Scarica Riassunto del libro "Appunti di Geografia", Claudio Minca e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Geografia solo su Docsity! RIASSUNTO APPUNTI DI GEOGRAFIA MINCA Il pensiero geografico 1. La geografia, lo spazio, la carta La geografia e lo sguardo sul mondo Franco Farinelli: la geografia affascina perché è la descrizione della Terra, ma che rapporto c’è tra la Terra descritta dalla geografia e quella che abitiamo (sfera irriducibile alla forma piana)? La geografia riduce a discorso le relazioni storiche/sociali/economiche che animano il mondo, ma è difficile stabilire cosa sia la Terra stessa (cosa resta quando viene ridotta a rappresentazione geografica). Dal punto di vista ontologico esistono infinite geog. con cui si è attuato il rapporto tra esseri viventi e altri elementi (relazione socio-naturale), ma ne esistono anche in senso epistemologico (interpretazione e descrizione di relazioni socio-naturali). La geog. ha quindi un compito di disciplina scientifica: analisi e discorso di forme e fenomeni che riguardano la vita sociale in relazione alla vita organica; le sue narrazioni sono sempre situate nel tempo e nello spazio. Non si tratta quindi di una scienza esatta, ma una forma di conoscenza costruita attorno a prospettive concettuali associate al soggetto che le produce, le quali si traducono in metafore geografiche (Dematteis) o modelli del mondo (Farinelli) per offrire un’interpretazione del mondo. La disciplina ha però dati comuni per quanto riguarda l’espressione, ovvero l’elaborazione di teorie/rappresentazioni spaziali che riproducono la base materiale del mondo in cui viviamo (es. luogo, paesaggio, regione – hanno a che fare col modo in cui pensiamo lo spazio). Da sempre la geog. produce rappresentazioni spaziali che cercano di ordinare una massa di informazioni, esperienze e cambiamenti, ma non propone soluzioni definitive (no spiegazione oggettiva della Terra, ma descrizione plausibile bastata su esperienza). È quindi una strategia di traduzione del mondo che risulta nell’appropriazione semantica ed effettuale; la presunta neutralità delle descrizioni geografiche maschera l’appropriazione del mondo da parte degli esseri umani: ogni appropriazione di spazio ha una sua geografia (Dematteis: geog. è descrizione di appropriazione avvenuta o in corso). Dalla loro comparsa sulla Terra, gli esseri umani hanno instaurato un rapporto con lo spazio fatto di percezione/elaborazione della realtà: la cartografia (come la geog. come scienza) nasce per organizzare questi atti in una forma di semantica della Terra; la sua origine risale alla Preistoria (prima della scrittura), epoca in cui si collocano disegni di oggetti in relazione con lo spazio (es. petroglifi della Val Canonica riproducono mappa di un insediamento con definizione di perimetro di campi/recinti per animali → disegnate forme spaziali in relazione con esseri viventi, trasmettono informazioni su spazio organizzato dall’azione territoriale); alle origini, la riduzione del mondo alla sua rappresentazione è quindi l’unico modo per comprenderlo. La rappresentazione dello spazio terrestre: carta e regione cartografica Le carte geografiche sono la rappresentazione del mondo più familiare fin dalla scuola, in cui si viene educati a pensare il mondo cartograficamente, attraverso la mediazione di carte che forniscono una rappresentazione scientifica (= vera) del mondo; in realtà, la carta è solo una delle possibili scritture. Secondo Farinelli, la prima rappresentazione razionale dello spazio coincide con l’affermazione del modello democratico urbano greco (Anassimandro cercava di rappresentare la Terra secondo proprietà geometriche, tentando di offrire riflessione oggettiva sul mondo): la nascita della cartografia coincide quindi con quella della filosofia occidentale, in cui la polis ha ruolo fondamentale. La carta di Anassimandro sarà fondamentale durante le Guerre Persiane per giustificare le argomentazioni geopolitiche: idea del territorio come oggetto di appropriazione e dominazione politico-militare. Durante il rinascimento europeo, lo sviluppo della cartografia matematica perfezionerà il controllo del territorio: legame tra cartografia, sapere scientifico e processi politico-economici; questi sviluppi si fondano sulla riscoperta della figura di Tolomeo (II sec.), che elabora il volume “Geografia” (testo + carte) tentando di ricomporre il sapere e sviluppare un modello grafico e matematico del mondo. In questa geog. tolemaica, la carta diventa immagine della Terra e inventario per censire le conoscenze sul mondo (elenco di località con coordinate geografiche basate su meridiani e paralleli); attraverso le proiezioni si cerca inoltre di ridurre la tridimensionalità del globo in piano per trasformarlo in carta. Il modello tolemaico sarà considerato valido fino alla riv. scientifica (inattendibile dal punto di vista economico) ma è fondamento della cartografia quattrocentesca. Questo periodo è infatti un’epoca di spaesamento nelle rappresentazioni del mondo: la percezione di terra abitata (ecumene) come circondata da una grande distesa d’acqua (visione simbolico-religiosa) cambierà alla fine del ‘400 grazie alle esplorazioni e la scoperta dell’America, che mostrano che esiste più terra di quanto si pensasse; inoltre, dal ‘200 le carte nautiche aiutavano nella localizzazione di porti per il commercio e le rotte da seguire. Alla riscoperta di Tolomeo si lega anche la prospettiva lineare, sviluppata da Brunelleschi e Alberti a Firenze nella prima metà del ‘400, che dipende dalla “Geografia” in quanto si tratterebbe del ribaltamento in orizzontale della proiezione tolemaica (vale lo stesso per la prospettiva): si tratta di procedimenti di tipo matematico-geometrico sul piano di qualcosa che ha 3 dimensioni e prevedono un soggetto immobile (si basano sulla visione). Dal punto di vista geografico, la prospettiva è all’origine della triangolazione (Alberti), che permette di calcolare l’esatta distanza tra i punti che costituiscono i vertici di un immaginario triangolo tramite l’utilizzo del cerchio azimutale: per la prima volta è possibile calcolare distanze reali sul territorio e quindi la posizione relativa di diversi oggetti geografici per rappresentarli con un rapporto esatto secondo una scala prestabilita. Ciò darà origine ad una nuova geografia europea, funzionale ai viaggi di esplorazione/colonizzazione, e alla creazione del moderno stato territoriale. Perché accade questo? Nel XVI sec. nasce l’atlante, un insieme ordinato di mappe del mondo → Magini, “Italia”: comparazione di diverse geografie regionali in un insieme razionale che vuole oggettivare l’idea di Italia come ‘contenitore territoriale’ ed esito del processo scientifico di raccolta dati e restituzione in forma grafica; lo spazio astratto italiano viene quindi trasformato in territorio, assecondando la nascita dello stato territoriale, soggetto politico-geografico che lega sovranità al controllo del territorio, per cui necessita di controllarne contenuto e confini. La prima idea di atlante prende inoltre forma anche nelle sale del potere – Sala delle Carte Geografiche di Palazzo Vecchio a Firenze, ma anche al Vaticano (galleria delle carte geografiche); ciò svela ancora il rapporto tra