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Riassunto del libro a cura di Francesco Poli, Sintesi del corso di Storia dell'arte contemporanea

Università di Roma La Sapienza, riassunto accurato del libro di F.Poli: Arte contemporanea: le ricerche internazionali dalla fine degli anni 50 ad oggi

Tipologia: Sintesi del corso

2021/2022

Caricato il 05/11/2024

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Scarica Riassunto del libro a cura di Francesco Poli e più Sintesi del corso in PDF di Storia dell'arte contemporanea solo su Docsity! PRIMO CAPITOLO Saggio a cura di Catherine Grenier Introduzione: Nel clima del dopoguerra, i giovani artisti non tardarono a contestare tanto i valori dell’astrazione dominante che quelli del tardo surrealismo, considerati superati e legati a un mondo ormai scomparso. Si mostreranno invece ricettivi al minimo segno, alla minima esperienza tendenti a condurre l’arte alla riconquista della vita e del reale, conquista che sarà il grande progetto di questa nuova fase dell’arte che con loro si inaugura e che sarà l’arte contemporanea. Gli anni ’50 e ’60 confluiscono nella “controcultura”, le cui premesse si trovano tanto negli eroi trasgressivi di Jean Genet e nei poeti della beat generation che nelle figure picaresche e deculturate che popolano le opere di Antonin o di Samuel Beckett. I graffiti, l’art brut, la caricatura, il fumetto ma anche i manifesti, la pubblicità, sono celebrati come altrettanti “prelievi” diretti su una realtà prosaica e popolare che si contrappone alla cultura dominante e all’arte. In Europa dapprima il lettrismo, poi l’Internazionale Situazionista pongono i fondamenti teorici di una poetica della libertà che trova la sua forma di espressione più radicale nel cinema sperimentale. Negli Stati Uniti si sviluppa la cultura underground, che rivendica le sue origini nella filiazione beat, come anche nel kitsch e nella cultura popolare. In campo musicale, le esperienze di John Cage negli Stati Uniti, quelle di Gerard Ruhm o di Pierre Henri in Europa, inciteranno molto presto gli artisti a varcare i limiti delle diverse discipline. All’altro estremo dello spettro della creazione, il rock and roll e la musica pop contribuiscono a rendere popolare il modello di un anti-cultura e celebrano la nascita della cultura alternativa. L’abolizione delle frontiere culturali e disciplinari, la dimensione collettiva, la liberazione dagli obblighi morali e sociali sono i fattori principali di una nuova “condizione di spirito” che si vuole diversa, il cui ideale si diffonde a cominciare dai precursori dell’inizio degli anni ’50 fino ai movimenti di rivolta della fine degli anni ’60. Durante gli anni ’50 le condizioni economiche e sociali, dovute alle conseguenze della guerra e ai traumi che l’Europa ha subito, sono molto diverse, in Europa e negli Stati Uniti. In questo contesto, gli Stati Uniti iniziano un’azione emancipatrice a favore di una identità nazionale forte, che modificherà profondamente l’equilibrio culturale internazionale, nel quale fino ad allora l’Europa aveva avuto un ruolo dominante. Tuttavia, con lo sviluppo della “società dei consumi” e il trionfo della meccanizzazione che la favorisce e che le subentra, si ristabilisce su nuove basi un contesto unificato. Al vecchio e al nuovo mondo si impone una rivoluzione nel modo di vivere e nel paesaggio quotidiano, che costituisce una nuova sfida per gli artisti, dei cui strumenti di diffusione – la fotografia, il cinema, il teatro, la musica, l’architettura – questa “rivoluzione domestica” utilizzerà di volta in volta secondo le necessità del caso per costituire nuovi sbocchi pubblicitari e promozionali a favore della “vita moderna” e partecipare all’elaborazione di nuove forme di espressione popolare. La società è immersa in una estetica della città, dello spettacolo, dei media, della pubblicità, che con mancherà di stimolare le arti. Nell’ambito delle arti plastiche gli artisti si oppongono alla modernità rappresentata dall’astrazione, costretta al dubbio dalle circostanze storiche e confinata nell’introspezione o nella sublimazione. Si allontanano da una concezione dell’arte che giudicano elitista ed egocentrica per affrontare il reale, liberarsi da qualunque posizione eroica e morale. Questo ottimismo contestatario è ciò che meglio caratterizza questo periodo, pur comprendendo anche gli umori più melanconici di artisti come Andy Warhol, Martial Raysse o Gerard Richter, o le critiche amare di Wolf Vostel, George Hamilton o Bruce Conner. “L’arte è salute”, risponde Yves Klein a Georges Mathieu che lo interroga in pubblico durante un’antropometria. “Se non prendete questo sul serio, non c’è niente da prendere” lancio Robert Rauschenberg all’attenzione dei difensori del sublime nell’arte. Il tempo degli eroi è finito: di Pollock o di Mathieu si ricorderanno innanzitutto l’azione, il fatto di avere oltrepassato i limiti dell’arte entrando nella vita. L’Happening, la performance si svilupperanno sulle tracce di questi artisti ma secondo regole molto diverse che assegnano all’artista un ruolo sempre più anonimo, con maggiore autoderisione e un contatto più diretto con il pubblico. La dimensione antieroica culminerà proprio in questo periodo in tutti i campi, e particolarmente in quello delle arti visive, della cui densità esistenziale di una interiorità svelata dal lavoro dell’arte la generazione precedente andava orgogliosa e che i giovani artisti si affretteranno a demistificare. Nel contestare la modernità, gli artisti riattiveranno le avanguardie. Pablo Picasso e Marcel Duchamp, Ancora attivi in questo periodo che segue il dopoguerra, sono le due figure chiave, eredi di quello spirito originale delle avanguardie che le giovani generazioni intendono risuscitare. La dinamica erotica del primo, il recupero, il detournement, che pratica sulle sue sculture del dopoguerra, aggiungono una componente fisica e ludica agli apporti costruittivi del cubismo. Il secondo, erede della dialettica Dada, che arricchisce di una dimensione concettuale e teorica, unisce allo spirito critico della sua cultura francese un pragmatismo che gli permette di affermarsi sulla scena artistica americana. Gli artisti della nuova generazione oscillano tra questi due poli, che sono il cubismo o il Dada, nei quali ritrovano un gusto per l’oggetto quotidiano e una pratica del detournement, le tecniche del collage e dell’assemblage, del prelievo e della copia, che alimenteranno la loro arte nelle più varie ramificazioni. Proponendo l’immagine o l’oggetto di seconda mano, gli artisti faranno prova (in senso largo), di un vigoroso eclettismo che li condurrà a cercare la loro ispirazione nei vari movimenti che li hanno preceduti: Dada, in primo luogo, ma anche il Surrealismo, Cobra, fino alle scuole di pittura e di fotografie realistiche degli anni di guerra. Da questa profusione di fonti nasceranno le due tendenze che si delineeranno successivamente sovrapponendosi durante la maggior parte degli anni ’60: i “nuovi realismi” e le pop art (s). FOTO pag. 13: César, Compression d’elements d’automobiles, 1960. Ginevra, Musée d’Art et d’Histoire I nuovi realismi: Nouveau Réalisme, neo-dada, junk art Il termine “Nouveaux réalistes” è stato coniato nel 1960 dal critico d’arte francese Pierre Restany per designare un gruppo di artisti che si coalizzarono intorno a un manifesto. Termine che verrà ripreso in una mostra organizzata dallo stesso critico a New York presso la Galleria Sidney Janis nel 1962. In tale occasione (mostra del 1962) il termine venne esteso a un gruppo di artisti americani nel quale coesistono le correnti dette “neo-dada” e le prime espressioni della pittura che sarà presto definita “pop”. *Neo-dada e Junk art non sono legati né a una scuola né a un gruppo particolare un'estetica ancora molto caratterizzata dalla predominanza del gesto pittorico, questi artisti ricorrono ad un'iconografia trovata nella strada o nei rotocalchi. Spesso aggressiva, volgare, talvolta salace, quest'arte proclama la sua adesione al mondo contemporaneo nelle sue manifestazioni più libere, meno legate all'universo del gusto e della convenzionalità. Anzi, in una dimensione estetica molto radicale, le tele di Johns e di Rauschenberg, che dal 1955 lavorano nello stesso studio, come quelle di Jim Dine, integrano direttamente elementi tratti dalla realtà riferiti alla pittura, al punto di costituire l'elemento principale di Bed di Rauschenberg (1955), o utilizzano la pittura nel senso di un mimetismo quasi assoluto con oggetti banali, tali appaiono in effetti all'epoca le "bandiere” e i “bersagli” di Johns. Nell'uno e nell'altro caso, la relazione immediata all'oggetto è primordiale, sia che questa si traduca in una proiezione del dipinto nella terza dimensione, o nella scomparsa del dominio dell'artista sull'oggetto. Questa magnificazione dell'oggetto associato alla scomparsa progressiva dell'artista condurranno la pittura ad autodefinirsi nuovamente: tale processo costituirà il movimento pop in seno al quale si riuniranno due filiazioni distinte: nata dai nouveaux réalistes, la cui problematica supera di molto quella della figurazione in senso stretto e si svilupperà presso artisti pop come Andy Warhol, Roy Lichtenstein o James Rosenquist, e quella più accademica degli artisti realisti americani degli anni quaranta, riconoscibili in molti artisti della costa Ovest, come Wayne Thiebauld o Mel Ramos. FOTO 1 a pag. 17: Allan Kaprow, Bbay, 1957. Vienna, Museum Moderner Kunst FOTO 2 a pag. 17: Jasper Johns, Flag, 19541955. New York, Museum of Modern Art FOTO 3 a pag. 18: George Rauschenberg, Odalisk, 1955-1958. Colonia, Museum Ludwing Il “nuovo realismo” europeo Il 27 ottobre 1960, data della Déclaration constitutive du Nouveau Réalisme, redatta da Pierre Restany, indica meno la creazione che il riconoscimento di pratiche iniziate qualche anno prima sia dai fautori del décollage - Raymond Hains, Villeglé, François Dufrêne a Parigi, Mimmo Rotella a Roma - sia da Yves Klein, la cui esposizione "Le Vide" alla Galerie Colette Allendy aveva fatto molto scalpore nel 1958, sia anche da Jean Tinguely le cui meta-meccaniche parodiavano fin dal 1954 l'arte astratta. I vari manifesti che seguiranno e che estenderanno il movimento a nuovi artisti di diversa provenienza verranno a legittimare e teorizzare posizioni fino ad allora individuali, isolate, alle quali il fatto di costituire un "movimento" permette di affermare la priorità innovatrice. Ciò che Restany riconosce attraverso tutte queste pratiche e questi individui così diversi è il fatto di esplorare "nuovi metodi di percezione del reale". Supremazia dell'esperienza, da un lato, e rivendicazione del reale, dall'altro, sono le parole d'ordine intorno a cui si raggrupperanno gli artisti, ma anche tutto un pensiero artistico e intellettuale contrassegnato dagli sviluppi dello strutturalismo e l'affermazione delle scienze sociali. Richiamandosi direttamente a un discorso modernista, gli artisti si proclamano testimoni e rivelatori del loro tempo. La portata visionaria e critica dell'arte si afferma attraverso una nuova posizione dell'artista, che ripudia il soggettivismo da cui era ancora viziata l'astrazione lirica, poiché abbandona il formalismo dell’astrazione geometrica a beneficio di un'attitudine di ricettività che lascia libero corso al caso e ai procedimenti aleatori. Nel clima del dopoguerra è tra i rifiuti, nei mercati dell’usato e nelle carrozzerie che gli artisti vanno in cerca dei materiali che costituiranno le loro opere, di cui una delle caratteristiche fondamentali è proprio il marcato interesse per gli oggetti. Interesse critico in Arman, che accumula oggetti banali ma anche maschere a gas, ironico in Spoerri, che "cattura" gli oggetti in situazione, in particolare le tavole dopo il pasto, poetico in Christo, che impacchetta mobili e oggetti, filosofico in Raysse, che propone una "Igiene della visione", questa attenzione per le “cose” della vita quotidiana si sviluppa attraverso diversi procedimenti di appropriazione che costituiranno per ogni artista una sorta di "firma”. Così al gesto fondatore di Yves Klein - esporre il vuoto - farà eco quello altrettanto radicale di Arman, esporre il pieno. Per l'uno come per l'altro, l'atteggiamento indotto da questa forma paradossale di esercizio di esposizione rimanda a un'economia personale della creazione. Alla composizione viene sostituita l'esperienza: l'opera si apparenta a una manifestazione, al risultato di un processo di metamorfosi del reale di cui l'opera è un effetto, una tappa. Intorno a ogni artista viene in questo modo a crearsi una forma di mitologia, basata su un gesto fondatore. La struttura linguistica su cui poggia la creazione è visibile dal momento che si può separare questo gesto dall'influenza della mano dell'artista. La grande innovazione che si manifesta nella "compressione" di César è dovuta a questo fattore di distanziazione dell'artista e dell'esecuzione della sua opera. L'apporto principale del nouveaux réalistes consisterà proprio in questa riappropriazione dei principi del readymade o del all over trasferiti in un nuovo contesto, quello di un artista impegnato nella storiografia istantanea del suo tempo. N.B. Guardare immagini a pag. 19 e 20 Dal movimento alla performance Si deve sottolineare il ruolo determinante svolto dalle diverse forme di performance - event e happening negli Stati Uniti, azioni di natura diversa in Europa nell'ambito del ravvicinamento dell'arte e del reale che operano i “nuovi realismi”. Si è spesso sottolineato l'influsso delle esperienze condotte da John Cage, Merce Cunningham e Allan Kaprow su artisti che parteciperanno o organizzeranno a loro volta numerose performance, come Robert Rauschenberg, Jim Dine o Claes Oldenburg, ma non sempre sufficientemente l'importanza degli avvenimenti che fanno intervenire l'azione e il movimento nelle prime manifestazioni del Nuovo Realismo, come quella del nuovo concetto di esposizioni-dinamiche dell'independent Group a Londra, poi quella delle feste di Fluxus che dilagheranno in tutta Europa e negli Stati Uniti. In Francia, l'integrazione del movimento, che costituisce nello stesso tempo l'associazione del tempo reale all'arte e l'interazione tra l'opera e il mondo, è un fattore importante nella creazione del nouveaux réalistes, ai quali si aggiunge l'affermazione di una dimensione fisica e sociale del processo di creazione. Il movimento, consacrato dall'esposizione "Le mouvement" organizzata da Pontus Hulten nel 1955 presso la Galleria Denise René, in risposta all'accademizzazione dell'arte astratta, è certo la componente essenziale delle opere di Jean Tinguely, le sole praticamente a conformarsi alla nozione di creazione effimera che è l'ossessione del tempo. Ma le opere di tutti i nouveaux réalistes testimoniano di un'azione preesistente, nettamente distinta dalle tecniche artistiche convenzionali. Dé-collage di manifesti o di pannelli pubblicitari operati da Mimmo Rotella, Raymond Hains, Villeglé e François Dufrêne, tavole imbandite "intrappolate" da Daniel Spoerri, ricupero o realizzazioni collettive di "bidoni di rifiuti" di Arman, che si impegnerà poi in azioni più violente perpetrate sugli oggetti con la serie Colères, compressioni di César impacchettamento di oggetti di Christo, fino agli spettacoli "antropometrici" di Yves Klein e ai Tiri di Niki de Saint Phalle, le opere costituiscono le azioni preliminari alla costituzione dell'oggetto d'arte nella coscienza del pubblico, il cui intervento arriva talvolta alla partecipazione. N.B. Guardare le immagini a pag. 22 La macchina per creare La meccanizzazione è stata il principale oggetto di interesse e di rifiuto da parte degli artisti del XX secolo. R. Hamilton inizia nel 1955 un’esposizione dell’Independent group intitolata “Man, Machine, Motion”, costituita da serie di immagini che mostrano le macchine create dall’uomo per “estendere i suoi mezzi di locomozione, conquistare il tempo e lo spazio”, conquista identificata con quella che gli artisti si propongono di realizzare esplorando la società moderna. Nella sua applicazione diretta all’arte, la macchina per dipingere – intesa tanto in senso metaforico che in senso proprio – sarà designata come l’antidoto alla decadenza e alla preminenza dell’artista sull’arte. All’alba degli anni ’60, Yves Klein dichiara: “Queste macchine straordinarie che producono quadri di qualità, di un’improvvisazione, di una varietà inaudita e indiscutibile, in questo spirito tecnico del segno e della velocità, fermeranno fortunatamente per tempo questa classe d’arte astratta che pericolosamente da alcuni anni precipita tutta una generazione nel vuoto giustamente non pieno, verso ciò che è la piaga morale dell’Occidete: l’ipertrofia dell’io, della personalità. L'importanza che riveste la macchina presso i nuovi realisti americani ed europei non deve sorprendere. Che sia modello dell'iconografia: immagine dell'automobile e dei robot domestici nelle opere di Richard Hamilton e numerosi artisti inglesi, oggetto d'arte nelle costruzioni di Jean Tinguely o di Edward Kienholz, materiale negli assemblage di John Chamberlain, Arman o Robert Rauschenberg, sostituto dell'artista nelle compressioni di César, la meccanica, in senso proprio o figurato, si oppone per questi artisti alla sentimentalità e al sublime che intendono escludere. Nello stesso modo, le performance sono regolate più secondo una meccanica che una drammaturgia. Il gesto meccanico è spesso valorizzato a scapito del gesto teatrale. Tuttavia, gli artisti esprimono chiaramente la loro preferenza per i meccanismi instabili, gli elementi fortuiti, gli effetti dovuti al caso, così come sembrano preferire le macchine sporche, rumorose o rotte che permettono al loro impegno di conservare uno spirito poetico. L'arte dei nuovi realisti è fondata su una "crisi dell'io" paragonabile a quella che traduceva, nei romantici, l'invenzione del simulacro. Se Jean Tinguely inventa una macchina per dipingere, se Daniel Spoerri fa realizzare i suoi quadri dal pubblico che mangia nei suoi piatti, se Jasper Johns si nasconde dietro l'emblematica sommergente della bandiera americana, se Robert Rauschenberg intende, come dice, "depersonalizzare" la sua dinamica pittorica rendendola meccanica, se Raymond Hains si accontenta di trasferire i suoi manifesti asportati su un telaio, resta pur sempre il fatto che la scomparsa dell'artista non resiste al piacere del fare e alla gioia davanti all'effetto felice di un caso spesso organizzato o quanto meno ben scelto. Per questo, e a ragione, si è spesso voluto opporre l'estetica "calda" di questi artisti meccanici compresi coloro che, come Rauschenberg, Johns o Jim Dine, sono stati associati alla pop art - all'estetica "fredda" che sarà quella della pop art. N.B. Guardare immagini a pag. 24 La o le pop art (s) L'anestesia della soggettività dell'artista, che è il secondo attributo del pop, si manifesta a tutte le tappe della sequenza creativa: nella scelta di soggetti banali e triviali, percepiti (o vissuti mediante un intervento esterno) come una non-scelta, nell'utilizzazione di un'immagine di seconda mano, nella messa a punto di tecniche che eliminano il "tocco" e ogni altra implicazione fisica dell'artista, nell'abbandono di ogni prospettiva e quindi dell'affermazione di un "punto di vista", e infine nella composizione stessa, che potrebbe essere la principale aspirazione dell'artista ma si trova condizionata dalla necessità di evidenziare l'immagine presa a prestito. Warhol fornisce un esempio assoluto di questa disappropriazione nei suoi film, in particolare in Empire, per il quale ha filmato senza interruzione, in piani fissi, l'Empire State Building per otto ore filate. É questo il carattere più perturbante della pop art, tanto dal punto di vista estetico quanto morale e filosofico, e anche il più innovatore. Demolendo sia l'immagine del genio ispirato sia quella dell'artista che intercede e che guida creata dalla modernità, riducendo l'artista a una condizione comune e il gesto artistico a una dimensione artigianale o industriale, proietta l'arte in una nuova era. L'arte è ormai al centro di una catena di relazioni che vanno al di là dell'arte stessa, la sua natura ludica e la sua funzione collettiva sono riattivate, il suo principio attivo è la vita ordinaria. N.B. Guardare immagini a pag. 26, 27, 28 L’arte in cinemascope La sfida principale che la pop art accoglie è senz'altro il cinema. A partire dal dopoguerra, il ruolo del cinema nella cultura è diventato predominante, e particolarmente il suo successo è esemplare perché è riuscito a fondare una vera cultura universale che mette in contatto per la prima volta un pubblico popolare e una forma artistica che peraltro non è da questo fatto denaturata. È di fronte a un cinema che soddisfa nello stesso tempo le esigenze dell'arte e quelle del pubblico che la pop art dà la sua piena misura. Che rivaleggia con le immagini del cinemascope e del technicolor. Nell'olimpo culturale, le star del cinema hanno da tempo eclissato gli artisti, quasi ridotti all'anonimato o tributari del successo mediatico. Tenendo conto di questa situazione, la pop art creerà i mezzi per ridar vita alla pratica anacronistica che rappresenta allora la pittura: riaffermare la sua supremazia in campo visivo e la sua capacità di incidenza nella vita e non nella finzione artistica. Su queste qualità la pop art innesterà le componenti derivate dall'analisi delle nuove forme popolari, artistiche e non. Come il cinema, estenderà il suo campo d'azione a tutti i territori della vita e del mondo. Come la pubblicità, rafforzerà la seduzione dell'immagine con mezzi plastici che ne aumentano l'efficacia: contrasti di colori vivi, semplicità di una composizione bidimensionale, giochi di scale e ingrandimenti spettacolari che esaltano l'immagine quotidiana. Come i rotocalchi. si serve della saturazione dell'immagine e della ripetizione. Si ritrova qui la principale risorsa dell'arte moderna: le immagini popolari prese in prestito, fenomeno che si manifesta da Seurat e Toulouse-Lautrec in poi fino a Dubuffet e al quale sono ricorsi successivamente tutti i movimenti moderni. Ma la pop art non procede soltanto a mezzo prestiti, introduce anche un capovolgimento di valori. Reinvestendo il campo della pittura figurativa e ristabilendo i limiti del quadro, senza pertanto sottoscrivere il personaggio del pittore demiurgo ma sottomettendolo invece a obblighi e determinazioni esterne, la pop art orienta l'arte verso una nuova via, scambiando l'ideale di verità con l'esigenza del reale. Mentre molti nuovi realisti prendono la strada della pop, come per esempio la maggior parte degli artisti inglesi - Martial Raysse, Robert Indiana o Claes Oldenburg, se gli sparsi eredi del realismo e del surrealismo si uniscono al movimento, come Mel Ramos e Wayne Thiebaud negli Stati Uniti o Peter Blake o Erró in Europa, le giovani generazioni aderiscono in blocco a un'estetica che si offre all'appropriazione e porta in sé il postulato della manipolazione. La proposta formulata da Sigmar Polke, Gerhard Richter e Konrad