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Riassunto da "Letteratura italiana: dalle origini a metà Cinquecento", Epoca 5, Schemi e mappe concettuali di Letteratura Italiana

Riassunto da "Letteratura italiana: dalle origini a metà Cinquecento" di G. Alfano, P. Italia, E. Russo, F. Tomasi. Riassunto solo dell'Epoca 5, il Rinascimento. Utile per il ripasso di autori quali: Bembo, Sannazaro, Ariosto, Castiglione, Machiavelli e Guicciardini.

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

2022/2023

Caricato il 23/08/2023

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chiara-binaghi 🇮🇹

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Scarica Riassunto da "Letteratura italiana: dalle origini a metà Cinquecento", Epoca 5 e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! VOLUME 1 EPOCA 5: IL RINASCIMENTO • 1494: ingresso in Italia delle truppe francesi di Carlo VIII, che mostra il destino inesorabile della decadenza italiana, incapace di far fronte a forze straniere. • Come risposta alla crisi gli intellettuali propongono una cultura di impronta classicista, che utilizza il volgare come lingua legittima. • Questione della lingua: nei primi tre decenni del ‘500 si vuole cercare una norma universale e condivisa della lingua, che possa garantire al volgare stabilità temporale. Ad imporsi è la teoria di Bembo con le Prose della voltar lingua (1525), nella quale si definiscono le norme della lingua scritta e il canone degli autori imitabili. Autore basa grammatica su una campionatura di modelli eccellenti: Petrarca per la poesia e Boccaccio per la prosa e ciò influenzerà molto la cultura italiana fin da subito (es. Ariosto rivede l’Orlando Furioso nella sua terza edizione del 1532). Anche le traduzioni di opere classiche in lingua volgare aumentano in modo significativo. • Forme plurali del classicismo moderno: idea alla base dell’intero classicismo rinascimentale è quella elaborata da Bembo riguardo il rapporto tra imitazione ed emulazione, la quale sostiene un itinerario formativo dello scrittore che inizia il lavoro di rifacimento e interiorizzazione dei modelli per giungere poi ad una autonoma e matura espressione letteraria. Da qui le molte traduzioni di autori classici in volgare. Il genere privilegiato è il dialogo (Platone e Cicerone) che aiuta a proporre ritratto idealizzato e realistico del mondo della corte e degli intellettuali che ci vivono, mostrando sia l’ambiente cortigiano sia gli ideali che lo attraversano (Castiglione con il libro del Cortegiano e Bembo con gli Asolani). Altro genere importante è quello lirico, che imita Petrarca (fino alla piena canonizzazione) e diventa quasi una “moda” attraverso la quale si vuole dare attenzione non tanto all’aspetto formale quanto al mondo interiore del Canzoniere. Sono poi le rime di Bembo e Sannazzaro a stabilire il nuovo paradigma di poesia, le prime più petrarchesche, le seconde più aperte al classicismo. Ai primi del ‘500 inoltre si fa risalire la nascita del teatro moderno, perché si sperimentano nuovi linguaggi per la commedia e la tragedia, si traducono opere latine e se ne creano di originali (vedi Ariosto). • I riflessi della crisi: Il panorama di crisi politica dovuto alle precarietà del presente sollecita autori ad offrire ambiziose interpretazioni del presente: Machiavelli con il Principe (che usa il passato come exempla) e Guicciardini con le Storie d’Italia. Comune resta comunque la volontà di mettere alla prova gli strumenti conoscitivi per eliminare la realtà storica. Il riflesso di una realtà cupa si intravede anche nel Furioso di Ariosto e nell’Arcadia di Sannazzaro. • Il letterato: Nel ‘500 si stabilizza la situazione che vedeva, già nel ‘400, il letterato come uomo di corte sempre più legato al potere politico. Si fa sempre più evidente la volontà di far trasparire attraverso opere letterarie una sorta di autoritratto nel quale il letterato rivendica la sua autonomia (Pietro Aretino, Le Lettere). Da un lato c’è desiderio di autopromuoversi e dall’altro quello di esibire un’abilità professionale e culturale, oltre che quello di rappresentarsi come soggetto collettivo che porta a istituzione di varie accademie. Inoltre il letterato partecipa anche al mondo dell’editoria, perché oltre ad essere autore, è editore dei propri testi nel processo di stampa e divulgazione. PIETRO BEMBO (1470-1547) L’autore ha contribuito in modo decisivo a determinare le regole della lingua italiana, ma anche i modelli culturali e le forme di una nuova civiltà letteraria. É stato in grado di puntare consapevolmente sul volgare, con norme che permettessero di superare le particolarità locali, questa è la chiave che gli ha permesso di ricevere enorme successo. Tutto questo processo è racchiuso nel trattato Prose della volgar lingua (1525), e propone testi esemplari nelle Rime (per lirica), negli Asolani (per dialogo) e nell’epistolario (per la prosa). • Nasce a Venezia nel 1470 e riceve formazione di alto profilo. Il padre vorrebbe avviarlo alla carriera politica, mentre lui insegue le vocazioni letterarie. Nel 1446 pubblica il dialogo latino De Aetna, ambientato nella villa di famiglia dove avviene un dialogo tra lui e il padre, nel quale discutono di argomenti scientifici e filosofici, mostrando due diversi ideali di vita ed il difficile rapporto tra lui e il genitore. Lo stampa presso la stamperia di Aldo Manuzio e con lui contribuisce ad allestimento di una grande collana di classici greci e latini, fondamentale perché Bembo, con la stampa del Canzoniere (Cose volgari) di Petrarca (1501) e della Commedia (Le terze rime) di Dante (1502), inserisce questi autori italiani al pari dei grandi classici latini e greci. Inoltre Bembo mostra un grandissimo approccio alla filologia quasi come faremmo oggi, andando a ricercare la volontà dell’autore attraverso gli autografi. • Nel 1505 pubblica il dialogo in volgare gli Asolani, un trattato sul tema amoroso. Il titolo deriva dal luogo in cui è ambientato (Asolo), presso la corte della nobildonna Cornaro, dove si celebra il matrimonio tra due aristocratici. Il dialogo è diviso in 3 libri: il primo tratta dell’amore infelice (portavoce Perottino), il secondo dell’amore felice (portavoce Gismondo) e il terzo del fenomeno amoroso secondo linee neoplatoniche che riconoscono nell’amore una strada di perfezionamento dell’uomo (portavoce Lavinello). Nell’opera Bembo si ispira ai classici (Fedro di Platone e De finibus di Cicerone), ma anche a contemporanei (Marsilio Ficino, i commenti di Lorenzo de Medici) e proprio seguendo Lorenzo decide di alternare prosa e poesia dove la poesia conferma e ribadisce ciò che è espresso in prosa. È esemplare la scelta adottata nella redazione finale del trattato, cioè di introdurre il dialogo attraverso 3 diversi componimenti lirici: sono proposte dapprima due canzonette, identiche in metrica e costruite in modo speculare e poi un terzo componimento, metricamente diverso. La prima