenza contro il terrorismo. Nelle fabbriche non pochi operai si mostrarono indifferenti, o persino favorevoli, all’azione brigatista. Il governo con il sostegno del PCI, sin dalla tarda mattinata, respinse ufficialmente con fermezza qualsiasi trattativa, secondo un doppio principio: il rifiuto di accettare un eventuale scambio di prigionieri cedendo così al ricatto imposto dai brigatisti dopo lo sterminio dei cinque servitori dello Stato la rinuncia a compiere atti che potessero implicare un riconoscimento politico e giuridico delle Brigate rosse in qualità di forza combattente, cosa che avrebbe legittimato la violenza armata come metodo ordinato di lotta politica che propizia nuovi sequestri Una linea di fermezza pubblica non escluse affatto il dispiegamento di una trattativa riservata o segreta, come dimostrò la strategia di recapito delle prime tre lettere di Moro alla moglie, al ministro dell’Interno Cossiga e al suo collaboratore Nicola Rana, adottata dalle brigate rosse il 29 marzo 1978. Nelle missive il prigioniero auspicò in modo esplicito la necessità di instaurare una trattativa che per avere successo doveva rimanere segreta e, nella lettera al ministro dell’Interno, spiegava di essere sotto un dominio pieno e incontrollato e di poter essere messo nelle condizioni di rivelare i segreti sensibili per la sicurezza nazionale in quanto era in gioco la ragion di Stato. Dopo avere consegnato riservatamente le due lettere e avere garantito a Moro che il loro contenuto non sarebbe stato reso pubblico, i sequestratori decisero di divulgare soltanto quella indirizzata a Cossiga, cogliendo in questo modo l’occasione per sbeffeggiare Moro e la mafia democristiana in un loro successivo comunicato. In questa seconda lettera il prigioniero proponeva che i sequestratori, con i loro comportamenti, mostrarono di essere interessati a tutelare, sebbene pubblicamente continuassero a proclamare di non voler alcuna trattativa con il regime. Come i brigatisti avevano preventivato, le lettere angosciate che il prigioniero cominciò a spedire ai suoi familiari, al Papa Paolo VI e ai principali uomini di partito italiani e autorità dello Stato destabilizzarono il quadro politico e istituzionale, aprendo un lacerante dibattito tra le ragioni della fermezza e quelle della trattativa. Il governo e i servizi segreti si avvalsero dell’apporto di un esperto dell’antiterrorismo statunitense, il quale si espresse per la linea della fermezza, pur ravvisando la necessità di individuare un intermediario segreto in grado di aprire un canale di dialogo con le Brigate rosse. Adottarono una strategia a 3 livelli: sul piano politico, pubblico e propagandistico, sostennero la linea della fermezza sul piano riservato, attivarono un un canale di comunicazione con il mondo brigatista sul piano segreto, dopo aver consultato il 3 aprile i segretari dei partiti di maggioranza e quindi anche Berlinguer che fece pervenire il suo assenso; il presidente del consiglio Andreotti si disse disponibile a pagare un riscatto per ottenere la liberazione di Moro, senza che ulteriori eventuali contenuti della trattativa segreta con i rapinatori siano mai emersi, se non in modo indiziario, ad esempio l’espatrio all’estero anziché l’arresto. La raccolta di questa somma coinvolse il Papa in persona, legato a Moro da un rapporto di stima e di amicizia Procedette come un normale sequestro di persona, seguendo le tecniche e le modalità ricattatori di questo tipo di reato, allora estremamente diffuso in Italia ma, in ragione della qualità dell’ostaggio, assunse anche un rilievo spionistico-informativo, funzionale a raccogliere notizie segrete o riservate riguardanti la sicurezza nazionale dello Stato e quella atlantica. I sequestratori sottoposero il prigioniero a una sorta di interrogatorio che ebbe come oggetto il disvelamento delle responsabilità della classe dirigente della DC nei fatti di sangue e nei tentativi golpisti accaduti in Italia nei vent’anni precedenti. Gli originali di questo interrogatorio, il memoriale, sono tutt’oggi scomparsi, mentre sono state recuperate delle fotocopie incomplete dei manoscritti autografati di Moro. Il tardivo ritrovamento di queste carte, avvenne soltanto dopo la caduta del muro di Berlino e la fine della Guerra fredda, ma l’interrogatorio risulta tagliato delle parti riguardanti la figura di Klapper, il golpe Borghese e il conflitto arabo-israeliano, incluso l’accordo di intelligence dell’ottobre 73, cui peraltro l’ostaggio aveva accennato più volte in alcune lettere inviate a selezionati e informati destinatari che le Brigate rosse si peritarono di recapitare riservatamente. Si trattava di una serie di vicende intorno alle quali erano ancora in corso delicatissime inchieste giudiziarie che coinvolgevano i principali vertici militari e dei servizi segreti italiani ed esteri. Questo, infatti, fu il principio regolatore dell’intera operazione Moro, già che l’ostaggio era un uomo di Stato. Per abbassare il valore dello ostaggio e quindi depotenziare l’attacco brigatista, l’antiterrorismo dispiegò una cinica controffensiva volta a minare l’autorevolezza e l’attendibilità di Moro e la sua stessa dignità morale come persona. Un espediente disinformativo divenuto necessario dal 10 aprile in poi, quando le Brigate rosse decisero di fare uscire una parte del memoriale di Moro, dedicata all’ex ministro degli Interni Taviani, il responsabile politico della Gladio Italiana dal 56 in poi. Da quel momento, la minaccia spionistica innescata raggiunse il massimo allarme perché cominciò a interessare la dimensione atlantica dell’Italia. Il 18 aprile 1978 si rivelò una giornata decisiva del sequestro di Moro quando avvennero due episodi altamente destabilizzanti. una fuga d’acqua, volutamente provocata da una mano ancora ignota, fece scoprire il covo di via Gradoli, abitato da Moretti, colui che stava interrogando l’ostaggio un comunicato apocrifo, realizzato da un abile falsario di opere artistiche legato alla banda della Magliana e in rapporti con i servizi segreti italiani e i carabinieri del nucleo per la tutela dei beni culturali, Chichiarelli, annunciava che il cadavere di Moro giaceva nei fondali del lago della duchessa, nel Lazio Le forze dell’antiterrorismo fecero confezionare il falso comunicato per ottenere una prova dell’esistenza in vita di