rappresentazione cartografica e potere, poiché le mappe impongono un determinato ordine al mondo. Gli atlanti di questo periodo rispondono alla nuova visione del mondo basata su modernità europea, che si prepara a organizzare un nuovo sistema di conoscenza da cui scaturirà la riv. scientifica e che diffonderà la propria cultura/sistemi di dominio attraverso la colonizzazione. Fra ‘500-‘600 il centro della produzione di mappe/atlanti si sposta da Italia a Europa nord-occidentale (cartografia olandese), dove viene adottato il metodo della triangolazione per realizzare mappe corografiche e rappresentazioni dell’intera superficie terrestre. Nel 1569, il cartografo Kremer (noto come Mercatore) stampa carte nautiche in cui utilizza un nuovo sistema di proiezione utile alla rappresentazione, oggi uno dei più diffusi; a lui si deve anche il primo utilizzo del termine ‘atlante’. La diffusione della cartografia olandese è legata all’espansione commerciale dei porti della zona (Amsterdam, Bruges, Anversa), che necessitano di carte per organizzare i propri traffici e portano nuove informazioni raccolte da tutto il mondo attraverso viaggi/esplorazioni. Concorrente di Mercatore è Ortelius, autore del “Theatrum Orbis Terrarum” (1570) che impiega dati aggiornati ed è all’origine del prestigio della cartografia olandese; il titolo dell’atlante evidenzia il ruolo fondamentale della cartografia nella costruzione della modernità europea, fondata sul primato della vista e la capacità di oggettivare la natura del mondo: il soggetto, immobile e a distanza, guarda la rappresentazione del mondo su tavola come uno spettatore a teatro (Farinelli), cosa che identifica la modernità come epoca della spettacolarizzazione del mondo (mondo come esibizione). Lo sviluppo della cartografia olandese fa emergere ancora una volta il legame tra cartografia, arte e potere: Amsterdam conosce un periodo di grande ricchezza legata al commercio e sviluppa una cultura volta alla ricerca di ‘realismo’ (già sperimentata da pittura fiamminga): è importante in questo senso la visione della cultura calvinista, che promuove una visione di società basata sul lavoro in funzione dello sviluppo capitalistico, che favorisce quindi commercio e attività economiche, ma anche la necessità di conoscere il territorio nei suoi dettagli. Dopo la pace di Vestfalia (1648), il potere politico in Europa si struttura con un’articolazione statale fondata su amministrazione articolata e capillare di controllo del territorio a fini tributari/militari: si l’indagine scientifica. L’iconografia ha infatti un ruolo fondamentale, soprattutto la cartografia. La sintesi di questa riflessione si trova nell’ultima opera, “Kosmos. Entwurf einer physischen Weltbeschreibung” (1845), in cui la riflessione a partire dall’esplorazione abbraccia tutti i campi del sapere geografico: il risultato è un equilibrio che governa fatti, forze e meccanismi che devono essere compresi tenendo conto della loro reciproca influenza per stabilire un principio nello studio della natura. Ciò si accompagna a un ideale di emancipazione dell’umanità influenzata dalle suggestioni politiche riformiste assorbite durante l’educazione: lo scopo è quello di produrre una forma di potere che determini una riv. culturale in grado di facilitare il progresso di popoli/culture. La sua ricerca è rilevante in termini di innovazione delle metodologie di ricerca sul campo e per la teorizzazione di un discorso scientifico che comprende varie branche del sapere, contribuendo al processo della conoscenza geografica. Inoltre, la dimensione politica della sua ricerca ha contribuito a codificare un orizzonte comune per la comprensione della cultura europea a confronto di quelle considerate ‘altre’; le sue osservazioni hanno sostenuto la cultura di viaggio e esplorazione dell’Ottocento, assecondando l’imperialismo europeo grazie alla riscrittura delle geog. del mondo basata sui rapporti socio-naturali. 3. Geografia e discorso scientifico La classificazione della natura: dalla rivoluzione scientifica alla nascita della geografia moderna La codificazione delle discipline scientifiche (emergere di forme di sapere) si lega al cristallizzarsi di un paradigma (modelli esplicativi inscritti nel discorso scientifico all’interno di un quadro teorico coerente e condiviso): il processo riguarda ogni forma di sapere codificato e istituzionalizzato e parte con l’individuazione di un oggetto di indagine di una specifica disciplina; un altro aspetto riguarda la definizione delle metodologie di analisi facendo riferimento alla comunità scientifica. Per la geog., questo avviene nel XIX sec., ma matura già a partire dalla riv. scientifica: fra XV e XVI sec. nasce una nuova consapevolezza della relazione socio-naturale a cui si lega l’idea della natura oggettivabile. Gli studi di Galileo e Cartesio aprono le porte ad una conoscenza sistematica del mondo naturale; in particolare, quest’ultimo identifica la natura come porzione di superficie terrestre che esiste al di fuori del soggetto e può essere rappresentata secondo criteri geometrici (modello razionale). Ciò permette di misurare il mondo e renderlo comprensibile attraverso l’approccio scientifico (es. diagramma cartesiano si basa su logica e funzionamento della carta geografica). Nel corso del ‘700, il pensiero illuminista impone idea di scienza obiettiva che sostiene l’emancipazione dell’umanità; Rousseau si pone per primo il problema del rapporto tra natura e uomo con un’idea negativa del progresso (ha prodotto una società dominata dal caos, contrapposto a natura ordinata): il punto fondamentale è l’identificazione della natura con l’equilibrio (ha l’oggettività di una legge). In seguito Kant (“Critica della ragion pura”, 1781) concepisce un essere umano sia padrone del suo destino che soggetto al principio di causalità: esso si trova così al di sopra della natura, di cui si forniscono le basi per una conoscenza critica (indaga i meccanismi); solo la mente umana può determinare le regole astratte che ne determinano il funzionamento (es. spazio, tempo). Gli esseri umani possono conoscere scientificamente la natura perché la impostano su forme cognitive che stanno nella loro mente; la descrizione del mondo come sistema deve cominciare dal globo (idea di insieme) e rapportarvisi sempre. Troviamo in seguito Humboldt con la sua idea di approccio comparativo per studiare la natura: è centrale l’idea di paesaggio, in cui si coniugano approccio oggettivo, visivo e descrittivo con narrazione letteraria, che è soggettiva. Ogni forma di sapere è infatti soggettiva poiché risulta da una visione del mondo storicamente/socialmente determinata: Humboldt vuole fornire alla borghesia emergente una forma di conoscenza che possa emanciparla dal sapere istituzionale in mano allo Stato assoluto. La geog. moderna nasce quindi come forma di critica politica. Ciò è marcato ancora di più da Carl Ritter, che nel XIX sec. riprende l’idea di geog. come scienza pura, in cui la contemplazione della natura determina una riflessione deterministica (dipende da leggi naturali), ma situata storicamente. All’interno della geog. si situano 2 componenti, una legata alla descrizione fisica della Terra e l’altra che esamina la Terra come base dell’esistenza e della