edizione contiene una lettera prefatoria indirizzata alla duchessa di Ferrara Lucrezia Borgia. Fondamentale in questo testo è la canzone in morte del fratello Carlo, Alma cortese che dal mondo errante, che segna uno spartiacque simbolico tra un primo momento giovanile di tema amoroso e un secondo maturo, avviato con il poema funebre di stampo catulliano e petrarchista, un esercizio lirico che mira a fare dell’esperienza personale un momento di conoscenza di valore universale. Nel 1530 pubblica un’altra edizione in cui riduce le liriche. • Nel 1505 si stabilisce ad Urbino alla corte retta da Guidobaldo di Montefeltro ed Elisabetta Gonzaga dove avvia un’intensa attività letteraria con le Stanze (50 ottave di tema amoroso) e i Motti (distici a rima baciata dal carattere proverbiale). Nel 1512 arriva a Roma come segretario di papa Leone X, il vero momento di svolta del suo percorso biografico. Qui prende piede la polemica riguardante l’imitazione con Pico della Mirandola in merito alla determinazione del canone degli autori latini giudicati esemplari, dove Pico sostiene limitazione di modelli plurali (docta varietas), mentre Bembo quella di un autore come modello assoluto, Virgilio per la poesia e Cicerone per la prosa, in nome di un processo imitativo che è in prima istanza un momento educativo, insieme apprendimento stilistico ed etico. La stessa questione si ripresenterà nelle Prose della volgar lingua per gli autori volgari. • Nel 1525 pubblica le Prose della voltar lingua, trattato in forma dialogica, nel quale affronta il problema della lingua italiana per definire una norma grammaticale ed individuare i modelli eccellenti da imitare. É ambientato a Venezia ed i protagonisti sono amici di Bembo, i quali hanno un ruolo prestabilito. L’umanista Ercole Strozzi difende la superiorità della lingua latina, Giuliano de Medici difende la necessità di fondare la grammatica sull’uso del fiorentino contemporaneo, Carlo Bembo (fratello) individua nella lingua di Petrarca e Boccaccio i modelli su cui basare le norme per un volgare come esempio di classico e moderno insieme, Federico Fragoso interviene in qualità di esperto di letteratura italiana antica e poesia provenzale. Il dialogo è diviso in 3 libri: nei primi due viene discussa e proposta la scelta del canone dei criteri stilistici che permettono di determinarlo, mentre nel terzo si procede ad illustrare più analiticamente le norme grammaticali e proposte. L’esigenza di Bembo è la necessità di uscire da una situazione di crisi legata al particolarismo delle lingue cortigiane condannate alla precarietà e al rapido oblio. Dunque le Prose vogliono essere l’atto fondativo di una lingua, di una letteratura e di una società. I criteri di valore per determinare la lingua si basano sull’analisi della forma (le voci devono essere convenienti a ciò che si vuole esprimere) e la varietà dello stile (gravità e piacevolezza) e sono desunti dal De Oratore di Cicerone. Il terzo libro è dedicato all’illustrazione delle norme linguistiche e grammaticali. • Nel 1530 vengono pubblicate le Rime, che rappresentano il modello concreto di lingua e stile, un campione esemplare della nuova lingua poetica descritta nelle Prose. I testi sono 114. Fino alla sua morte, Bembo continua a lavorare alla definizione del suo libro di Rime, le quali diverranno 138 e poi 146. Nel 1548 esce postuma l’espressione delle ultime volontà dell’autore, curate dai suoi eredi avvia una terza commedia, il Negromante (1509), ma si deve interrompere per lo scoppio delle guerre e deve svolgere missioni diplomatiche a Roma presso papa Giulio II. Dopo la morte di quest’ultimo verrà eletto Leone X e lui andrà a Roma per rendergli omaggio. • Nel 1513 Ariosto ha già l’impostazione completa del Furioso, costituita da: ottave per quanto riguarda il metro, la guerra tra Carlo e i Mori e la follia di Orlando come materia (quest’ultima riflette l’amore di Ariosto per Alessandra Benucci). Importante è la storicità del poema, poiché nascosto sotto la fantasia, c’è uno stretto rapporto con le vicende contemporanee, dalle battaglie che scandiscono le guerre d’Italia alla corruzione e alla crisi del clero alla vigilia delle tesi di Lutero. Sappiamo che inizialmente leggeva parti del poema a corte, soprattutto Mantova, il cui duca chiede di leggere l’opera prima della pubblicazione, ma non è possibile perché ancora in fase di elaborazione = ci fa capire come lavorava Ariosto (sposta ottave, corregge, aggiunge, toglie). • Nel 1517, quando il cardinale Ippolito ordina ad Ariosto di recarsi in Ungheria con lui, lui rifiuta e quindi viene escluso dal servizio. Già però nel 1518 è al servizio del duca Alfonso I. Comincia così il momento delle Satire (sono 7 e riprendono il modello di Orazio), dove mette in scena un autore-personaggio che dialoga con interlocutori, riversando preoccupazioni e speranze; la maggior parte sono in forma epistolare. Esse sono divise in due nuclei distinti: il primo nel frangente del 1517-1518 chiuso con il passaggio al servizio del duca; il secondo riguarda la stagione degli anni 20, durante e dopo la parentesi di Garfagnana. Esse non vanno considerate come una biografia in versi, ma come uno sguardo lucido suo mondo contemporaneo e sulla corte (es. Satira II va a Roma e descrive l’avidità e io vizi del clero). Verranno pubblicate soltanto postume nel 1534 (manca la cura dell’autore, ma comunque abbiamo una struttura ad anello, si apre con un rifiuto e si chiude con la rinuncia di andare a Roma). • Nel 1521 viene stampata la seconda edizione del Furioso, ma gli interventi rispetto alla prima edizione sono contenuti. Riceve l’incarico da parte del duca di Commissario ducale in Garfagnana, dove dovrà governare una terra contesa tra Firenze e Ferrara, mansione che gli impedisce di lavorare alla poesia (Satira IV: esprime l’amarezza per la lontananza da Ferrara e dalla donna amata). In questa stagione compone o revisiona i Cinque canti, ovvero canti in ottave collegati alla vicenda narrata nel Furioso, che fanno riferimento al tradimento dei Maganzesi e ai loro attacchi alla corona di Carlo. Una luce autunnale e una profonda delusione si stende in questi canti, e ciò permette di capire il motivo per cui non siano stati inglobati nel Furioso, mancano infatti di quella ironia e del sorriso tipico del Furioso. • Il teatro di Ariosto conosce poi un secondo rilancio nel 1519, quando viene organizzata una messinscena, con apparati teatrali preparati da Raffaello, dei Suppositi nei palazzi vaticani e papa Leone X canonizza il poeta per il risultato ottenuto. Egli invierà al pontefice il Negromante che aveva concluso. Dieci anni dopo metterà in scena la Lena, costituita da una novità assoluta: l’uso dell’endecasillabo sdrucciolo, con cui Ariosto intendeva rendere il metro giambico dei modelli latini (volontà di creare un canone). Dopo di che riscriverà in endecasillabo sdrucciolo anche la Cassaria e i Suppositi. TERZA EDIZIONE DEL