Moro, un elemento necessario al proseguimento della trattativa occulta. In effetti, le Brigate rosse, per smentire il comunicato, divulgarono il 20 aprile una foto dell’ostaggio che sorreggeva una copia del giornale La Repubblica del 19 aprile e indicarono in Andreotti e i suoi complici i veri autori del depistaggio. Lo stesso prigioniero definì l’evento funzionale a preparare l’opinione pubblica alla sua scomparsa secondo modelli comunicativi spietati e originali. Il falso comunicato servì anche ad accreditare presso il Vaticano la figura di Chichiarelli, che ne era l’autore, come intermediario segreto, affinché il riscatto raccolto dal Papa non venisse nelle mani dei brigatisti a finanziare la lotta armata, bensì in quelle di un personaggio controllato dagli apparati dello Stato, anche se legato alla criminalità comune. Gli ultimi giorni della vita di Moro rimangono ancora oscuri non soltanto per le incongruità presenti nelle diverse e tra loro contraddittorie versioni fornite dai sequestratori, ma anche perché l’ostaggio in diverse lettere, e in una lunga parte del memoriale, si mostrò certo dell’immanente liberazione da parte dei brigatisti, che ringrazia per il loro atto di magnanimità, e si spinse ad annunciare la sua futura iscrizione al gruppo misto. Moro il 23 aprile 1978, scrisse a Don Antonello Mennini, figlio del vicepresidente laico della Banca Vaticana, invitandolo a recapitare tre lettere importanti di persona e con molta urgenza, nelle quali affrontava il tema dell’accordo di intelligence con i palestinesi, che i brigatisti recapitarono riservatamente soltanto il 29 aprile. In una di queste missive il prigioniero chiedeva esplicitamente la presenza a Roma del colonnello Giovannone, l’autore dell’intesa segreta con i palestinesi. Dal momento che le lettere uscirono dalla prigione soltanto il 29 aprile, è evidente che qualcuno dal suo interno poteva avvertire l’esterno della richiesta richiesta di Moro e ciò spiega come mai i brigatisti, diversamente dal solito, tergiversarono per quasi una settimana nel distribuire le tre missive del prigioniero. La mattina del 9 maggio si consumò in Jugoslavia un ultimo episodio del negoziato segreto che coinvolse quella parte dell’intelligence italiana rimasta sino alla fine leale a Moro, funzionale a completare l’articolato pacchetto della trattativa portata avanti sino a quel momento per ottenere in cambio la liberazione dell’ostaggio: il denaro raccolto dal Papa, che il 22 aprile rivolse un ultimo estremo messaggio ai sequestratori per riallacciare il filo del negoziato lo scambio uno contro uno di un brigatista malato il rilascio di tre militanti della RAF, detenuti nel carcere Jugoslave Costoro sarebbero dovuti essere liberati dal maresciallo Tito grazie all’intermediazione dell’OlP di Arafat. Il piano prevedeva la loro consegna all’ammiraglio Martini, che proprio la mattina del 9 maggio raggiunse la località in provincia di Belgrado, ove i terroristi erano detenuti, con il compito di farli imbarcare su un aereo per Beirut, sotto l’egida dell’onnipresente colonnello Giovannone. La notizia della morte di moro raggiunse l’ammiraglio Martini in quel preciso momento: egli tornò indietro e decise di abbandonare i servizi segreti. Dopo una prigionia di 55 giorni, Moro fu sottoposto a un processo politico da parte del cosiddetto tribunale del popolo, istituito dalle stesse Brigate rosse, e quindi ucciso il 9 maggio. Il suo cadavere fu ritrovato quello stesso giorno nel bagaglio di una Renault 4 rossa parcheggiata a Roma in via Caetani, tra le sedi del Partito Comunista e della Democrazia Cristiana. Una delle zone più controllate al mondo dai servizi segreti al tempo della Guerra fredda, in quanto luogo fisico di incrocio e obiettivo sensibile di un duplice campo di tensioni geopolitiche globali. Nella sede della DC comparvero due bandiere a mezz’asta con il nastro nero, una della DC e l’altra dell’Italia. infiltrazioni e di contrasto delle squadre speciali dei carabinieri e della polizia. Il nucleo guidato dal generale Dalla Chiesa individuò, tra l’Università di Padova, dove insegnava Negri, e quella di Cosenza, dove lavorava Piperno, il persistere di legami che avevano reso l’azione del Partito armato così efficace. Legge sui pentiti e torture sugli atti terroristici Le Brigate rosse, e in generale le vicende del Partito armato, sono state una storia soprattutto italiana, che interroga dolorosamente la politica, la cultura e la società civile del nostro Paese. Si è trattato di un fenomeno troppo vasto di lunga durata per non avere avuto motivazione di carattere politico, ideologico, culturale, sociale, economico, radicale soprattutto nella storia nazionale. Nel corso di un triennio, il terrorismo venne sostanzialmente sgominato grazie alla legge sui pentiti che, in cambio di sostanziosi sconti di pena, permise di raccogliere preziose informazioni sulla struttura e l’attività della galassia del Partito armato. Tra i metodi straordinari adottati, oltre al sistema delle carceri speciali che implicarono un regime di detenzione durissimo, bisogna registrare anche diversi episodi in cui si utilizzò la tortura per estorcere informazioni investigative, tra cui ustioni e scosse elettriche sui genitali, violenze sessuali e la tecnica del waterboarding. Una pratica sempre negata dalle autorità italiane, nonostante le plurime testimonianze e l’evidenza di denunce, anche fotografiche, regolarmente archiviate dall’autorità giudiziaria che fece finta di non vedere di non sapere. Situazione internazionale ‘79 Anche nel corso di questa crisi di riorganizzazione del potere nazionale, l’Italia seppe adeguarsi alle pieghe che stava assumendo la storia mondiale nello stesso giro di anni. Nel febbraio 1979, infatti, la rivoluzione khomeinista conquistò l’Iran facendo venire meno, in ambito petrolifero, uno dei riferimenti internazionali che avevano guidato la politica estera di Moro nel settore energetico, in competizione con quella di Andreotti più incline a privilegiare i rapporti con la Libia di Gheddafi. Anche la collocazione internazionale dell’Italia a partire dal 1972, con i governi Cossiga, Forlani e Spadolini che si succedettero dal 79 fino all’82, subì una chiara torsione opposta e contraria alla tradizionale tendenza filoaraba della politica estera nazionale. Sul piano diplomatico