storia (patria comune a tutta l’umanità). Secondo Ritter, ciò che possiamo conoscere dipende da quanto abbiamo acquisito sul piano storico: la descrizione del mondo perde quindi l’idea totalizzante (l’oggetto di studio è troppo grande rispetto all’uomo). Inoltre, viene criticata la rappresentazione cartografica come strumento di ricerca perché il suo valore è parziale in quanto l’unica idea di spazio è definita attraverso le distanze: queste però cambiano nel tempo e dipendono dall’osservatore (es. sono diminuite con l’aumento dei collegamenti tra i luoghi); Ritter ha quindi un’idea di spazio relativo nel corso del tempo. Quindi, nel XIX sec. la geog. scientifica si impone come riflessione storico-critica, come sapere relativo, ma nella seconda metà del sec. il pensiero di Humboldt e Ritter sarà superato dal pensiero positivista che propone una visione delle scienze geografiche funzionale all’uso politico della geog. da parte dello Stato. In ogni caso, le idee di Ritter sembrano anticipare quella di Lefebvre che nel ‘900 propone un’idea di spazio plasmato dalle relazioni umane, o della compressione spazio-temporale di Harvey (anni ’80). Evoluzionismo e positivismo scientifico: determinismo geografico e nascita dello Stato-nazione Nella seconda metà del XIX sec. si assiste alla riv. causata dalla teoria evoluzionistica di Darwin, che comporta cambiamenti nello studio del comportamento umano: i principi biologici vengono applicati alla prospettiva organicistica (biologia spiega il funzionamento della società). Il positivismo scientifico di questi anni cerca di applicare le metodologie scientifico-naturali ad ogni fenomeno storico-sociale: dominano statistica, cartografia e scienze della natura; da ciò consegue il fenomeno del determinismo geografico e la volontà di spiegare oggettivamente le relazioni tra uomo e ambiente. La geog. sembra quindi essere nuovamente una scienza oggettiva. Queste riflessioni maturano durante l’affermazione del modello statuale europeo contemporaneo, che porta a una nuova fase delle relazioni tra Stati: emergono nuove dinamiche di conflitto legate al rafforzamento dello spazio interno e all’espansione verso l’esterno; si tratta dell’età dell’imperialismo, che vede un’ulteriore espansione dell’influenza europea nel globo. La conoscenza oggettiva del globo viene quindi adottata per rendere la geografia uno strumento implicito della gestione dello Stato e legittimare l’espansione coloniale. La geog. diventa la scienza del come e del dove, che indaga gli oggetti secondo la morfologia terrestre e ne descrive la topografia (distribuzione nello spazio) attraverso la rappresentazione cartografica: scienza dell’oggetto (Schlüter), che vuole semplicemente descrivere i fenomeni, senza relazioni causali. In questo contesto emerge il paradigma determinista, legato a Ratzel: l’ambiente naturale condiziona e plasma l’azione umana; si afferma così l’idea di determinismo geografico e di spiegazione organicistica dei rapporti uomo-ambiente, che culminerà con l’idea di Lebensraum (spazio vitale), necessario ad ogni specie per sopravvivere e prosperare. Queste teorie porranno le basi per un approccio geografico-politico, che tenta di spiegare il funzionamento dello Stato inteso come organismo vivente (vedi Stato nazione e teorie geopolitiche). Le teorie spaziali di Ratzel si intersecheranno nel periodo tra le 2 guerre con l’idea di cultura associata ad un determinato suolo, quello tedesco, col concetto di Volks- und Kulturbodenforschung; questa geog. oggettiva è in realtà stata responsabile di una geog. politicizzata che ha sostenuto la ragion di stato. XX sec.: la Géographie humaine française, la rivoluzione quantitativa e il riemergere della teoria critica All’inizio del XX sec. alcuni assiomi del determinismo geografico vengono messi in discussione per una critica all’impianto positivista, a cui si contrappone il possibilismo: con “La terra e l’evoluzione umana” (1922), Febvre critica le idee di Ratzel sostenendo che la storia agisce in maniera sempre nuova, sfuggendo a leggi valide in ogni tempo; gli uomini possono quindi trasformare l’ambiente in maniera sempre nuova e non sulla base di principi oggettivi. L’opera di Febvre si colloca tra gli Annales (anni ’30), debitori al geografo Paul Vidal de la Blache, capostipite della geog. umana novecentesca: Vidal elabora il genre de vie, che definisce il modo in cui gli esseri umani modificano l’ambiente naturale; si tratta dell’agire umano sedimentato nel tempo dell’interazione tra ambiente e gruppi sociali. Questa concezione è alla base della geog. regionale, poiché si associava un certo genere di vita ad una regione intesa come spazio unitario. Le idee vidaliane hanno avuto un riflesso fondamentale anche per quanto riguarda la geog. nord-americana, in riferimento alla figura di Carl Sauer (Scuola di Berkley): a quest’ultimo si deve la sintesi tra l’idea di paesaggio e la geog. umana vidaliana, ottenuta scomponendo il paesaggio nelle sue componenti, indagate singolarmente per ottenere una descrizione degli elementi più significativi che permettono di tipizzare il paesaggio. Questo paesaggio è quindi statico, mentre le sue componenti vengono analizzate scientificamente; il metodo però non prende in considerazione la dimensione soggettiva, che è implicata nella selezione degli oggetti presi in esame. La cultura umana è quindi ‘materializzata’, cioè limitata alle sue componenti rappresentabili attraverso la cartografia: ciò determina una visione statica/descrittiva dell’analisi geografica, privata di riferimenti politico-sociali. Come reazione a questo tipo di geog. descrittiva emerge una svolta paradigmatica positivista, con l’apparizione delle prime riflessioni teorico-matematiche sui modelli spaziali, che si diffonderà nel secondo dopoguerra: la riv. quantitativa (tentativo di ridurre la geog. a una scienza esatta partendo da uno spazio di tipo geometrico-matematico che condiziona il contesto e le azioni degli individui al suo interno). Ne è un esempio la teoria delle località centrali (Walter Christaller, 1933), che analizza lo spazio dei centri abitati allo scopo di individuare leggi che spieghino la distribuzione di città/villaggi in un dato territorio: i centri abitati si distribuiscono in base alla loro capacità di offrire beni/servizi, che si collega al meccanismo di domanda e offerta. A seconda del valore del servizio offerto, gli individui sono disposti a compiere una certa distanza, che determina una gerarchia degli insediamenti in base alla loro offerta: le località centrali presentano l’offerta più ampia dal pov qualitativo/quantitativo, e a distanza regolare si collocano i centri gerarchicamente inferiori seguendo un modello che ricorda le celle di un alveare. La geog. quantitativa attrae molto perché spiega i meccanismi delle relazioni economico-sociali, ma anche perché la sua evoluzione si può prevedere, applicandola a pianificazione e sviluppo economico. Questo tipo di ricerche si impongono negli anni ’50-’60 grazie ai sistemi di calcolo elettronici che studiano le proprietà astratte dei fenomeni geografici in termini matematici, costruendo le geometrie della loro distribuzione nello spazio: lo spazio e gli oggetti geografici al suo interno sono ridotti a una