FURIOSO (1532) • Nel 1532 viene pubblicata la terza e ultima edizione del Furioso, caratterizzata da aggiunte strutturali e da una profonda revisione linguistica sulla linea di Bembo. • Ora i canti sono 40 e non più 36. Ai due grandi filoni della guerra tra i Franchi di Carlo e i Saraceni di Agramante e la follia di Orlando, si aggiunge un terzo filone narrativo che è rappresentato dagli amori tra Ruggero e Bradamante, dai quali secondo la leggenda prese origine la casata degli Estensi. • Ariosto utilizza la tecnica dell’ entrelacement, ovvero intreccia diversi filoni narrativi che proseguono in parallelo e che vengono lasciati in sospeso nei punti cruciali in modo da sollecitare la curiosità del lettore. La moltiplicazione dei personaggi e delle storie, insieme al tempo indefinito, disorientano il lettore. Ma dietro l’apparente confusione, vi è una struttura solida che sostiene il poema: canto XII (castello di Atlante), canto XIII (follia di Orlando), canto XXXIV (Astolfo sulla Luna). • Il narratore interviene spesso e si riserva uno spazio quasi sempre in apertura di tutti i canti del poema. È un narratore toccato dalle passioni dei personaggi. C’è un forte legame tra narratore e lettore, perché il poema cerca di offrire una guida di valori e significati per orientarsi nel difficile panorama contemporaneo. Esso è indirizzato a Ippolito d’Este e lo rimarrà anche dopo la rottura fra i due (1517). • Temi e ideali del poema: la follia di Orlando, eroe che si riduce ad uno stato bestiale distruggendo tutto quello che incontra; quella di Orlando è una condizione universale di follia; quello del poema è un mondo scosso dalla perenne instabilità, dove si alternano modelli di integrata virtù (Isabella, Fiodiligi), e personaggi violenti e ingannatori; la prospettiva rovescia della Luna dove giacciono le tante cose smarrite dagli uomini durante la loro esistenza; l’utilizzo di un’ironia intesa come strumento conoscitivo per dare una diagnosi della natura degli uomini; il rinsavimento di Orlando quando si rifiuta di bere dal calice per conoscere quanto la sua donna sia fedele e viceversa, che rappresenta un esempio di saggezza; infine i risultati raggiunti, come il recupero del senno di Orlando o la vittoria di Carlo, che sono inseriti in un disegno governato dalla Provvidenza. • Il poema viene inserito nel genere del poema cavalleresco, ma in esso avviene in realtà un’ibridazione di materiali epici, romanzeschi, elegiaci e comici che vanno a riprendere autori antichi e moderni, rappresentando una variazione di registri. La lingua utilizzata è alta e vicina ai modelli classici e di impronta petrarchesca, la struttura delle ottave varia (6+2, 4+4 o 2+2+2+2). La revisione del 1532 osserva i punti delle Prose della volgar lingua di Bembo per eliminare tratti bassi e un più largo ricorso ai modelli di Dante e Petrarca, si ricerca di uno stile più armonioso e facile. BALDASSARE CASTIGLIONE (1478-1529) Castiglione è strettamente legato al mondo della corte, dal momento che frequenta da cortigiano e da diplomatico tutte le più importanti dell’Italia centrosettentrionale e dell’Europa. Tutte le esperienze vengono insieme nella usa opera maggiore, ovvero Il Libro del Cortegiano, trattato in forma dialogica sulla corte, ambientato ad Urbino nel 1507, ma edito nel 1528. Lo scopo dell’opera è la ricerca di un’idea di perfezione, un codice di comportamento e di un modello e quindi quello di individuare il perfetto cortigiano, cioè l’uomo al servizio del principe, che per essere tale deve fare propri: grazia, bon giudicio (capacità di tener conto della continua mutevolezza della realtà) e sprezzatura (disinvoltura con cui deve far apparire naturate ciò che è in realtà artificiale). • Nasce a Mantova nel 1478, da una famiglia vicina ai Gonzaga e si sposta a Milano dove avviene la sua formazione umanistica e dove frequenta la corte di Ludovico il Moro (gli Sforza), entrando in contatto con molti intellettuali (Bembo, Trissino). Nel 1449 perde il padre, quindi abbandona la corte degli Sforza ed entra al servizio del marchese Francesco Gonzaga. Già nella giovinezza si nota il suo essere affascinato dal mondo della corte e ciò lo ricaviamo dalla lettera che egli stesso invia a Giacomo Boschetti da Milano. Del 1503 è il suo primo soggiorno a Roma, probabilmente per ragioni diplomatiche. Lì narra della visione dei resti dell’antica Roma nel celebre sonetto Superbì colli, e voi sacre ruine (motivo diffuso quello del tempo che divora e distrugge ogni cosa, già diffuso in Petrarca). • Dal 1504 al 1513 è ad Urbino, al servizio del duca Guidobaldo da Montefeltro. Qui si occupa di politica, di missioni diplomatiche e di attività letteraria. Per il carnevale del 1506 scrive il Tirsi, una favola pastorale. Si tratta di un’egloga, nella quale interagiscono 3 personaggi principali: Iola, Tirsi e Dameta. Iola racconta lamentandosi, del suo amore non corrisposto per la ninfa Galatea: sulla scena si manifesta Tirsi che, abbandonata la patria, è giunto in questi luoghi per conosce la dea del luogo (nella quale riconosciamo Elisabetta Gonzaga). Dietro i personaggi si celano vere personalità della corte (come in Sannazaro), e la favola è celebrativa di un luogo, ovvero Urbino. Il pubblico di Urbino e la città stessa assumono qui le stesse caratteristiche mitiche che entreranno nel Cortegiano. Nel 1508 muore il duca e Castiglione entra al servizio del successore Francesco Maria della Rovere e scrive l’Epistola sulla vita e sulle imprese di Guidobaldo duca di Urbino, ovvero il suo elogio funebre, dedicato al sovrano inglese Enrico VII (nel 1506 era andato in Inghilterra per ricevere l’onorificenza dell’Ordine della Giarrettiera per il duca Guidobaldo). • Morto il papa Giulio II nel 1513, l’autore viene inviato a Roma come ambasciatore del duca. Qui entra in contatto con i maggior letterati e artisti del tempo. Nel 1516, quando il duca di Urbino viene cacciato, lo segue a Mantova in esilio, dove si sposa con Ippolita Torelli. Nel 1519 è a Roma per seguire gli interessi di Francesco Gonzaga, ma poco dopo perde la moglie e decide di entrare nel mondo ecclesiastico e diventa ambasciatore residente a Roma, del marchese di Mantova, in seguito all’elezione di papa Clemente VII. Viene nominato nunzio apostolico nel 1525 e inviato in Spagna alla corte di Carlo V, dove morirà nel 1529. • Nel 1528 viene pubblicato Il Libro del Cortegiano (anche se circolava già prima), opera concepita durante un periodo di drammatica crisi (iniziato con guerre d’Italia) che vuole portare la corte di Urbino come esempio in alternativa al presente storico insoddisfacente e segnato da vicende tragiche (culminate nel sacco di Roma del 1527). È diviso in 4 libri, ed è un trattato in forma dialogica (modello platonico e ciceroniano) ambientato ad Urbino del 1507. La duchessa Elisabetta Gonzaga e la signora Emilia Pio avviano una discussione a cui partecipano i personaggi più in vista di Urbino. I. Ludovico