il culmine di questo atteggiamento si registrò nell’82 quando il presidente del consiglio Spadolini non volle ricevere il leader dell’Olp Arafat in visita in Italia, dove incontrò il presidente della Repubblica Pertini e il Papa Giovanni Paolo II. La potente destabilizzazione politica e sociale subita dall’Italia nel corso degli anni 70, per quanto avesse evidenti cause interne, scaturì anche da una geopolitica internazionale cresciuta all’ombra dei due giganti della Guerra fredda, gli Stati Uniti e l’Unione sovietica. Questo conflitto lasciava sul campo vinti e vincitori, tra le medie potenze dei due rispettivi blocchi che avevano provato a svolgere un’autonoma partita come terzi giocatori; anche sotto questo profilo internazionale veniva un tempo vecchio che ne iniziava uno nuovo. Elezioni 79 Nel giugno 1979 si celebrarono le elezioni anticipate: il PCI perdette consensi. Una settimana dopo si svolsero anche le consultazioni europee, nelle quali il partito di Berlinguer perse altri 800.000 suffragi, confermando la nuova tendenza alla discesa dei consensi. Nell’agosto 1979, Cossiga, un anno dopo le sue dimissioni dal ministro dell’interno, rientrò in scena formando il suo primo governo, composto dalla DC, Psdi, Psi e Pli. Invece Andreotti per la prima volta dal 47 non occupò per l’intera legislatura un posto al governo. Gli anni 70 si chiudevano lasciando alle loro spalle una scia di sangue e di lutti, di speranze che di riforme, ma complessivamente una nazione più infrangibile sul piano internazionale e nei suoi assetti interni, soprattutto nei rapporti tra la politica e la società civile, ove regnavano incontrastati il cinismo, lo scontento e la sfiducia. Quadro politico anni 80 ▪ Dopo il tramonto della "solidarietà nazionale" e l'uscita dal governo dei comunisti nel 1979, si apre una fase politica magmatica che culminerà nel Pentapartito (DC, PSI, PRI, PLI, PSDI) ▪ La nuova formula politica, fondata ancora una volta sull’esclusione del PCI, assorbe la consueta oscillazione centro-destra/centro-sinistra, occupando ogni spazio di potere e tratteggiando il quadro di una «democrazia consociativa» ▪ L’«eclissi delle due chiese», com’è stata definita, quella cattolica e quella comunista, si snoda nel lungo periodo e accompagna con le sue alterne fasi tutto il decennio ▪ Il 28 giugno 1981 Giovanni Spadolini, esponente del PRI, diventa il primo presidente del Consiglio laico della storia repubblicana Economia anni ‘80 Tra 81-83 si verificò un triennio di stagnazione economica, in cui la crescita del reddito nazionale si limitò a uno 0,6% annuo. Sia le conseguenze di una nuova crisi petrolifera, che determinò un rialzo dei prezzi del greggio, sia gli effetti del meccanismo della scala mobile produssero lo stallo degli investimenti della produzione. Il problema principale era causato dall’inflazione a due cifre. Sotto il governo guidato dal repubblicano Spadolini, il ministro del Tesoro Andreatta e il nuovo governatore della Banca d’Italia Ciampi realizzarono il cosiddetto divorzio consensuale tra Palazzo Koch e il ministero del Tesoro così da dare un segnale di rigore ai mercati interni e internazionali. Tra 75-81, la Banca d’Italia aveva avuto l’obbligo di acquistare i titoli del debito pubblico rimasti invenduti all’emissione. Per poterli comprare l’istituto centrale stampava moneta per evitare che il loro tasso di interesse salisse troppo. Lo Stato aveva ricavato in quegli anni l’indubbio vantaggio di ricevere moneta su cui non pagava gli interessi e con la quale finanziava la sua spesa è disavanzo. Con il provvedimento voluto da Andreatta con Ciampi, la Banca d’Italia riacquistò al controllo dell’offerta della moneta e poté così attuare una politica monetaria più restrittiva che ridusse i prezzi e il costo della vita: con la separazione, l’idea accettò il principio dell’indipendenza dalla Banca centrale dal potere politico e soprattutto diede una svolta netta alla lotta all’inflazione. Tuttavia, l’onda lunga di questo provvedimento fu tra le ragioni principali della caduta del governo Spadolini, a causa del prolungato conflitto tra il ministero del Tesoro Andreatta e quello delle finanze Formica. In questa fase di difficoltà economica, le fabbriche italiane più grandi reagirono avviando un processo di ristrutturazione industriale che assunse alcune caratteristiche principali: introdussero nuove procedure di automazione svilupparono processi di decentramento manifatturiero dal momento delle grandi industrie cominciarono sempre più spesso a esterna lizzare la loro produzione Nel corso degli anni 80, si definì il perimetro di una terza Italia industriale, accanto al triangolo di Milano, Torino e Genova, che si radicò in aree ex agricole nella fascia pedemontana alpina, Emilia-Romagna, Toscana, Umbria e nella zona costiera marchigiana e abruzzese. Questo nuovo assetto industriale incoraggiò il ruolo del risparmio privato, dell’economia sommersa e del lavoro nero, alimentando un circuito produttivo autonomo e parallelo rispetto a quello ufficiale, che oggettiva l’esclusione e l’evasione fiscale. La quota dell’economia irregolare in percentuale di Pil passò dal 10,7% nel 70→ al 27,4 nel 97. La crescita italiana riprese nell’84, attestandosi intorno al 3% annuo, un dato corrispondente alla metà di quello registrato durante il boom economico, anni 50 e 60. Molti parlarono di un secondo miracolo economico, rafforzato dal commercio con l’estero, dal rilancio del made in Italy nel mondo e dal protagonismo dei nuovi ceti produttivi legati alle piccole medie imprese. L’incremento continuo e sostenuto del debito pubblico dagli anni 80 divisi dalla convergenza di una serie di fattori: l’espansione delle spese sociali in ambito scolastico e sanitario che aumentarono del 3% l’aumento della cassa integrazione necessaria ad accompagnare il processo di ristrutturazione industriale e l’incremento dei costi derivanti dalle maggiori tutela introdotte nel mondo operaio con lo Statuto dei lavoratori dal 70 l’espansione della spesa pensionistica, a fronte di un allungamento delle speranze di vita media politica di spesa dei partiti, in particolare quelli di governo, anche se il fenomeno interessò tutte le forze politiche in quanto si riprodusse a livello di enti locali, i quali individuarono una rapida scorciatoia per accrescere i propri