rappresentazione geometrica, che vuole far rientrare la geog. tra le scienze matematiche (volontà di spiegare il mondo attraverso leggi razionali). C’è però un limite: si può rappresentare solo ciò che è riducibile in termini matematici. Rigettando questi modelli quantitativi, negli anni ’60-’70 emergono nuove riflessioni sullo spazio, come quella di Lefebvre (spazio relativo plasmato da relazioni sociali e influenzato dalla politica), ma anche in ambito anglosassone, di tipo umanistico e marxista (Tuan, Harvey) che criticano i paradigmi dominanti dando enfasi alla dimensione emozionale e socio-politica. Negli ultimi decenni del sec. si mettono in discussione le presunte verità assolute veicolate da testi e rappresentazioni. È di particolare rilievo l’analisi di Foucault nei confronti dei dispositivi di potere e dei loro riflessi nella costruzione sociale dello spazio; la sua analisi riguarda inoltre una critica all’idea di sapere scientifico obiettivo e neutrale. Un altro contributo viene dai Cultural Studies e Postcolonial Studies (anni ’80) e riguarda il loro ripensamento della metafisica della rappresentazione (rapporto tra rappresentazione e la loro pretesa di descrivere il mondo reale): questa crisi della rappresentazione mette in discussione numerose dicotomie proprie della geog. moderna (es. uomo-donna), ulteriormente decostruite dalla critical geopolitics, le geog. post-coloniali e la geog. femminista/di genere. Tutto ciò dimostra che non esiste solo una geografia, ma molte possibili. I concetti chiave della geografia 1. Lo spazio geografico La geografia e lo spazio geografico Dematteis → La geog. è la scrittura spesso geometrica della Terra, include la descrizione dello spazio e ci dà sicurezza: quindi, non è inutile, ma neanche innocente, in quanto si tratta di una consolazione offerta dal potere in cambio della sottomissione, è cioè compromessa col potere, ma per quale motivo? Perché la geog. descrive il mondo oggettivamente (e quindi ideologicamente), diventando un sapere strategico (sapere/ potere) di cui chi comanda vuole assicurarsi il controllo, poiché essa naturalizza il potere (diventa uguale alle cose) e normalizza le cose (diventano uguali al potere). Si normalizza così lo spazio terrestre, che diventa sostegno materiale del potere, che viene legittimato, e dà sicurezza dovuta alla sottomissione. Come si realizza questo meccanismo? disordine, si ostruiscono le nazioni e si giustificano le guerre. Tra lo spazio geometrico della carta e quello geografico si crea una dimensione ‘terza’, esterna, in cui si colloca chi gestisce il potere quando decide di cambiare la misura del mondo. Dematteis: la geog. ‘normale’ è come un lago immobile in cui si riflette un’immagine del mondo tranquilla, ed è in questa immobilità che si trova il potere delle rappresentazioni: chi legge la carta occupa una sola posizione, mentre gli oggetti osservati sono congelati in un mondo di linee e punti. In effetti, chi ha la vera sovranità può entrare e uscire dalla carta a piacimento, non conosce misura perché è esso stesso la misura del mondo; in questo limbo si produce la politica e la sua spazializzazione. Questo rapporto tra spazio e potere pervade tutte le manifestazioni del sociale, ma anche la vita privata. 2. Il luogo Sul concetto di luogo Il mondo che ci circonda è composto da luoghi: il luogo è lo spazio di affetti, memoria, appartenenza, esperienza di tutti i giorni; per questo motivo, il luogo non ha una dimensione prefissata, e il modo in cui lo sperimentiamo pare in tensione con le varie concettualizzazioni di spazio. Al luogo si assegnano valori politici/culturali, che molti ritengono si debbano conservare, e spesso è principio di inclusione/esclusione come serbatoio di memoria e identità; si tratta di un concetto così potente perché non si piega alle categorie in quanto muta continuamente, essendo soggettivo. Negli ultimi anni si parla anche di ‘nonluoghi’: Marc Augé definisce prima il ‘luogo antropologico’ (delimitazione sociale del suolo che organizza la geografia economica/sociale di un gruppo, a cui fanno riferimento coloro ai quali si assegna un posto, in pratica è parte costitutiva del discorso identitario con cui una comunità si riconosce); al contrario, un nonluogo è uno spazio che non può definirsi né identitario, né relazionale, né storico (es. aeroporti, autogrill, villaggi turistici… che di fatto non sono abitati da nessuno). Questo dimostra che ancora oggi il concetto di luogo è fondamentale nel dibattito politico/culturale, e vanta una lunghissima tradizione, basti pensare che Vidal de la Blache definisce la geog. la ‘scienza dei luoghi’; inoltre, il concetto è utilizzato anche in numerose altre discipline. L’interesse per esperienza e pratica del luogo è il frutto della geog. umana, che approfondisce il concetto di luogo e lo utilizza come strumento interpretativo delle nostre pratiche spaziali; in pratica, i luoghi rivelano un modo di intendere il nostro posto nel mondo. Il significato che ognuno assegna ai luoghi rivela una relazione con quello che riconosciamo come lo spazio della nostra esistenza. Tim Cresswell sostiene che la geog. debba offrire una lettura critica della percezione di luogo e pratiche spaziali, ma anche riflettere sul potere di un concetto interpretabile in molti modi, fondamentale per la definizione del Sé individuale/collettivo. In geog. infatti, il luogo è stato sempre interpretato a seconda del clima scientifico/culturale del momento, ed è stato fondamentale per la determinazione dei principi di identità/appartenenza. Il luogo è quindi un concetto instabile e complesso. Luogo, senso del luogo, assenza del luogo… Il concetto di luogo pone al centro della propria analisi il modo in cui gli individui dimostrano attaccamento o esprimono sentimenti nei confronti di particolari luoghi; la geog. umanistica paragona questo concetto con la sterilità della nozione di spazio positivista (geog. quantitativa), poiché la prima, al contrario, indaga la costruzione sociale e l’esperienza individuale di luoghi e paesaggi. Durante gli anni ’60 si assiste a un rinnovato interesse verso il concetto di luogo, stimolato da Tuan e Relph, che si espande fino agli anni ’70: l’interesse concerne tutti i campi della geog., inclusa quella politica, postmoderna. Un aspetto importante di questo approccio sta nell’enfasi posta sul costituirsi dei luoghi, concepiti come origine di processi politici, sociali e culturali; questi processi determinano una serie di pratiche spesso ‘ideologiche’ (legittimano/isolano una determinata struttura sociale). Bisogna prendere in considerazione il rapporto tra il luogo e i processi di inclusione/esclusione sociale che vi operano, comprese le forme di oppressione/ dominio basate su specifiche pratiche spaziali. La svolta umanistica Una svolta nella riflessione sul luogo avviene nell’ambito della geog. umanistica grazie a Tuan: prima il luogo era un oggetto da trattare in modo descrittivo, senza definizione teorica (nemmeno la Blache lo definisce): si trattava di una superficie terrestre con cui si identificava un gruppo di persone chiamato ‘comunità’ (la Blache), termine che però non viene spiegato; questa tradizione si basa su un rapporto ‘idiografico’ (privilegia analisi descrittiva