Canossa definisce l’immagine del perfetto cortigiano II. Federico Fregoso illustra in quale modo e in quali tempi il cortigiano debba impiegare le sue capacità III. Giuliano De ’Medici addita l’ideale della donna di palazzo IV. Ottaviano Fregoso definisce i rapporti tra il principe e il cortigiano. La conclusione viene affidata a Pietro Bembo, il quale tratta dell’amore come mezzo per accedere al bene divino. • L’opera è dedicata al portoghese Miguel da Silva (sostituito dal precedente dedicatario Alfonso Ariosto) e alla corte di Urbino che si configura come dimensione ideale. I temi trattati nell’opera sono: la regolamentazione e riqualificazione del ruolo del cortigiano (figura raggiungibile solo a costo di seguire regole ferree e comportamento disinvolto, con il fine ultimo della professione delle armi. Uno degli aspetti fondamentali per il cortigiano è utilizzare la spezzatura); la questione della lingua (essa deve costituire una sintesi armoniosa ed equilibrata tra le varietà presenti in Italia e il cortigiano deve saper conversare in maniera corretta); l’amore come gioco all’interno della corte (di amore svincolato, tratta invece nell’ultimo libro con Bembo che spiega la natura fallace dell’amore sessuale per illustrare l’amore divino). • Il Cortegiano è però un’opera attraversata da tensioni e presenta una mancanza di omogeneità ed equilibro, anche se presenta tratti internazionali. Comunque verrà recepito come autorevole da parte dei lettori e per questo si imporrà come un classico. NICCOLÒ MACHIAVELLI (1469-1527) Secondo lui è saggio colui che, compresa la legge della mutevolezza, sa adattare carattere e comportamenti alle circostanze. Macchiavelli, protagonista e osservatore delle vicende italiane e fiorentine (calata di Carlo VIII, cacciata dei Medici, ristabilimento della repubblica...) ritiene che l’unico rimedio ai mali di Firenze sia la sola possibilità di costruire uno stato italiano capace di confrontarsi con le altre potenze europee e perciò sostenere i Medici (e quindi il principato). Fondamentale è ricondurre il movimento storico ad una ratio, rendendolo comprensibile e prevedibile e reagire al deteriorarsi d’ogni realtà politica cercando modelli da imitare (antichi o moderni). Conduce una riflessione politica realista svincolata da temi filosofici e teologici, anche se spesso ricorre a concetti filosofici per comprendere la negatività della storia e per costruire una teoria pratica. La sua scrittura è strumento orientato all’azione oppure quando non è possibile è l’esercizio di chi non può incidere altrimenti e con la satira sottolinea la volontà di modificare l’esistente virtù contro l’oscuro insieme delle forze che le si oppongono (fortuna). • Nato a Firenze nel 1469, riceve educazione umanistica, musicale e poetico-letteraria. Nel 1498 la signoria di Firenze è al centro dello scontro tra papa Alessandro VI e Girolamo Savonarola e lui si schiera contro Girolamo, definendolo impostore, ma ammettendo comunque la sua forza politica. Nello stesso anno è nominato segretario della Seconda Cancelleria (quella che teneva rapporti epistolari con funzionari all’interno del dominio fiorentino) e poi dei Dieci (impiegato per loro spesso come agente in legazioni e commissarie anche fuori dai territori della Repubblica), iniziando così un’attività intensissima. Persa Pisa nel 1494, vi è necessità di riconquistarla, chiamando Machiavelli, il quale consiglia di prenderla con la forza subito, quindi critica l’attendismo fiorentino in questo caso. Per convincere Luigi XII di Francia a terminare l’assedio di Pisa, viene inviato in Francia (1501, Discorso sulla pace fra l’imperatore e il re di Francia), mentre il duca Cesare Borgia (il Valentino, duca di Romagna, figlio di papa Alessandro VI) minaccia Firenze. Machiavelli è quindi inviato ad Arezzo per cercare di mettere fine alle difficoltà e compone per i Dieci gli avvertimenti Del modo di trattare i popoli sulla Terra da Plutone, per vedere se le donne sono causa di perdizione. Torna all’inferno senza finire la missione e viene punito perché non riesce a sopportare la situazione, dimostrando che il vero inferno è quello sulla Terra. Scrive anche la Serenata, un testo in ottave, composto per essere cantato e il cui modello sono le Metamorfosi di Ovidio. • Nel 1520 gli viene commissionato di scrivere le Istorie Fiorentine da parte dei Medici (Giulio de Medici grazie alla mediazione degli Oricellari), entrando così finalmente alla loro corte come scrittore. Con i suoi scritti l’autore invita i Medici a riformare Firenze con un governo misto. Mirando all’unità cittadina e coinvolgendo tutte le componenti sociali e politiche del governo. Nelle Istorie Fiorentine, narra in 8 libri gli avvenimenti che vanno dal rientro dall’esilio di Cosimo de Medici (1434) alla morte di Lorenzo de Medici (1492), oltre a contenere un elogio funebre del Magnifico, che dovrebbe rappresentare il risorgere delle ambizioni dei principi. L’ultima opera che scrive è la Clizia, commedia in 5 atti che mette in scena l’amore di un vecchio madre e di un giovane figlio per la trovatella Clizia. Centrale è il ruolo della fortuna che favorisce il figlio. Machiavelli mette in scena sé stesso nel personaggio del padre, per descrivere il proprio senile innamoramento per la cortigiana Barbara Salutati Raffacani. • Nel 1526 Machiavelli sostiene il tentativo di Guicciardini di conservare la libertà d’Italia dalle armi straniere e quindi di reclutare le truppe per far risorgere l’idea dell’Ordinanza, che però fallisce. A novembre l’esercito imperiale entra in Italia e a maggio cade il governo mediceo a Firenze e viene ristabilita la repubblica. Machiavelli viene ostracizzato perché uomo di fiducia dei Medici. Muore il 21 giugno 1527. FRANCESCO GUICCIARDINI (1483-1540) Più che scrittore egli è un giurista e patrizio fiorentino. Vive in primo piano i traumi del sacco di Roma (1527), i passaggi dalla Repubblica al principato di Firenze e la fine della libertà degli Stati regionali italiani. Nella sua esistenza vissuta come attore e spettatore della storia, la scrittura è qualcosa di puramente privato o familiare, perseguita durante le pause dal lavoro e funzionale all’attività politica, esclusivamente dedicata all’analisi politico-costituzionale, alla storiografia e alla memorialistica. Ha un’ostinata volontà di comprendere e descrivere per via razionale l’imprevedibilità del reale e le sue cause. La tensione intellettuale verso l’irrazionalità del mondo e della storia, fa della scrittura lo specchio del periodo in cui vive. • Nasce nel 1483 e appartiene ad una famiglia ricchissima, filomedicea e di stampo savonaroliano, eredità da cui dipende il rigorismo delle sue opere (disgusto per corruzione ecclesiastica e necessità di riforma morale dei fiorentini). Dal contesto familiare trae il nucleo di valori, ideali e pratiche della propria immagine pubblica e politica. Studia dal 1498 diritto civile (tra Firenze, Ferrara