Lueg per un "realismo capitalista che utilizza le forme dell'arte pop come antidoto al moralismo del modernismo astratto che imperversa in Germania, come quella formulata dai giovani artisti francesi della "figurazione narrativa, Bernard Rancillac, Hervé Télémaque e Jacques Monory che rispondevano con critica ironia alla confusione del Nouveau Réalisme. tra numerosi altri sorti dai contesti plú diversi d'Italia, di Spagna o del Canada, è rivelatrice del potenziale che offriva allora agli artisti un'arte "d'investimento immediato". Quest'idea della forma "pronta per l'uso elemento di base di una mutazione semantica che si ritrova in germe nella pop art, avrà in effetti un impatto molto forte sull'insieme della creazione artistica degli anni Sessanta fino ai giorni nostri. Gli artisti iperrealisti detti anche fotorealisti, porteranno fino alle ultime conseguenze la sottomissione del quadro a un'immagine predeterminata, facendo aderire la pratica pittorica alla resa fotografica. Che traduca il fascino per una cultura americana che produce modelli universali di "vita moderna", come nel caso degli artisti del paesaggio industriale, che si dedicano a illustrare l'ambiente urbano contemporaneo - le automobili. supermercati. I prodotti di consumo - o che sia di natura più critica (come Malcolm Morley), questo nuovo stile ripensa per la prima volta la pittura a partire delle categorie della fotografia e del film. Procedimenti come il primo piano e il piano allargato saranno adattati alla superficie della tela, con una resa illusionista che cancella il minimo spessore e asperità dalla superficie della pittura. L'opera così definita è nello stesso tempo realista e sottratta al dominio della prospettiva. Il "fuori campo" diventa così una componente importante dell'opera, sia che questo sia indicato mediante l'integrazione all’immagine del margini della fotografia che ha servito da modello, o che, al contrario, l'immagine sia inquadrata come in un dispositivo cinematografico. N.B. Guardare immagini a pag. 30, 31,32, 33 Pop critico Simultaneamente al trionfo della Pop Art, appaiono opere “deviate” e di derisione che prendono le stesse forme di quest’arte. Si sviluppa allora, negli Stati Uniti e soprattutto in Europa, una critica interna tanto del repertorio di immagini quanto della neutralità ideologica della Pop Art, che si serve come di un vettore dell’efficacia della sua estetica. Così nelle opere di Oyvind Fahlstrom, Richard Hamilton, Wolf Vostell, Errò e come nella prima generazione erede del movimento il vocabolario semplice, la visualità affermata, la figuratività emblematica sono manipolati, modificati nel senso di una affermazione politica denunciatrice, che ritrova lo spirito dadaista dei fotomontaggi e la sovversione di immagini emblematiche. Nel momento stesso in cui arricchisce le possibilità formali del linguaggio iconografico, che apre a molteplici varianti (e artisti come Warhol, Ruscha o Lichtenstein se ne serviranno per ridinamizzare la loro creazione mediante un’operazione di sovversione interna) questa reintroduzione dell’interpretazione all’interno dell’immagine segna la fine della pop art. Il soffio potente della pop art si esaurisce nelle modulazioni “delle” pop art(s) che trasformano la sua natura. Nel 1966, nel momento in cui raggiunge il suo pieno sviluppo, la pop art come movimento vivo si indebolisce, l’energia si trasforma in stile, i principali artisti operano un ritorno su se stessi: alcuni decideranno di riprendere la scrittura, considerata un medium specifico, altri inaugureranno un nuovo capitolo della loro carriera. L’impulso pop è cessato lasciando il posto a una costellazione di movimenti derivati che reintroducono la narrazione e la critica al centro della pittura figurativa. FOTO 1 a pag. 34: Errò, Foodscape, 1964. Stoccolma, Moderna Museet FOTO 2 a pag. 34: Gerhard Richter, Party, 1962. Baden Baden, collezione Frieder Burda SECONDO CAPITOLO Saggio a cura di Giorgina Bertolino Introduzione: Quando, nel giugno 1958, sul primo "Bollettino" dell'Internazionale situazionista compare un elenco di "Definizioni", le parole chiave li contenute sono già in circolazione da qualche anno: situazione costruita, psicogeografia, deriva, urbanismo unitario, détournement. La nascita dell'Internazionale situazionista (IS), nel luglio 1957, è una storia rintracciabile in un vocabolario di concetti, articolato poi in vero e proprio sistema. L'impegno alla nominazione fa parte di una precisa strategia che nella critica del linguaggio e nello svelamento dei mots captifs iscrive il progetto di critica radicale dell'esistente. Come osserverà Mustapha Khayati nel 1966: "Ogni teoria rivoluzionaria ha dovuto inventare le proprie parole, distruggere il senso dominante delle altre parole e apportare delle nuove posizioni nel 'mondo dei significati". La parola "situazione" appare all'inizio del 1952 in un testo di Debord sul cinema: "Le arti future saranno dei bouleversement di situazioni o niente"". Debord è un esponente del lettrismo di Isidore Isou, da cui si distaccherà per fondare, di li a poco, l'Internazionale lettrista (IL). Parole come urbanismo e psicogeografia, deriva e détournement nascono allora. Punteggiano gli scritti del nuovo gruppo, ricorrono sul "Bollettino" interno. Il suo titolo, “Potlatch” (il dono santuario), indica che l’avventura intrapresa intende essere smisurata. ________________________________________________________________________________ *RICERCA AGGIUNTIVA sul POTLATCH: POTLATCH 1954-1957 - Bollettino di informazione del gruppo francese dell'Internazionale lettrista Il bollettino Potlatch è uscito ventisette volte, tra il 22 giugno 1954 e il 5 novembre 1957. È numerato da 1 a 29, poiché il bollettino del 17 agosto 1954 è stato triplo (9-10-11). Settimanale fino a questo numero triplo, Potlatch divenne mensile a partire dal suo numero 12. Potlatch e stato diretto successivamente da André-Franck Conord (n.1-8), Mohamed Dahou (n.9- 18), Gil J. Wolman (n.19), di nuovo Mohamed Dahou (n.20- 22), Jacques Fillon (n.23-24). Gli ultimi numeri non indicano più un responsabile principale. A partire dal n. 26, "cessa di essere pubblicato mensilmente". Potlatch si è presentato come il "bollettino d'informazione del gruppo delle due Internazionali, a seguito della mediazione tra prospettive non certo omogenee, avrà come esito la nascita dell'IS. Se per l'IL è la città a costituire il laboratorio privilegiato del progetto radicale, per il MIBI sono l'arte e un Laboratorio sperimentale" i territori di elaborazione di una critica specificatamente diretta contro l’industria design. Dalla convergenza tra due obiettivi polemici il funzionalismo di Max Bill, fondatore della nuova Bauhaus di Ulm, e il razionalismo di Le Corbusier due gruppi arriveranno a concertare un'azione "da condurre attualmente in architettura" e quindi all'indirizzo comune dell'urbanismo unitario, sancito dalla plate-forme di Alba nel 1956", Il ruolo dell'arte resta un punto cutico in sospeso. Compresa in "Potlatch" tra "frammenti arretrati dell'estetica moderna". è al contrario centrale nei documenti del MIBI, il cui scopo è una Kunsttheorie. Non è un caso che, per fondare l'15, Debord chiami i suoi a un "passo indietro", conscio del "rischio di una regressione" dell'IL ma deciso ad allargarne la base numerica ed economica e a chiudere definitivamente il rapporto con il lettrismo, anche a costo dell' "improvviso predominio numerico del pittori". L'inclusione dell'arte tra i mezzi situazionisti determinera tutto il primo corso dell'IS, costituita "nominalmente il 28 luglio 1957 a Cosio d'Arroscia (Imperia) dalla fusione tra IL. MIBI e Comitato psicogeografico di Londra", ma impresa ancora "presituazionista", come recita l'ammonimento: "Ancora uno sforzo se volete essere situazionisti Nel nuovo teatro culturale di operazioni" - nel cui manifesto vengono riconfermate e messe a diagramma tutte le parole chiave del corredo dell'IL - la pittura può fare ingresso solo in qualità di détournement. Sta a Pinot Gallizio il merito dell'invenzione della "pittura industriale, vero e proprio détournement, oggetto concreto e insieme teorico, che nella sua estensione in rotoli vendibili a metro (la propaganda li vorrà chilometrici) inflaziona il concetto stesso di valore artistico. Artista scienziato, Gallizio è in grado di far convergere nell'equilibrio di un ossimoro, dato dalla coesistenza tra creatività e serialità, una critica al portato individuale, all'autorialità (la pittura industriale è un gioco collettivo) e alla standardizzazione, attraverso la conversione della macchina al "gesto unico, inutile, anti-economico La pittura industriale nasce per essere applicata a un "ambiente alla cui costruzione, tra il gennaio 1958 e il maggio 1959, s'indirizzano le sperimentazioni del Laboratorio albese e la discussione teorica interna all'IS. Destinata a "coprire tutti i muri" della Galleria Drouin di Parigi, in quella che sarà poi nel 1959 la Coverna dell'antimateria, la pittura con funzioni ambientali ha un antecedente nell'allestimento della "Prima mostra di pittura industriale" alla Galleria Notizie di Torino nel maggio 1958. Qui il détournement costitutivo dei "rotoli" è ampliato nello stravolgimento del rituale espositivo attraverso una parodia critica che, a partire dal comportamento dell'artista trasformato in venditore di stoffe, coinvolge lo spazio e l'atto di vendita dell'opera d'arte. La pittura industriale è la garanzia tipologica per la costruzione di uno di quegli ambienti o "scenari" che i situazionisti vogliono come precedenti delle future "situazioni costruite", e che fondano sull'individuazione di "desideri precisi sotto la direzione di un "regista". Il modello di riferimento di questi ambienti è il barocco con i suoi giardini, le grotte, i labirinti, secondo l'elenco contenuto nel Formulario di Ivain. I prototipi sono rintracciabili in "Potlatch": sono i castelli di Ludwig di Baviera, la dimora del Facteur Cheval e il Merzabau di Kurt Schwitters Nei due anni di lavoro, il confronto tra Debord e Gallizio è serratissimo ma il risultato finale - la Caverna, un "anti-mondo" che Gallizio lega alle teorie fisiche dell'antimateria-e Il motivo della rottura del sodalizio e quindi dell'espulsione di Gallizio dall'IS, ratificata più tardi nel 1960. La pittura, la sua destinazione espositiva all'interno di un sistema mercantile e non ultimo l'impiego per la Caverna di una pittura che "Industriale" non è, sono gli elementi che convincono Debord, sostenuto da Constant, a un'inversione di rotta che riposiziona al centro degli interessi del gruppo l'urbanismo unitario nella sua qualità di teoria critica dell'urbanistica. Il passaggio può essere descritto nella priorità assegnata dall'Is al Bureau des recherches pour l'Urbanisme Unitaire di Amsterdam, voluto dall'architetto situazionista Constant, a sfavore del Laboratorio sperimentale di Alba". Ma anche l'interpretazione di Constant, costruttore di città in miniatura, si rivelerà fallimentare. Come si legge nella "Passeggiata virtuale nella Zona Gialla di New Babylon, Constant costruisce la "citta riservata di Iyain, secondo una linea che proseguirà ancora sino alla proposta delle "basi (castelli situazionisti)" di Attila Khotany. Constant predispone psicogeograficamente due "case labirinto" e zone collettive e separa lo spazio della vita da quello della circolazione. Ma il suo piano di città sospesa è sostanzialmente una maquette utopistica, e l'utopia è una trappola per una teoria rivoluzionaria che, pur rivolta alla prefigurazione di una societa futura, sempre più rivendica una prassi storicamente determinata. Il Bureau olandese è parallelamente impegnato nel progetto di un Labirinto destinato a essere realizzato nelle sale dello Stedelijk Museum di Amsterdam nel maggio 1960. Il progetto si articola su due piani. Lo spazio museale viene destinato a un "concentrato di labirinto" favorevole a una "microderiva" e costruito come "ambiente misto, mai visto, con la commistione di caratteri interni (appartamento arredato) ed esterni (urbani pioggia, ventop zone termiche e luminose, interventi sonori. Lo spaesamento interno corrisponde all'esterno a una deriva estesa alla città, compiuta da due gruppi di situazionisti in contatto per mezzo di walkie-talkie". Il Labirinto è un ambiente situazionista, costruito dall'assemblaggio di più elementi, come già nella "sala di ricevimento" che Fillon, nel 1955, su "Potlatch", voleva divisa da una "barricata realissima formata di pavé, sacchi di sabbia, botti e altri oggetti consacrati all'usos. Entrambi i progetti, virtuali, sono assimilabili nella partitura alle contemporanee esperienze di happening ed environment, alla fulmineitä costruttiva, fatta per prelievo dal reale, di Allan Kaprow in Garage 1° o in An Apple Shrine del 1960. Rimasto irrealizzato, il Labirinto può essere letto come l'ultimo tentativo di oggettivazione - seppure potenziale compiuto da una teoria collettiva che, d'ora in poi, fatte salve le esperienze individuali di alcuni dei suoi membri, resterà ostinatamente senza opere. Una neoavanguardia senza opere Ciò che i situazionisti rifiutano è la cornice, il framework e qualsiasi altra forma di sottolineatura del fatto estetico. Rifiutata l'opera ne resta l'esecuzione, il "gesto" che è il "rovescio della merce" L'esperienza situazionista segna il passaggio dalle avanguardie alle neoavanguardie, nella coesistenza tra un indirizzo rivoluzionario e una critica ai linguaggi operata dal loro stesso interno. Il rifiuto della produzione artistica è programmatico ed è esercitato proprio a partire dalla rilettura del destino delle avanguardie, la cui carica corrosiva non è sfuggita al recupero e al depotenziamento attuato dalla società capitalistica. E uno dei temi sviluppato nel Rapport sur la construction des situations" del 1957, nel quale Debord passa in rassegna futurismo, dadaismo e surrealismo, proponendo la via di un "dadaismo in positivo. I situazionisti hanno scelto con "situazione" un termine che evoca contemporaneamente il tempo e lo spazio, il luogo e l'azione, e si sono dati strumenti che insistono incessantemente su questa compresenza. In un saggio intitolato La creazione aperta e i suoi nemici, Asger Jorn parla di una "situografia" fondata sull"analysis situ" e lavora su una "geometria plastica" in cui tempo e spazio non sono più dati lineari. Un'alternativa possibile alla geometria euclidea, il cui senso è "unilaterale e irreversibile: è orientato", Geografi dei cambiamenti, i situazionisti tornano dalle loro esplorazioni con le uniche "forme fisse" del "verbale della deriva", del "resoconto di un ambiente", del "piano della situazione"". Disegnano i portolani di una nuova percezione, le mappe di una "cartografia influenziale" che registra i flussi dei passaggi, degli incontri, dei percorsi individuali, come sarà poi in molte operazioni artistiche di poco successive. Ma i fogli delle loro avventure e delle loro ricognizioni, a cui pure assegnano il valore del documento e la cura della catalogazione e della pubblicazione, non sono opere e non sono destinate all'esposizione. "L'arte è l'invito a un dispendio di energia. (...) È la prodigalità", scrive Jorn ribadendo cosi lo slancio del potlatch. Dopo le espulsioni del 1960, tramandate come liquidazione definitiva dell'ala artistica, l'arte non scompare dalla teoria dell'IS. La attraversa anzi sino al 1969, come indicatore costante che ne fa il termometro del grado di realizzazione della rivoluzione della vita. Nel Manifesto del 1960 la "cultura situazionista" connette all'arte "la partecipazione sociale. Contrappone "l'organizzazione di un momento vissuto direttamente" all"arte conservata, una "produzione collettiva e senza dubbio anonima" all"arte parcellare", "un'arte del dialogo" e dell'interazione" all"arte unilaterale". Il rapporto arte-vita, snodo cruciale del Novecento, nella teoria situazionista ha un'unica risoluzione. Come ha scritto precisamente Giorgio Agamben, a proposito del progetto politico e dell'utopia "topica" della situazione: "Il "passaggio a nord-ovest nella geografia della vera vita è un punto di indifferenza fra la vita e l'arte, in cui entrambe subiscono contemporaneamente una metamorfosi decisiva”. N.B. Guardare immagini a pag. 39, 40, 42, 43, 44 TERZO CAPITOLO Saggio a cura di Gianni Contessi È dall'età di Filippo Brunelleschi e Leon Battista Alberti che le arti visive, con moderna consapevolezza, si confrontano con le ragioni della scienza. In questo caso una scienza della visione che, nel mettere a punto gli strumenti atti a una rappresentazione arbitrariamente attendibile della realtà, garantisse al lavoro stesso dell'artista gli statuti di una dignità intellettuale e forse persino borghese. Ben prima del XV secolo, era stato Vitruvio ad attribuire, al solo architetto tuttavia, la complessità di numerosi saperi scientifici (matematica, geometria, astronomia, medicina...). Poco più di un secolo fa, a tanta distanza dal cimento prospettico dei maestri toscani, nel cuore dell'età del positivismo, era stata ancora la pittura a misurarsi con la scienza della percezione, con l'ottica. Seurat e, sia pure più superficialmente, gli altri divisionisti o neoimpressionisti, che dir si voglia (con l'eccezione del contributo teorico di Signac), avrebbero dimostrato che l'immagine pittorica va costruita in base alla conoscenza delle leggi specifiche che sovrintendono all'effetto prodotto dai colori, quando essi vengono accostati agli altri in singole unità "analitiche” di pigmento. E questo costituirà la verifica, sulla tela, degli assunti del chimico Michel- Eugène Chevreul - nei Principi dell'armonia e i contrasti di colore del 1839 - circa l'esperienza del "contrasto simultaneo”. Le piccole tessere colorate accostate le une alle altre avrebbero imposto al riguardante l'esperienza di una sorta di integrazione ottica e dunque di ricezione attiva che, a non volersi accontentare delle apparenze, non è troppo dissimile da quella imposta dal genere dell'anamorfosi. La differenza è data dal fatto che, in questo secondo caso, lo strumento fisiologico (l'occhio) deve a sua volta essere integrato da una sorta di protesi oggettuale (il ben noto cilindro) L'astrazione, dunque, come problema e non - come in un primo momento sembra ritenere lo stesso Le Corbusier - superficiale esercizio decorativo, anche se a questo essa si ridusse. L'esperienza del gruppo Cercle et Carré, fondato a Parigi nel 1929 per perseguire la parola d'ordine “struttura ed astrazione” (Torres Garcia, Mondrian, Arp, Ozenfant, Léger), e quella immediatamente successiva del ben più dilatato movimento Abstraction-Création (1931-1936), con Herbin (1882-1960), Delaunay, Kupka e tanti altri aderenti sparsi in Europa, rimangono tuttavia punti di riferimento imprescindibili per tanta parte dell'avanguardia internazionale. Allo svizzero Max Bill (1908-1994), architetto, pittore, scultore, designer, teorico e didatta, il ruolo di mediatore fra la tradizione bauhausiana d'anteguerra e gli sviluppi successivi di una cultura del progetto, culminata, agli inizi degli anni Cinquanta, nella fondazione della Hochschule für Gestaltung di Ulm, progettata e diretta dallo stesso Bill. Cui, peraltro, si deve anche l'organizzazione a Basilea, ancora nel 1944, di un'importante mostra dedicata all'arte concreta. Ebbene, varrà la pena ricordare come allo stesso Bill possa essere attribuito il ruolo di parziale mediatore fra la tradizione della cultura progettuale europea e, altresì, del concretismo e delle esperienze dell'avanguardia sudamericana (brasiliana, in particolare), che tanta importanza avranno, nei due decenni successivi, nella genesi dei gruppi protagonisti, soprattutto a Parigi, delle vicende dell'arte programmata e cinetica. Si pensi soltanto al Movimento Madi (Movimento artistico d'invenzione, composto, fra gli altri, da Arden Quin, Kosice, Rothfuss) e si pensi inoltre al ruolo svolto da Tomás Maldonado, pittore, designer, teorico e futuro docente e rettore della Hochschule, e al passaggio in Argentina, proprio alla fine degli anni Quaranta, dell'architetto Ernesto Nathan Rogers, in qualità di docente ospite dell'Università di Tucumán e sostenitore dell'arte astratto-concreta. Per tacere, infine - ma è tutt'altra vicenda -, dell'influenza esercitata sugli architetti sudamericani da Le Corbusier, invitato in Brasile sin dal 1936. Anni cruciali quelli collocati fra le decadi dei Cinquanta e dei Sessanta. Sono gli anni nei quali si elaborano i concetti guida delle imminenti neoavanguardie. L'arte è dominata dalla presenza a volte ancora vitale dei grandi maestri della generazione dell’Ottanta: Picasso, Léger, Braque, Arp, Vantongerloo, Le Corbusier, Mies van der Rohe, Gropius mentre il linguaggio più diffuso, vero e proprio stile internazionale, è - nelle sue varie osservanze - l’informale. Arte in qualche modo gridata, arte fortemente espressionistica, parallelo europeo dell'espressionismo astratto statunitense. Vi sono, è vero, le eccezioni italiane, i casi singoli e singolari - italiani certo, ma anche “cosmopoliti” - di Lucio Fontana (non diremo di Alberto Burri, che con l'informale ha avuto più di un'affinità) o del non meno grande e oggi non sufficientemente valutato Giuseppe Capogrossi. Tuttavia, è con la situazione determinata appunto dall'esistenzialismo informale che si sono dovute confrontare le sperimentazioni, e, più tardi, le tendenze operanti in nome di poetiche, teorie, tesi, valori non necessariamente univoci, ma tutti accomunati dalla volontà di investigare, senza troppe mediazioni, le ragioni oggettive del guardare, del vedere, del percepire, dell'illuminare, dell'ingannare otticamente e del creare opere, per così dire, "aperte" (si ricordi, a questo proposito, il noto libro di Umberto Eco, intitolato appunto “Opera aperta”, del 1962), tali cioè da imporre un comportamento integrativo e attivo da parte dello spettatore. Questo per quanto attiene agli aspetti operativi di ciò che è stato definito come arte programmata, cinetica e anche, dallo storico dell'arte Giulio Carlo Argan, gestaltica (dal tedesco Gestalt, forma, che rinvia alla teoria della Gestalt o Gestalttheorie, aspetto specifico della psicologia della percezione, studiata fra Otto e Novecento da pensatori quali Ehrenfels, Meinong, Benussi, Metelli, Kanizsa, Köhler, Koffka, Katz). Ma vi sono degli aspetti ideologici e di programma (qui il termine rischia di creare un bisticcio con la denominazione dell'arte programmata, che tale è per la predeterminazione dei suoi obiettivi e delle sue procedure) che vanno in direzioni differenti. Per esempio, il frequente orientamento al lavoro di gruppo, dunque alla creazione di gruppi e, inoltre, l'attribuzione di significati e funzioni politici, contestativi di un sistema dell'arte mercantile e borghese. Naturalmente oggi una tale terminologia può lasciare perplessi, ma negli anni che vanno dal 1968 al 1976 si è innegabilmente registrata una vocazione al dissenso, volta a favorire una destinazione genuinamente sociale dell'operare degli artisti. Rimane il fatto che impolitici o politici che siano stati - i gruppi o i singoli artisti (si sarebbe forse dovuto chiamarli "operatori"?) - da Enzo Mari a Julio Le Parc o al gruppo N -, che abbiano o meno deciso di subordinare il lavoro artistico alle prospettive della lotta di classe, tutti costoro hanno agito nell'ambito dell'arte programmata e cinetica di estrazione costruttivista e concretista. Tecnicamente lo hanno fatto in sintonia, e magari in sintonia critica, con le stesse realtà modernistiche che, negli anni venti, avevano entusiasmato, non si dice i futuristi, ma almeno il Le Corbusier purista dell'Esprit nouveau. Raramente è accaduto - forse proprio con il Modulatore di luce e spazio di Moholy-Nagy o con qualche opera di Schöffer (penso per esempio alla Scatola luminodinamica del 1958) che il medium travalicasse il suo ruolo ausiliario per assumere integralmente anche il ruolo di forma e di immagine. Nel caso degli operatori dell'arte cinetica, il confronto non si pone dunque nei termini di un'infatuazione, persino ingenua, per l'era della meccanizzazione, ma piuttosto in quelli di un impiego consapevole di strumenti ritenuti neutrali, anti-sentimentali, asettici, puristici, che tuttavia presuppongono la più tipica fenomenologia del modernismo storico, le cui icone più paradigmatiche ed efficaci possono essere individuate nei dipinti di Fernand Léger. Chiunque ne abbia memoria, per aver vissuto con qualche consapevolezza in quel periodo, potrà confermare come, anche simbolicamente, il 1960 segni la linea spartiacque tra un prima e un dopo. È il primo anno al di là del decennio che segna la metà dello scorso secolo e, dunque, è l'anno che incomincia a proiettore il Novecento verso il Duemila e che, in un certo senso, incomincia a progettarne (il verbo è lo stesso) il futuro dopo il precoce segnale d'avvio dato dalla mostra "Mouvement", allestita a Parigi nella Galerie Denise René nel 1955 (anno di morte di Léger), che aveva potuto contare sulla malleveria teorica del pittore di origine ungherese Victor Vasarely. E proprio tra il 1959 e il 1960 che in Europa e in Italia, la quale confermerà il suo ruolo centrale sulla scena internazionale dell'arte a partire da quel periodo, incominciano a precisarsi le circostanze che, dopo le premesse poste dai movimenti d'avanguardia negli anni tra le due guerre mondiali, porteranno di lì a poco alla definizione delle nuove linee di ricerca. Non più il gesto libero e i grumi di materia pittorica propri dell'informale, con le conseguenti linee interpretative affidate a una critica pensosa e lirica allo stesso tempo, ma invece il rigore calvinistico di una sorta di "ritorno all'ordine”, fatto di un rifiuto sostanziale del colore, di un'autentica cromofobia, solo in parte riconducibile a certi paradigmi del purismo pittorico-architettonico degli anni venti (fra van Doesburg, Ozenfant e Jeanneret, non ancora nominatosi Le Corbusier). E poi, ancora, realizzazione di opere neutre, elaborate da "collettivi di lavoro”, cioè gruppi che agiscono impersonalmente. Corsi e ricorsi della storia, evidentemente, ma anche pronunce nuove, dislocate fra Francia, Italia, Jugoslavia, Sudamerica (per opera di artisti sudamericani per lo più emigrati a Parigi). In sintesi, una risposta europea, fortemente connotata, all'arte statunitense, a sua volta ampiamente alimentata dall'apporto di grandi artisti immigrati (da Hofmann a Gorky, da De Kooning a Rothko). Quasi contemporaneamente, fra Parigi, Milano e Padova, tra il 1959 e il 1960, si formano i principali gruppi che animeranno la scena dell'arte cinetica e programmata. Nell'ottobre del 1959, a Milano, viene fondato il Gruppo T. Ne fanno parte Gianni Colombo, Gabriele De Vecchi, Giovanni Anceschi, Davide Boriani e, dal 1960, Grazia Varisco. A eccezione di Anceschi, sono tutti allievi di Achille Funi all'Accademia di Brera. Nulla di più distante dalle ricerche in atto e tuttavia trasmissione di un metodo e di un'idea anche artigianale del fare e della forma a dei giovani ventenni, che serberanno un ricordo grato del maestro. Sempre a Milano, nello stesso anno, vede la luce il primo numero della rivista "Azimuth", diretta dagli artisti Enrico Castellani e Piero Manzoni. Di vita brevissima, essa testimonierà un malessere vissuto, la necessità di produrre opere diverse dai "quadri" e di non praticare più la "pittura" e dunque di trovare alternative alle regole del mercato. "Azimuth", in senso stretto, non è esattamente un antefatto delle ricerche visuali; tuttavia, le inquietudini di cui si fa veicolo e le opere che pubblica (di Fontana, Manzoni, Mack, Piene, Castellani e altri) indicano con sufficiente precocità la direzione di una riduzione "essenziale" degli elementi che concorrono al costituirsi del linguaggio e dell'opera d'arte. Fra l'altro, i tedeschi Heinz Mack, Otto Piene e Günther Uecker, fin dal 1957, avevano dato vita a Dusseldorf al Gruppo Zero. Vagamente orientato alle ricerche visuali, e relativamente eclettico nelle adesioni (Tinguely, Arman, Manzoni, Castellani, Soto, Dorazio, Bury, Mavignier, Graevenitz, Fontana, Pohl, Klein, Arnaldo Pomodoro...), il gruppo allinea tuttavia alcuni protagonisti della costituenda Nuova Tendenza: Soto, Mavignier, von Graevenitz. Inoltre, non si può certo negare che Jean Tinguely, nei modi di un neodadaismo piuttosto ludico, avrebbe praticato clamorose e sonore forme di un cinetismo da bricoleur, apparentemente antitecnologico. Sempre nel 1959, a Padova, viene costituito il Gruppo N. Ne fanno parte Alberto Biasi, Ennio Chiggio, Toni Costa, Gabriele Landi e Manfredo Massironi. Nessuno di essi firma individualmente le sue opere, nel nome di una poetica e di una produzione, letteralmente, collettiva. Padova non è Milano, anche se vi insegnava Umbro Apollonio, critico d'arte fra i più prestigiosi e attento alle ragioni dei nuovi linguaggi e, fra l'altro, conservatore dell'archivio storico della Biennale di Venezia. Apollonio sarà proprio uno dei commentatori maggiormente impegnati nella definizione di quella che, soprattutto dopo le famose mostre di Zagabria, verrà appunto denominata anche Nuova Tendenza. Della quale, inoltre, farà parte la figlia dello stesso Apollonio, Marina (1940). Anche Giulio Carlo Argan, già interprete cruciale della vicenda del Bauhaus, sarà sostenitore non militante, ma ideologico, di un'arte di matrice progettuale. Il milanese Gruppo T è stato capace di agire lungo il crinale che separa le ragioni dell'occhio da quelle degli altri organi preposti alla percezione o che invece le collega (si pensi soltanto agli sviluppi delle intuizioni di Gianni Colombo, interrotte da una morte prematura nel 1993). Colombo, lasciandosi alle spalle le premesse poste dallo sperimentalismo spregiudicato di Lucio Fontana, ha costruito situazioni spaziali para- architettoniche paradossali, destabilizzate e destabilizzanti. Provenendo da una famiglia di industriali dell'elettricità e avendo acquisito sin dall'infanzia una notevole familiarità con questo tipo di energia, Colombo era stato in grado di adoperare con grande consapevolezza il mezzo elettrico per ottenere risultati differenti, ma sempre indirizzati alla manipolazione e all'alterazione degli stati di quiete della forma, reale o virtuale che fosse. Partire dai dati della geometria per costruire fenomenologie del mutamento, del divenire, della pulsazione, dell'instabilità. Per proiettare più tardi tutto questo nella dimensione di un'arte ambientale non meno significativa di quella prodotta dagli artisti californiani, anche se diversamente orientata. Per ribadire, ancora una volta, l'importanza dell'apporto europeo, e segnatamente italiano alle neoavanguardie del dopoguerra. E per segnalare altresì come non porti molto lontano il circoscrivere le esperienze condotte dai protagonisti della Nuova Tendenza alla sola Nuova Tendenza. Anche perché i basata sul campo della visione periferica e l'instabilità." Paradossalmente, dopo aver intrattenuto non occasionali rapporti con la galleria di Denise René, che, in qualche modo, contraddicono agli assunti di programma del GRAV, nell'autunno del 1968 esso si scioglie, del resto secondo il destino di tutti i gruppi. Il premio conferito a Le Parc nella Biennale di Venezia del 1966 era già stato un segnale di ineludibilità dell'integrazione individuale nel sistema. Ed è appena il caso di ricordare comee l'ultimo gran premio della Biennale veneziana, nello stesso contestativo 1968, sia stato conferito a un altro maestro della Nuova Tendenza: Gianni Colombo. Inteso come collettivo il GRAV era uscito nelle strade, aveva realizzato delle performances, degli happening "europei", consegnati alla memoria labile della documentazione fotografica, cinematografica o televisiva. Le opere, anche molto differenti, dei suoi associati hanno interpretato gli aspetti canonici della fenomenologia della ricerca visuale programmata. Le dimensioni del virtuale (Yvaral), dell'oggettuale (Sobrino), del cinetico (Le Parc, García Rossi, Morellet) sono state esplorate in profondità, ma forse con la relativa superficialità ed evasività che una componente spettacolare "mondana" recava con sé. Il tempo ha finito con l'attribuire la giusta collocazione a ciascuno e a distribuire ruoli e pesi. François Morellet (1926) prosegue con esiti molto felici un lavoro sperimentale che ormai ha preso ben altre direzioni. Sorta di particolare riscrittura (non priva talvolta di accenti persino decorativi) di un minimalismo qualificato dall'uso della luce al neon. Si tratta di operazioni anche più sottili di quanto le apparenze talvolta non mostrino, condotte a parete, rievocando la funzione dell'oggetto "quadro" per metterne in discussione, contestualmente, gli statuti e gli assetti. Di più forte impatto gli interventi a scala ambientale, come quello realizzato nel 1998 e progettato da Renzo Piano, nell'edificio Daimler-Chrysler, del quale un sottile neon invadeva un'intera ala. La filosofia di un intervento del genere risale alle geniali anticipazioni di Lucio Fontana (si pensi alla struttura al neon per lo scalone d'onore della Triennale di Milano del 1951), più tardi intelligentemente raccolte da Gianni Colombo, che, del resto, di Morellet fu amico e interlocutore. Ancora una buona risposta anti e posticipata al minimalismo d'oltreoceano. L'internazionalismo convinto - l'europeismo ante litteram - della Nuova Tendenza trovò nel liberalismo estetico della Jugoslavia socialista, nella versione autogestita del maresciallo Tito, una sponda irripetuta, sebbene il regime fosse ufficialmente votato al realismo e, ancora nel 1951, Ivan Picelj avesse fondato il movimento "contestativi" di avanguardia Exat 1951. Nella Zagabria del 1961 venne organizzata da Almir Mavignier, dopo intensi contatti con Matko Mestrović, Božo Beck, Boris Kelemen, Radoslav Putar e Ivan Picelj, la mostra intitolata “Nove Tendencije”. Questi gli espositori: Adrian, Biasi, Castellani, Chiggio, Christen, Costa, Dorazio, Gerstner, v. Graevenitz, Kammer, Knifer, Landi, Le Parc, Mack, Manzoni, Massironi, Mavignier, Morellet, Müller, Oehm, Picelj, Piene, Pohl, Rot, Stein, Talman, Uecker, Wyss, Zehringer. Come si vede, un panorama variegato, in cui compaiono pittori puri come Dorazio, le cui fitte trame reticolari, all'epoca, sembravano apparentarsi a quelle di Morellet, e certi Manzoni e Castellani, che erano autori "nuovi" e di tendenza, ma solo vagamente in sintonia (Castellani, in verità) con gli altri. Ma è pur vero che Manzoni, in quanto direttore di "Azimuth", aveva esposto opere del gruppo Motus, che poi sarebbe diventato il GRAV. Fra gli artisti esposti si faceva notare lo iugoslavo Ivan Picelj (1960), che, del resto, con altri suoi connazionali (Vjenceslav Richter, Miroslav Sutej, Julje Knifer) era, se non tra i protagonisti, tra i buoni fiancheggiatori dell'arte "sistematica", che appunto nelle manifestazioni di "Nove Tendencije" si sarebbe riconosciuta. Alla prima edizione della rassegna, altre ne sarebbero seguite, fino al 1973. E proprio sulla scia del clima creato dall'interesse diffuso per i linguaggi programmati, per l'arte di ispirazione ottico-cinetica, che deve essere collocata anche la nascita, peraltro successiva, della rivista "Bit", veicolo significativo del dibattito sull'applicazione della teoria dell'informazione all'estetica (Abraham Moles, Max Bense), e dunque anche dell'impiego del computer nell'arte, e di tematiche affini. Promosso dalla Galleria d'arte contemporanea di Zagabria, il periodico venne pubblicato dal 1969 al 1972. Nel 1963, sempre a Zagabria, si sarebbe svolta la seconda edizione di "Nove Tendencije, e altre ne sarebbero seguite, ma l'anno prima Bruno Munari avrebbe promosso una mostra itinerante intitolata "Arte Programmata" (ecco comparire l'insegna canonica), che si sarebbe avvalsa di una presentazione di Umberto Eco. Fra il 1963 e il 1964 l'aspirazione a un'arte esatta, programmata, tecnologica, di gruppo, a un'astrazione raffreddata e oggettuale, avrebbe conosciuto una stagione particolarmente felice. Il riconoscimento della critica e delle istituzioni ufficiali, come la Biennale di Venezia, che proprio in occasione della sua 32esima edizione (1964), peraltro e malauguratamente votata al lancio memorabile della pop art, aveva diramato inviti a esponenti di primo piano della Nuova Tendenza, lungi dall'incoraggiare ulteriori sviluppi di un'arte esatta, è invece coinciso con un lento e tuttavia irreversibile processo di sfaldamento e ripensamento. Non sono mancati, peraltro, gli apporti epigonali che hanno generato manierismi, accademisti e sottoprodotti in varie contrade d'Europa (pensiamo al gruppo italo-francese CO.MO, Constructivisme et Mouvement, nato nello stesso anno in cui si è sciolto il GRAV: Nino Calos, Ivan Contreras Brunet, Romano Maria Zanotti Bianco, Luc Peire, Michel Seuphor, Vincenzo Arena, Leo Breuer, Louis Benedicq). Deve in ogni caso essere ricordato che, nel 1965, l'offensiva artistica statunitense ha registrato un altro episodio significativo: la famosa mostra intitolata "The Responsive Eye", ordinata presso il Museum of Modern Art di New York da W.C Seitz. L'orientamento decisamente eterodosso della rassegna ha consentito al curatore di estendere l'invito a parteciparvi ad artisti impegnati sul fronte dell’ “immagine-colore", come Morris Louis e Kenneth Noland, oppure l'italiano, ben conosciuto negli Usa, Piero Dorazio. Le opere dei primi due non rispondono strettamente al criterio dellaprogrammazione, tuttavia chiamano in causa qualche effetto singolare di cimento ottico, che può variamente essere confermato dalle opere di altri maestri americani, come Clifford Still, Mark Rothko, Barnett Newman o Ad Reinhardt, normalmente rubricati (a eccezione dell'ultimo dei quattro) fra i protagonisti di un impressionismo astratto o della pittura color field, ovvero della post painterly abstraction. Si potrebbe discutere a lungo sulla pertinenza di inclusioni simili. Esse, in ogni caso, confermano l'opportunità di considerare i "prodotti” delle Nuove Tendenze in maniera non rigida e puritana, poiché vasta e varia è la famiglia dell'astrazione. Decisamente più prossimo all'idea europea di un'arte ottico-cinetica l'americano Richard Anuskiewicz (1930), allievo di Josef Albers e vaghissimo affine di Victor Vasarely. Al nome di Anuskiewicz andrebbero inoltre aggiunti quelli di Julian Stanczakl, altro allievo del maestro tedesco, e poi ancora il gruppo Anonima. Ma un dato appare paradossale: nello stesso anno (1965) in cui Seitz orchestra la mostra "The Responsive Eye”, Donald Judd e il collega Robert Morris, protagonisti della tendenza minimalista, realizzano alcune opere paradigmatiche della nuova corrente. E se gli ottico-cinetici erano andati contro il lirismo e l'autobiografismo informali, l'impersonalità seriale delle forme minimaliste adesso contesta algidamente non già l'espressionismo astratto, da tempo storicamente concluso, ma piuttosto l'invadenza iconica della pop art. Sorta di club internazionale, i cui soci nel frattempo hanno percorso strade diverse, arricchendo il patrimonio di significati e declinazioni del linguaggio, anche imprevedibili (pensiamo, per esempio, all'ampiezza e intelligenza degli apporti di Getulio Alviani, alle proiezioni molteplici, performative ambientali, iconiche, progettuali - nell'ambito del design - e persino architettoniche delle sue opere, dislocate nell'arco di un quarantennio), la vasta famiglia degli artisti che credono, o hanno creduto, a volte persino fidelsticamente, nelle virtù rigenerative di un linguaggio oggettivo, scientifico, esatto, programmabile, comprende autori di origini culturali e orientamenti operativi non sempre facilmente assimilabili. Fra l'altro, per taluno, la ricerca si è identificata essenzialmente con esercitazioni epidermiche, più decorative che problematiche, come quelle della sopravvalutata Bridget Riley (1931). Figure importanti rimangono, oltre agli artisti citati finora, il polacco Henryk Berlewi (1894-1967), nell'opera del quale viene confermata la matrice astrattista e costruttivista di una parte almeno delle Nuove Tendenze. Si consideri l'opuscolo-manifesto Meccano-Faktura (1924), pubblicato in occasione di una mostra di opere astratte, ispirate a forme geometriche e meccaniche. E si consideri, altresì, l'omonimo collage del 1962. Sul fronte delle varie applicazioni del cinetismo non potrà essere dimenticato l'inglese Kenneth Martin (1905-1984), la cui moglie, Mary Martin Balmford (1907-1969), appare invece più legata alle poetiche dell'astrattismo. Ancora sul fronte del cinetismo virtuale sono da ricordare i già menzionati Yaacov Agam e Almir Mavignier, brasiliano, il belga Pol Bury (1922) e Jesús Soto (1923), venezuelano. Nell'ambito di una visualità strutturata, invece, andrà citato il lavoro precorritore degli italiani Mario Ballocco (1913), impegnato anche teoricamente, e quello di Enzo Mari (1932), meglio conosciuto come grande designer, nonché quello dello svizzero Josef Müller- Brockmann (1914-1993). Specifici punti di ricerca degni di attenzione sono stati inoltre esperiti da Gabriele de Vecchi, Edoardo Landi, Grazia Varisco. Mentre ad Antonio Lo Savio (1935-1963) e Paolo Scheggi (1940- 1971), autori di ispirazione peraltro molto differente, si devono precoci e purtroppo precocemente concluse, ricerche sulla costruzione e sulla visione. A ciclo storico terminato, la sopravvivenza della vicenda complessa dell'arte programmata è affidata al lavoro di autori, che, individualmente e sottovesti molto mutate, operano con una libertà che esclude qualsiasi possibilità di configurare una tendenza rediviva, ma che tuttavia si pongono come una sorta di coscienza sotterranea della visualità. N.B. Guardare immagini a pag. 48, 50, 53, 54, 55, 56, 57, 58, 59, 60, 61, 62, 63, 64, 65, 66, 67, 68 QUARTO CAPITOLO Saggio a cura di Francesco Poli Insieme alla pop art, l'altra principale tendenza protagonista del radicale cambiamento del clima artistico intorno al 1960, in totale contrapposizione all'allora dominante soggettivismo espressivo dell'action painting americana e dell'informale europeo, è quella minimalista, in pittura e scultura. Una tendenza (o, se si vuole, un'attitudine operativa) caratterizzata dall'antiespressività, dall'impersonalità e freddezza emozionale, dall'enfasi sull'oggettualità e fisicità dell'opera, dalla riduzione alle strutture elementari del linguaggio plastico e pittorico, dalla letteralità autoreferenziale dei volumi, delle superfici bidimensionali e degli interventi segnici e cromatici. Dal oggettuale delle Bandiere e dei Bersagli di Jasper Johns (lavori esposti da Leo Castelli nel 1958), oltre che dalla concezione dell' “arte per l'arte" di Reinhardt. La seguente dichiarazione dell'artista mette chiaramente a fuoco la sua programmatica volontà di azzeramento dei valori tradizionali della pittura e di enfatizzazione del valore tautologico dell'oggetto artistico: "Mi capita sempre di parlare con gente che vuole conservare i vecchi valori in pittura i valori umanistici che loro trovano sempre sulla tela. Se tu glieli smonti, loro arrivano sempre ad affermare che c'è qualcosa là oltre alla pittura sulla tela. La mia pittura è basata sul fatto che solo quello che può essere visto là e là. È veramente un oggetto. (…) Tutto ciò che voglio [che] gli altri tirino fuori dai miei quadri (...) è il fatto che [tu] puoi vedere tutta intera l'idea compositiva senza confusione (…). Quello che vedi è quello che vedi”. L'intenzione di Stella è quella di fare una nuova pittura, in assoluta opposizione rispetto a quella espressionista astratta. Un'affermazione dell'identità della pittura in quanto tale, impersonale, senza illusionismi ed elaborazioni sul piano compositivo e cromatico, di carattere oggettuale, e cioè articolata come una "cosa bidimensionale" il cui processo di realizzazione risulti evidente a prima vista, esplicitamente autoreferenziale. L'artista tende a cancellare ogni significazione esterna, ogni complessa relazione interna e ogni preziosismo pittorico adottando schemi concentrici, simmetrici e ripetitivi nella stesura delle strisce nere dipinte sulla tela con un grosso pennello da decoratore (lasciando tra l'una e l'altra una sottile striscia di tela non colorata). La configurazione ripetitiva è strettamente coerente alla forma della tela e la larghezza della striscia coincide con lo spessore del telaio, molto più spesso rispetto alla norma. Quest'ultimo particolare, staccando la superficie dal muro, esalta la fisicità del supporto e la presenza del quadro come oggetto. La grande misura delle tele accentua la forza d'urto visiva delle opere. A partire dal 1960-1961 con le Alluminium Series incomincia a realizzare delle tele sagomate (shaped canvases), in cui la forma del supporto assume configurazioni geometriche variate, che coincidono con quelle dipinte in superficie. Il rigore minimal viene in seguito abbandonato per dar vita a composizioni che presentano elementi curvilinei e cromaticità vivaci anche con caratteri pop, il tutto però, come prima, direttamente connesso alla fisicità della superficie e del supporto. Agnes Martin e Robert Ryman sono gli altri due pittori di maggior interesse nell'area minimalista. Anche se caratterizzata da una rigorosa elementarità geometrica e da un controllo accurato e analitico della procedura operativa, la pittura di Agnes Martin non ha la fredda e rigida impersonalità del minimalismo più tipico. Le sue opere di maggior interesse, risalenti ai primi anni Sessanta, sono delle superfici quadrate monocrome quasi bianche, con delicate tonalità lievemente azzurre o avorio, ricoperte da una finissima griglia di linee orizzontali o verticali tracciate a mano con la matita. Il risultato è un alleggerimento della rigidità quadrangolare e una sorta di dematerializzazione della superficie, determinata da una particolare sensibilità cromatica e dalla vibrazione visiva prodotta dalle griglie mai perfettamente regolari. Robert Ryman ha portato alle estreme conseguenze, sul piano della sensibilità fisica e su quello concettuale, il processo di riduzione minimale del fare pittura. I suoi quadri si presentano come supporti concreti connotati dalla materialità