consensi Un altro aspetto negativo che caratterizzò la crescita degli anni 80 fu la ripresa della tendenza alla divaricazione dello sviluppo tra Nord e Sud del Paese. Il fatto che nel Mezzogiorno non si siano create le condizioni dinamiche per uno sviluppo autonomo, ossia non assistito dalla mano pubblica, è un problema divenuto particolarmente gravoso sul piano sociale, soprattutto da quando le politiche rivolte a contenere il deficit dello Stato e a ridurre il debito hanno portato a una diminuzione di trasferimenti a favore di quei territori. Questo processo ha assicurato una nuova espansione dell’economia criminale del controllo del territorio da parte della mafia. L’Italia non si mostrò più in grado di leggere la concorrenza globale nell’ambito dei settori avanzati come la formazione, la ricerca scientifica e quella tecnologica. Nuovi valori e stili di vita In questo stesso giro di anni si affermarono nel discorso pubblico dei valori di tipo neoliberista che rivelarono come l’Italia seguì l’evoluzione internazionale del modello di sviluppo del capitalismo occidentale. Un sistema che si contraddistinse con le parole d’ordine della rivoluzione conservatrice: più spazio all’impresa e alla libera iniziativa privata, limitazione del ruolo dello Stato in campo economico, riduzione della spesa pubblica del carico fiscale, riscoperta di una dimensione individuale. Il cosiddetto trionfo del privato si caratterizzò per un atteggiamento di disimpegno politico e sociale e per il ripiegamento in una sfera personale di valori e stili di vita imbevuti di una generale sfiducia nell’azione collettiva che aveva caratterizzato la generazione precedente. Nello stesso periodo si registrò un inedito protagonismo del mondo del volontariato e dell’associazionismo, in ambito laico e cattolico, con un impegno sociale settoriale e minato nei riguardi dei giovani, delle minoranze culturali, delle donne, del pacifismo, degli omosessuali, dell’ambiente, dei nuovi emigrati provenienti dai continenti della fame. Nel corso degli anni 80 si verificò anche una trasformazione antropologica del ceto politico, negli stili di vita e esibiti, nel modo di ostentare la ricchezza, dimostrare le proprie case, le villeggiature e le famiglie vecchie nuove. Un radicale mutamento dei costumi. La data simbolo del reflusso e del ritorno al privato è solitamente individuata nellamarcia dei Quarantamila che si svolse a Torino nell’ottobre 1980. I quadri intermedi e gli impiegati della Fiat, seguendo una direttiva dei vertici, promossero un corteo a sostegno della politica aziendale della fabbrica per ristabilire le gerarchie in azienda, contro i picchettaggi degli operai che impedivano loro di entrare negli stabilimenti e la politica di egualitarismo salariale verso il basso, incentivata dal meccanismo della scala mobile. Con la marcia dei Quarantamila finì un’aspra vertenza sindacale tra la Fiat e i sindacati, in cui gli operai minacciarono di occupare la fabbrica trovando il sostegno del segretario del PCI Berlinguer. I nuovi valori sociali del rampantismo e dell'edonismo iniziarono ad avere una diffusione di massa mediante la nascita e l’effetto volano delle reti televisive private. In quest’ambito Silvio Berlusconi diede una svolta con la nascita di Canale5, costruì il gruppo Fininvest, che riuscì a stabilire, nel nome della libertà d’antenna, un vero e proprio monopolio nel settore televisivo privato intorno a Italia1 e Rete4. Nello stesso periodo si diffusero esempi di comportamento e valori come l'edonismo, l’arricchimento a ogni costo o stile di vita come lo yuppismo, il rampantismo o quello dei giovani paninari. Anche il mondo anarchico, rivoluzionario e libertario delle cosiddette radio libere che aveva accompagnato l’assalto al cielo della generazione degli anni 70, subì una rapida e radicale evoluzione di stile e di contenuti, avviando un processo di privatizzazione e di commercializzazione di quell’idea di libertà che si sarebbe imposta con il successo di nuove emittenti. Nel corso degli anni 80 la pubblicità entro in un vero e propria rapporto di osmosi con la televisione: si assistette al recupero della tradizione per raccontare la famiglia, il lavoro o la donna. Questo processo portò a idealizzare il passaggio dal mondo ormai mitico e ancestrale della campagna a quello moderno della città. Origine P2 e emergenza mafiosa Dopo l’esaurimento dell’esperienza della solidarietà nazionale e la fine del triennio andreottiano si tornò a soluzioni governative imperniate sull’alleanza tra DC, il PSI e i tre partiti laici minori, secondo la formula del pentapartito. Tra il 79-82 si succedettero ben tre esecutivi, rispettivamente guidati da Cossiga, Forlani e il utilizzarono quelle informazioni riservati per provare a ucciderlo. Dal 78 in poi, lungo l’instabile e sabbioso confine tra la Libia e il Ciad, dove nel sottosuolo riposavano imponenti giacimenti di uranio, era ripreso un conflitto armato che aveva visto la Francia inviare propri contingenti di soldati a difesa della sua ex colonia, in base alle truppe di Gheddafi. A sua volta gli italiani avevano garantito aiuti di tipo logistico ai libici. I rapporti tra la Libia e l’Italia si deteriorarono ulteriormente a causa della cosiddetta questione maltese. L’isola era divenuta completamente indipendente nel 79 e, da quel momento, la Libia aveva rivolto nei suoi riguardi le proprie mire espansionistiche. Per questa ragione il Primo Ministro maltese chiese la protezione militare italiana e stipulò con il sottosegretario degli esteri Zambeletti, un trattato di collaborazione politica, militare ed energetica che suscitò le ire di Gheddafi. Gli accordi tra l’Italia e Malta del 2 agosto 1980 esclusero la Libia dalla sfera di influenza dell’isola giacché, da quel momento in poi, i libici non poterono più usare le basi militari maltese e sfruttare i giacimenti di petrolio che passarono sotto la gestione dell’Eni a esclusivo vantaggio dell’Italia. Bomba a Bologna Il 2 agosto 1980 lo scoppio della bomba nella stazione di Bologna provocò 85 morti. Per la strage di Bologna la magistratura ha condannato come esecutori materiali tra esponenti neofascisti dei Nar. Sono stati condannati, con l’accusa di depistaggio, anche il capo della P2 Gelli e il generale, il colonnello e il collaboratore del Sismi. Costoro, nel gennaio 