e Padova dove abita dal prof. Filippo Decio) ed il riserbo e la severità divengono tratti salienti del suo carattere. Si sposa per ragioni politiche con Maria Salviati, figlia di Alamanno (capofila degli oppositori filoaristocratici al gonfaloniere Piero Soderini). Nel 1508 inizia a scrivere le Ricordanze (memorie della sua vita privata e professionale compilate fino al 1527) e le Memorie di famiglia (in previsione della formazione dei suoi futuri discendenti). Tra il 1508 e il 1510, usando come fonte le Memorie, compone senza finirle le Storie Fiorentine, in cui descrive la crisi dell’aristocrazia fiorentina dal tumulto dei Ciompi (1378) all’assedio di Pisa (1509); l’obiettivo era mostrare le ragioni della crisi del presente. • Nel 1511 inizia la carriera politica, diventa infatti ambasciatore presso il re di Spagna Ferdinando il Cattolico. L’esercito spagnolo servirà, per ordine della Lega Santa, a rimuovere il governo di Soderini per consentire il rientro dei Medici nel 1512. Durante il disimpegno politico inizia scrivere una nuova opera, cioè i Ricordi, in cui inserisce regole ricavate dalle sue esperienze politiche ed esistenziali che consentono al lettore di conoscere la realtà e quindi ad orientarsi. Alcuni frammenti dell’opera sono strettamente legati con un altro suo scritto, ovvero il discorso Del Modo di ordinare il governo popolare (1512), nel quale manifesta la sua idea di buon governo repubblicano, cioè quella di una costituzione mista dove monarchia, aristocrazia e democrazia si uniscono per formare un modello di governo temperato più stabile e duraturo. Le magistrature esistenti (Consiglio Grande e Gonfaloniere), infatti, sono per lui un sistema incompleto e messo a rischio dalle pulsioni tiranniche del singolo, andrebbero infatti integrate con un Senato. • Il cambio di regime a Firenze e l’elezione papale di Leone X (Giovanni de Medici), sono avvenimenti per lui favorevoli e infatti nel 1515 è tra i consiglieri di Lorenzo de Medici; questi sono i presupposti per lo sviluppo della sua riflessione politica, che mostra di attingere anche al Principe, trattando del tema della virtù e della fortuna in Del modo di ragionare lo stato alla casa de’ Medici (1516). Viene nominato governatore di Modena e Reggio fino al 1523, mentre nel 1521 è nominato comandante dell’esercito pontificio contribuendo alla conquista di Milano contro i francesi. Morto Leone X si crea un vuoto di potere che vanifica gli sforzi militari e Guicciardini viene attaccato a Parma, però resiste salvaguardando il proprio onore e lealtà verso la Chiesa (descrive tutto ciò in un’opera, Relazione della difesa di Parma). La stessa situazione capita alla morte di Adriano IV, quando viene assediato dai francesi e dagli estensi a Modena, ma anche qui riesce a resistere. Nel 1523 viene eletto papa Clemente VII (Giulio de’ Medici) e l’autore è nominato presidente della Romagna, dove amministra la giustizia godendo di enorme potere (fino al 1527). Proprio in questo periodo di quiete riprende da capo la scrittura dei Ricordi: diviene ora chiaro che il lettore ha davanti a sé una serie di regole le cui modalità di applicazione non possono essere insegnate se non attraverso l’esperienza. Questa seconda stesura abbandona un po’ Firenze e si concentra sul rapporto tra il principe e i suoi ministri. • Nel 1526 termina il Dialogo del reggimento di Firenze, dove in una prima parte svolge un’analisi storica della crisi e in una seconda propone una possibile soluzione istituzionale per la città. Ambientato tra la cacciata dei Medici (1494) e l’istituzione di un governo popolare (1495), gli interlocutori sostengono idee differenti: Piero Capponi vorrebbe una repubblica a guida aristocratica, Paoloantonio Soderini (savonaroliano) vuole un governo a larga partecipazione popolare, Piero Guicciardini manifesta un interesse storico-intellettuale per le questioni discusse. Bernardo del Nero, cioè il personaggio principale, difende il governo dei Medici, pur tirannico, ed è portavoce dell’autore. La coscienza della durezza della realtà politica che rende illecita ogni guerra, illegittime le pretese d’autorità di ogni, e impossibile salvare la coscienza e insieme lo stato, avvicina l’autore alle tesi più radicali di Machiavelli. • La vittoria a Pavia dell’esercito imperiale contro i francesi (1525), impone all’Italia il governo di Carlo V. Il desiderio di Guicciardini di impedire la fine della libertà italiana lo spinge a convincere il papa a promuovere una lega per contrastare le forze imperiali (1526): la lega di Cognac (Chiesa, Francia, Inghilterra, Svizzera, Venezia) con la quale tenta di liberare Milano dall’assedio degli spagnoli, però fallendo. Infatti il 6 maggio 1527 avviene il sacco di Roma, i Medici vengono cacciati e viene restaurata la repubblica. Nella sua villa scrive un trittico di discorsi: una Consolatoria, in cui fine che un amico lo consoli dei dolori causati dalle sventure politiche e due orazioni, Accusatoria e Defensoria, che trattano del proprio operato politico e dunque una sorta di bilancio privato. Scrive inoltre tra 1528-29 Cose fiorentine, incompiuto, che avrebbe dovuto narrare la storia di Firenze. • Nel 1529 con la pace di Barcellona tra il papa e Carlo V, le truppe imperiali assediano Firenze per restaurare regime mediceo. Guicciardini viene accusato di aver tramato contro lo stato e così si ripara sotto Clemente VII, schierandosi di fatto dalla parte dei Medici e quindi contro la Repubblica. La città di Firenze cadrà il 12 agosto. In questo periodo termina l’ultima redazione dei Ricordi, che presentano questa volta un andamento più meditativo. È presentato anche uno dei temi di fondo dell’opera, ovvero il conflitto tra saggezza e pazzia. I Ricordi passano dunque dall’essere regole ad essere laiche meditazioni, in particolare sull’agire umano nella storia. Nello stesso periodo scrive a Roma le Considerazioni intorno ai discorsi del Machiavelli, nel quale esprime la sua contrarietà all’idea di Machiavelli sulla comparabilità delle diverse realtà storiche da cui trarre delle regole teoriche politico- universali, e manifesta la sua idea: l’Italia è un elemento territoriale-geografico e non politico, mentre la sua unità deriva dall’equilibrio reciproco delle molte città. • Nel 1530 è Governatore di Bologna e nel 1532 fa parte della commissione che ridisegna (come da volontà del papa e dell’imperatore) il nuovo assetto costituzionale di Firenze, che diventa un ducato ereditario guidato da Alessandro de Medici e coadiuvato da 4 consiglieri. La morte di Clemente VII del 1534, pone fine al suo governatorato, ma diviene il principale consigliere del duca Alessandro. Quando egli viene assassinato, Guicciardini favorisce la successione di Cosimo de Medici, sperando così di influenzarne il governo, ma Cosimo gli lascia le cariche estromettendolo però dalla gestione del potere. L’autore si ritira dunque a vita privata e si dedica alla scrittura della