della stesura pittorica, ma, a differenza di Stella, non utilizza la rigidità delle configurazioni geometriche e non concepisce l'opera come oggetto, bensì semplicemente come superficie pittorica. Ryman incomincia a lavorare esclusivamente con il colore bianco a partire dal 1959, ma la sua prima personale è solo del 1967 alla Bianchini Gallery di New York. In questa mostra espone dieci dipinti quadrati di uguale misura (tutti i suoi lavori sono quadrati perché è "lo spazio più perfetto"), ciascuno realizzato con pennellate di colore bianco su lastre di acciaio attaccate al muro. Il bianco è l'unico colore scelto perché "non interferisce, perché è un colore neutrale che consente di evidenziare aspetti letterali della pittura che resterebbero sommersi in una situazione cromatica più variata”. "Voglio fare un dipinto attraversato dalla pittura. Questo è ciò che si può definire pittura basica, la base primaria della pittura, del fare pittura (…). Non voglio nei quadri niente che non sia necessario che sia li." In altri lavori vengono utilizzati supporti diversi: oltre alle lastre metalliche, fogli di carta, lino non intelaiato, cotone. In molti casi la presenza del supporto, e il suo rapporto con il colore, vengono evidenziati lasciando ai bordi una minima parte non dipinta, oppure non ricoprendo i segni dei pezzi di nastro adesivo utilizzato per appendere il supporto alla parete durante la lavorazione. In opere più recenti i supporti sono leggermente distanziati dal muro per mezzo di graffe metalliche. La prima grande mostra collettiva che mette a fuoco criticamente l'area della ricerca pittorica americana definibile come minimalista (comprendente anche artisti catalogati in precedenza nell'ambito della logic color painting e dell'hard edge) è "Systemic Painting" curata nel 1966 da Lawrence Alloway al Guggenheim Museum di New York, dove sono presenti Reinhardt, Newman, Krushenick, Noland, Poons, Stella, Kelly, Jo Baer, Al Held, Novros, Zox, Mangold, Martin e Ryman. Gli scultori minimalisti americani Le prime mostre con installazioni di sculture minimaliste si tengono a New York, e sono le personali alla Green Gallery di Judd e Morris, nel 1963, e di Flavin, nel 1964, cui segue nel 1965 quella di Andre alla Tibor de Nagy Gallery. Nello stesso anno la Tibor de Nagy ospita anche la collettiva "Shape and Structure”, con opere di Judd, Morris, Andre e-Bell. "Primary Structures. Younger American and British Sculptors" è il titolo della rassegna, curata da Kynaston McShine al Jewish Museum nel 1966, che mette a confronto scultori inglesi (Anthony Caro, Peter Phillips, William Tucker) e minimalisti americani (LeWitt, Bladen, Judd, Grosvenor, Flavin, Andre, Tony Smith, Bell, Morris, Artschwager). Questa mostra sancisce ufficialmente l'affermazione dei minimalisti e la specificità dei loro lavori rispetto alle strutture caratterizzate da articolate relazioni interne di artisti quali David Smith, Mark di Suvero e Caro - sostenuti in particolare da Greenberg - e in generale degli esponenti delle tendenze neocostruttiviste e programmate europee. I minimalisti non attribuiscono alcun significato dimostrativo alla modularità geometrica e alle serie di derivazione matematica che utilizzano, e non sono interessati a implicazioni di carattere scientifico, filosofico o sociale come gli europei legati ancora alla tradizione neoplastica, costruttivista o del Bauhaus. Anche se le differenze tra i vari artisti sono chiaramente definibili, molte sono le caratteristiche di fondo che accomunano la loro ricerca. I lavori sono costituiti da consistenti volumi geometrici di diretto impatto visivo (la cui Gestalt è immediatamente percepibile come un tutto unitario); da unità primarie, monolitiche, come cubi, parallelepipedi, piramidi e simili; da elementi modulari standard organizzati in strutture aperte e sequenze seriali. I materiali utilizzati sono di tipo industriale e edilizio, quali pannelli di legno, lastre di metallo, formica, plexiglas, vetro, e anche mattoni, travi, tubi fluorescenti al neon; i colori coincidono con quelli dei materiali stessi, oppure si riducono al bianco o al grigio. L'installazione degli elementi al suolo o sui muri ha una specifica connessione con lo spazio espositivo (con l'altezza, la larghezza, gli angoli, i soffitti, i pieni e i vuoti), in modo tale da metterlo in gioco direttamente come componente del lavoro artistico. Alla riduzione minimale delle relazioni significative interne delle sculture (assenza di centralità e di gerarchia degli elementi formali) si contrappone l'enfatizzazione della percezione delle relazioni tra spazio esterno e oggetti plastici, con la loro ingombrante e "ottusa" presenza fisica, e con le loro caratteristiche materiali e formali primarie. Questo fatto tende a suscitare nello spettatore delle reazioni sensoriali più immediate e fisicamente coinvolgenti. Gli scultori minimalisti accordano dunque una grande attenzione alla contestualizzazione ambientale: "Ciò che ci preoccupa ora" scrive Morris "è la situazione totale (…) le relazioni variabili tra l'oggetto, la luce, lo spazio e il corpo umano. (...) La situazione è diventata più complessa e aperta". Le installazioni minimaliste sono un punto di riferimento essenziale per gli sviluppi successivi delle ricerche che vanno nel senso dello sconfinamento spaziale, in particolare per la land art e l'arte ambientale. Donald Judd è forse l'artista minimalista più freddo e rigoroso, da un lato per le sue strutture tridimensionali geometriche elementari, per lo più organizzate nello spazio come moduli seriali, in sequenze semplici o in progressione geometrica, e dall'altro lato per i materiali di tipo industriale come l'acciaio inossidabile, l'alluminio anodizzato, il ferro galvanizzato, la formica, il plexiglas, il compensato. I materiali sono strettamente connessi alla specifica identità del lavoro: colori, superfici e volumi risultano perfettamente integrati in modo da focalizzare l'attenzione sull'oggettualità delle strutture che si presentano come entità autoreferenziali, perfettamente autonome in sé e allo stesso tempo, nelle installazioni seriali, coerenti alla logica unitaria dell'insieme, senza differenze gerarchiche tra i singoli elementi. L'artista elimina ogni tipo di intervento manuale personale facendo realizzare i lavori con tecniche e procedimenti industriali, in modo da raggiungere la massima impersonalità e precisione nell'esecuzione. Dopo essersi laureato in filosofia, Judd comincia come pittore verso la metà degli anni Cinquanta, ma non soddisfatto studia storia dell'arte e collabora in qualità di critico a riviste specializzate. Abbandona la pittura perché non ritiene possibile sfuggire all'illusionismo spaziale (l'unica eccezione, a suo parere, sono i monocromi blu di Klein, che ha occasione di vedere in una mostra del 1961 da Leo Castelli). Di qui la scelta di lavorare in tre dimensioni, nello spazio reale, realizzando però delle sculture "non scultoree”, e cioè senza elaborazioni formali interne: lavori che non sono "né sculture né pitture”, definiti specific objects. La sua prima opera che prefigura già chiaramente gli sviluppi futuri è Relief, del 1961, ora al Museum of Modern Art di New York un pannello verniciato di nero catrame con incastonata al centro una forma concava d'alluminio (tipo quelle da cucina), che si presenta come una cavità lucida immersa nel nero. Il "quadro" diventa letteralmente uno spazio dell’assenza, che allo stesso tempo assorbe la luce nell'oscurità e la accoglie. Dopo la mostra del 1963 alla Green Gallery, dove presenta rilievi e strutture in legno e altri materiali colorati in rosso cadmio, ancora connotati da qualche articolazione interna, a partire dall'anno successivo incomincia a produrre le sue grandi "scatole" in ferro e altri metalli, come pezzi unici o come sequenze installate orizzontalmente sul pavimento o verticalmente a parete (stocks). In questi lavori, la primarietà dell'ordine costruttivo, la scansione ritmata tra i pieni e i vuoti (con un'accentuazione percettiva di questi ultimi), la tensione nitida e tagliente delle superfici e degli angoli, il rapporto studiatissimo con il contesto ambientale producono uno straordinario effetto estetico-spaziale, che si potrebbe definire come "sublime" nel senso di un estremo purismo geometrico. La ricerca di Robert Morris, connotata da un'originale dimensione concettuale di matrice duchampiana: Qui ci limitiamo a considerare i lavori attinenti al tema di questo saggio. Per lui l'influenza diretta più produttiva è quella di Yves Klein, che nel 1957 espone, alla Galleria Apollinaire di Milano, i suoi Monochromes bleu, ma fondamentale è anche l'amicizia con Lucio Fontana. Dopo una prima fase di pittura informale con suggestioni organiche surreali, quando fa parte del gruppo dei Nucleari, nel 1958 presenta, in occasione della sua prima personale alla Galleria Pater di Milano, una serie di quadri monocromi bianchi ricoperti di gesso grezzo con semplici campiture regolari o con stoffa a pieghe imbevuta di caolino e incollata sul supporto. Successivamente i suoi Achromes si riducono a semplici quadrati di tela cuciti a scacchiera. Nel 1959, ad Albisola e poi alla Galleria Azimut di Milano. compaiono per la prima volta le Linee, tracciate su rotoli di carta chiusi in contenitori cilindrici, con l'indicazione delle lunghezze sempre diverse. In Danimarca (Parc Herning 1960) propone in un contenitore di piombo la sua linea più lunga, di 7200 metri, realizzata su un rotolo di carta da stampa. Questi lavori sono tracce pittoriche assolutamente minimali, con un marcato carattere concettuale, sottolineato dall'artista nell'opera più estrema: Linea infinita. Nell'autunno del 1959, insieme a Castellani, Manzoni fonda la rivista "Azimuth" il secondo (e ultimo) numero esce nel gennaio 1960 come catalogo della mostra "La nuova concezione artistica" alla Galleria Azimuth, una collettiva con opere per lo più monocrome, di Klein, Castellani, Manzoni, e con superfici ottico-percettive formate da griglie seriali di Heinz Mack, Oskar Holweck e Almir Mavignier. Questi e altri artisti partecipano anche all'importante esposizione internazionale "Monochrome Malerei" allo Städtisches Museum di Leverkusen (1960), curata da Udo Kultermann, che nel catalogo scrive, tra l'altro: "Il colore è la sensibilità materializzata, stato della materia originale, mezzo della liberazione dell'uomo dai suoi legami con il nuovo materiale. I quadri non sono che colore, il rosso, il bianco, il nero, il giallo e l'azzurro sono indifferenziati, puri e senza limiti”. Anche a Roma ci sono artisti che elaborano una ricerca con specifiche caratteristiche riduttive. È il caso di Mario Schifano che, prima di scegliere definitivamente un linguaggio pop, realizza nel 1960, una serie molto interessante di grandi tele monocrome, che assomigliano a degli schermi. Ma il caso più significativo è quello di Francesco Lo Savio, perché la sua ricerca (1959-1962) incentrata sul rapporto tra spazio e luce ha dato vita a lavori che per certi aspetti sembrano precorrere le esperienze minimaliste, anche se ben diverse sono le sue ragioni poetiche. I dipinti monocromi, i Filtri, i Metalli (superfici nere con articolazioni elementari ad angolo o curvilinee) e le Articolazioni totali (cubi in cemento con due lati aperti e all'interno lastre metalliche curve) sono cosi descritti dall'artista: "nei dipinti su tela, diretti principalmente allo sviluppo di una concezione spaziale pura (...) la luce è l'unico elemento che definisce la strutturazione di superficie (…) I filtri, un'azione addizionale di varie superfici semitrasparenti, iniziano un reale contatto con lo spazio ambientale, ma solo nei metalli l'azione si esplica con un possibile riscontro specifico del fatto tridimensionale (…) Poi l'idea di avere una maggiore libertà nella strutturazione formale di questi oggetti, mi ha condotto alla necessità di definire uno spazio integrato all'oggetto stesso, che viene a usufruire di una situazione ambientale più limpida nella lettura formale, limitando nel contempo l'interferenza dell'ambiente esterno. Va aggiunto ancora che Lo Savio, riguardo ai suoi dipinti monocromi, parla di uno spazio "estetico- concettuale" e di "colore-idea". E infine vanno citati ancora tre artisti italiani, protagonisti della scena torinese degli anni Sessanta e Settanta. Innanzi tutto, Giulio Paolini, esponente di punta dell'arte povera e dell'arte concettuale. Qui ci limitiamo a sottolineare l'importanza delle prime opere (1960-1966), dove la sua analisi degli strumenti del fare arte, e di tutto ciò da cui dipendono le effettive condizioni di esistenza della pittura, si presenta anche come un'operazione di azzeramento, di riduzione agli elementi primari del linguaggio. Fondamentale punto di partenza della sua ricerca è Disegno geometrico (1960), una tela bianca segnata solo dalla squadratura lineare: la tela propone se stessa come lo spazio bianco puro e semplice, nel senso di superficie fisica e di luogo di ogni possibile rappresentazione. Nella sua prima mostra personale alla Galleria La Salita di Roma (1964) Paolini espone una serie di spogli pannelli di legno appesi o appoggiati al muro, che prendono il posto di quadri; l'esposizione si presenta come se fosse in corso di allestimento. Altre opere con caratteristiche per certi versi minimali sono per esempio Plakat Carton (1962), una serie di cartoncini colorati, presi dal campionario di un colorificio, attaccati su un telaio; oppure Ut-op (1966), tre tele bianche collocate nell'angolo di una sala, in modo da coincidere con le superfici dello spazio reale. Tra gli esponenti dell'arte povera, Gianni Piacentino (presente solo nelle prime mostre del gruppo) è quello più vicino alla scultura minimalista. I suoi primi lavori del 1967 sono strutture oggettuali di grosse dimensioni e volumi primari: "Le sue 'monumentali' composizioni si impongono, sono un'aperta sfida alle convenzioni di spazio e ambiente (…) ogni entità oggettuale si offre scarnificata, ridotta al grado zero della sua geometria". Giorgio Griffa (insieme a Marco Gastini) è il più significativo esponente italiano della cosiddetta "nuova pittura” con aspetti minimalisti. A partire dal 1968 sviluppa in senso riduttivo primario una ricerca specificamente pittorica, utilizzando tele non preparate sospese al muro, libere, senza telaio. La tela diventa campo di azione di una pratica del dipingere basata su procedure elementari ("io non rappresento nulla, io dipingo"). Per esempio, vengono tracciate delle linee di colore, con un andamento da sinistra a destra, come righe di scrittura, fino a un certo punto della tela: si evidenzia così un rapporto diretto di impregnazione del colore da parte della trama del supporto; la dimensione temporale del processo di dipingere, come fatto materiale; e la definizione concreta, letterale, dello spazio pittorico. Questi dipinti non sono freddamente geometrici, ma caratterizzati da una sottile sensibilità lirica impersonale e da un senso di sospensione, che lascia sullo sfondo, appena percepibile, la tensione analitica e autoreferenziale. In Francia, al di là del riconosciuto ruolo di precursore di Yves Klein con i Monochrome iniziati nel 1957 (che tuttavia sono solo un aspetto della sua complessa e articolata opera concettuale connotata da un'aspirazione all'assoluto e alla purezza immateriale), le ricerche collegabili all'area minimalista, e più precisamente a quella di una pittura riduzionista e analitica, sono avviate nel 1967 dal gruppo BMPT (Daniel Buren, Olivier Mosset, Michel Parmentier, Niele Toroni) e due anni dopo dal gruppo Support-Surface. Ma prima è doveroso accennare ad altri due artisti François Morellet e Roman Opalka, quest'ultimo polacco trasferitosi in Francia. Il lavoro di Morellet è di matrice razionalista ma piuttosto autonomo rispetto alle tendenze programmate in cui normalmente, viene inserito. Notevole è il suo particolare metodo concettuale sistematico, all'inizio di ogni quadro l'artista si pone certe regole di esecuzione a cui si attiene scrupolosamente, regole relative al numero di trame lineari rette, e al grado di inclinazione di queste in rapporto alla perpendicolare del quadrato della tela. Il titolo stesso dei lavori annuncia il programma: per esempio, Quattro doppie trame: 0-225-45 - 675, del 1958. Più che l'interesse per l'opera in se, viene così stimolato quello per il suo processo di realizzazione, tanto razionale quanto ironicamente arbitrario, con effetti imprevedibili. E da notare un'indubbia somiglianza con i criteri utilizzati da Sol LeWitt per i suoi Wall Drawings, anche se questi ultimi hanno uno sviluppo ambientale. Opalka, a partire dal 1965, su tele di misura sempre uguale (196 x 135 cm), riempie la superficie nera, iniziando in alto a sinistra con andamento di scrittura, con numeri progressivi dipinti in bianco. Finito un quadro prosegue la numerazione su un'altra tela. L'operazione non ha mai subito interruzioni fino a oggi, con una progressiva lievissima variazione di colori: il nero del fondo è diventato con il tempo sempre più grigio in modo tale che alla fine l'artista arriverà a dipingere le cifre bianche su bianco. Ogni opera si intitola Détail. Dal 1972 il rituale operativo diventa più complesso; alla fine di ogni seduta di lavoro l'artista fotografa il suo volto sempre nella stessa posizione. Oltre a proporsi come rigorosa pratica primaria del fare pittura, questa di Opalka e anche un'inquietante e affascinante operazione concettuale di analisi del tempo dell'esistenza individuale, una specie di singolare performance che tende a far coincidere arte e vita Nel gennaio 1967 al Salon de la Jeune Peinture di Parigi e alla Biennale di Parigi dello stesso anno, Buren, Mosset, Parmentier e Toroni, che si presentano insieme (come "non-gruppo") sotto la sigla BMPT, propongono le loro provocatorie tele. Buren ricopre di bianco le bande estreme di una tela stampata a strisce verticali; Mosset dipinge un grande cerchio su una tela bianca, Toroni applica su una tela le impronte di un pennello piatto da decoratore sempre uguali e con una scansione spaziale regolare. Parmentier dipinge strisce orizzontali. Alla Biennale, accanto alle proprie tele proiettano in continuazione diapositive con immagini di ogni tipo di realtà sociale, e un registratore o astratto dell'immaginazione. È una pittura letterale che che trasmette alcune loro dichiarazioni sull'arte. Questo genere di pittura tende al massimo dell'insignificanza, attraverso l'annullamento di ogni possibile stimolo figurativo non significa altro che se stessa. L'attività comune cessa nel settembre del 1967; in seguito ciascuno svilupperà estreme di una tela stampata a strisce verticali; Mosset dipinge un grande cerchio su una tela bianca, Toroni applica su una tela le impronte di un pennello piatto da decoratore sempre uguali e con una scansione spaziale regolare. Parmentier dipinge strisce orizzontali. Alla Biennale, accanto alle proprie tele proiettano in continuazione diapositive con immagini di ogni tipo di realtà sociale, e un registratore o astratto dell'immaginazione. È una pittura letterale che che trasmette alcune loro dichiarazioni sull'arte. Questo genere di pittura tende al massimo dell'insignificanza, attraverso l'annullamento di ogni possibile stimolo figurativo non significa altro che se stessa. L'attività comune cessa nel settembre del 1967; in seguito ciascuno svilupperà la propria ricerca individualmente, restando coerente ai presupposti iniziali. L'impronta del pennello di Toroni è il dato primario dell'azione del pittore, ma è anche anonima, non ha valore espressivo in sé: è all'opposto del "tocco" inimitabile dell'artista, diventando nient'altro che il segno dell'intervento dell'autore su ogni tipo di supporto e nello spazio ambientale. Per Buren l'opera deve diventare il reale: alle strisce, che fin dall'inizio sono definite "utensili visivi” viene attribuita semplicemente la funzione di richiamare l'attenzione dell'osservatore sul reale, nel termini voluti dall'artista. É un errore pensare che le strisce verticali bianche o colorate costituiscano in se il lavoro dell'artista. I suoi interventi più impegnativi si configurano soprattutto come installazioni in situ, interventi specificamente pensati in rapporto a spazi espositivi, contesti ambientali e spazi architettonici. Nel 1968, a Milano, Buren ricopre con strisce verticali la porta d'ingresso della Galleria Apollinaire, per "marcare" il significato della soglia dello spazio espositivo (chiuso). Nel 1969, a Berna, in occasione della mostra "When Attitudes Become Form”, attacca manifesti a bande bianche e rosa in varie parti della città. Per l'altro gruppo, Support-Surface, il “ritorno alla pittura" è inteso come un lavoro autoriflessivo che si incentra sugli elementi costitutivi materiali del linguaggio pittorico "Support-Surface e il titolo della mostra allestita nel 1970 all'ARC/Musée d'Art Moderne de la Ville de Paris. Con lo stesso titolo vengono organizzate altre due mostre nel 1971, al teatro della Cité Internationale di Parigi e al teatro municipale di Nizza. Successivi ambienti realizzati da L.F. ci sono: 1. Lo spazio dell’ambiente a Foligno (1967), una stanza scura dove una sequenza di punti dipinti con colori fluorescenti è evidenziata dalla luce di Wood; e il “Labirinto bianco”, dove protagonista è una parete con un grande taglio. AMBIENTI OTTICO-CINETICI La mostra a Palazzo Trinci di Foligno a parte i lavori di Pistoletto, Fabro e Pascali si caratterizza per la presenza di opere d’arte programmata, in cui lo spazio architettonico è utilizzato come campo di azione allargata per interventi di natura ottico-cinetica finalizzati a coinvolgere dinamicamente lo spettatore all’interno di nuove strutture percettive, con effetti retinici e psicologici spiazzanti, tali da mettere in crisi la normale percezione della realtà spazio-temporale. In questo senso gli esempi più interessanti sono: 1. L’ambiente bianco di Enrico Castellani con superfici lisce e trapuntate con rilievi di rigorosa ritmicità seriale, quasi minimalista e After structure di Gianni Colombo. Quest’ultimo è uno spazio ricoperto da regolari griglie quadrettate con linee rosse, verdi, blu, che a causa di un programma intermittente di flash luminosi producono sorprendenti effetti visivi a livello di persistenza retiniche. “spazio elastico” > stanza cubica nera con una rete di fili elastici in lento movimento, fluorescenti per effetto della luce di Wood, Colombo si dedica alla costruzione d ambienti architettonici praticabili (Bariestesie, Topoestesie, Architetture cacogoniometriche) che non hanno più nulla a che fare con l’arte programmata e che determinano una perturbazione straniante dell’equilibrio e della percezione sensoriale dello spettatore che ci cammina dentro. Artisti che hanno creato ambienti ottico-cinetici > Getulio Alviani, Agam, esponenti del gruppo 0 e GRAV, Soto. Soto dopo aver realizzato le sue “Vibration structures” va oltre la visione frontale per realizzare a sua volta dei propri ambienti chiamati “penetrables” come ad esempio il “cube of ambiguous space” (1969). LE VIDE DI YVES KLEIN E LE PLEIN DI ARMAN Opera ambiente realizzata alla Galleria Iris Clert di Parigi (1958) da Klein, intitolata “Le vide ou La Specialisation de la sensibilité a l’etat matiere premiere…”. Alla radice dell'utopia artistica di Klein - della sua tensione verso un'arte assoluta che superi ogni forma di condizionamento relativizzante per raggiungere la massima libertà di spirito e la purezza dell'essenza cosmica immateriale - c'è un profondo interesse per le dottrine esoteriche, per la teosofia e l'alchimia, e poi per gli scritti di Gaston Bachelard. A tutto ciò si collega la scelta della pittura monocroma, e specialmente quella del blu oltremare (che rimanda all'infinito e all'assoluto) e dell'oro, e anche quella dei quattro elementi della sua metodologia (aria, fuoco, terra, acqua). Va detto però che il valore della sua ricerca va ben al di là delle suggestioni esoteriche, proponendosi come un radicale rinnovamento rispetto alle precedenti concezioni artistiche e come un'inedita apertura mentale e materiale dell'arte alla vita e alla realtà. Nel 1957 presenta i suoi Monochromes bleu IKB (International Klein Blue) in varie mostre tra cui quella alla Galerie Colette Allendy di Parigi, dove tra l'altro aveva già proposto una sala completamente vuota come opera, che però era passata praticamente inosservata. L'anno successivo con Le Vide va oltre la pittura e il colore per dimostrare l'esistenza di "un'essenza immateriale dell'arte", fruibile da parte degli spettatori attraverso un'esperienza estetica allo stesso tempo spirituale e sensoriale. L'evento espositivo da Iris Clert, preparato con molta cura anche dal punto di vista mediatico, è un grande succès à scandale, con oltre tremila persone presenti all'inaugurazione il 28 aprile. La galleria vuota è tutta verniciata di bianco, i vetri all'esterno sono dipinti di blu IKB e intorno alla porta d'ingresso viene installato una specie di baldacchino con tendaggi sempre blu. Così spiega il suo lavoro l'artista: "Lo scopo di questo tentativo: creare, stabilire e presentare al pubblico uno stato pittorico sensibile nei limiti di una sala di esposizione di quadri. In altri termini, la creazione di un ambiente, d'un clima pittorico reale e proprio per questo invisibile. Questo stato pittorico invisibile nello spazio della galleria, deve essere a questo punto presente e dotato di una vita autonoma, che dev'essere letteralmente la miglior definizione che si è finora data alla pittura in generale, irraggiamento. Invisibile e intangibile, questa immaterializzazione del quadro deve agire, se l'operazione della creazione riesce, sui veicoli o corpi dei visitatori dell'esposizione con molta più efficacia dei quadri fisici ordinari... Allo spazio vuoto e immateriale e puro di Klein si oppone dialetticamente quello pieno, caotico, intasato di cose "impure" e degradate, presentato nella mostra "Le Plein" (nella stessa galleria due anni dopo) dall'amico e compagno di strada del Nouveau Réalisme Arman. Portando alle estreme conseguenze l'attitudine dadaista di Schwitters per un coinvolgimento diretto degli oggetti della realtà (e in particolare quelli trovati e "vissuti"), nell'operazione artistica Arman, maestro di accumulazioni ossessive e di colères distruttrici, si diverte a riempire fino al soffitto lo spazio espositivo con ogni genere di oggetti d'uso vecchi e da buttare, come per esempio lampadine, radiatori d'auto, bidet, dischi rotti, biciclette, radio sgangherate, binocoli (ma anche cinquanta quadri di "artisti contemporanei") Qui lo spazio espositivo si trasforma in un misto fra un magazzino di robivecchi e una discarica di rottami. Si tratta di una provocatoria estetizzazione della dimensione più degradata e caotica dell'ambiente urbano in cui siamo immersi, e di un'ironica e paradossale critica della società dei consumi (e anche naturalmente della concezione dell'arte come realtà separata dalla "volgarità" e banalità dell'esistente). LA CAVERNA DELL’ANTIMATERIA DI PINOT GALLIZIO L'ambiente pittorico realizzato nel 1959 alla Galerie Drouin di Parigi da Pinot Gallizio rappresenta un caso a sé, per essere ancora legato a una poetica pittorica informale ma soprattutto per le sue dirette connessioni con le teorie situazioniste. La Caverna dell'antimateria è un ambiente realizzato con 145 metri di tela dipinta, utilizzata per ricoprire completamente pareti, soffitto e pavimento, creando uno spazio di intensa ed esplosiva energia organica, matrice pulsante di valori primordiali psichici magici e mitici. Uno spazio dell'antimondo", metafora del caos primigenio, del mondo in formazione, grande utero cosmico, luogo primario di emergenza di emozioni vitali, Cosi la descrive l'artista in una lettera al gallerista: "Imprevedibile per toni e contrasti di colore (…) per violenza, violenza (…) materie in eruzione come lava, in esplosione, per effetti sorprendenti di colori dai più tenui ai più scuri (...) pittura atomizzata, disintegrata! Le reazioni a catena descritte sulle pareti illustreranno agli attori-visitatori un dramma vissuto a loro insaputa. Certamente Gallizio ha pensato all'Ambiente spaziale di Fontana, ma i risultati sono molto diversi, anche se analogo per certi aspetti è il senso straniante di una dimensione spazio-temporale completamente autre. L'artista conosceva anche l'ambiente di Klein, ma la pregnanza coinvolgente della materia pittorica della sua caverna è naturalmente tutt'altra cosa rispetto alla mistica zen del vuoto assoluto. Va detto che l'attitudine di Klein è definita "mistica incantatoria" dai situazionisti, e come tale di fatto mistificatoria perché invece di stimolare situazioni creative attive nella gente, tendeva secondo loro a esaltare la passività contemplativa. GLI ENVIROMENT DI ALLAN KAPROW Allan Kaprow influenzato dalle teorie estetiche di John Cage e dallo spirito degli assemblage, porta alle estreme conseguenze la fusione dell’attività artistica con la vita reale, quella del contesto urbano di esistenza, dilatando i suoi interventi a livello ambientale, con il diretto coinvolgimento degli spettatori. Kaprow è il primo a definire teoricamente le caratteristiche degli happening e degli enviroment: per lui sono uno sviluppo diretto dei secondi. Gli environment" scrive l'artista "hanno incorporato subito l'idea di cambiamenti interni durante la loro presentazione. I normali spettatori sono diventati partecipanti attivi di questi cambiamenti. Qui la tradizionale nozione dell'artista creatore individuale (il genio) è sospesa in favore di un tentativo collettivo (il gruppo sociale come artista). L'arte è diventata variabile come il tempo. Ma gli environment non sono stati concepiti solo per integrare gli spettatori nel lavoro; essi dovevano immergersi il più possibile negli spazi reali e nei contesti sociali in cui erano collocati. Dovevano uscire dal troppo chiuso contesto dell'arte (studi, gallerie, musei) per immergersi nella natura e nella vita urbana. Ma a questo punto si sono trasformati in happening." Il primo environment è Beauty Parlor, realizzato nel 1957-1958 alla Hansa Gallery di New York: due ambienti riempiti di fluidi strati pendenti di stoffe e fili multicolori, lampadine accese, specchi rotti, con un ventilatore che diffondeva odori chimici e altoparlanti che emettevano suoni elettronici composti dall'artista, I visitatori dovevano attraversare e immergersi in questa caotica dimensione multisensoriale. Un altro suo environment e Garage (1960), un vero parcheggio sotterraneo in cui l'artista realizza una confusa e debordante installazione con reti metalliche, nelte cul maglie si intrecciano giornali, lenzuola, frutti, rami con foglie e altri oggetti. Un labirintico ambiente emblema della "junk culture". AMBIENTI POP DI GEORGE SEGAL E CLAES OLDENBURG I due artisti dell'area pop americana che hanno dato un contributo decisamente originale all'arte ambientale sono Claes Oldenburg e soprattutto George Segal, non a caso entrambi legati alle esperienze degli happening. Segal, anche se non realizza direttamente degli happening, collabora attivamente agli eventi dell'amico Kaprow, con cui condivide, per molti versi, l'esigenza di un rapporto il più stretto possibile fra arte e realtà vitale. Ma il suo approccio al problema è sostanzialmente rovesciato: invece di cercare di inserire l'intervento artistico nella fluidită temporale della realtà, tenta di assorbire, anzi di bloccare, la dimensione dell'esistenzä nell'opera d'arte. Per fare questo elabora un'inedita forma di scultura d'ambiente o di situazione (environmental sculture, situational sculpture) costituita da calchi al vero di persone in atteggiamenti quotidiani collocati nei più diversi contesti di vita, ricostruiti come set teatrali con oggetti ed elementi veri prelevati direttamente dalla realtà. Si tratta di scene legate alla vita quotidiana: gente seduta a tavola o al bar, in attesa alla fermata di un bus, in una lavanderia, o al lavoro (per esempio una bigliettaia al botteghino di un teatro, un pittore di insegne, un benzinaio, un dentista, un macellaio ecc.), oppure persone colte nell'intimità mentre si lavano o dormone "Nello spazio che occupano, e nel numero di ricerche aerospaziali per verificare la reazione dell'uomo in una situazione di totale assenza di stimoli sensoriali esterni, Irwin Turrell realizzano un ambiente totalmente buio e insonorizzato, in cui il visitatore, e completamente isolato dalla realtà, arriva a percepire in modo amplificato la propria esperienza interna (battito del cuore, respiro ecc.), un'esperienza al confine fra fisicită e spiritualità, intesa in senso zen. Turrell successivamente è autore, tra l'altro, di affascinanti ambienti bui in cui in fondo appare una superficie rettangolare fluorescente, una sorta di pittura immateriale di luce, che in realtà è solo un'apertura vuota nel muro con fonti luminose nascoste Maria Nordman lavora sul rapporto fra spazi esterni e interni, costruisce per esempio un ambiente vuoto tutto nero con pareti insonorizzate, dove pero attraverso delle fessure entrano suoni e luci dall'esterno. Ma gli ambienti più interessanti e problematici sono quelli di Bruce Nauman, realizzati per analizzare aspetti primari della relazione fra corpo e spazio, evidenziando in modo inedito e spiazzante, nella sua dimensione fisica sensoriale, il comportamento del visitatore all'interno di una determinata struttura spaziale. Lavori di questo genere sono per esempio Green Light Corridor (1970), in cui la luce produce la forma percepibile dello spazio. e Video Corridor (1969). Quest'ultimo è costituito da un corridoio percorribile da una sola persona, dove sono collocate due telecamere a circuito chiuso, una posta all'entrata (che riprende di spalle il visitatore) e l'altra all'uscita (che lo riprende di fronte); in fondo ci sono due monitor in cui appaiono queste due prospettive di ripresa, grazie alle quali il visitatore percepisce se stesso (si vede dal di fuori) come una presenza corporale oggettivata nel suo essere nello spazio. Anche Dan Graham ha costruito piccoli ambienti con telecamere all'interno. Il più intrigante per il pubblico è forse quello che ora si trova al Musée National d'Art Moderne del Centre Pompidou: una stanza bianca in cui su una parete è collocato un monitor che trasmette le immagini di una telecamera che riprende il comportamento dei visitatori all'interno. Ma la particolarità sta nel fatto che queste immagini sono trasmesse con un ritardo di qualche secondo. In questo modo il visitatore vede le sue azioni in modo completamente straniante. All'inizio c'è la sorpresa, e poi avviene quasi sempre un'interazione con il dispositivo, sollecitata dalla curiosità e dall'istinto narcisista. Sempre di Graham sono di grande interesse anche le "sculture/padiglioni", elaborate a partire da approfondite riflessioni sullo spazio plastico e ambientale, e in particolare da studi sulle piu diverse tipologie architettoniche moderne (fondamentale punto d'avvio è il suo lavoro concettuale Homes for America, pubblicato in "Arts Magazine, dicembre 1966). Un lavoro significativo a questo proposito è Two Adjacent Pavillons (1978-1982). realizzato per Documenta 7. Ciascuno dei due moduli, uguali fra loro, può essere visto sia dall'interno che dall'esterno. I quattro lati di ogni struttura hanno la stessa percentuale di vetro specchiante. Sono differenti solo i soffitti: in vetro trasparente l'uno, e di un materiale scuro che non lascia passare la luce l'altro. Le proprietà del vetro specchiante fanno si che in qualsiasi momento ciascun lato sia più riflettente o più trasparente dell'altro. Durante le ore di sole, il soffitto scuro non permette alla luce solare di illuminare l'interno di un padiglione; chi è fuori non vede nulla dentro, ma si vede specchiato nei vetri insieme all'ambiente circostante. Nell'altro padiglione il sole colpisce direttamente le pareti interne, che così riflettono più luce di quelle esterne, chi è fuori vede bene l'interno, ma chi è dentro vede soprattutto la propria immagine riflessa nei vetri. "Diversamente dalle strutture formaliste della minimal art situate all'aperto" scrive l'autore, "I padiglioni sono psicologicamente e socialmente autoriflettenti. Implicano una dialettica tra spettatori e immagine che essi hanno di sé Tra gli artisti europei, Daniel Buren è quello che maggiormente ha sviluppato la ricerca agendo direttamente sulle strutture architettoniche esistenti e sulle loro funzioni sociali e culturali (in particolare quelle dei musei), attraverso interventi tesi a stimolare riflessioni critiche e inedite visioni dei contesti ambientali. La sua azione è visualizzata attraverso le sue famose bande colorate verticali (che non hanno alcuna valenza pittorica estetica in quanto tali), utilizzate, in vari modi, come segnali per focalizzare l'attenzione su tutto ciò che l'artista ritiene importante evidenziare. La gran parte dei lavori qui citati hanno certamente una forte componente concettuale, ma possiamo dire che gli ambienti definibili in senso più stretto come concettuali si caratterizzano, oltre che per un'estrema dematerializzazione, per un distacco dalla dimensione fisica sensoriale e per un'enfatizzazione degli stimoli a livello più freddamente mentale. In questo senso piuttosto esemplari sono i lavori, fra loro molto diversi, di artisti come Lawrence Weiner e Giulio Paolini. Il primo si limita a scrivere sui muri bianchi degli spazi espositivi (con rigorosi caratteri stampatello) delle brevi proposizioni problematicamente concettuali. In questa maniera l'ambiente stesso viene percepito in modo decisamente astratto, come un'estensione dello spazio mentale. Per quello che riguarda Paolini, nella cui ricerca lo spazio dell'opera tende sempre a coincidere con lo spazio intorno all'opera, è sufficiente ricordare alcuni lavori, di date diverse, con spiccata connotazione ambientale. Nell'ipotesi di una mostra (un progetto del 1963 mai realizzato), i visitatori sono essi stessi il "contenuto" della mostra: quelli che entrano nella prima sala vedono in un'altra sala divisa da un vetro un altro gruppo di visitatori, il che produce un singolare effetto di rispecchiamento concettuale. Lo Spazio (1967) è un ambiente quadrato dove le otto lettere di "lo spazio" (caratteri in stampatello ritagliati in compensato e dipinti in bianco come le pareti) sono incollati tutt'intorno a distanza regolare, all'altezza dell'asse ottico: alla lettera, e in tutti i sensi, lo spazio è l'opera. Ma l'artista arriva ad assorbire nel suo lavoro l'intero spazio di un museo. In una sua mostra al Musée des Beaux-Arts di Nantes (1987) Paolini installa un'opera, L'autore? Un attorel, che si propone al centro come specchio strutturale di tutto lo spazio espositivo, attraverso il profilo disegnato della sequenza di archi del doppio portico che caratterizza lo spazio interno del museo. L'esposizione stessa, e cioè l'insieme dei lavori esposti in questo luogo architettonico (cosi "paoliniano"), e il museo che la contiene, diventano una sola unica grande "opera" Nell'ambito delle ricerche poveriste e processuali tutte le installazioni hanno specifiche Implicazioni spaziali e molti lavori si configurano come veri e propri ambienti. A titolo di esempio possiamo prendeme in considerazione uno di particolare importanza, di Joseph Beuys. Uno degli aspetti fondamentali del modo di operare di Beuys è costituito da un'accurata strategia nell'installazione ambientale degli oggetti e materiali delle sue opere, che sono spesso in stretta connessione con le sue azioni performative, le actions. in molti casi l'artista arriva a creare dei veri e propri ambienti caratterizzati da un totalizzante coinvolgimento sensoriale, emotivo e mentale. Tra questi uno dei più affascinanti è Plight (che significa situazione difficile o penosa), un grande ambiente realizzato, qualche mese prima di morire, negli spazi della galleria di Anthony d'Offay a Londra (novembre 1985), come sviluppo di una vecchia idea del 1958. L'opera è ora collocata definitivamente al Centre Pompidou di Parigi. Si tratta di due sale che formano una sorta di L, con le pareti completamente ricoperte da grandi rotoli di spesso feltro grigio-bruno (composto di lana di pecora e pelo di coniglio) posti uno accanto all'altro in doppia fila, verticalmente, come delle tozze colonne. Nella prima stanza si trova un piano a coda nero, chiuso, su cui è posta una lavagna appena segnata dalle linee di un pentagramma, con sopra un termometro. Il visitatore che penetra in questo ambiente è immediatamente sollecitato sul piano delle sensazioni fisiche: il calore del suo corpo, il suo respiro, il rumore dei suoi passi, l'odore del feltro e la stessa luce fredda dei neon vengono come soffocati e riassorbiti da un'atmosfera di silenzio opprimente, in una dimensione spaziale e temporale completamente straniante. La presenza immobile e ingombrante del pianoforte. la cui energia musicale potenziale è bloccata all'interno, enfatizza per contrasto la forza dell'impatto a tutti i livelli di questo inquietante "suono del silenzio, che ha anche valenze di morte. L'unica cosa mobile è la colonnina di mercurio del termometro, che registra le eventuali variazioni di temperatura dell'ambiente. "Un'associazione possibile per il mio spazio di Plight" ha spiegato in un'intervista Beuys "è quella dell'isolamento. Un'altra è quella del calore del materiale. Senza dubbio questo distacco di se stessi dalla società è un elemento di non comunicazione; un elemento negativo, un sentimento di disperazione come lo si trova nel teatro di Beckett. Il feltro ha, tuttavia, un'altra qualità: protegge gli uomini dalle cattive influenze che vengono da fuori. È dunque anche un isolante in senso positivo (.) È cosi che è saltata fuori l'idea d'una sala da concerto senza risonanza, dunque totalmente negativa, concepita come dimostrazione dell'esistenza d'una frontiera dove tutto si articola attorno a un punto critico. LAND ART Land Art è il titolo del film di Gerry Schum (1969) che documenta i lavori di Walter De Maria, Robert Smithson, Michael Heizer, Dennis Oppenheim, Richard Long, Barry Flanagan e Marinus Boezem. Con questa etichetta (ma anche con quella di "Earth Works", titolo di una mostra alla Dwan Gallery di New York nel 1968) vengono definite quelle operazioni artistiche che, a partire dal 1967-1968, vanno al di là degli spazi espositivi dell'arte, e anche delle aree urbane, intervenendo direttamente nel territori naturali. Lo sviluppo maggiore e più spettacolare di questa tendenza ha luogo negli Stati Uniti, dove gli artisti sono affascinati soprattutto dagli immensi spazi incontaminati come i deserti, i laghi salati, le praterie. Questa dimensione naturale "assoluta" si oppone dialetticamente all'artificialità e alla fredda e geometrica monumentalità delle metropoli, rappresentando l'altra faccia dell'identità geografica americana. In questo senso la land art si oppone, per molti versi, alla pop art e alla minimal art. In ogni caso è da sottolineare la notevole influenza di quest'ultima sulla land art, dato che artisti come Smithson e De Maria provengono dall'arte minimalista. L'operazione dei land artisti non è, ovviamente, quella di collocare delle sculture nella natura, ma di utilizzare lo spazio e i materiali naturall direttamente come mezzi fisici dell'opera, attraverso interventi su grande scala. Dal punto di vista delle configurazioni formali questi interventi hanno un carattere minimalista, ma qui entrano in gioco valenze molto diverse, legate anche alla specifica natura dei materiali utilizzati (terra, rocce, sabbia, ghiala, catrame) con effetti antiformali e fluidi legati alle ricerche processuali. Le forme geometriche primarie (scavate, tracciate, costruite attraverso accumulazioni) sono segni artificiali, destinati a essere riassorbiti completamente dai processi di erosione e trasformazione degli elementi naturali; il grande impiego di energie umane e meccaniche risulta alla fine ben poca cosa di fronte alla forza primordiale e ai tempi lunghissimi della natura. Va notato che la quasi inaccessibilità dei luoghi, e il progressivo degrado degli interventi nel tempo, tendono a rendere queste opere praticamente invisibili e immateriali per la maggioranza del pubblico. Quello che rimane da vedere (progetti, foto, filmati) si trova solo nelle gallerie e nei musei, proprio quegli spazi separati da cui volevano sfuggire gli artisti. Heizer, Smithson, De Maria e Oppenheim sono i primi a realizzare grandi lavori sul territorio naturale. Ma anche altri artisti come Morris, Christo, Serra, Alan Sonfist, Turrell sono autori di spettacolari e multimediali, tra cui si possono citare, come esempi molto diversi fra loro, quelli con valenze surreali e decadenti realizzati da Matthew Barney, connessi al ciclo dei cinque film Intitolati Cremaster, quelli all'incrocio fra arte, natura e scienza di Olafur Eliasson; o anche quelli di Carsten Höller che si propongono come situazioni e percorsi in cui gli spettatori sono coinvolti in esperienze spaesanti e problematiche. Höller insieme a Rosemarie Trockel realizza, a Documenta X nel 1997, Una casa per maiali e uomini, in cui uomini (il pubblico) e animali sono posti in una condizione di stretta interrelazione. 