e irripetibile unicità dei luoghi – tipico di geog. vidaliana), ma il luogo in sé non viene mai definito. Ci si trova quindi davanti a organismi territoriali chiamati ‘regioni’, unici e irripetibili, e composti a loro volta da luoghi. Nonostante la debolezza di questo impianto analitico, questa geog. pone al cuore dell’analisi il genre de vie, cioè il rapporto singolare che ciascuna comunità instaura con un determinato territorio; il luogo era quindi uno spazio indefinito ma che costituiva la base per le analisi regionali e la descrizione degli elementi culturali del territorio studiato. Questo approccio ha punti in comune con quello contemporaneo, che tratta il luogo come formazione geografica unica e specifica, non generalizzabile. Una simile concettualizzazione è stata adottata seguendo il filone di Carl Sauer, che affermava l’importanza dei fattori culturali nella costruzione dell’ambiente in cui viviamo: le cosiddette ‘aree culturali’ diventano così oggetto di analisi alla base della comprensione delle pratiche spaziali delle comunità. È tuttavia solo grazie al contributo di Tuan che il luogo viene concettualizzato e collocato al centro delle preoccupazioni teoriche/metodologiche della geog., dove rimane ancora oggi, forse anche come reazione all’analisi spaziale della geog. quantitativa (luogo tradotto in ‘localizzazione’ e basato sulla visione geometrica, la dimensione culturale è trattata come ‘funzione’, e quindi razionalmente). Tuan mette in discussione i principi epistemologici della spatial science ponendo attenzione sul soggetto e l’esperienza dei luoghi: egli spiega che il luogo è importante per la geog. perché investito di significati profondi che hanno a che fare col quotidiano e con le geog. personali di affetti/emozioni. Il luogo ha 2 componenti, ‘personalità’ (rende un luogo unico ed appartiene al posto stesso – umanizzazione) e ‘spirito’ (qualcosa che dimora nel luogo e gli conferisce sacralità); inoltre, ogni luogo è carico del sense of place, un forte attaccamento emotivo tipico degli esseri umani: si tratta di una percezione che deriva da tutti i 5 sensi, una conoscenza profonda. In seguito, ci si deve soffermare sulla ‘stabilità’ del luogo, separando la percezione del soggetto dal luogo stesso: secondo Tuan, un essere umano non può percepire un luogo che non sia stabile nella sua materialità e nei suoi significati, un vero luogo esiste indipendentemente da chi lo percepisce, in questo consiste la sua stabilità. Seguendo questa prospettiva, si propone la distinzione tra tipi di luoghi, ‘simboli pubblici’ o ‘campi emozionali’ (alcuni sono entrambi, altri solo uno): i simboli pubblici si riconoscono visivamente e sono oggetto di ammirazione, hanno un significato che va oltre il tempo; i campi emozionali sono spazi per cui si prova affetto, che sono riconosciuti ‘propri’ dalle persone, diventando un’estensione del Sé, ma possono scomparire quando le emozioni umane cambiano (tempo è componente fondamentale). I luoghi devono essere compresi come ‘piccoli mondi’ che sono ‘felt, lived, seen’ da chi vi si relaziona. La concezione di Tuan affonda le proprie radici nei legami umani e nelle emozioni, e deriva dal concetto di topophilia (Tuan), il legame emozionale tra persone e luogo. Un altro esponente della stagione umanistica, Relph, approfondisce filosoficamente questa definizione: è il luogo che determina l’esperienza di tutti gli esseri umani, e la loro coscienza si forma rispetto a un ‘dove; in pratica, gli esseri umani possono essere tali solo ‘in place’. Alla base di questa affermazione c’è l’idea di ‘essenza’, che rende i luoghi speciali e sta all’origine del ‘senso del luogo’. L’approccio fenomenologico è stato adottato anche da Edward Casey, che contraddice l’approccio illuminista che vede lo spazio come ‘universale’ e il luogo come ‘particolare’: al contrario, è il luogo che viene prima dello spazio; il modo in cui possiamo passare da spazio a luogo è attraverso i nostri lively bodies. Per Casey, luoghi e corpi si costituiscono a vicenda, così che non ci sono luoghi senza corpi né corpi senza i luoghi che abitano. Su questa idea di luogo lavora anche David Seamon, introducendo ciò che definisce ‘place ballet’ (deriva da fusione di ‘body ballet’ e ‘time-space routines’) e teorizzando il corpo come soggetto che conosce ‘attivamente’: la mobilità del corpo è parte integrante e costitutiva del luogo, e sono proprio queste performance corporee a trasmettere un senso del luogo profondo e durevole. Altre geografie del luogo Seamon presenta il luogo come un processo costituito da un complesso intreccio di elementi materiali (caratteristiche fisiche), rappresentazioni (modo in cui viene concepito) e azioni. In pratica, il luogo è lo spazio che ospita e produce una serie di performance quotidiane da parte di chi lo abita, e in base alle rappresentazioni che vi vengono proiettate cambia di significato. Si tratta quindi di una formazione geografica instabile e in continuo mutamento. A questa concezione ha contribuito Allan Pred, secondo cui il luogo deve essere concepito in continuo divenire, mai completo e mai stabile nel suo significato: questa lettura si ispira dalla structuration theory (Giddens), che esplora le relazioni tra le nostre azioni quotidiane e le sovrastrutture che influenzano la nostra vita. In generale, l’approccio fenomenologico della geog. umanistica viene criticato per la ‘rigidità’ con cui ha tentato di spiegare il luogo e le sue implicazioni nella vita di tutti i giorni. Le critiche provengono soprattutto dalla geog. marxista e femminista: in particolare, si mette in discussione la tendenza a presentare il luogo come essenziale, profondo e immutabile, visione caratterizzata da un latente conservatorismo che rischia di marginalizzare chi non appartiene a quei luoghi e che non coglie la portata politica della visione del luogo. Per esempio, la geog. femminista concepisce il luogo anche come prodotto sociale/culturale attorno a cui gravitano le battaglie di potere che hanno a che fare con l’inclusione/esclusione e con la questione di identità nella sua proiezione spaziale e territoriale. Secondo Gillian Rose, il concetto di ‘casa’ è spesso esito di una concezione maschilista che rifiuta di considerare come questa sia un luogo di violenza per molti. Per quanto riguarda la critica marxista, Harvey pone una particolare enfasi sulla dimensione politica/sociale dei luoghi e lo sviluppo dello spazio capitalista: esiste una continua tensione tra la crescente mobilità del capitale e la fissità dei luoghi, che devono adattarsi alle condizioni dell’economia globale e cercare di resistere ai processi di globalizzazione. La specificità del luogo viene quindi usata come forma di resistenza nei confronti di forze imperanti che guidano il capitalismo globale: si parla di militant particularism, che cerca di preservare nel luogo la dimensione locale e le caratteristiche identificate come autentiche di una certa comunità (desiderio di ritorno al locale, attaccamento all’idea di comunità e luogo che ruota intorno a idee romantiche di luogo come materializzazione di memoria storica collettiva selettiva). Per Harvey, questi ‘luoghi immaginari’ sono importanti in quanto ‘loci’ dove si mette in scena la resistenza