Storia d’Italia (1490-1534), divisa in 20 libri. Colpito da una grave malattia, chiede che il manoscritto venga bruciato e muore nel 1540. Il manoscritto però non viene dato alle fiamme e ne furono pubblicati i primi 16 libri da un nipote (1561, Firenze) e i restanti 4 successivamente (1565, Venezia). Descrive i caratteri dei singoli individui e dei rapporti tra Stati e loro governatori, l’oggetto dell’opera è la crisi degli stati italiani. Egli rivela come la storia sia storia di individui: per questo, nonostante l’irrompere della fortuna, mette a nudo le responsabilità dei singoli uomini nella storia poiché la mancanza di discrezione, origina enormi disastri. Lo storico può compiere il proprio dovere solo fissando lo sguardo sull’instabilità delle cose umane, descrivendo la storia con dati certi e ver per ricostruire la razionalità del mondo con un controllo intellettuale. IL TEATRO DEL ‘500 • Nel primo ‘500 prende forma la tradizione teatrale italiana grazie ad un aperto confronto con i modelli classici, che costituiscono un terreno privilegiato per sperimentare la lingua volgare e per adattarli alle esigenze moderne, oltre che essere oggetto di traduzione, imitazione ed emulazione. Commedia, tragedia e favola pastorale, hanno legami con teatro del ‘400, ma si rafforzano solo nel ‘500, assistendo a nuova civiltà teatrale che cerca di trovare una progressiva definizione delle norme del testo teatrale in tutti i suoi aspetti. Sul De Architectura di Vitruvio si precisano le tipologie della scenografia e si costituiscono professionisti quali attori, scenografi e artisti specializzati. • Sul finire del ‘400 esistono molte forme di spettacolo, dalle sacre rappresentazioni, ovvero drammatizzazioni dell’antico e del nuovo testamento (Rappresentazione di San Giovanni e Paolo di Lorenzo de’ Medici), alle feste pubbliche con allestimento di giostre di matrice cavalleresca. Ci sono anche spettacoli estemporanei proposti da canterini, ovvero artisti di strada specializzati nella recita di poemi cavallereschi o farse, genere drammaturgico basato su messa inscena di piccoli quadri di vita matrimoniale, con doppi sensi osceni. Tutte le espressioni teatrali sono legate al potere politico diventandone una sorta di emanazione, uno strumento di governo e autorappresentazione es. Festa del Paradiso (1499) a Milano da Ludovico il Moro per onorare Isabella d’este, testo di Bellincioni e scenografie di L. da Vinci. Ricordiamo anche il teatro umanistico, molto celebre nel ‘400, che costituisce un antefatto del teatro del ‘500: in particolare nel ‘400 veniva utilizzato nelle scuole per consolidare la lingua latina mediante i testi classici e per apprendere rudimenti della retorica, che assegna all’actio un’importanza cruciale. Ai testi classici (Plauto, Terenzio) si accostano anche alcune corti, che si differenziano dal teatro umanistico perché le commedie vengono tradotte in lingua italiana per renderle fruibili ad un pubblico più vasto. In ciò un ruolo particolare lo avrà Ferrara (qui sorgerà uno dei primi teatri regolari all’interno del palazzo signorile), alla cui corte per volontà degli estensi, vengono messe in scene molte commedie a fine '400. Sempre a Ferrara Pellegrino Prisciani compone il trattatelo Spectacula, nel quale propone una delle prime opere teoriche sulla scenografia e sulle diverse tipologie degli spazi teatrali. La traduzione dei classici è comunque un passaggio decisivo per la formazione del moderno teatro volgare. La traduzione doveva essere un adattamento del testo classico, perché doveva trasportarne la comicità in ambito moderno, quindi non sempre si poteva tradurre parola per parola. Si trovano anche testi teatrali in volgare, soprattutto di favole mitologico-pastorali pensate per la corte (Fabula di Orfeo, 1480, Poliziano). • La rappresentazione dell’Ariosto della Cassaria nel 1508 a Ferrara, è considerata la data di partenza della nuova commedia volgare. Il modello della commedia antica di Plauto e Terenzio viene assunto come paradigma di riferimento dagli autori moderni per i temi, tipologia dei personaggi e per la regolarizzazione della scansione in 5 atti, assunta come norma dai moderni. I cinque atti sono così suddivisi: nel primo viene presentata la situazione, dal secondo al quarto si complica la trama, nel quinto è contenuto l’atto finale. Inoltre, è sicuramente da prendere in considerazione il Decameron, utilizzato come una specie di enciclopedia del comico dal quale attingere. Alcuni autori scrivono in versi (caso Ariosto), altri in prosa (quest’ultima è la più utilizzata). La commedia 500esca è intrisa di plurilinguismo e una delle caratterizzazioni più frequenti è la presenza di tipi definiti dallo status sociale o provenienza regionale (es. il pedagogo per parodizzare gli intellettuali). Gli esiti diversificati sono dovuti alle diverse corti e il primo elemento che crea differenze è dato dall’organizzazione del potere politico degli stati es. Firenze passando dalla repubblica al principato registra un controllo delle espressioni culturali. • A Urbino troviamo Bernardo Dovizi da Bibbiena (sempre fedele alla famiglia dei Medici) con la Calandria, commedia commissionata dal signore Francesco Maria della Rovere, che rappresenta le avventure di due gemelli che si ritrovano a Roma, dopo essersi convinti l’uno della morte dell’altro, in • Nelle corti meridionali si è disponibili al confronto con i modelli classici e si avvia la ricerca di un’artificiosità stilistica e retorica. Le voci più rappresentative sono quelle di Jacopo Sannazzaro (Sonetti et canzoni, 1530), che rappresenta una lingua lirica che aspira a farsi classica, orientata verso un petrarchismo aperto, si sofferma infatti sia sulle tematiche amorose sia sul paesaggio; Girolamo Britonio con Gelosia del sole (1519), vero e proprio canzoniere di impronta petrarchesca. Molti non vogliono che ci si limiti all’imitazione di Petrarca, un esempio è Benedetto di Falco che con il Rimario (1535) registra tutte le parole utilizzabili per comporre le rime, desumendole dagli autori ritenuti imitabili ed eccellenti; apprezza il lavoro di Bembo, ma vuole allargare il canone degli autori. Luigi Tansillo è il poeta più capace di trovare un equilibrio tra le forme classiche e i modelli volgari, ricercando uno stile prezioso senza essere manieristico. LA POESIA COMICA DEL ‘500 • La poesia comica che si sviluppa nel corso del ‘500 raccoglie l’eredità del secolo precedente (Burchiello, Luigi Pulci). Gli argomenti trattati nei testi 400eschi sono della tradizione medievale, una satira misogina, la povertà del poeta, le descrizioni grottesche, l’amore rusticale, la parodia religiosa, dialettale e quella dei componimenti lirico-amorosi. Alcuni nomi da ricordare: Bernardo Bellincioni, Antonio Alamanni, Antonio Camelli (detto Il Pistoia). Nella seconda metà del ‘400 vengono elaborati a Firenze i Canti carnascialeschi, testi cantati durante il carnevale e in forma di ballata, nei