1981, fecero ritrovare in uno scompartimento di un vagone, operazione terrore sui treni, una valigia con esplosivo dello stesso tipo di quello utilizzato a Bologna, armi e oggetti personali attribuiti a due estremisti di destra, uno tedesco e l’altro francese. L’intenzione era quella di acclarare una pista internazionale per spiegare la strage che attribuisce la responsabilità alla galassia neofascista e neonazista franco-tedesca con un dossier fasullo. Negli ultimi anni si è fatta strada nell’opinione pubblica italiana una tesi innocentista riguardo alle responsabilità dei Nar che privilegerebbe una pista internazionale di origine mediorientale, di matrice palestinese, che non ha avuto finora esiti giudiziari apprezzabili. Secondo tali ipotesi la strage di Bologna, a livello di mandanti, andrebbe inserita in un filone parallelo dello stragismo italiano provocato del terrorismo internazionale. Non si è mai approfondito il nodo dei collegamenti tra il terrorismo italiano di matrice neofascista e paesi come la Libia, il Libano, la Siria e l’Iran. La strage del 2 agosto, la più grave nella storia d’Italia, equivalse al bombardamento di un centro abitato in tempo di pace ma scosse, senza abbattere, una città dall’elevato tessuto civico come Bologna. Gli abitanti reagirono con efficiente compostezza, non soltanto nell’immediatezza dei soccorsi, ma anche nella capacità di tenere viva nel corso dei decenni una memoria di quella tragedia con l’associazione tra i familiari delle vittime. Per il governo italiano la decisione di modificare il quieto vivere dei rapporti con la Libia nel nome di Malta e dei suoi nuovi giacimenti assunse i caratteri di un’impegnativa scelta strategica. Nello stesso periodo il governo italiano e Andreotti continuarono a gestire un’analoga fonte di rifornimento energetico ed economico lungo la direttrice libica, ancora più rilevante per gli interessi nazionali del paese. La ripresa dei rapporti con la Libia si dovette a Moro che incontrò Gheddafi in compagnia di Jucci il 5 maggio 1971 suggellando un patto di collaborazione politica, economica ed energetica che avrebbe condizionato la politica essere italiana nell’area del Mediterraneo in funzione antifrancese e antibritannica fino all’uccisione del rais nel 2011. Nel 1972, quando Andreotti divenne presidente del consiglio, volle concentrare su di sé la questione libica, sostituendo il ministro degli esteri Moro, con il colonnello Jucci che ebbe l’incarico di seguire riservatamente la definizione del contratto tra l’Eni e il governo di Tripoli per l’estrazione di petrolio in Cirenaica, essendo consapevole di come avesse conquistato la fiducia personale di Gheddafi. L’alto ufficiale nel 1971 era riuscito ad avvisare il rais un tentativo di golpe ordito dagli inglesi per spodestarlo. Il terrorismo internazionale si inserì all’interno di questa complessa trama di relazioni diplomatiche, politiche, economiche e militari, con l’obiettivo di destabilizzarli o di cambiare i rapporti di forza tra le aree di influenza oppure direttamente tra gli Stati animati da un’antica rivalità storica. Governo Craxi – Elezioni 83 Il PSI emerge progressivamente come attore politico di rilievo, rivitalizzato dalla segreteria del giovane Craxi, che avvia una profonda opera di trasformazione del partito. Vi è una ricollocazione ideologica che si sostanzia nella presa di congedo dal marxismo. La politica socialista usa una comunicazione politica moderna e spregiudicata, che realizza il proprio culmine nelle coreografie realizzate da Filippo Panseca per i faraonici congressi. Il Comitato Centrale è sostituito dall'assemblea socialista, che elegge Craxi per acclamazione. Gli esponenti socialisti utilizzano i temi del privato e costumi più libertari al fine di proiettare un'immagine moderna e dinamica, in grado di porli in sintonia con il ceto delle professioni emergenti. Dopo le elezioni del 1983 Craxi sarà nominato, fino al 1987, presidente del Consiglio Le elezioni anticipate dell’83 restarono la tenuta del PCI, l’avanzata del PRI e del PSI, e un forte arretramento della DC. Suscitò scalpore la decisione del partito radicale di candidare Negri, che si trovava in carcerazione preventiva a causa dell’inchiesta giudiziaria del 7 aprile, così da concedergli l’immunità parlamentare. Alla luce del risultato elettorale il segretario dei socialisti Craxi rivendicò la guida del governo. Si era impegnato negli anni precedenti a rinnovare la cultura politica del suo partito recuperando simboli e parole d’ordine della tradizione riformista delle origini del socialismo utopista. Craxi maturò la decisione di abbandonare il simbolo della falce e del martello in favore del garofano rosso e di valorizzare una tradizione di socialismo tricolore intorno alla figura di Giuseppe Garibaldi e il valore della patria collegata al Risorgimento e alla Resistenza. Craxi rimase alla guida del governo dall’83-87 nel corso di due esecutivi e contraddistinse la sua direzione politica per un approccio di segno decisionista che suscitò sentimenti contrastanti, oscillanti tra un grande trasporto e un pregiudiziale rifiuto. Sul piano della politica interna riuscirono a moderare l’inflazione e a garantire una certa stabilità politica al sistema italiano, al prezzo di un’eccessivo aumento del debito pubblico. Nell’84 con il decreto San Valentino, il governo Craxi congelò la scala mobile con il taglio di tre punti. l’obiettivo era di combattere l’inflazione a due cifre alimentata dal meccanismo stesso: il provvedimento ruppe l’unità sindacale. Nel Paese si tennero scioperi di proteste e manifestazioni operaie che culminarono con l’indizione di un referendum popolare promosso dal PCI. La consultazione si celebrò nel giugno 1985 e prevalsero con il 54,3% dei voti quanti proponevano di abrogare il meccanismo di adeguamento automatico dei salari al costo della vita. Due fattori determinarono questo successo del fronte governativo e personale di Craxi: la pragmatica constatazione che la linea scelta si era mostrata efficace in quanto l’inflazione l’ascesa sotto la soglia psicologica del 10% annuo valore ideologico assunto dalla campagna referendaria che tramutò quell’appuntamento in un giudizio complessivo sulla lunga stagione politica, sociale, cultura culturale e sindacale degli anni 70 Nel 1984 Craxi portò a termine, a