contro la logica globale dell’accumulazione capitalista; il vero problema è che questo movimento di resistenza a capitalismo e costruzione di identità affonda le proprie radici nella ‘marginalizzazione dell’Altro’. La relazione tra luogo e globalizzazione è discussa anche da Doreen Massey, che ripensa al luogo secondo una prospettiva più ‘inclusiva e progressista’: invece di vederlo come rifugio dai cambiamenti, il luogo dovrebbe essere pensato come processo in continuo cambiamento. I luoghi sono infatti punti di intersezione di infinite interazioni sociali, le quali non sono mai fisse nello spazio e nel tempo: pertanto, nemmeno i luoghi sono statici. Inoltre, l’idea romantica di difesa del luogo implica il legame con una sola identità, che si scontra con il fatto che oggi i luoghi sono il risultato di una molteplicità di interazioni, e non possono quindi avere una sola ed esclusiva identità. Per questo motivo, il luogo è un processo, un evento attraversato da infinite negoziazioni: l’unità di un luogo per Massey è definita dalle sue interazioni, dal modo in cui le diverse identità e storie individuali si incrociano: perciò abbiamo bisogno di un ‘progressive sense of place’ che sappia concepire i luoghi come ‘aperti’. Questo intervento permette di pensare il luogo oltre i dualismi (es. locale/globale, soggettivo/oggettivo…): la riconcettualizzazione del luogo come evento evidenzia un crescente interesse dagli anni ’90 per le ‘geografie relazionali’, che studiano lo spazio come ‘formazione’ in costante divenire. Di queste fa parte la geog. non-rappresentazionale, che propone un’ontologia ‘piatta’ e orizzontale della realtà ponendo soggetto e oggetto sullo stesso piano ontologico: ogni oggetto ha pari dignità di esistenza ed è in relazione con gli altri non attraverso una gerarchia basata su una scala, ma tramite una rete relazionale orizzontale. A questo punto, il luogo non può più essere compreso come l’espressione di una relazione binaria tra soggetto e oggetto, ma come un intreccio di relazioni socio- materiali. Il dibattito viene perciò rifocalizzato sull’ecologia del luogo (Thrift): un esempio è il collettivo Common Worlds, che raccoglie progetti ispirati alla visione ecologica ‘più-che-umana’ del mondo (es. relazione dei bambini col mondo crea senso di co-appartenenza ai luoghi). In conclusione, il concetto di luogo non può essere ridotto a una singola definizione e vari aspetti vanno presi in considerazione nella sua trattazione. 3. Il paesaggio Il paesaggio riflette il sedimentarsi nel tempo del lungo lavorio umano sul territorio: si tratta quindi del prodotto dell’identità di un luogo, una fondamentale misura delle ‘qualità’ della terra. Come Farinelli precisa, il paesaggio indica al contempo un oggetto e la sua rappresentazione, ovvero le forme del territorio e il modo in cui si osservano nel loro insieme/divenire; per capire il paesaggio bisogna saperlo guardare per riconoscervi un senso dell’ordine. Lo studio del paesaggio ha una lunga tradizione nella geog. umana, ma va fatta una premessa: il concetto di paesaggio illude dell’oggettività, proprio come la mappa, mentre invece è fondamentale il punto di vista di chi l’osserva. passa cioè dalla sua trasformazione in spazio, nello spazio rettilineo delle carte; la ripetizione di uno stesso segmento lineare costituisce infatti un veicolo di omogeneità, che i moderni Stati proiettano materialmente sul suolo tracciando le vie di comunicazione. Così, lo Stato ‘arriva’ in tutte le aree incluse entro i suoi confini diffondendovi la propria geo-scrittura volta a creare un senso di uniformità territoriale. Per questo motivo, ‘il Moderno è la scala’, e quest’ultima esplicita come la carta sia un vero e proprio progetto sul mondo: in età moderna infatti, la scrittura su carta precede quella concreta sul suolo. Farinelli porta l’esempio del meridiano che passa per Parigi, tracciato tra ‘600 e ‘700, per calcolare il raggio della sfera terrestre: si tratta di una scrittura della Terra che diviene materiale/concreta. Un meridiano è parte integrante della struttura razionale che fonda lo spazio geografico della carta, una linea che organizza il territorio moderno; per la logica moderna, il mondo è la copia della carta (non il contrario). Secondo Smith, la carta geografica è un concetto che si riferisce alle dimensioni di spazi specifici (globo, nazione, città…): la scala ‘globale’ (riguarda tutto il mondo) si contrappone a quella ‘locale (città/quartiere): quindi, la scala consente di assumere un punto di vista specifico a partire da cui si può osservare un’area delimitata da confini politici/amministrativi. Questo concetto è stato rivoluzionato dalla geog. critica anglosassone (anni’80-’90), che mette in luce come si tratti di un prodotto sociale, che dipende cioè da specifici contesti sociali/storici. Il discorso cartografico e il quotidiano Accettando l’idea che la geog. sia una specifica lettura sociale/politica del mondo, allora le rappresentazioni rivelano il modello del mondo adottato da chi fa parte della realtà rappresentata. La carta è la più immediata di queste rappresentazioni, ma che cos’è? La risposta sembra ovvia perché abbiamo imparato a considerarla come uno sguardo ‘naturale’ e ‘corretto’ sul mondo, che viene insegnato dall’inizio della scuola perché ci spiega il nostro posto nel mondo in maniera accurata e scientifica (quindi vera); la carta viene quindi spesso percepita come il linguaggio della geografia. L’idea di modello accurato del mondo esiste dal XVII sec. con l’affermazione della precisione della carta topografica di la Blache: la cartografia scientifica doveva infatti produrre un modello razionale ‘corretto’ del territorio preso in considerazione partendo dal presupposto che gli oggetti rappresentati fossero reali e la loro esistenza oggettiva. L’idea sottesa alla cartografia scientifica è che il mondo possa essere tradotto in un linguaggio scientifico attraverso l’uso della matematica, quindi la misurazione, per produrre i ‘fatti’ cartografici: questi ‘fatti’ sono verificati grazie all’indagine scientifica (che quindi conferma sé stessa). Secondo Dematteis invece, l’ordine geo-grafico della cartografia è un sistema di coordinate estraneo alle cose rappresentate: le carte sono concepite solo seguendo una logica geometrica legata a una razionalità ‘interna’ alla carta stessa (non riguardano le caratteristiche intrinseche dei luoghi); tuttavia, con la geog. scientifica queste caratteristiche diventano le proprietà degli oggetti rappresentati nella carta. La carta diventa quindi un prodotto scientifico, la cui affidabilità riposa nella perfettibilità delle sue rappresentazioni, che portino all’obiettivo della creazione di una mappa che sia una rappresentazione identica della realtà (obiettivo perseguito dagli esperti di GIS – Geographical Information Systems – e da chi si occupa di remote sensing – immagini satellitari del pianeta); oggi tutte le carte sono valutate sulla base di standard scientifici di veridicità e accuratezza, mentre in passato si parlava anche di geog. propagandistica. Così come la scrittura della carta emana una precisa combinazione di espressioni politiche/culturali del potere, anche la sua ‘lettura’ è resa possibile da determinate condizioni