3) I videoambienti, che rappresentano sicuramente il settore più dinamico e di maggior sviluppo, analizzati in modo più approfondito nel testo sulla videoarte. Riguardo a questi basta dire che (a partire dalle prime installazioni video di Nam June Paik e Bruce Nauman degli anni sessanta-settanta) la ricerca si precisa soprattutto nel senso dell'innovazione delle modalità di messa in scena nello spazio ambientale delle immagini video, al fine di innescare nuove esperienze percettive, di creare nuove atmosfere visive e sonore. Questo avviene attraverso articolate installazioni con monitor, attraverso proiezioni su schermi multipli o su schermi sospesi dove le immagini possono essere viste da due lati, o anche direttamente sulle strutture architettoniche (pareti, soffitti, pavimenti, angoli ecc.) Spesso vengono costruiti ambienti con caratteristiche specifiche che determinano nel fruitore (che non è più solo un semplice spettatore) inedite prospettive di coinvolgimento sensoriale e mentale. Tra gli artisti che hanno dato i maggiori contributi innovativi in questo contesto di ricerca possiamo ricordare Bill Viola, Gary Hill, Diana Thater, Douglas Gordon, Sam Taylor-Wood, Gillian Wearing, Doug Aitken, Tony Oursler, Pipilotti Rist, Dominique Gonzalez-Foerster, Pierre Huyghe. CAPITOLO SESTO Saggio a cura di Maddalena Disch Introduzione: Del cotone idrofilo che lentamente porta fuori l’acqua contenuta nel contenitore di acciaio in cui è immerso con alcuni lembi (“Senza titolo” di Giovanni Anselmo del 1968) e del piombo fuso gettato nella giuntura fra il pavimento e la parete, che solidificandosi incorpora l’azione del getto e insieme quella della forza di gravità (Splash Piece, 1968 di Richard Serra). La parte sinistra del corpo dell’artista ricostituita in negativo con sagome in tubi al neon incurvati e allineati in verticale alla parete (Neon templates of the half of my body taken at ten inch intervals. 1966 di Bruce Nauman) e la figura del corpo dell’artista ricostruita con blocchi di cemento a presa rapida accostati al suolo e segnati con l’impronta della sua mano, con una farfalla posata sul petto (“Io che prendo il sole a Torino il 19 gennaio 1969” del 1969 di Alighiero Boetti). 2 mostre importantissime che segnano due punti fondamentali: 1. Nine at Castelli (New York, 1968) e When Attitudes Become Form (Berna, 1969). Sono due punti di riferimento rispetto alle attitudini che si cristallizzano negli USA e in Europa. Per attitudini si intendono quelle correnti o gruppi artistic che si andavano formando come: Process Art, Arte povera, antiform, microemotive art,… Gli esponenti americani traggono i propri spunti da Johns, Oldenburg, Pollock, Judd e Andre, mentre quelli europei traggono spunto da Klein, Fontana, Manzoni, de Chirico. Per Beuys l’esigenza è propriamente l’invenzione di un nuovo individuo e di un altro ordine sociale: il concetto di avanguardia. Alcune esposizioni importanti: 1. DOCUMENTA 4, Kassel (1968) > che vede compresenti una installazione complessa di Beuys, gli “oggetti in meno” del 1965-1967 di Pistoletto, e sei lavori di Nauman degli anni 1965-1967. 2. PROSPECT ’68 > rassegna annuale di gallerie d’avanguardia organizzata da Konrad Fischer e Hans Strelow a Düsseldorf, in cui sono esposti fianco a fianco lavori di Morris, Nauman, Merz, Zorio, Anselmo, Boetti, Calzolari, Piacentino, Prini, Beuys, … 3. “Op Losse Schroeven” e When Attitudes Become Form” che si propongono il più importante ed esaustivo quadro della scena internazionale STATI UNITI: PROCESS ART, ANTIFORM Negli Stati Uniti gli estremi dell’arco di tempo che delimitano l’affermazione di nuovi modi plastici possono essere identificati con due mostre: “Eccentric Abstration”, presentata da Lucy Lippard alla Fischbach Gallery di New York nel 1966 e “Anti-Illusion: Procedures/Materials”, organizzata da Marcia Tucker e James Montre al Whitney Museum di New York nel 1969. La prima si situa pochi mesi dopo la consacrazione istituzionale della minimal art al Jewish Museum a New York, nella rassegna “Primary Structures” e costituisce il primo modesto rilevamento di un’emergente attitudine “postminimalista”, con una serie di inconsueti lavori a pavimento o a parere caratterizzati da materiali industriali fino allora poco usuali in ambito plastico, da forme “soft” dagli angoli smussati, ambiguamente organiche e da controllare contrapposizioni fra ordine e disordine. “Anti-Illusion: Procedures/Materials”, invece, segna la piena maturità delle ricerche processuali e antiformali – tra le opere esposte al Whitney figurano “Casting” (1969) di Richard Serra, un work in progress con detriti combustibili di Robert Morris, il primo corridoio di Bruce Nauman e Expanded Expansion (1969) di Eva Hesse, costituito da tessuti impregnati di lattice sospesi tra aste in fibra di vetro – e si situa già in pieno clima di conceptual art (dall’inizio del 1969 Seth Siegelaub organizza le sue prime manifestaizoni, nel mese di maggio esce il primo numero della rivista “Art&Language”). I titoli delle due mostre sono rivelatori di nuovi concetti che lasciano trasparire una inequivocabile presa di posizione rispetto all’orientamento minimalista, impostato sull’organizzazione rigorosamente logica di anonimi e nitidi oggetti geometrici, standardizzati e prefabbricati. L’interesse si sposta verso procedimenti ed esiti che eludono univocità e chiarezza, regolarità e stabilità a favore di situazioni aperte, mutevoli e aleatore. Quindi l’attenzione si sposta verso materiali che si lasciano sospendere, piegare, tagliare, riempire, tirare, strappare: che si afflosciano, si arrotolano, fluttuano, aderiscono. Plastica, tessuti, resine sintetiche, fibra di vetro, caucciù stimolano una libera manipolazione, che riqualifica l’importanza del gesto, della manualità, del processo operativo, banditi tanto dalla pop art quanto dalla minimal art (Self Sculptures di Oldenburg, dal 1962 costituiscono un importante riferimento per i postminimalisti). “Nine at Castelli” > mostra presentata da Leo Castelli a New York nel 1968. Bill Bollinger installa una lunga rete metallica, in modo che, distesa a pavimento alle due estremità e progressivamente distorta in verticale, attraversasse l’intera larghezza dell’ambiente, alternandone la percezione. Stephen Kaltenbach propone un ovale di feltro dispiegato al suolo, con due bordi ripiegati, appartenente a un gruppo di opere costituite da elementi tessili da allestire a pavimento variando a libero piacimento le piegature e la diposizione. Keith Sonnier espone due lavori distintivi della sua attività anteriore al 1970: Mustee (1968) è un lungo elemento orizzontale di polvere di lana mista a lattice (in un primo tempo le sostanze sono applicate a strati sulla parete a formare un impasto, che poi viene strappato come fosse un tessuto) trattenuto per metà a parete e per metà sospeso con due fili tesi al suolo; l’altro lavoro, senza titolo, vede dei ritagli di tessuto traslucido sospesi a parete e liberamente fluttuanti, abbinati a un tubo al neon incurvato che sottolinea ulteriormente la smaterializzazione dell’oggetto. Eva Hesse è presente con Augment (1968), riproposto più tardi da Szeemann a Berna) e Aught (1968): il primo, allestito al suolo, vede diciannove tele impregnate di lattice sovrapposte in ordine sfalsato a formare un’ordinata progressione, come recita il titolo, mentre Aught propone quattro grandi unità (doppie tele impregnate e sigillate con lattice) sospese a parete a intervalli regolari e riempite con scarti di plastica e corde, in modo da apparire rigonfie, con una superficie irregolare e indeterminata. Bruce Nauman espone due lavori dall’aspetto minimale che implicano un’inquietante dicotomia tra l’evidenza fisica e ciò che sfugge alla percezione o all’assimilazione cognitiva: John Coltrane (1968) è una lastra di acciaio con il lato inferiore a conttto con il suolo, lucidato a specchio, mentre Steel Channel (1968) è costituito da un piccolo megafono collegato a un registratore e montato su una trave cava di acciaio distesa a pavimento che diffonde degli anagrammi ottenuti dalla doppia ripetizione di "lighted steel channel" (in inglese lighted significa sia "alleggerito" sia "illuminato"). Alan Saret è rappresentato da un lavoro a pavimento con reti metalliche Incastrate a formare un fitto e inestricabile groviglio. Richard Serra esegue tre interventi: nel primo Splashing presentato in un luogo pubblico getta 210 chili di piombo fuso nella giuntura fra parete e pavimento su una lunghezza approssimativa di sei metri. in modo che solidificandosi aderisse alla parete, visualizzando l'azione della forza di gravità e, nell'insieme, modificando la percezione delle coordinate spaziali; nello Scatter Piece strappa e getta a terra dei pezzi di caucciù, fino a ottenere un disordinato ammasso di materia, mentre nel terzo lavoro costruisce una situazione di equilibrio precario con una lastra di piombo antimonio trattenuta contro il muro da un elemento cilindrico che funge da puntello (Prop Piece, 1968). Accanto agli americani, sono presenti anche due artisti europei, Giovanni Anselmo e Gilberto Zorio. Se l'assunzione del principio di indeterminazione è il comune denominatore di questi lavori, sostanzialmente diversi sono i metodi della sua applicazione; se il carattere processuale delle opere è una preoccupazione condivisa, la natura dei processi in gioco resta distinta. Alcuni artisti affrontano il superamento dell'oggetto statico e in sé compiuto attraverso l'integrazione dell'ambiguità, dello straniamento o della contraddizione: l'opera si presenta come situazione mutevole (Kaltenbach), percettivamente inestricabile (Saret), "assurda" nella sua serialità illogica e ambigua nel suo statuto (Hesse). Per Bruce Nauman (figura profondamente originale), che occupa un ruolo di primo piano negli sviluppi postminimalisti, con oggetti e installazioni a forte impatto esperienziale e comportamentistico, lavori video, performance, opere concettuali, l'esperienza artistica è un'ininterrotta ed eterogenea naturale. Progetti successivi prevedono interventi sul ciclo di coltivazione di un campo, oppure l'uso di sostanze tossiche (diserbanti, topicidi) per delimitare e modificare i confini di una determinata area o creare zone di terreno infetto, mentre altri lavori dalle implicazioni più concettuali sono costituiti da una serie di interventi nel ciclo di trasformazione di una materia prima in prodotto di consumo. Smithson realizza perlopiù interventi in luoghi abbandonati che recano tracce di sfruttamento industriale: il più noto tra i lavori in spazi esterni è il grande molo a forma di spirale, costruito con terra, fango, acqua e cristalli di sale su una riva del Great Salt Lake nello Utah, nei pressi di un sito abbandonato di trivellazione (Spiral jetty, 1970). In altri lavori realizzati con cocci di vetro o materiali organici, Smithson ricalca in pianta l'ipotetico disegno di terre sommerse di un'era preistorica (Earth Maps, 1969-1971). In parallelo agli interventi realizzati su scala territoriale, alcuni esponenti della land art sviluppano progetti per spazi interni, intimamente legati all'esperienza del paesaggio esterno. Questi lavori prevedono la dislocazione di materiali grezzi (terra, pietre) in uno spazio espositivo e funzionano in base alla dialettica fra interno (spazio culturale, istituzionale. confinato, rigido) ed esterno (spazio naturale, illimitato, caotico, incontrollabile). Nel 1968. per esempio, De Maria riempie le tre stanze della Galleria Heiner Friedrich di Monaco fino a un'altezza di 75 cm con 50 m' di terra (The Land Show: Pure Dirt Pure Earth Pure Land), I lavori in spazi interni di Smithson occupano un ruolo di particolare rilievo in questo contesto, non solo perché numericamente predominanti ma soprattutto in quanto la dialettica fra due dimensioni inconciliabili costituisce la base del suo complesso e influente pensiero artistico. Il filo conduttore dei suoi lavori, infatti, è il rapporto fra un non-site e un site: fra un "non-luogo", fisicamente attestato da elementi concreti ma concettualmente astratto, e un "luogo, che teoricamente esiste ma la cui estensione e complessità sono percettivamente incommensurabili. I non-luoghi installati in spazi espositivi sono contenitori di metallo dipinti e a pianta geometrica, riempiti con pietre raccolte in un preciso luogo e accompagnati da una documentazione cartografica o linguistica del sito di prelievo (Non-Sites, dal 1968). In altri casi sono mucchi di terra e ghiaia, ordinatamente allineati, che fungono da supporto a lastre specchianti, precedentemente dislocate in punti del sito di prelievo della terra (Mirror Pieces, 1969). La dialettica tra il non-luogo e il luogo sottende molteplici rapporti tra le rispettive dimensioni contrapposte: tra artificiale e naturale, confinato e incommensurabile, rappresentazione cartografica e sito naturale dei prelievi, inerzia e mutevolezza processuale (gli specchi nello spazio interno non rispecchiano nulla o un'immagine fissa, mentre all'esterno riflettono fugaci frammenti di cielo, luce, colore, paesaggio). Non-Site rima con non-sight: (non-visione) in Smithson, la visione è sempre una non-visione che nasconde una parte di invisibile. L'oggetto" è qualcosa che sfugge è qui, ma anche altrove, e la "forma" delle cose è un processo indeterminato di relazioni dialettiche: la componente antiformale formulata in chiave entropica disperde ogni valore fisso e duraturo nella fluidità processuale dell'attività mentale, in analogia al flusso incontrollabile che nel corso del tempo trasforma il mondo, la terra, I continenti, come per esempio la preistorica Atlantide, assorbita dai cicli geologici, di cui l'ammasso di vetri rotti in Atlantis (1969) ricalca l'ipotetico profilo. EUROPA Le attitudini "antiformali" maturate in Europa fra il 1967 e il 1970 possono essere divise sostanzialmente in tre situazioni. Nell'Europa settentrionale emergono le ricerche più affini al contesto americano della process art, earth art e land art: gli esponenti di maggior rilievo sono gli inglesi Richard Long e Barry Flanagan, l'olandese Jan Dibbets - tutti allievi della St. Martin's School of Art, all'epoca un importante nucleo germinale per il rinnovamento della scultura, accanto a Marinus Boezem e Ger van Elk. In Germania, il principale epicentro artistico è Düsseldorf, dove oltre a Joseph Beuys, il decano della "nuova scultura", si distinguono il suo allievo Reiner Ruthenbeck (installazioni fondate sul contrasto complementare fra tensioni e proprietà materiali antitetiche; a Berna nel 1969, per esempio, presenta un mucchio di cenere in cui sono conficcati elementi rigidi, e una gabbia metallica ai cui lati interni sono liberamente sospesi dei ritagli di tessuto), Franz Erhard Walther, dal 1967 al 1971 attivo a New York (Objekte, dal 1967, investigazioni a partire da tessuti e dal loro possibili modi d'uso come strumenti per esperienze comportamentali), Klaus Rinke (performance e installazioni con uso di acqua) e Hans Haacke, trasferitosi a New York nel 1965 (azioni e installazioni processuali sensibili all'interazione con fattori ambientali, inscritti in sistemi di processi interdipendenti). Il terzo centro di interesse si situa in Italia in particolare a Torino, dove si sviluppano le ricerche dell'arte povera. La designazione è coniata da Germano Celant nel 1967, nell'intento di cogliere e promuovere (non solo in italia) il contributo di alcuni giovani artisti italiani al contesto internazionale di rinnovamento artistico. Formulata sullo sfondo dei fermenti intellettuali e delle tensioni sociali in atto intorno al 1968, l'operazione di Celant si articola in una serie programmatica di esposizioni e testi critici realizzati fra il 1967 e il 1971, anno in cui lo stesso Celant dichiara politicamente fallita e obsoleta la propria azione di guerriglia e decide di seguire individualmente gli artisti. Ripresa da Celant nel 1984 - nel momento in cui predomina la Transavanguardia - attraverso una nuova serie di mostre e pubblicazioni internazionali, l'etichetta rimane definitivamente il "marchio registrato" per designare i percorsi individuali di tredici artisti italiani: Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti (1940-1994), Pier Paolo Calzolari, Luciano Fabro, Jannis Kounellis, Mario Merz. Marisa Merz, Giulio Paolini, Pino Pascali (1935-1968), Giuseppe Penone, Michelangelo Pistoletto, Emilio Prini e Gilberto Zorio. FLANAGAN, DIBBETS, LUNGO Le pratiche artistiche che nella seconda metà degli anni sessanta si fanno strada tra Amsterdam e Londra sono caratterizzate dallo spirito antiformale e dall'approccio processuale di matrice statunitense, cosi come dalla volontà di scavalcare tutte le "cornici", da quella che delimita l'oggetto e definisce l'esperienza estetica tradizionale a quella che confina la pratica artistica allo spazio istituzionale. Nell'attività di Flanagan sviluppata fra il 1966 e il 1971 (prima di mutare completamente l'orientamento del proprio lavoro), l'adesione al materiali si traduce in operazioni elementari affrancate da ogni premeditazione formale: impilare dei sacchi di tela grezza ripiegati, rovesciare della sabbia in un angolo dell'ambiente e sottrarne piccole porzioni dalla sommità del mucchio, accatastare del sacchi di iuta riempiti con sabbia, stendere dei pezzi di feltro colorati a un filo teso nell'ambiente, disporre al suolo, su scala ambientale, dei pezzi di corda in ordine sparso o a guisa di serpente. I Sacchi si "fanno da sé": assumono una forma imprevedibile, generica, amorfa; sono quel che sono (pesi, corpi fisici con precise proprietà), sollecitano un'esperienza puramente sensoriale (fenomenologia primaria dei materiali). La processualità inscritta nel lavoro, il disporsi naturale e mutevole dei materiali flessibili coincide con il significato del lavoro. Jan Dibbets realizza dal 1967 Interventi all'aperto in un'ottica prevalentemente fenomenologica, nell'intento di proporre anzitutto delle "possibilità percettive”. Ritaglia una porzione di prato e la arrotola (Gross Roll, 1967), allestisce all'interno di una galleria una situazione con una pozza d'acqua e fascine abbinate a tubi al neon, solca il suolo innevato di una radura in maniera da ottenere due linee convergenti secondo un angolo di 30, interrotte però da un sentiero; scava il terreno antistante la Kunsthalle di Berna per mettere a nudo una porzione delle fondamenta dell'edificio. Nelle Correzioni prospettiche (1967-1969) fotografa dei perimetri trapezoidali delimitati all'aperto mediante corde a incisioni nel suolo, oppure tracciati a parete e a pavimento con nastro adesivo o a matita -in modo che nell'immagine appaiano come perfetti quadrati, apparentemente sospesi a mezz'aria e al tempo stesso aderenti al piano bidimensionale della fotografia. Nel 1967 Richard Long cammina ripetutamente in linea retta su un prato, finché l'erba calpestata dal suo passaggio rende manifesta una linea (A line made by walking). L'opera realizzata per mezzo della semplice azione di camminare senza aggiunta né sottrazione di mezzi rispetto al sito di intervento ha una durata effimera, il suo carattere formalmente chiaro e semplice è conforme all'azione stessa che l'ha generata (la linea come figura primaria del camminare). Sulla scia di quella prima linea, Long definisce i criteri della sua pratica artistica: il "materiale" è il paesaggio naturale preesistente, l'azione" è il suo attraversamento a piedi, il "risultato" è un'impronta effimera del proprio passaggio, l'esperienza artistica è l'esperienza in scala 1:1 di distanze territoriali, percorsi, durate, topografie, geografie, misure, continue trasformazioni. Le impronte lasciate al suolo durante le camminate ovunque nel mondo e di durata variabile si configurano in forma di tragitto lineare (generato dal cammino come nel "prototipo" del 1967) oppure di segni universali eseguiti con pietre o legni trovati sul posto (cerchi e croci come segni o "monumenti" lasciati in un punto di sosta). Fin dal 1968, inoltre, Long accompagna la sua solitaria pratica "dal vero" del paesaggio con complementari testimonianze presentate nello spazio pubblico del circuito artistico. Questi lavori prevedono la presentazione di informazioni (mappe, fotografie e text works) oppure la costruzione in situ di situazioni plastiche con pietre o legni che riportano un'eco una sonorità, un'idea, un sentimento dei gesti effimeri lasciati nel paesaggio. JOSEPH BEUYS Nella primavera del 1968 lo Stedelijk Van Abbemuseum di Eindhoven ospita la prima importante esposizione personale di joseph Beuys, presentata in precedenza alio Städtisches Museum di Mönchengladbach (dove è acquistata in blocco da Karl Ströher). In parallelo lo stesso museo presenta la prima retrospettiva in Europa di Robert Morris In margine al doppio evento, Jan Leering, allora direttore del museo, osserva: "Mentre gli oggetti di Morris funzionano attraverso il loro rapporto reciproco e in relazione con l'ambiente e lo spettatore, quelli di Beuys funzionano non solo come tali, ma anche come interpretazione del mondo. (..) Gli oggetti di Morris agiscono sulla coscienza dello spettatore in modo molto reale e concreto. Sono immediati. (.) Rispetto a Morris, dove il tempo è attualizzato come densità, come qualcosa di non fluido e di assolutamente empirico, in Beuys l'aspetto fluido del tempo e la dimensione del passato occupano un ruolo di primo piano. La sua mostra da l'impressione di un campo arato, che chissà quanto tempo fa è stato improvvisamente abbandonato da chi lo stava lavorando. L'impressione generale della mostra è proliferazione naturale. Come in Kounellis, la grammatica dei lavori è spesso binaria: materiali organici (cera, fascine) e segni al neon sono investiti come veicoli fisici e metaforici di energia per attivare in maniera immediata e spontanea una struttura inerte. In Pier Paolo Calzolari la presenza fisica è imprescindibile da un potenziale astratto: tra la corporeità del ghiaccio, dei metalli, degli elementi vegetal (muschio, foglie di tabacco o di banano) e la spiritualità della dimensione ineffabile del sublime corrono valenze alchemiche, poetiche e metafisiche di antica tradizione I lavori funzionano per catene sinestetiche di associazioni: per esempio, ghiaccio- metamorfosi-bianco-purezza-chiarore accecante pazzia: muschio-vegetale- silvano-umido-fecondo. “Impazza angelo artista” (1968) è una struttura ghiacciante in forma di auricolare, a misura dell'artista in posizione accucciata, che compone la scritta che dà il titolo al lavoro. Un flauto dolce per farmi suonare (1968) vede un flauto posato su una struttura brinata, nella quale è iscritta la frase del titola. 