seguito di una paziente tessitura diplomatica iniziata da Moro, la revisione del concordato del 29 con la Santa Sede, rafforzando le prerogative laiche dello Stato. La nuova intesa stabilì che cattolicesimo non era più l’unica religione dello Stato italiano, introdusse il principio della facoltatività del suo insegnamento nella scuola superiore e abolì le sospensioni. In ambito internazionale Craxi cercò di assicurare all’Italia un ruolo autonomo nel Mediterraneo nel solco della tradizionale vocazione filo araba e filo libica della nostra politica estera. Nel tradizionale bipolarismo italiano Dc/Pci, Craxi, in forza dell’autonomia dei socialisti e prendendo le distanze dai comunisti, introdusse un elemento di novità nel sistema politico nazionale ma, nella concreta azione, scontó sino alla fine la paradossale contraddizione di evocare un’alternativa alla Dc, quanto più stringeva con essa, anzi con la sua parte più conservatrice, un patto di potere da cui sarebbe rimasto soffocato. Elezioni europee Nel giugno 1984 si celebrarono le elezioni europee nelle quali il PCI si affermò come primo partito nazionale superando la DC per la prima e unica volta nella sua storia. A determinare il risultato contribuì l’emozione suscitata in tutta Italia dalla morte, la settimana precedente le elezioni, del segretario Berlinguer e gli imponenti funerali caratterizzati da una straordinaria partecipazione popolare. Nel luglio 1985 il parlamento elesse alla carica del presidente della Repubblica il democristiano Cossiga. Elezioni 87 Le elezioni politiche del 1987 segnarono l’avanzamento del PSI e DC, e l’arretramento dei partiti laici minori e del PCI. Si registrò anche l’esordio positivo della formazione ecologista dei verdi e, per la prima volta, l’ingresso in Parlamento della Lega Lombarda, una nuova formazione politica di matrice regionalista e autonomista. A seguito delle elezioni i democristiani tornarono alla guida del governo, prima con Giovanni Gloria e, in seguito, con De Mita, sempre a capo di una coalizione di pentapartito. Nel maggio 1989, de Mita si dimise da presidente del consiglio per contrasti coi socialisti. I nuovi equilibri nello Scudocrociato portarono per un triennio Andreotti alla testa di un governo che dovette gestire la difficile crisi internazionale. Il tramonto della lotta armata L'azione combinata delle squadre antiterrorismo, l'evolversi della situazione socio-politica e il fenomeno del pentitismo portano gradualmente all'esaurimento della lotta armata. Si snoda un complicato percorso di addio alle armi. Si moltiplicano i dibattiti su una soluzione politica che chiuda la stagione dell'emergenza mediante la concessione di un'amnistia in cambio della verità storica. 1986-87: il varo di alcuni provvedimenti legislativi (legge Gozzini) concede benefici carcerari. 1987: due esponenti apicali delle Brigate rosse, Renato Curcio e Mario Moretti dichiarano esaurito il ciclo storico della lotta armata Svolta della Bolognina – crisi PCI Il PCI, nella seconda metà degli anni 80, entrò in una crisi profonda: il posto di Berlinguer fu sostituito da una segreteria di transizione di Alessandro Natta. Il nuovo segretario Achille Occhetto, colpito dalla rapidità degli accadimenti che stavano avvenendo nei paesi del blocco comunista, intuì che tutto il sistema politico italiano, strettamente condizionato dagli equilibri e dai ricatti della Guerra fredda, avrebbe subito profonde modificazioni. Il 12 novembre 1989 annunciò che il PCI avrebbe cambiato nome, abbandonando lo storico aggettivo di comunista. Con la cosiddetta <<svolta della Bolognina>> il partito avviò un lungo e travagliato processo costituente, caratterizzato da un appassionato dibattito tra i militanti nelle diverse sezioni italiane. Nel 1991 il PCI si trasformò in Partito democratico della sinistra, una nuova forza politica progressista che assunse come simbolo un albero di quercia con falce e martello al posto delle radici. Guerra del Golfo (1990) Lo scoppio della guerra del Golfo vide l’Italia partecipare con un contingente militare, nell’ambito di una coalizione internazionale, formatasi sotto l’egida dell’ONU e guidata dagli Stati Uniti. Con il governo Andreotti si inaugurò la cosiddetta stagione dei Caf, dalle sigle iniziali di Craxi, Andreotti e Forlani, i quali strinsero tra loro un patto di potere che accompagnò il definitivo tramonto della Repubblica dei partiti. L’evento bellico della guerra del Golfo aveva alimentato non soltanto l’Italia in un ampio movimento pacifista che riteneva quel conflitto, motivato da un evidente violazione del diritto internazionale da parte di Saddam Hussein, in realtà generato dall’ennesima guerra per il petrolio. Occhetto si impegnò per trattenere all’interno del Pds il carismatico capo della sinistra interna Pietro Ingrao e, perciò, non volle rinunciare alla richiesta di ritiro delle navi italiane e di tregua unilaterale. La destra migliorista, di ispirazione riformista, guidata da Giorgio Napolitano, che sosteneva la partecipazione dell’Italia all’iniziativa militare sotto l’egida dell’ONU ed era favorevole alla fine delle ostilità, vide nella mozione dell’aspirante segretario del Pds il tentativo di fondare il nuovo partito intorno a un patto a sinistra che l’avrebbe relegata in una posizione secondaria. Terminò un decennio in cui, tra lacerazioni e i contrasti, era avanzata una difficile modernizzazione della società e dei costumi nazionali, in controtendenza rispetto alla progressiva sclerosi della vita politica dei partiti. Nel luglio 1990, il parlamento, su impulso di Craxi che impose il voto di fiducia, approvò la cosiddetta legge Mammì che riconobbe il Nello stesso mese entrò in carica il governo guidato da Giuliano Amato che, come ministro del bilancio e della programmazione economica, scelse l’ex presidente dell’Eni Franco Reviglio. Amato, dopo la crisi della lira, aggredì il debito pubblico con una manovra finanziaria lacrime e sangue che sfiorò i 100.000 miliardi di lire. Avviò un processo di privatizzazione delle aziende pubbliche nazionali secondo gli indirizzi discussi sul Britannia. Amato si dimise e gli successe nella carica l’ex governatore della Banca d’Italia Ciampi, il quale varò, nel maggio 1993, un governo tecnico che si resse per un anno anche grazie all’astensione degli ex comunisti del PDS. Per