culturali e storiche, quindi si deve inserire in una formazione discorsiva che assegna ai simboli/segni utilizzati un determinato significato. Per spiegare questo punto bisogna prendere in considerazione le carte cosmografiche del passato, caratterizzate dall’uso di simboli religiosi e allusioni allegoriche che parlano a un pubblico in grado di comprenderle, o le carte che evocano un’idea di unità attraverso la ‘sagoma’ del territorio rappresentato. La decostruzione della carta L’analisi dei rapporti tra spazio geografico e potere ha sempre fatto ampio uso di carte a sostegno delle proprie argomentazioni, dando però per scontato che le carte siano uno specchio della realtà: queste sono state infatti uno strumento fondamentale nella costruzione del moderno Stato nazione e del colonialismo europeo. Negli anni ’80, Harley apre la frontiera della decostruzione delle carte (anche se il processo era già stato iniziato da Farinelli), dimostrando come sia importante mettere in relazione la presunta autonomia della carta come modello di rappresentazione e modalità privilegiata di accesso alla realtà. La cartografia viene presentata come uno strumento (tecnico) di potere, parte integrante della visione del mondo dominante in Europa dal XVII sec.; il suo obiettivo è produrre un modello razionale corretto del territorio. Harley mette quindi in discussione il credo nella scientificità delle carte e la fiducia nel progresso lineare: tutte le mappe sono il prodotto di un rapporto tra potere e sapere, un modo di imporre un determinato ordine nel mondo e di controllarlo. In particolare, si sofferma su 2 regole non scritte sottese alla produzione cartografica, essenziali per il funzionamento delle carte come strumenti politici: - Etno-centrismo – si può identificare il contesto storico/sociale in cui una carta è stata prodotta individuandone il suo centro (es. scala Mercatore → eurocentrismo). - Regola dell’ordine sociale – ogni carta ha una gerarchia e una divisione che riflettono l’ordine sociale dominante e fanno apparire come naturale la struttura di potere egemonica nel contesto che ha prodotto la stessa rappresentazione. Le carte sono il prodotto di un insieme selezionato di presenze/assenze: i ‘silenzi cartografici’ (Harvey) riflettono un sistema di relazioni di potere e prodotti politici/ideologici: nelle carte prodotte dallo Stato, le assenze possono essere frutto di propaganda; la produzione e le ‘letture’ della carta sono quindi implicitamente politiche. Un aspetto fondamentale è l’uso esplicito (o implicito) della cartografia per acquisire potere come risultato dell’adozione della logica cartografica per rappresentare il mondo. A parte questo fattore, che ci spinge a considerare alcuni elementi piuttosto che altri (di tipo ‘esterno’), Harley si concentra su un fattore ‘interno’, il potere di disciplinare il mondo attraverso una sua specifica modalità descrittiva. Le carte producono una serie di ‘effetti’ sulla realtà che intendono rappresentare: normalizzano la complessa varietà di dei territori cartografati e producono un determinato ordine del mondo, che fanno apparire come ‘naturale’. Anche gli oggetti naturali acquistano un significato all’interno di una cornice interpretativa fatta di affermazioni e simboli all’interno di una formazione discorsiva (Foucault): ad esempio, noi accettiamo i confini come naturali nella loro imposizione della territorialità e dell’area in cui lo Stato esercita il proprio controllo; ma è proprio la carta a legittimarli. Le carte sono quindi una tecnologia di potere che produce astrazione, uniformità e ripetizione, fornendo una standardizzazione del mondo che ci induce a credere che possa essere ridotto a una misura unica. 2. La regione e il territorio Il concetto di regione Non si tratta di un concetto facilmente spiegabile, poiché vago e utilizzato con significati diversi in vari ambiti: si distinguono regioni istituzionali (sulla carta), fisiche, climatiche, culturali… Richard Hartshorne sosteneva (anni ’30) che la regione è uno spazio di specifica localizzazione che in qualche modo si distingue dagli altri spazi e si estende nella misura di questo suo distinguersi; oggi si intende infatti una qualsiasi partizione territoriale con determinate caratteristiche, caratterizzata da un solo elemento (es. lingua) o dalla combinazione di più criteri (es. regioni amministrative). Secondo Peter Haggett, ci troviamo spesso davanti a regioni a ‘caratteristica multipla’, in cui un fattore può prevalere sugli altri: la combinazione tra questi elementi conferisce alla regione istituzionale un potere straordinario, naturalizzato da esperienza scolastica: ci appropriamo così del concetto di regione inteso come entità ‘naturale’ presente sul territorio ‘a priori’ e di una particolare logica ad essa associata; ciò ci allontana spesso da qualsiasi prospettiva critica sul concetto stesso. La regione formale La regione si distingue quindi dall’esterno per una certa omogeneità interna: è la ‘forma’ (coerenza interna) a caratterizzarla, e per questo spesso in passato è stata definita ‘regione formale’. Le prime formulazioni di questa idea coincidono con l’identificazione delle partizioni regionali sulla base di caratteri fisico-naturali: nel 1752, Buache parla di regione naturale; la riflessione viene sviluppata in seguito attraverso la divisione scientifica della superficie terrestre in regioni naturali basate sulla morfologia. Tra ‘800 e ‘900, seguendo la concezione determinista, viene presentata come ‘unità naturale’ che plasma la vita umana e di cui si cerca di studiare l’anatomia. Nel ‘900 si pone più enfasi sull’azione umana, seguendo lo sviluppo tecnologico: la Blache fonda su questo concetto il suo ‘genre de vie’, unendo le caratteristiche fisiche di una regione alle pratiche condivise che la caratterizzano (culture); viene posta enfasi sull’azione umana e sulla capacità di modificare la natura e aumentare la differenziazione regionale. La regione diventa quindi una metafora per far convergere le 2 anime della geog. – fisica e umana –, ma anche uno strumento per giustificare il progetto coloniale francese. Il concetto di paesaggio viene poi ripreso e riformulato da ‘naturale’ a ‘umanizzato’: per Carl Sauer, si tratta di un concetto materiale che include elementi naturali e forme imposte dalle attività umane; questi rappresentano i segni visibili della presenza umana. Tali ‘segni’ di cultura e territorio devono essere cartografati per essere compresi: il paesaggio diventa quindi la ‘fisionomia’ di una regione. Tuttavia, questa visione causa problemi, perché paesaggi simili potrebbero trovarsi in aree completamente diverse: vengono quindi utilizzati termini molto vaghi (es. microregione, subregione, zona). La regione funzionale Tra gli anni ’50 e ’60, la ‘rivoluzione quantitativa’ denuncia la staticità del quadro regionale ‘classico’: vengono proposti nuovi modelli, influenzati dal potere accentrato esercitato dai poli industriali; questi si basano su criteri di ‘attrazione’ ‘connessione’ e ‘coesione’ esercitati dall’azione coordinatrice di un centro urbano. È quindi lo sviluppo economico a produrre una gerarchia di spazi organizzati: di conseguenza, la regione esiste in relazione alle funzioni esercitate da tali centri