2000 anni lontano da casa (1968) si compone di tre campanelle argentate sospese a un filo d'argento teso fra due piccoli coni di piombo appoggiati al suolo, mentre la frase del titolo è trascritta con lettere di stagno tra i due coni In Il mio letto cosi come dev'essere (1968) un elemento di rame avvolto con muschio, avente lo spessore del polso dell'artista e ricalcante il profilo della sua colonna vertebrale, è posato su foglie di banano distese a pavimento a formare un "giaciglio", siglato con la frase del titolo trascritta con lettere di ottone Giuseppe Penone pone in relazione fin dai primi lavori il tempo empirico dell'uomo (e dell'artista) al tempi lunghi della natura, e cerca il contatto con lo scorrere di un'energia invisibile. I lavori d'esordio (1968-1969) sono azioni realizzate nei boschi della propria regione d'origine, documentate da fotografie intrecciare degli arbusti in modo da modificarne la direzione di crescita, oppure applicare a un tronco d'albero il calco in acciaio della propria mano che lo stringe, in modo che il punto deformato rivelerà la crescita, interventi minimi nei cicli vitali dei vegetali, intesi a provocare "la natura a esprimere la propria energia. Negli Alberi (dal 1969), invece, Penone intaglia e scava delle travi di legno, a partire dagli anelli di crescita e dai nodi, fino a riportare alla luce il tronco e i rami dell'albero originario (fatto affiorare lungo una metà dell'asse negli Alberi orizzontali, oppure, in quelli verticali, scortecciato a tutto tondo, con la parte inferiore della trave lasciata intatta in funzione di base). Nei lavori intitolati Svolgere la propria pelle (dal 1970) applica un nastro adesivo sulla propria pelle cosparsa di nero, in modo da ottenere delle "mappe, successivamente fotografate e proiettate a parete o sul vetro di una finestra; la pelle come estremo limite rispetto al mondo, come luogo di scambio, organo sensibile e superficie di contatto In tutte queste situazioni di energia, la materia importa non tanto nella sua espressività grezza quanto piuttosto come entità in cui si cristallizza dal vero, al vivo, un flusso di energia: un processo fisico, un'idea, un sogno. L'energia in questione è sempre legata a una spinta vitale, i lavori sono "vivi" e "vivono" in funzione del nostro vivere, traggono il loro più intimo significato dal loro orientamento radicalmente antientropico: sono "reazioni, fatti e tensioni paralleli alla vita, gesti che nella materia cercano e ritrovano la situazione di energia del nostro stesso vivere. In questo senso, le opere funzionano a volte come elementari prove di identità rispetto al reale, a titolo di esempio: lo che prendo il sole a Torino il 19 gennaio 1969 (1969) di Alighiero Boetti, citato in apertura, oppure il suo essere nel ventiduesimo anno di età in un'ora fantastica (1969) di Penone, in cui l'artista riporta alla luce il ventiduesimo anno di vita dell'originario albero, ritrovando al tempo stesso l'età che lui stesso aveva in quel momento La materializzazione di un istante di vita quotidiana o di un frammento infinitesimale di tempo coincide con un gesto elementare di partecipazione al reale, di "decifrazione" del proprio esistere ed essere parte del mondo. L'adesione alla quotidianità è intesa come modo di porsi in relazione simpatetica o in osmosi con la fluidità vitale, come trasposizione o prolungamento della propria percezione del mondo. Laddove il corpo non lascia una traccia diretta nell'opera, la dimensione umana resta il metro di misura indiretto, il punto di partenza e di arrivo: i materiali organici sono usati in quanto appartenenti alla medesima "materia" ontologica; i processi messi in atto sono inscritti nella processualità vitale cui appartiene anche l'uomo, la dilatazione mentale che inscrive il qui-e-ora in una continuità storico-culturale è una questione antropologica, cosi come la tensione tra fisicità e astrazione appartiene alla tradizione antica della poesia e dell'arte. Nell'arte povera l'esperienza artistica coincide con l'esperienza stessa del proprio sentire e del proprio vivere, i lavori diventano prolungamenti sensoriali, cristallizzazioni istantanee di pensieri, che lo spettatore è invitato a prolungare a sua volta, in una reazione a catena in cui i flussi di energia si accrescono, secondo un orientamento di massima apertura e adesione alla mutabilità della vita, delle idee, in esplicita contrapposizione alla rigidità dell'inerzia e dei confini prestabiliti In questo senso è di particolare rilievo la ricerca di Michelangelo Pistoletto, sviluppata a partire dai quadri specchianti del 1962-1963-lastre di acciaio lucidate a specchio, appoggiate al suolo, con applicata una riproduzione fotografica scontornata di una figura in grandezza naturale, che consentono il passaggio dallo spazio immutabile della rappresentazione (pittura, fotografia) allo spazio instabile e mutevole della vita e del mondo (lo specchio annulla continuamente ogni valore assoluto). Lo specchio rappresenta un vuoto e al tempo stesso il tutto possibile: è un luogo per eccellenza della progettualità, della speculazione. Pistoletto sviluppa questa dinamica concettuale negli Oggetti in meno (1965-1966), costituiti da un'eterogenea moltitudine di oggetti realizzati senza alcuna coerenza né finalità, come successione di momenti di un vivere libero: ogni oggetto "in meno" è un pensiero esternato, un gesto consumato che libera energia per una nuova e diversa azione. Come negli specchi, anche nella Venere degli stracci (1967) - il più noto di un gruppo di lavori con stracci realizzati fra il 1967 e il 1969- la dialettica fra un'immagine immutabile (icona della classicità, valore assoluto) e la presenza multiforme, variopinta e mutevole dei vestiti consumati (indici di cambiamento, rinnovamento, mutevolezza) fa convergere passato, presente e futuro, virtualità e realtà, arte e vita, proponendosi come momento di riflessione progettuale La commistione fra elementi iconografici antichi e contemporanei, il "nomadismo" fra epoche e generi, tra il qui e un altrove distingue in modo peculiare l'attitudine di vari esponenti dell'arte povera. In particolare, caratterizza la ricerca di Luciano Fabro. Le Italie (dal 1968) sono lavori che di volta in volta propongono la sagoma geografica dell'Italia in configurazioni materiali accuratamente elaborate (cristallo, piombo, ferro, pelo di renna, pelle, ottone forato, bronzo dorato, rete metallica, carta stradale) e in allestimenti diversi (posizione coricata, capovolta, sospesa, in piedi, a parete, a pavimento). I Piedi (1968- 1972) si compongono di grottesche "zampe" scolpite (marmo lucidato, vetro di Murano, bronzo polito), sovrastate da un "calzone" di seta, in alcuni casi lavorato nei modi della più raffinata sartoria. Tre modi di mettere le lenzuola (1968) propone tre paia di lenzuola di cotone bianco con le relative federe, recanti a ricamo il nome dell'artista, appuntate ognuna in modo diverso - quasi fossero studi di panneggio- su un telaio di legno. In Fabro, la "forma" dell'opera è un potenziale implicito, che nasce e cresce in relazione alla situazione espositiva e all'esperienza estetica: le Italie come i Piedi non sono "un'idea" predefinita, bensi "tutte le idee" che il loro apprendimento sinestetico innesca. Ogni volta le situazioni inscenate suggeriscono un'intima complicità, stimolano un'attività di pensiero che attraversa tutti i registri, oltre ogni coerenza e contingenza: dalla familiarità e dagli umori quotidiani all'aulicità dell'arte e della classicità, dalla contemporaneita alla storia. 3. Antiforma, non-forma e situazioni di energia: oltre l'oggetto, incontro al mondo La differenza tra le lenzuola di Fabro e i feltri di Robert Morris é sostanziale, tanto quanto quella tra i gesti di Penone nel bosco e gli interventi dei land artists nel deserto, o tra il variopinto pappagallo vivo davanti a una lastra di acciaio di Kounellis e la totemica lepre Impagliata di Beuys davanti a una lavagna con il progetto di riunificazione universale Eurasia", o ancora, tra un igloo di Mario Merz e i vetri rotti del continente perduto "Atlantis" evocato da Robert Smithson. Ciononostante, al di là delle differenze inerenti alle "mitologie individuali, come dicevamo all'inizio, c'è lo spirito di un'epoca, che inscrive le singole attitudini in un preciso clima storico- artistico, alimentato da una medesima esigenza di apertura verso il mondo e di contatto con la dimensione reale delle cose. Riassumendo, in sintesi. L'ambientazione del gesto artistico nello spazio reale e quindi l'emancipazione da tutte le cornici che per convenzione isolavano e definivano l'opera d'arte come oggetto autonomo in sé concluso aprono l'orizzonte verso relazioni, fattori, e aspetti fino allora inesplorati. L'apertura dei confini implica un autentico sconfinamento dentro il reale, l'esperienza artistica diventa sostanzialmente un'investigazione dei modi e delle possibilità di situare un materiale nello spazio reale. Situare un materiale nello spazio reale significa anzitutto attribuirgli una posizione, gestire la sua collocazione fra pavimento, parete e soffitto sospendere, tendere, distendere, dispiegare, rovesciare, impilare, sovrapporre, gettare, arrotolare, srotolare. Le nuove situazioni nascono e vivono prevalentemente in situ, per la durata della loro esposizione; vanno installate ogni volta da capo e implicano una fruizione dal vero. Il processo del situare il fare in situ - sostituisce il processo di formalizzazione predefinito e definitivo: in molti casi, l'opera e l'azione che di volta in volta la genera e che lo spettatore ritrova e prolunga attraverso la propria esperienza (da qui il carattere "processuale dei lavori). Pertanto, il momento dell'esposizione acquista un nuovo significato: si fa teatro per definizione dell'accadere dell'opera che, mutata da oggetto in sé compiuto in "situazione ampliata, conosce solo la misura del presente in cui di volta in volta il gesto dell'artista e la relazione con lo spettatore lo attivano e lo inverano. Situare dei materiali nello spazio reale significa operare con delle entità fisiche attivate nella loro realtà naturale, in conformità alle loro peculiari proprietà fisiche. Materiali non rigidi sia industriali sia organici (resine sintetiche, polietilene, fibra di vetro, plastica, tubi al neon, tessuti, gomma, grasso, terra, pietre, cera, sostanze chimiche) spingono a procedimenti elementari e "antiformali", che ne valorizzano le qualità intrinseche (flessibilità, elasticità, fluidità, mutevolezza, malleabilità, calore, reattivita). II contatto dei materiali con l'ambiente o fra loro stessi il loro naturale vivere e reagire ad altre sostanze, alla luce, all'aria, alla forza di gravità partecipa in misura considerevole all'aspetto, alla durata, alla mutevolezza dell'opera e quindi al suo carattere processuale. Situare un materiale nello spazio reale, infine, significa agire nello spazio esperienziale, in cui l'apprendimento delle cose e dei fenomeni si svolge a partire da un insieme di relazioni empiriche, contatti sensoriall, sperimentazioni dirette. Vuol dire proporre l'esperienza di una cosa, piuttosto che la sua descrizione: presentare un'idea dal vivo anziché rappresentarla in astratto. L'idea viene inscritta nella materia in questo modo che il suo apprendimento scaturisca attraverso la loro esperienza sensoriale e mentale, anziché attraverso un rapporto a distanza. Una forza Invisibile viene resa intelligibile direttamente attraverso un materiale sottoposto alla sua azione. Il significato dell'opera si sviluppa di volta in volta e sempre da capo attraverso il processo di conoscenza che la sua esperienza implica, sollecita, provoca La relazione estetica è inscritta nella dimensione del rapporto diretto, del dialogo e dell'interscambio reciproco: autore, spettatore e oggetto non sono più divisi da una relazione di alterità e separatezza, dal momento che l'opera è uno strumento con cui Museum of Modern Art di New York da Kynaston McShine fu accompagnato e rafforzato dalle rassegne "Art in the Mind", "Idea Structures", "Software". L'origine della definizione che negli anni si è dimostrata come la più pertinente ed efficace si trova in un testo del 1961 di Henry Flint, un musicista e matematico influenzato da John Cage che pubblica il suo Essay: Concept Art - "un'arte il cui materiale sono i concetti, cosi come il materiale della musica è il suono" in un'antologia di scritti poetici e musicali curata da La Monte Young". Flint presento e discusse le sue idee in numerosi incontri con musicisti e artisti newyorkesi, e segnatamente con Robert Morris, ma il diagramma dell'origine dell'arte concettuale un coacervo al tempo stesso ricchissimo e contraddittorio di opere, di progetti e di testi teorici è più ramificato e complesso, e ovviamente travalica la semplice questione terminologica. Di una tendenza che è arrivata tardi alla fase della storicizzazione, e i cui protagonisti sono ancor oggi impegnati in rivendicazioni di ortodossia o di primati cronologici, è sicuramente difficile indicare sia i confini sia la data d'inizio. Gli eventi inaugurali, unificati dall'aver avuto come teatro l'ambiente artistico newyorkese, furono almeno tre: nel 1966 la mostra "Working Drawings and Other Visible Things on Paper not Necessarily Meant to be Viewed as Art", nel 1967 la già ricordata pubblicazione dei Paragraphs on Conceptual Art di Sol LeWitt: nel 1969 l'esposizione "January 5-31" in cui Siegelaub riuni le opere di Barry, Huebler, Kosuth e Weiner. Per quanto riguarda invece le questioni di appartenenza, è oggi acquisita una visione allargata nelle intenzioni di alcuni "globale dell'arte concettuale, estesa anche a molte figure di artisti internazionali che, pur non avendo fatto parte del gruppo dei fondatori, discussero e svilupparono precocemente i termini del nuovo operare artistico con apporti originali e insostituibili. La ricerca dei precedenti e degli antefatti si rivela inestricabile dall'analisi delle ragioni e delle intenzioni dei promotori dell'arte concettuale, e costituisce un lungo cammino di avvicinamento che porta direttamente al cuore delle questioni cruciali in cui quel movimento si è identificato. Tra gli anni Cinquanta e i primi sessanta da una parte si annuncio infatti una forte ripresa di interesse verso le posizioni di Marcel Duchamp In merito alla negazione dei contenuti estetici della produzione artistica, dall'altra si affermarono nella pratica della pittura e della scultura moderniste tendenze autoriflessive e riduzioniste, che portarono alla svalutazione degli aspetti materici e tecnico-formal dell'opera, aprendo il campo alla serialità e all'utilizzazione di elementi verbali. Si tratta di linee di ricerca fondate su presupposti alternativi e In alcuni casi conflittuali, unificate dal minimo comun denominatore della perdita di importanza delle componenti visive dell'operazione artistica e dalla sua conseguente concettualizzazione, che essa si identificasse in immagini, in testi, in documenti o in azioni Le diverse genealogie dell'arte concettuale si riflettono infatti negli approcci teorici e nei modelli operativi che hanno caratterizzato le varie anime del movimento, dalle serie logiche, spaziali, cronologiche adottate da Sol LeWitt, On Kawara, Douglas Huebler, Alighiero Boetti, all'identificazione tra arte e linguaggio proposta da Joseph Kosuth, dal gruppo Art & Language, da Lawrence Weiner, all'analisi critica delle relazioni e delle istituzioni che ratificano i valori artistici praticata da Robert Barry, Hans Haacke, Daniel Buren, Giulio Paolini, Marcel Broodthaers, fino alle strategie di appropriazione culturale scelte dagli artisti sudamericani. Nel ripercorrere la mappa degli influssi e delle ascendenze occorre tuttavia non dimenticare che l'arte concettuale, anche nelle sue componenti più inclini alla tautologia della logica formale, non può essere oggi riconsiderata solo in relazione alle tendenze artistico-culturali che l'hanno preceduta e accompagnata, dimenticandone i profondi legami con le trasformazioni sociali allora in atto. "Senza comprendere gli anni sessanta" ha scritto Joseph Kosuth nel 1975, "è impossibile comprendere l'arte concettuale e apprezzarla per quello che è stata l'arte all'epoca della guerra del Vietnam". Effetto readymade "Nel 1913 ho avuto la felice idea di fissare una ruota di bicicletta su uno sgabello da cucina e di guardarla a girare. (..) A New York, nel 1915, acquistai da un ferramenta una pala da neve sulla quale scrissi: In previsione del braccio rotto. È intorno a questo periodo che il termine readymade mi venne in mente per indicare questa forma di manifestazione. C'è un punto che voglio stabilire molto chiaramente ed è che la scelta di questi readymades non mi fu mai dettata da qualche diletto estetico. Questa scelta era fondata su una reazione di indifferenza visiva, unita al tempo stesso a un'assenza totale di buono o cattivo gusto... di fatto un'anestesia totale”. Così Marcel Duchamp rievocó l'invenzione del readymade intervenendo nel 1961 al colloquio organizzato al Museum of Modern Art di New York in margine alla mostra "The Art of Assemblage”. Per gli artisti degli anni sessanta, preceduti su questa via da John Cage, da Robert Rauschenberg, da Jasper Johns, Duchamp è stato l'artista paradigmatico, e la sua opera esemplare il readymade. "Marcel Duchamp" scrisse Jasper Johns nel 1968, in un omaggio postumo pubblicato sulle pagine di "Artforum", "si è mosso col suo lavoro attraverso le frontiere retiniche stabilite dall'Impressionismo, fino a un capo dove lingua, pensiero e visione interagiscono. E qui il suo lavoro ha cambiato forma attraverso un complesso rapporto tra nuovi materiali di tipo fisico e mentale, annunciando molti aspetti tecnici, mentali e visivi che si trovano nell'arte più recente." Il readymade è un'opera d'arte che si identifica nell'enunciato "Questo è arte". Perché questo enunciato possa compiersi è necessaria la presenza di quattro elementi: un oggetto che ne costituisca il referente, un soggetto che la pronunci, un pubblico che la recepisca e la faccia propria, un'istituzione che accolga e registri l'oggetto a proposito del quale quell'enunciato è stato proferito". Intorno a ciascuna di queste quattro articolazioni - l'identità dell'opera, l'autorialità, la ricezione, le istituzioni artistiche - gli artisti concettuali hanno esercitato il loro lavoro analitico e costruito le strategie del loro intervento, isolandole o incrociandole a seconda dei propri interessi e dei propri obiettivi. Un'analoga, radicale messa in questione delle condizioni dell'operare artistico era stata già posta in atto dai più significativi precursori del movimento tra la fine degli anni cinquanta e i primi sessanta, in alcune opere che possono essere definite come proto- concettuali: in Italia Piero Manzoni con le Linee sigillate in astucci cilindrici etichettati con la data dell'operazione e la lunghezza della linea. con lo Zoccolo del mondo, con le certificazioni che attribuivano a singoli individui uno statuto artistico temporaneo o permanente; in Francia Yves Klein con la cessione di Zones de sensibilité picturole immaterielle in cambio di una quantità equivalente di oro; negli Stati Uniti Robert Morris con lo Statement of Aesthetic Withdrawal del 1963. In questo caso il riferimento a Duchamp era duplice, fondandosi su una citazione e su un capovolgimento di procedura, l'opera consisteva infatti in una certificazione dell'autore - vidimata da un notaio che, a fronte dell'eventuale mancato pagamento da parte del collezionista, privava di ogni valore estetico la scultura Litanies, sulla quale era possibile leggere la trascrizione di un estratto della Boite verte di Duchamp. Nello stesso periodo a Los Angeles lo scultore Edward Kienholz autore di installazioni che riproducevano in grandezza naturale e con materiali di recupero ambienti e situazioni metropolitane - realizzava i Concept Tableaux, targhe metalliche e progetti incorniciati relativi a opere solo pensate, offerti in vendita indipendentemente dalla effettiva realizzazione delle opere stesse. L'influenza di Marcel Duchamp si intrecciava a quella di John Cage, che nel 1963 aveva inserito tra le sue 26 tesi in merito a Duchamp una dichiarazione divenuta celebre: "Un modo di scrivere musica: studiare Duchamp". L'accento posto dal compositore sul valore del silenzio e la sua messa in opera di permutazioni aleatorie di strutture ritmiche e sequenze sonore elementi mutuati dalle dottrine zen e dalla riflessione sugli scritti e le opere di Duchamp - furono determinanti per una generazione di artisti intenta a disimpegnarsi dal dominio della visibilità Indicativo è il passaggio di una lettera a Cage di Robert Morris, datata 8 agosto 1960 "Se l'idea. Probabilmente il risultato dei miei passati problemi nei confronti del processo creativo e dell'oggetto che ne risulta. Si, in questo caso volevo la morte del processo creativo... solo una sorta di permanenza dell'idea. E già nel 1953 particolarmente significativa era stata in tal senso, da parte di Cage, l'analisi dei White Paintings di Robert Rauschenberg: "Niente soggetto, niente immagine, niente gusto, niente oggetto, niente bellezza, niente talento, niente tecnica (niente perché), niente idea, niente intenzione. niente arte, niente sentimento, niente nero, niente bianco (…) Alleluia! Il cieco può di nuovo vedere, l'acqua è limpida. Ancora recentemente, lo stesso Joseph Kosuth ha riconosciuto il suo debito nei confronti del compositore: "Quello che ho imparato da Cage, e l'ho imparato mentre lo stavo imparando anche da altri ha coinciso è stato un approccio all'arte come ricerca per trovare il farsi del significato. Se il significato è ciò che interessa, allora la cancellatura, l'omissione, l'eliminazione e lo sbarramento di un precedente significato, di dati o presunti significati, diventa una parte necessaria di un processo nel quale il significato stesso può essere reso visibile L'atto di interdizione visiva rappresentato dalla cancellazione era stato individuato nel 1953 da Robert Rauschenberg, in quegli anni vicinissimo a Cage, come la via più efficace ; incominciando per un definitivo allontanamento dalle implicazioni psicologiche ed esistenziali che avevano caratterizzato l'espressionismo astratto e intitolando Erased De Kooning Drawing il foglio da cui aveva laboriosamente cancellato le intricate tracce materiche di un disegno di Willem De Kooning- un'operazione condotta in pieno accordo con quest'ultimo, Rauschenberg non si era limitato a compiere un gesto insieme di omaggio e di sabotaggio linguistico, ma aveva letteralmente liberato il campo per nuovi interventi artistici, posti all'insegna dell'azzeramento e del vuoto. Nel decennio successivo la cancellazione si ripresentò in nuove forme. John Latham, un artista inglese interessato a un approccio all'arte anti-formalistico, sociologico, fenomenologico, nel 1966 prelevo dalla biblioteca della St. Martin's School of Art di Londra, presso la quale insegnava, il volume di Clement Greenberg Art and Culture (1961), il testo chiave del formalismo modernista, e nel corso di un evento che battezzó Still and Chew ne strappò e mastico le pagine insieme ai suoi studenti, collocando poi nello scaffale della biblioteca una bottiglia contenente il distillato alcolico della massa masticata. Quel gesto, che costo a Latham l'immediato allontanamento dal suo ruolo di insegnante, acquisiva valore esemplare in una fase in cui la pittura e la scultura moderniste - con i dipinti neri di Ad Reinhardt e Frank Stella e la geometria seriale del minimalismo portavano a conclusione la loro parabola. Tracce e reperti dell'evento, unitamente a una copia del volume di Greenberg e ad altri documenti, furono collocati da Latham in una valigia ora al Museum of schizzi, disegni, errori, modelli, studi e conversazioni potessero a loro volta acquisire lo statuto di opera. Attraverso il passaggio del Drawing Project 1968- ventiquattro pagine di combinazioni lineari a base quadrata realizzate per la pubblicazione dello Xerox Book curato da Seth Siegelaub-LeWitt inaugurò nel 1969 la stagione dei Wall Drawings, trasposizioni della tecnica del disegno dalla carta alla parete e dunque allo spazio architettonico. Riservandosi il ruolo di ideatore dei meccanismi combinatori che governano l'intervento e delegando ad altri l'esecuzione, da