quali si utilizza un linguaggio equivoco basato sui doppi sensi di carattere osceno. Altri centri di produzione saranno Milano e il Veneto (poesia e prosa qui sono in lingua pavana). Dal ‘400 al ‘500 si assiste al mutamento del metro della poesia comica e satirica: prima veniva usato il sonetto, ora invece il capitolo in terza rima (soprattutto grazie all’impulso di Berni). • FRANCESCO BERNI è il Burchiello della poesia giocosa del ‘500, cioè un innovatore e un modello da imitare. Da lui deriva l’aggettivo “bernesco”, che indica una poesia satirica e giocosa. Nato a Lamporecchio (1497-1498), importante è per lui il soggiorno a Roma con il Pasquino (torso marmoreo al quale venivano affissi versi pungenti, le pasquinate). Nel 1518 la sua prima opera poetica, una ballata amorosa, la Canzon d’un saio, nei primi versi della quale illustra l’impiego del tradizionale linguaggio amoroso in chiave comica e parodica. Accanto alla scrittura in volgare, c’è anche quella in latino che si ispira a Catullo, Virgilio e Ovidio. Con il Capitolo di papa Adriano il poeta è condannato all’esilio e si ritira a Chieti, poiché esprime il suo dissenso per la salita di Adriano VI al soglio pontificio. Con la morte del papa e l’elezione di Clemente VII, Berni torna a Roma e successivamente (1524-1532) diventa segretario del vescovo di Verona, Giberti. Con Berni abbiamo l’innovazione del capitolo in terza rima (utilizza lo schema ternario di Dante), esso si presenta in forma epistolare oppure può essere imperniato sulla lode paradossale (ovvero di un oggetto/argomento insignificante), che punta verso il basso andando contro la poesia più nobile, anche se ripreso dagli antichi. La sua vocazione anticlassicista (forzare le misure di armonia ed equilibrio) si può apprezzare nella riscrittura di componimenti lirici in chiave parodica, in particolare di Bembo. Riscrive in toscano l’Inamoramento de Orlando di Boiardo, con una rivisitazione dei versi di riferimento in chiave moralizzatrice che ha fatto per cui pensare ad un’opera scritta su commissione di Giberti, inoltre aggiunge ottave nuove, spesso a carattere autobiografico. 1532 passa al servizio di Ippolito de’ Medici, si sposta poi a Firenze, trattenendosi lì grazie ai benefici guadagnati negli anni. Muore nel 1534, forse avvelenato per ritorsione. • GIOVANNI DELLA CASA è una delle figure più note del ‘500 per la trattatistica e per la produzione lirica dallo stile solenne e difficile. tar il 1532 e il 1540 si stabilisce a Roma dove frequenta letterati con gusto anticlassicista e si misura con la nuova produzione in volgare, scrivendo versi di intonazione burlesca. Rifiuta il matrimonio e cerca un ruolo stabile all’interno della Curia con funzioni politico- amministrative, avviando così la riabilitazione morale della propria figura e tentando di recidere il rapporto con la produzione di tipo burlesco e satirico degli anni giovanili. Dal 1537 inizia la sua carriera ecclesiastica, prendendo gli ordini sacri nel 1551. Da alcune testimonianze sembra che abbia fatto parte dell’Accademia dei Vignaiuoli (più che una accademia è un gruppo di letterati che hanno dato vita tra 1531 e 1537 ad una produzione burlesca, in prevalenza di terze rime) come interlocutore di primo piano e autore di cinque capitoli burleschi (Capitolo del bacio, Capitolo del nome di Giovanni, Capitolo sopra il forno, Capitolo del martello, Capitolo della stizza). Es. Capitolo sopra il forno si incentra su una lode paradossale di un oggetto, il forno, simbolo dell’organo sessuale femminile. Compone anche altri versi burleschi, 5 sonetti, un madrigale, alcune ottave. • TEOFILO FOLENGO: la sua produzione si offre come una rielaborazione di varie componenti, che la rendono un unicum nel panorama italiano. Nasce a Mantova nel 1491, nel 1509 prende i voti. A Padova che concepisce una lingua macaronica basata su un misto di latino, volgare ed elementi dialettali padani, per irridere la cultura latina dei dotti. Con il suo Liber Macaronices (1517) si avvia la nobilitazione della poesia macaronica. Il primo nucleo è il poema in esametri dedicato a Baldo, eroe bizzarro, descritto secondo il modello epico virgiliano e le modalità della letteratura cavalleresca, esasperate e venate di elementi comici e grotteschi. L’eroe vive in una dimensione contadina ed umile ed è caratterizzato da un nobile coraggio. Nell'edizione successiva, Opus Macaronicum (1521) aggiunge altri testi macaronici. Dopo aver lasciato i voti nel 1524 (era infatti entrato a far parte dell’ordine benedettino), si trasferisce a Venezia al servizio di Orsini come precettore del figlio, e pubblica l’Orlandino, un poema in ottave sull’infanzia del paladino Orlando, con una lingua settentrionale. Viene ricostruita la vicenda dell’innamoramento dei genitori di Orlando, seguita da una critica al mondo ecclesiastico. Lascia poi Venezia per la vita da eremita, come pentimento per rientrare nell’ordine, motivo per cui scrive anche opere sacre come il poema in ottave La umanità del Figliuolo di Dio (1532), nelle cui prefazione prende le distanze delle opere precedenti. Muore nel 1544. LE FORME DELLA PROSA DEL ‘500 • Nel corso del ‘500 la novella e il dialogo conoscono uno sviluppo e un incremento rispetto al ‘400. Per quanto riguarda la NOVELLA (testo breve prevalentemente in prosa con fini edonistici) nel ‘400 c'è una produzione di raccolte prive di cornice o di racconti singoli. Nei primi due decenni del ‘500 si scrivono soprattutto novelle spicciolate (racconti singoli), ma si ha uno spartiacque con le Prose, nelle quali Bembo legittima e nobilita la novella imponendo Boccaccio come modello, avviando inoltre un necessario processo di codificazione. La novella diviene occasione d’intrattenimento nella società cortigiana, perché il raccontare è la principale attività per partecipare alla corte (viene detto anche nel Cortegiano). Le novelle affrontano ora storie di vario argomento, non solo comiche, ma anche legate alla realtà. L’altro genere è il DIALOGO, che mette in scena due o più punti d’osservazione in forma di vivace contrasto e confronto su un argomento. Ha una lunga tradizione greca (Platone), latina (Cicerone), religiosa (Sant’Agostino), preumanistica (Petrarca con il Secretum), umanistica (Leon Battista Alberti). Spazia in diversi temi, dalla trattatistica amorosa alla lingua, dal comportamento, alla guerra, alla scienza e alla filosofia es. Le Prose, il Cortegiano, i Dialoghi dell’arte della guerra di Macchiavelli. • PIETRO ARETINO: ha subito una sorta di damnatio memoriae per la sua condanna politica e per l’attribuzione di alcuni scritti etichettati come pornografici, oggi però è stato rivalutato in quanto letterato che riflette su di sé molti tratti di una stagione storica inquieta e complessa. Mette in discussione i pilastri della vita cortigiana alla quale partecipa. È definito antiaccademico e anticlassicista ed è l’inventore dei dialoghi puttaneschi e del libro di lettere