la prima volta un non parlamentare divenne presidente del Consiglio. Questo governo del presidente pose le basi per il rilancio dell’economia intorno al metodo della concertazione, ossia la ricerca di un accordo preliminare complessivo tra esecutivo, sindacati e imprese. L’obiettivo che bisognava assolutamente cogliere era il rispetto dei parametri economici fissati dal trattato di Maastricht, firmato anche dall’Italia nel febbraio 1992. Tali vincoli riguardavano l’inflazione, il livello del debito pubblico, i tassi di interesse e quelli di cambio. Si stabilì che il rapporto tra deficit e Pil non dovesse superare il 3%, mentre il debito pubblico accumulato complessivamente non poteva sfiorare il 60% dello stesso Pil. L’impegno di rispettare entrambi i parametri, una strada obbligata da seguire se nel 98 l’Italia avesse voluto aderire al nuovo sistema moneta moneta monetario dell’euro, obbliga a contenere la spesa pubblica e a combattere l’evasione fiscale, l’autentica anomalia del sistema sistema economico nazionale rispetto agli altri paesi del vecchio continente. Il pentapartito entrò in crisi anche a causa dei vincoli esterni imposti dalla costruzione dell’Unione Europea perché negli anni 80 seguì una strategia opposta, fondata sull’aumento della spesa pubblica a fini elettorali e su una certa tolleranza in ambito fiscale. Dal 91 si formò un movimento referendario che aveva lo scopo di superare il sistema proporzionale per introdurre quello maggioritario così da giungere a un compiuto bipolarismo e una democrazia dell’alternanza sul modello anglo-americano. Un primo referendum si celebrò nel giugno 1991 e introdusse la preferenza unica, abolendo il sistema plurimo che consentiva la riconoscibilità del voto e amplificava dismisura il controllo clientelare Un secondo referendum si tenne nell’aprile 1993 e modificò in senso maggioritario la legge elettorale del Senato Altri due referendum, promossi da radicali, abolirono la legislazione punitiva per l’uso personale di droghe indotta ai tempi del governo Craxi e cancellarono il finanziamento pubblico dei partiti Nel corso di questo esecutivo tecnico si svolsero le prime elezioni dirette dei sindaci in piccole grandi città che videro la crisi irreversibile dei partiti del governo, in particolare la DC e il PSI, e l’apertura di un ampio spazio elettorale al centro del sistema senza più più rappresentanza. Le battaglie referendarie di Segni e dei radicali centrarono l’obiettivo perché il parlamento, sollecitato dall’esito delle consultazioni, varò nell’agosto 1993 una legge elettorale di tipo misto, prevalentemente maggioritario: il cosiddetto mattarellum, dal nome del relatore Sergio Mattarella, che avrebbe favorito la formazione di due schieramenti contrapposti e l’alternanza politica che l’Italia repubblicana non aveva mai conosciuto. Falcone e Borsellino Proprio nelle ore in cui le camere erano riunite per eleggere il successore di Cossiga alla presidenza della Repubblica, il 23 maggio 1992, si verificò la strage di Capaci, in cui morirono il magistrato Giovanni Falcone, sua moglie e tre uomini della scorta. L’attentato avvenne in una situazione di stallo funzionale a preparare la candidatura quirinalizia di Andreotti e il ritorno di Craxi a palazzo Chigi. La strage provocò, come esito immediato, il crollo della candidatura di Andreotti è un’accelerazione che, sull’onda dell’emergenza nazionale, portò all’elezione di Scalfaro a presidente della Repubblica. Una seconda strage di Cosa nostra colpì a Palermo, il 19 luglio 1992, il giudice Paolo Borsellino e i cinque uomini della scorta. Le indagini scoprirono rapidamente le connivenze politiche che per decenni avevano reso intoccabile il potere mafioso e il 15 gennaio 1993 i carabinieri arrestarono a Palermo il capo di Cosa nostra Salvatore Riina, il quale per 24 anni aveva potuto vivere a Palermo da indisturbato latitante. Sul piano legislativo con l’introduzione, nell’agosto 1992, dell’articolo 41 bis che prevedeva il carcere duro per i boss mafiosi e il loro isolamento per impedire i contatti con l’esterno, un provvedimento temporaneo ed emergenziale che è tuttora in vigore. La mafia reagì con una nuova radicalizzazione della strategia stragista che puntava a costruire un rinnovato patto di equilibrio nel nuovo sistema politico. Quest’offensiva terroristica culminò con ben quattro stragi. L’opinione pubblica, italiana ed estera, rimase colpita dal fatto che Cosa nostra avesse preso di mira per la prima volta degli edifici di culto cattolici. La notte degli attentati si verificò in contemporanea anche un blackout nella sede della presidenza del consiglio che rimase buia per tre ore. La mafia progettò altre stragi, come il piano di disseminare le spiagge di Rimini con siringhe infette di HIV, oppure l’abbattimento della torre di Pisa. In un caso l’attentato fallì, quello del viale dei gladiatori a Roma, la cosiddetta strage dell’olimpico, che il 23 gennaio 1994 avrebbe dovuto uccidere con l’esplosione di un'autobomba 150 carabinieri in servizio allo stadio di calcio. Questi ultimi episodi sarebbero stati evitati grazie a una trattativa tra gli emissari dello Stato ed esponenti mafiosi, attestata da una serie di inchieste giudiziarie e dall’attività di commissione antimafia, che non hanno discusso l’esistenza del negoziato, ma il suo eventuale rilievo penale. Una trattativa riservata che si sarebbe svolta con l’obiettivo di ottenere la fine degli attentati. Ciò sarebbe avvenuto in cambio di un alleggerimento del 41 bis. La mafia smise di compiere o dei minacciare nuovi sanguinosi attentati, avviando una strategia di inabissamento che la condusse a valorizzare la dimensione economico-finanziaria nazionale internazionale rispetto a quella politica, secondo le volontà del nuovo capo capo di Cosa nostra Bernardo Provenzano. Ascesa Berlusconi La scomparsa della DC, da cui sorgono due formazioni politiche rispettivamente di centrodestra (CCD) e centro-sinistra (PPI), lascia un vuoto al centro della politica italiana. Tra la fine del 1993 e l'inizio del 1994 nasce Forza Italia, movimento politico guidato da Silvio Berlusconi. Il programma politico del nuovo partito ricalca le linee guida della nuova destra neoliberista globale (riduzione delle tasse, maggiore iniziativa all'impresa). Il progetto mira a occupare il vuoto lasciato