quel momento LeWitt ha conferito alle sue opere una dimensione ambientale, avvolgente e onnicomprensiva. L'opera abbandona così definitivamente il suo carattere oggettuale, ma senza rinunciare del tutto alla dimensione percettiva. Questo aspetto rende specifica e insieme anomala la presenza di LeWitt nel contesto dell'arte concettuale, che egli era stato il primo a definire nel 1967 e di cui due anni più tardi, in polemica con Kosuth, aveva tenuto a sottolineare la distanza da ogni forma di positivismo logico ("Gli artisti concettuali sono mistici piuttosto che razionalisti. Arrivano a conclusioni cui la logica non può arrivare")" Mel Bochner affronto il tema di interventi concepiti a scala ambientale nella serie dei Measurements, realizzati evidenziando sulle pareti di gallerie e musei le dimensioni di muri, porte e finestre con linee di nastro adesivo, interrotte dalle relative indicazioni numeriche. In un processo che percorreva una linea opposta a quella proiettiva seguita da LeWitt nei Wall Drawings, Bochner mirava a rendere visibile l'immanenza di una struttura geometrica negli ambienti in cui interveniva, comprese le irregolarità e le anomalie che ogni spazio costruito sempre presenta. Anche l'olandese Jan Dibbets nel 1967 inizio a esplorare le modalità della percezione dello spazio, concentrandosi nei lavori fotografici della serie Perspective Correction Series, datati 1969, sul tema delle illusioni prospettiche. "La prospettiva aveva scritto Bochner due anni prima, "un dispositivo quasi universalmente abbandonato dall'arte recente, è un esempio affascinante di applicazione di sistemi prefabbricati Numerazioni, catalogazioni Se la serialità di Bochner e LeWitt affondava le sue radici nel minimalismo, mantenendo l'aggancio con le coordinate di spazi fisicamente misurabili, in altri esponenti dell'arte concettuale il principio seriale si presentava negli stessi anni in forme diverse, e si confrontava con la numerazione, con la catalogazione, con la registrazione documentaria. Nelle operazioni artistiche che utilizzavano il veicolo della scrittura come tramite per esplorare sistemi numerici, logici o verbali rientrava dunque in gioco il tema del readymade, legato non più all'oggetto, ma alla mimesi di pratiche culturali diffuse e apparentemente neutrali. Sequenze o permutazioni numeriche sono alla base degli schemi dattiloscritti di Dan Graham, delle notazioni sonore di Christine Kozlov, dei libri, dei film e delle tavole realizzati dall'artista tedesca Hanne Darboven, dei dipinti del francese Roman Opalka. Nei suoi quadri, tutti dello stesso formato e dallo sfondo inizialmente nero e poi progressivamente più chiaro, quest'ultimo sta dal 1965 proseguendo la numerazione da uno verso infinito, avendo equiparato l'atto del contare a quello della durata della propria esistenza, con l'obiettivo di arrivare a dipingere alla fine della sua vita numeri bianchi su un fondo bianco. Nel 1966 On Kawara, un artista giapponese trasferitosi a New York l'anno precedente, iniziò la serie dei Date Paintings. Ognuna delle opere, che nel loro complesso costituiscono l'insieme Today Series, consiste in un piccolo quadro di formato rettangolare a fondo monocromo scuro, sul quale sono dipinte in bianco le lettere e le cifre che compongono la data del giorno. La stesura del colore di fondo e del bianco dell'iscrizione risponde a un protocollo minuziosamente predisposto e rigorosamente osservato, e, nel caso che il dipinto non sia completato entro la mezzanotte del giorno in cui è stato iniziato, esso viene distrutto. Ogni quadro ha come titolo la data che vi è inscritta e come sottotitolo una frase tratta da un quotidiano del giorno, ed è riposto in una scatola di cartone etichettata con la data corrispondente e foderata al suo interno con un ritaglio di un quotidiano letto dall'artista durante quella giornata. La registrazione dell'esperienza del tempo, che nei Date Paintings si offre nella doppia accezione di tempo individuale e tempo storico, si intreccia a quella dello spazio in altre tre serie avviate da Kawara nel 1968 e terminate il 17 settembre del 1979, per una delle quali tra l'altro l'artista utilizzo per la prima volta la rete postale quale nuovo mezzo di comunicazione artistica / Got Up At consiste nella serie delle cartoline che egli quotidianamente invio per undici anni ad alcuni conoscenti dal luoghi dove lo portavano suoi viaggi, indicando l'ora del suo risveglio con un sistema di timbri che si aggiungevano a quelli postali. / Mer è una lista delle persone incontrate giorno dopo giorno. I Went raccoglie la traccia di tutti i percorsi compiuti in quel periodo, disegnati sulla mappa fotocopiata della città in cui l'artista aveva trascorso la giornata. A questi si sono intrecciati altri progetti, dalla ricognizione di una temporalità assoluta che presiede alle elencazioni di One Million Years alla soggettività autoreferenziale dei messaggi Inviati per via telegrafica (I am not going to commit suicide. dal 1969; I am still alive, dal 1970). La numerazione si traduceva cosi per Opalka e Kawara in un'esplorazione del tempo fortemente segnata da una componente diaristica, mentre in un'opera di Graham del 1966 essa si proponeva invece come misurazione dell'estensione dello spazio sia fisico sia mentale, partendo dall'indicazione della distanza che ci separa dai confini dell'universo per arrivare a quantificare quella infinitesimale che separa la cornea dalla retina (1,000,000,000,000,000,000,000,000.00000000 miles to edge of known universe...). Altri hanno intrapreso la via della catalogazione, prendendo spunto dalla ripetizione inerente ai processi fotografici e cinematografici. La questione era stata affrontata fin dai primi anni sessanta nell'opera di Andy Warhol e nei piccoli libri d'artista di Ed Ruscha, il primo dei quali - Twenty Six Gasoline Stations - è datato 1962. L'artista californiano vi si era confrontato con l'architettura vernacolare della provincia americana e con un'impaginazione semplificata e seriale, indicando una strada che fu ripresa nel 1965 da Dan Graham nel progetto Homes for America. Dopo aver raccolto, viaggiando lungo le strade del New Jersey, una ricca documentazione fotografica di case prefabbricate, in cui vedeva il riflesso concreto e socialmente determinato delle morfologie seriali minimaliste, egli impaginò un articolo - accolto nel 1966 sulle pagine della rivista "Arts Magazine" - che alternava testi e immagini secondo un'impostazione grafica simile a quella dei cataloghi immobiliari o delle riviste popolari di arredamento. L'opera era significativa per il suo carattere ambiguo, derivato dalla scelta di dissimulare un intervento artistico dietro le apparenze della comunicazione commerciale, e per l'interesse riservato alle forme dell'architettura postindustriale. Edifici privi di qualità estetiche o monumentali erano oggetto delle ricognizioni e delle analisi anche di altri artisti attivi a New York, quali Robert Smithson e Gordon Matta-Clark, e dei tedeschi Bern e Hilla Becher, le cui serie fotografiche dedicate a singole tipologie industriali erano improntate a criteri di rigorosa oggettività. Martha Rosler rivolse invece la sua attenzione a un quartiere degradato di Manhattan, accostando fotografie in bianco e nero di facciate di negozi e di locali pubblici a brevi elenchi dattiloscritti di termini relativi all'uso e agli effetti di sostanze alcoliche, cosi da sottolineare i limiti e l'inadeguatezza di ciascuno dei due sistemi linguistici ad affrontare tutte le implicazioni e i significati di una situazione (The Bowery in Two Inadequate Descriptive Systems, 1974-1975). Forme di inventariazione che si confrontano con la variegata morfologia terrestre o con gli eventi imprevedibili della storia sono invece quelle di Alighiero Boetti, che in Dodici forme dal giugno '67 decise di raccogliere I profili di altrettanti territori in guerra, cosi come comparivano nelle rappresentazioni cartografiche pubblicate dai quotidiani, e che nel progetto di ordinamento dei mille fiumi più lunghi del mondo (Classifying The Thousand Longest Rivers in The World), avviato nel 1970 insieme ad Anne-Marie Sauzeau, intraprese un progetto enciclopedico che nel corso di nove anni si concretizzó prima in un libro e quindi in un grande arazzo ricamato. A partire dal 1968 Douglas Huebler ha concepito la sua opera come certificazione dell'esistenza di oggetti o persone, registrandola e documentandola in base a scelte arbitrarie di volta in volta precisamente definite e dichiarate. "Il mondo è pieno di oggetti" affermo programmaticamente nel 1969, "e da parte mia non desidero aggiungerne altri. Preferisco, semplicemente, dichiarare l'esistenza delle cose in termini di tempo e/o spazio. Più precisamente, il lavoro è implicato in cose le cui relazioni sfuggono all'esperienza di una percezione diretta (1) e viene reso noto attraverso un sistema di documentazione in forma di fotografie, mappe, disegni e descrizioni linguistiche." Tra i primissimi, insieme a Dibbets, a utilizzare in modo sistematico fotografie documentarie come elemento base delle sue opere Huebler avvio tra il 1968 e il 1969 i cicli Location Pieces e Duration Pieces, e nel 1971 diede inizio a un progetto in progress di catalogazione onnicomprensiva di tutta la popolazione vivente. L'impresa si è interrotta solo con la sua morte, avvenuta nel 1997, e dai primi anni ottanta è stata assimilata dall'artista nella più articolata strategia comunicativa di Crocodile Tears. Ogni singolo elemento della serie Everyone Alive - ma il titolo esatto è Variable Piece # 70 (In Process) riporta questa dichiarazione: "Per tutto il tempo che gli resta da vivere l'artista documenteră fotograficamente, nei limiti della sua possibilità, l'esistenza di ogni persona vivente, al fine di produrre la più autentica ed esaustiva rappresentazione della specie umana che possa essere raccolta in questa maniera. Fin dall'origine l'opera era dunque destinata a non poter mai raggiungere l'obiettivo dichiarato, basandosi su un dispositivo paradossale mirante ad ancorare la progettualità artistica alla contingenza irriducibile dell'esperienza esistenziale. Proposizioni linguistiche Secondo Joseph Kosuth il compito dell'artista consiste nell'interrogare la natura dell'arte. Fin da Art After Philosophy il suo primo intervento teorico di rilievo, che offriva tra l'altro una mappa articolata dell'arte concettuale nel 1969-egli contrappose il lascito di Duchamp alla linea "morfologica" dell'arte moderna, identificata nella posizione critica di Clement Greenberg: "Il readymade mutò la natura dell'arte da una questione di morfologia a una questione di funzione. Questo mutamento dall'apparenza alla concezione segnò l'inizio dell'arte moderna e l'inizio dell'arte concettuale". un'elencazione enciclopedica compulsiva di attività e attitudini umane su cui torna ossessivamente a sovrapporsi l'alternativa estrema della vita e della morte. Contesti sociali, contesti istituzionali Se il riferimento al readymade duchampiano assumeva, nel concettuale linguistico, una valenza esclusivamente autoriflessiva e tautologica, altri esponenti del movimento ne svilupparono invece gli aspetti legati all'analisi dei contesti istituzionali. L'opera non si limitava in questo caso a interrogare se stessa, ma affrontava il tema della funzione legittimante svolta dalle istituzioni artistiche, presentandosi come elemento residuale nei confronti di un insieme di norme simboliche e di aspettative sociali finalizzato a dettare le condizioni generali dell'esistenza stessa dell'arte. Esemplare in tal senso è stato il percorso di Robert Barry. Partito dalla pratica pittorica minimalista, giunse a fine anni sessanta a usare materiali intangibili e invisibili - ultrasuoni, campi elettromagnetici, gas inerti e poi a mettere definitivamente fuori gioco l'identità tra arte e visibilità in una serie di definizioni generiche relative a fatti mentali non ulteriormente specificabili: Something that is taking shape in my mind and will sometime come to consciousness, 1969. In occasione della personale tenutasi nel 1969 presso Art & Project ad Amsterdam, e successivamente in altre gallerie europee e americane, Barry applicò sul lato esterno della porta d'ingresso un cartellino recante la scritta "During the exhibition the gallery will be closed" ("Durante la mostra la galleria rimarrà chiusa, Closed Gallery Piece), per poi arrivare a far coincidere in modo ancor più radicale il suo intervento artistico con il riconoscimento degli aspetti strutturali del sistema dell'arte. Il progetto Invitation Piece del 1972-1973 propose un sistema circolare di inviti a esposizioni personali dell'artista diramati dalle gallerie Paul Maenz di Colonia, Art & Project di Amsterdam, Jack Wendler di Londra, Leo Castelli di New York, Yvon Lambert di Parigi, MTL di Bruxelles, Toselli di Milano, Sperone di Torino. "Questo lavoro" ha affermato Barry "descrive un ampio circuito geografico (l'itinerario che io affronto abitualmente ogni anno per fare le mie esposizioni) e una stagione artistica, da ottobre a giugno."" La serie degli otto cartoncini di invito (un genere rilevante e inconfondibile all'interno della vasta produzione documentaria della stagione concettuale), in cui ciascuno dei galleristi coinvolti annunciava la mostra che si sarebbe tenuta nello spazio di uno dei suoi colleghi, costituiva la mappatura del successo internazionale dell'arte concettuale nei primi anni settanta, dimostrando al tempo stesso che la produzione artistica, il collezionismo e l'informazione si erano ormai strutturati in sistema. Particolarmente attento al contesto ideologico ed economico in cui si inseriva la sua opera è stato il californiano Michael Asher. Nel 1973, invitato a esporre da Toselli a Milano, chiese che venisse eliminata dalle pareti della galleria ogni traccia di intonaco, e che l'ambiente fosse illuminato solo con luce naturale, cosi da trasformare il "cubo bianco" di uno spazio espositivo apparentemente neutrale in un contenitore opaco e non sacralizzante". L'anno successivo a Los Angeles fece rimuovere ogni partizione interna dalla galleria di Claire Copley, in modo che le attività di amministrazione e di transazione commerciale venissero svolte in pubblico e non in spazi separati e protetti, diventando il vero, e unico, oggetto di osservazione proposto dalla mostra Per i francesi Daniel Buren, Olivier Mosset, Michel Parmentier e per lo svizzero Niele Toroni, il punto di partenza fu, come per Robert Barry, un'analisi sistematica degli elementi costitutivi del linguaggio pittorico, che li condusse a individuare una forma-matrice per il loro lavoro. In particolare Buren giunse a fine 1966 a definire la sigla di tutti i suoi successivi interventi, costituita dall'alternarsi di fasce parallele verticali bianche e di un unico altro colore, della larghezza costante di 8,7 centimetri, stampate su carta o su tela. con l'aggiunta, nel caso di quest'ultimo supporto, di una stesura di materia pittorica bianca sulle due bande più esterne, a ironica garanzia del carattere artigianale dell'operazione Da allora Buren si è servito di quella matrice come di un indicatore, intervenendo in una molteplicità e varietà di contesti pubblici e privati, specifici e non, sempre con l'intento di evidenziare il ruolo determinante delle cornici istituzionali nel costituirsi del discorso artistico. Per la prima volta a Parigi nel maggio del 1968, in occasione della sua partecipazione al Salon de Mai, egli agi contemporaneamente all'interno e all'esterno dello spazio espositivo, rivestendo di carta a fasce bianche e verdi una parete del Musée d'Art Moderne de la Ville de Paris e facendo circolare per le vie della città due uomini sandwich che non mostravano avvisi pubblicitari ma tabelloni coperti dalla medesima carta rigata, Già nel marzo del 1968 aveva clandestinamente incollato centinaia di quegli stessi fogli di carta negli spazi di pubblica affissione di tutta Parigi, realizzando un intervento autoriale ma anonimo che, richiamandosi ai principi situazionisti della dérive e del détournement, inaugurava un ciclo di approfondimenti critici sulla funzione del museo e sulla separazione di arte e quotidianità. Altri due artisti europei hanno proposto in quegli anni riflessioni originali e sottili sul sistema artistico in quanto repertorio consacrato e inesauribile di opere e di autori, in cui il museo opera per costituire e prendiamo a prestito un'espressione di Buren - "il corpo mistico dell'Arte Con Giovane che guarda Lorenzo Lotto una copia fotografica in scala 1:1 del Ritratto di giovane che il pittore veneziano dipinse nei primi anni del Cinquecento - Giulio Paolini affrontava nel 1967 le questioni teoriche proposte di recente dalla critica letteraria strutturalista con la formula della "morte dell'autore" "Ricostruzione" - recita la didascalia che accompagna l'opera - "nello spazio e nel tempo del punto occupato dall'autore (1505) e (ora) dallo spettatore di questo quadro": l'autore e l'osservatore divenivano entrambi oggetto passivo di uno sguardo, e degli interrogativi a questo connessi. Attraverso un'inversione di senso, Paolini sottraeva cosi importanza al valore referenziale dell'opera e ne identificava il significato in un geometrico gioco di relazioni e di ruoli. Se l'opera dell'artista italiano ha scelto da allora di tracciare i suoi percorsi all'interno dello spazio simbolico del museo, il belga Marcel Broodthaers adotto il modello operativo del collezionismo museale in un'operazione critica la cui radicalità consisteva proprio nel mimetismo. Tra il 1968 e il 1972 egli raccolse, classifico e allestidapprima nella casa-studio di Bruxelles, poi in una galleria privata di Anversa, e tra il 1970 e il 1972 alla Kunsthalle di Düsseldorf e a Documenta 5 di Kassel - le diverse sezioni del Musée d'Art Moderne, Département des Aigles. In questo museo fittizio - inizialmente un semplice allestimento di casse da imballaggio, cartoline e scritte - Broodthaers riuni una vasta ed eterogenea rassegna di raffigurazioni e oggetti, da quelli archeologici a queili industriali, accomunati dal riferimento all'aquila, animale simbolo del principio di autorità. Ogni reperto era accompagnato da una targhetta recante l'iscrizione "Questa non è un'opera d'arte, che saldava in un nuovo sillogismo il paradosso di Ceci n'est pas une pipe di Magritte a quello del readymade di Duchamp. Tutta l'operazione assumeva così una duplice valenza, interna ed esterna al sistema dell'arte, giocando] il ruolo" come indicò l'autore "ora di parodia politica delle manifestazioni artistiche, ora di parodia artistica di avvenimenti politici. La critica al potere istituzionale del museo emerse anche negli interventi di due figure non direttamente legate all'arte concettuale quali Christo e Jeanne-Claude, che tra il 1968 e il 1969 impacchettarono la Kunsthalle di Bema e il Museum of Contemporary Art di Chicago e venne affrontata a partire dal 1970 in termini radicali da Hans Haacke, un artista tedesco trasferitosi a New York nel 1965. Dopo aver analizzato nelle sue prime opere fenomeni naturali e sistemi ecologici, egli passo a elaborare modelli per la lettura dei sistemi sociali e più volte utilizzo il sondaggio come mezzo per consentire al pubblico di esprimere le proprie convinzioni uscendo da una condizione di identità indifferenziata e anonima Nel 1970, in occasione di "Information" la mostra che introdusse i temi delfarte concettuale nel sacrario modernista del Museum of Modern Art di New York-, Haacke chiese ai visitatori di esprimersi sulla politica americana di intervento militare in Indocina, e in particolare sulla posizione di Nelson Rockefeller, governatore repubblicano dello Stato di New York e membro del consiglio di amministrazione del museo (MOMA Poll). Era l'anno in cui le sale del MoMA furono teatro anche di un'altra, più diretta manifestazione di protesta contro la guerra in Vietnam, organizzata dal gruppo Art Workers Coalition (Carl Andre, Mel Bochner, Robert Morris e altri), che espose davanti a Guernica un manifesto con la fotografia di una strage di civili vietnamiti. Nel 1971, invitato ad allestire una mostra personale al Solomon R. Guggenheim Museum di New York, Haacke elaborò un'analisi dettagliata, documentata con mappe, testi e fotografie, delle proprietà newyorkesi del più potente gruppo immobiliare della città (Shapolsky et al. Manhattan Real Estate Holdings, a Real-Time Social Systern, as of 1 May 1971). L'opera venne giudicata inammissibile dal direttore del museo Thomas Messer, la mostra fu annullata e il curatore che ne aveva difeso le ragioni, Edward F. Fry, fu rimosso dal suo incarico. "Non ci sono artisti" dichiaro Haacke qualche anno più tardi che siano immuni dall'essere influenzati dal sistema di valori socio- politici della società in cui vivono di cui tutte le istituzioni culturali fanno parte. Gli artisti, cosi come i loro sostenitori e i loro detrattori, non importa di quale colore ideologico, sono collaboratori involontari della sindrome-arte (...) e partecipano tutti insieme al mantenimento e/o allo sviluppo di interventi cosmetici sul corpo della società cui appartengono. Lavorano in quella cornice, la determinano e ne sono incorniciati." In America Latina le istanze politiche costituirono il fondamento dell'uso degli strumenti dell'arte concettuale. L'obiettivo, come scrisse in Argentina nel 1968 il Grupo de Artistas de Vanguardia, era quello di "costruire oggetti artistici capaci di produrre modificazioni nella società con l'efficacia di atti politici". Il manifesto Tucumán arde, da cui sono tratte queste parole, fu il punto di partenza di una serie di mostre, interventi e manifestazioni svoltisi in diverse città argentine nel corso del 1968, tesi a documentare e a denunciare il fallimento della politica economica del governo militare nella provincia settentrionale di Tucumán, sistematicamente negato dalla stampa ufficiale. Un analogo interesse nei confronti dei sistemi di controinformazione fu sviluppato dagli artisti brasiliani Hélio Oiticica, che teorizzó la necessità di elaborare proposizioni artistiche collettive e politicamente impegnate, e Cildo Meireles. Nel 1970 questi realizzo delle vere e proprie microincursioni nei meccanismi economici e pubblicitari su cui si regge e si espande l'economia delle società avanzate (Inserções em circuitos ideologicos, 1970) Sul vetro delle bottiglie vuote della Coca-Cola, destinate a essere poi nuovamente riempite e messe in vendita, venivano stampigliati con vernice bianca messaggi critici nei confronti della dittatura militare o parole d'ordine antimperialiste; analoghe scritte venivano impresse con un sistema di timbri sulle banconote in circolazione, e anche in questo caso l'opera si serviva per la sua diffusione proprio di quel capillare circuito commerciale di cui intendeva sabotare la finta neutralità. Il sistema del readymade veniva cosi rovesciato: non era l'elemento merceologico a essere trasferito nel sistema dell'arte, ma si trattava al contrario di un intervento artistico che faceva propri i percorsi della merce.