in volgare. Nasce nel 1492, si sposta a Perugia dove intrattiene rapporti con letterati e artisti, ha modo di raccogliere alcuni suoi componimenti nell’Opera Nova (1512). Nel 1517 si sposta a Roma dove entrare in contatto con la Curia; alla morte di papa Leone X, schierandosi con cardinale Giulio de Medici, scrive feroci pasquinate (componimenti satirici in forma di sonetto o capitolo in terza rima) e nonostante l’elezione di Adriano VI al soglio pontificio, diventa la maschera di Pasquino con la fame di letterato incline al pettegolezzo. A Roma è arbiter (tra papa, re e imperatore con interventi diplomatici) al servizio del papa Clemente VII (Giulio), dove scrive la Cortigiana (1525), commedia dai toni pasquineschi che critica fortemente la curia, rimane inedito, ma sicuramente circolava. Oltre a questo, nello stesso anno il papato alleato con la Francia subisce una sconfitta politica e quindi non può permette che venga minata la propria immagine + Giulio Romano realizza disegni erotici e su questi Aretino scrive i cosiddetti Sonetti lussuriosi > spinge i potenti ad eliminarlo, ma miracolosamente sopravvive ad un attentato. Lascia Roma e approda a Mantova, sotto la protezione di Federico Gonzaga. Nel 1427 è a Venezia sotto la protezione del doge Andrea Gritti, dove tesse importanti rapporti con l’editore Marcolini. Qui capisce l’importanza della stampa e delle dediche, che gli portano favori da parte dei potenti (spesso stampa una stessa opera con dedicatari diversi). Vengono stampati i dialoghi puttaneschi, Ragionamento (1534) e Dialogo (1536); il primo è diviso in 3 giornate nelle quali la Nanna racconta alla ruffiana Antonia la sua vita di suora, poi di moglie e infine di prostituta, il secondo è sempre diviso in 3 giornate e Nanna insegnare alla figlia Pippa l’arte del meretricio. Sono in forma dialogica, ma contemplano comunque l’impiego di novelle. Punto significativo è quello in cui viene narrata l’iniziazione a monaca di Nanna che conosce i frutti del paradiso terrestre, falli di vetro cavo di Murano riempibili di acqua calda, simboli del mondo sessuale. L’Aretino raccoglie negli anni la sua produzione epistolare, sulla scorta dell’opera di Erasmo da Rotterdam, sia per pubblicizzare la propria immagine sia per ragioni di consumo editoriale. L’opera esce in 6 libri (tra 1538-1557) e conosce grande successo e diventa un modello. Le Lettere testimoniano il sistema di rapporti politici, diplomatici e intellettuali allacciati nel tempo. Dopo la morte avvenuta nel 1556, le sue opere vengono condannate dalla chiesa ed inserite nell’Index librorum prohibitorum. • Nel campo della novella abbiamo diversi esiti in base all’area geografica: in ambito meridionale, troviamo Girolamo Morlini che pubblica un’opera in latino priva di brio (1520, Novellae), che trova una continuità solo nell’opera di Straparola. In Toscana troviamo Agnolo Firenzuola con i Ragionamenti, contaminazione tra genere della novella e la trattatistica amorosa, evidente debito a Boccaccio con la divisione in giornate, incompleta; sempre in Toscana Francesco Grazzini, detto il Lasca, con le Cene (30 novelle divise in 3 giornate con cornice conviviale; ne abbiamo oggi solo 21, soprattutto sul tema della beffa) e le Novelle Magliabechiane (entrambe le opere in un linguaggio fiorentino, che va quindi contro il canone bembiano). In ambito settentrionale il maggiore esponente è però MATTEO BANDELLO, che è anche l’autore più rappresentativo del genere nel ‘500. Compone Le tre Parche (tre capitoli in terza rima a fini encomiastici), il canzoniere Alcuni frammenti di rime (dedicato alla figlia del re di Francia Francesco I, con una lirica aperta alla contaminazione) e le Novelle, divise in quattro libri (1554-1573); non c’è però una cornice come in Boccaccio, ma ogni novella è preceduta da una lettera dedicatoria a personaggi rilevanti della società; inoltre al contrario di Boccaccio, qui le novelle corrispondono a storie con caratteristiche straordinarie (non favole) con due obiettivi, la meraviglia e l’insegnamento etico esemplare. Ne emerge un continuo sfumare tra verità storica e fictio letteraria. I temi sono vari, si prediligono storie tragiche, specialmente d’amore. Utilizza il lombardo, lingua differente dallo stile decameroniano. Le Novelle verranno tradotte in diverse lingue. Famosa è la novella Romeo e Giulietta, alla quale si ispirò, dopo diverse traduzioni, Shakespeare per la sua tragedia Romeo and Juliet. • Nella fase centrale del ‘500 prende piede la trattatistica del comportamento, che aveva visto un precedente con Baldassarre Castiglione. Importante è il Galateo overo de’ costumi, trattatelo di DELLA CASA, composto tra 1551-1555 e verrà stampato postumo nella raccolta Rime et Prose del 1558. Il titolo deriva dal nome di Galeazzo Florimonte, amico ecclesiastico di Giovanni, figura scelta come interlocutore ideale del trattato, il quale però viene indirizzato ad un giovane destinatario con l’obiettivo di indicare delle regole per essere costumato, piacevole e di bella maniera. Lo scopo dell’operetta consiste nell’individuare la comunicazione e il comportamento adeguati alla società. È scritto con uno stile umile e contiene una raffinata ripresa dei classici latini, del Decameron e del Corbaccio. LE SCRITTURE D’ARTE TRA ‘400 E ‘500 • Tra ‘400 e ‘500 la produzione inerente all’arte conosce un’evoluzione significativa, che contribuisce una più alta dignità sociale e maggior valore alle opere e alle figure di pittori, scultori e architetti. L’opera dell’artista – il quale non è più considerato come un semplice artigiano – può competere finalmente con la letteratura e la poesia. Si approda ad una considerazione dell’attività artistica come ars liberalis (mentre precedentemente era legata all’ars), da una visione umanistica si giunge a un rovesciamento che vede nella contemporaneità e in particolare in un artista come Michelangelo, il culmine di un processo giunto alla perfezione. Le arti iniziano ad essere concepite alla stregua di scienze e come tali necessitano di una preparazione rigorosa e di un linguaggio tecnico e puntuale che le sostenga e le legittimi. Allo stesso tempo gli artisti diventano modelli da imitare e da fissare in rassegne, infatti si diffonde la biografia degli artisti, celebre è sicuramente le Vite di Vasari. • Il primo trattato in lingua volgare contenente aspetti tecnici è Il libro dell’arte del pittore toscano Cennino Cennini. Seguono i Commentarii di Lorenzo Ghiberti, che, suddivisi in 3 libri, trattano della storia dell’arte, e il De Pictura di Leon Battista Alberti, dove l’artista si fa creatore e può avere il dominio sulla natura perché la pittura non si limita a riprodurre la natura, ma la riorganizza razionalmente scomponendola in modo geometrico e ricomponendola mediante il linguaggio pittorico. Nel XV si afferma una nuova trattatistica che attinge alla tradizione umanistica e si fonda sui modelli classici (Vitruvio, Plinio).