della DC, cullando gli elettori nel sogno di un nuovo "miracolo italiano" e di una "rivoluzione liberale") La crisi del governo Ciampi aprì alle elezioni anticipate che si celebrarono il 27 marzo 1994. Nel frattempo la geografia politica dei partiti italiani era uscita stravolta. Il fatto nuovo più sorprendente fu la fondazione di un nuovo soggetto politico, Forza Italia, da parte dell’imprenditore Berlusconi, che il 26 gennaio 1994 annunciò la sua ascesa in campo con un discorso preregistrato mandato in onda sui principali canali televisivi italiani, pubblici e privati, questi ultimi di sua proprietà. Nel corso degli anni 80 il Cavaliere aveva definitivamente conquistato il monopolio delle televisioni private italiane ma aveva anche rafforzato ed esteso i suoi interessi economici e finanziari in ambito edilizio, bancario, assicurativo, editoriale, cinematografico, giornalistico e della grande distribuzione. Ciò che aveva amplificato dismisura l’immagine di Berlusconi come uomo vincente erano stati i suoi investimenti miliardari nel mondo del calcio con l’acquisizione, nel 1986, del Milan che in pochi anni raggiunse i vertici del calcio mondiale. Forza Italia si propose come un movimento civico formato da tanti club, molti dei quali animati direttamente dai dipendenti di Berlusconi del settore pubblicitario o televisivo spostati all’organizzazione del partito azienda. Si diede l’obiettivo di rappresentare gli elettori moderati e di costruire una coalizione di centrodestra, alleata a Nord con la Lega nel polo delle libertà e a Sud con gli ex fascisti del Msi nel polo del buon governo. Bisognava riempire l’evidente vuoto politico creato a causa di Tangentopoli dopo la crisi della DC e del PSI e impedire una vittoria delle sinistre sconfitte dalla storia. A suo giudizio, gli elettori avrebbero dovuto affidare le loro sorti a un imprenditore di successo come lui, che si era fatto da sé, grazie alle ordinarie virtù di un uomo comune, protagonista di un esemplare storia italiana, costretto dall’emergenza nazionale a mettersi in gioco per confrontarsi e vincere contro la politica romana, quella dei grigi burocrati di partito. Era tra gli uomini più ricchi d’Italia e aveva accettato di sacrificarsi per il bene comune, compiendo un atto d’amore nei riguardi del proprio paese che doveva essere di nuovo salvato dal pericolo rosso. A sinistra il segretario del PDS Occhetto organizzò un’alleanza dei progressisti, formata anche da rifondazione comunista, con i socialisti italiani eccetera. Il partito popolare non scelse di allearsi con il cartello progressista e di sinistra, ma si presentò autonomamente come terza forza di una coalizione denominata Patto per l’Italia. Gli avversari accusavano Berlusconi di essersi impegnato in politica soltanto per salvaguardare i propri interessi personali, minacciati da una grave crisi debitoria delle sue imprese e dall’azione dei giudici di Tangentopoli che stavano colpendo uno dopo l’altro tutti i suoi referenti politici della precedente stagione. La magistratura minacciava di indagare sui conti delle aziende e le effettive origini delle sue fortune nella Milano degli anni 70, su cui secondo le accuse, si estendeva l’ombra sinistra e a lungo ricattatoria della mafia. Elezioni 94 La campagna elettorale del 1994 presentò elementi di novità rispetto al passato per l’accesa personalizzazione secondo modelli americani e un evidente squilibrio di mezzi in favore di Berlusconi che schierò a sostegno della propria candidatura il suo impero mediatico e alcuni popolarissimi personaggi televisivi. La vittoria arrise al centrodestra. L’opinione pubblica lesse e amplificò la vittoria come un trionfo personale schiacciante di Berlusconi, anche se il computo dei seggi al Senato non diede una maggioranza autonoma allo schieramento di centro destra. L’assetto sostanzialmente e tradizionalmente bipolare del sistema politico italiano uscì ribadito e rafforzato: ai lati opposti degli schieramenti emersero due partiti maggiori pressoché equivalenti per il numero di voti, Forza Italia il 21% e il Pds al 20,3%, ma Berlusconi prevalse grazie a una maggiore capacità di allargare la sua coalizione verso destra. Un itinerario, facilitato dalla pervasività dei nuovi strumenti di comunicazione politica di massa, quali la radio, la televisione e Internet, che imponevano un rapporto diretto e sempre più verticalizzato tra la gente e il suo capo. Negli stessi anni, tali fenomeni stavano interessando l’evoluzione delle forme di organizzazione della politica e del suo rapporto con gli elettori nelle principali democrazie occidentali, ma in Italia si presentarono con particolare radicalità. In questa fase si registrò il passaggio da un sistema bloccato, che non aveva potuto garantire l’alternanza delle forze di governo in ragione del vincolo esterno, al blocco del sistema, da cui sarebbe scaturito il collasso della Repubblica dei partiti. In questo passaggio si sarebbe misurata la crisi dello Stato nazione avrebbe preso avvio una transizione infinita che ha progressivamente assunto le forme e le dimensioni di una vera e propria deriva storica dell’identità repubblicana. Tramontata la repubblica dei partiti 45-94 sotto i colpi secchi della storia, stava sorgendo la Repubblica dell’antipolitica, che avrebbe accompagnato la vicenda italiana per i 25 anni anni successivi e oltre. Antipolitica La fase storica che l’Italia ha attraversato dal 94 in poi può essere definito il periodo della Repubblica dell’antipolitica. Al suo interno si distinguono due diversi momenti: gli anni dell’alternanza 94-2011 tra il centrodestra e il centro sinistra e quelli delle larghe o medie intese, caratterizzati da alleanze post voto stabilite tra forze presentandosi come avversarie alle elezioni. • "Repubblica dell'antipolitica" come paradigma interpretativo del post "Repubblica dei partiti" • Al suo interno si snodano due fasi: 1) Alternanza centrodestra/centrosinistra (1994-2011); 2) Larghe intese (2011-2022) • Antipolitica come concetto polisemico che racchiude orientamenti, disposizioni, narrazioni, sfumature personali e ideologiche molto diverse • Antipolitica come forma della nuova politica, in conseguenza della crisi della democrazia rappresentativa e dello svuotamento di senso dei corpi intermedi della società L'antipolitica: alcune tendenze