di attrazione, e prende il nome di funzionale. Il suo polo produttivo è l’industria motrice (influenza l’organizzazione del territorio determinando l’evoluzione della regione), che, secondo Vallega, attrae processi collocati sia a monte che a valle del processo produttivo, ma anche ‘lateralmente’ (es. banche); inoltre, possono essere attratti nel polo anche servizi non essenziali ma che usufruiscono dei servizi già esistenti. Dal Secondo Dopoguerra si tende a studiarla come base di relazioni e processi, traducendola in espressione di flussi, vettori e formule impiegati dalla fisica; emerge inoltre una scienza regionale, vicina al pensiero economico mainstream. La regione funzionale è quindi un insieme di relazioni e processi. La regione sistemica Il distacco tra scienza regionale e realtà rivela un’incompatibilità della regione funzionale all’interno di un contesto non quantitativo: per questo motivo, negli anni ’80 viene definito l’approccio sistemico, che si basa su una struttura in movimento e orientata su un traguardo; il processo è quindi il principale oggetto di ricerca. Vengono quindi considerate le relazioni nel loro divenire, interpretandole diacronicamente; inoltre, considerandola un sistema aperto, si può studiare il suo rapporto con l’esterno (‘grado di apertura’), ad esempio il turismo. Questo approccio consente di lavorare su piano multiscalare: le regioni non si possono considerare come isolate, ma come parte di un sistema più grande e in continua relazione con esso; tutti questi livelli agiscono sul sistema territoriale di partenza, incrementando/riducendo la sua complessità. Ragione cartografica, regione e potere Sembrerebbe quindi che la regione non sia un dato oggettivo, ma piuttosto un’invenzione concettuale, ma è vero? Innanzitutto, la ‘regionalizzazione’ ci aiuta ad appropriarci del territorio e di una serie di concetti astratti, che ci rassicurano nella loro immobilità: ciò ci rende vittime, secondo Dematteis, del determinismo geografico, che non è altro che un codice delle nostre rappresentazioni e processi cognitivi; spesso questo processo ci ingabbia nella prigione della lingua all’interno di uno specifico modo di vedere. Nella divisione regionale della carta troviamo quindi ordine e coerenza, che vorremmo trasportati nella realtà: la scomposizione in regioni serve quindi ad impadronirci ‘razionalmente’ di un territorio e dominarlo in modo per noi intelligibile. La divisione in regioni non è tuttavia solo astratta: etimologicamente deriva da ‘regir’ (governare), ma il termine latino ‘regio’ si riferiva secondo Vallega alle linee tracciate dagli auguri in cielo per suddividere le parti di territorio. Linee e potere si sposano infatti con la tradizione cartografica: tracciando una linea di confine modifichiamo infatti la realtà, e spesso sono i governi a tracciare i ‘confini formali’ all’interno del territorio; spesso chi pratica la geog. utilizza queste partizioni come unità-base per le ricerche, poiché si tratta di entità amministrative che possono offrire dati affidabili. In ogni caso, la regione come concetto non è neutrale, e ponendoci in relazione ad essa la spogliamo ulteriormente della sua presunta ‘neutralità’ nel momento in cui la distinguiamo dal territorio circostante attribuendole dei confini e un nome (processo politico): ne vediamo un esempio nella regionalizzazione in Francia come forma di protesta contro la centralizzazione politica da parte di Parigi. La regione assume quindi il ruolo di strumento per la salvaguardia delle specificità locali da preservare, ma anche di strumento di controllo sul territorio da parte del governo, facendosi garante dell’unità nazionale (Claval). 3. Lo stato nazione causato arretratezza nei Paesi del Sud Globale (prende in considerazione l’esempio di America Latina, caratterizzata da dipendenza economica e mancanza di classe media che possa sostenere la produzione). Inoltre, la divisione internazionale del lavoro priva le regioni periferiche della loro ricchezza (modello centro-periferia di Wallerstein). Alcuni teorici della dipendenza cercano di individuare vie di uscita dal sottosviluppo, ad esempio, Amin propone la ‘teoria del delinking’, l’idea di interrompere ogni rapporto economico con i Paesi ‘centrali’ dell’economia mondiale, facendo solo affidamento sui propri mezzi. Negli anni ’80-90 si riaffermano le teorie economiche neoclassiche di stampo neoliberista, che propongono un modello di crescita economica basato sul libero mercato: sono stati così concessi prestiti a Paesi in via di sviluppo. Durante gli anni ’90 si assiste alla denuncia dell’incapacità delle teorie mainstream e al tentativo di trovare soluzioni concrete dando voce a temi quali il ruolo di società civile e ONG nel sostenere le economie locali e in relazione al potenziale di politiche in grado di valorizzare sviluppo ‘dal basso’; viene inoltre promossa nell’ambito delle politiche mainstream il concetto di sviluppo sostenibile, che domina le interpretazioni istituzionali dello sviluppo diventando oggi il più comune approccio alla governance globale. Governance globale dell’ambiente e geografia Negli anni 80 si afferma la prospettiva della geog. critica radicale sulle relazioni socio-ambientali, ma anche una frammentazione delle rivendicazioni dei movimenti sociali/ambientali e la loro istituzionalizzazione; inoltre, il pensiero politico istituzionale sull’ambiente viene influenzato dal ruolo di mercato e attori privati. Questo cambiamento di prospettiva si ispira alla Modernizzazione Ecologica, che si sviluppa come quadro teorico socio-economico globale per sostenere una svolta nelle politiche ambientali: ciò ambisce a coniugare crescita economica e preservazione dell’ambiente al fine di intraprendere uno sviluppo sostenibile. Lo sviluppo sostenibile fa quindi emergere una nuova governance globale dell’ambiente, cioè un nuovo quadro politico-istituzionale orientato a ridurre la povertà e sostenere la protezione ambientale attraverso i principi di crescita sostenibile. Questo nuovo assetto è contraddistinto da una prospettiva transnazionale nei confronti delle problematiche ambientali e una riconfigurazione di ruoli e relazioni di potere orientata verso riduzione dell’intervento pubblico e liberalizzazione. Si tratta di una svolta pragmatica nell’interpretazione delle relazioni socio-ambientali e del rapporto capitalismo-ambiente-sviluppo; queste riflessioni mettono in luce le contraddizioni in un’idea di crescita economica senza limiti basata sullo sfruttamento di risorse. Dagli anni ’80 le Nazioni Unite fanno propria la causa dello sviluppo sostenibile e hanno una commissione che si occupa delle problematiche inerenti; nel rapporto “Our Common Future” (1987) vengono delineati i 3 principi chiave dello sviluppo sostenibile: integrità dell’ecosistema (uso sostenibile di risorse naturali), efficienza dell’economia (massimo profitto con minimizzazione di risorse), equità sociale (diritto di tutti a partecipare allo sviluppo). Il rapporto delinea anche 3 difficoltà: crescita demografica incontrollata dei paesi a basso reddito, dipendenza da combustibili fossili e mancanza di partnership globale; l’ambiente diventa così una voce fondamentale nelle politiche di sviluppo. Lo sviluppo viene infatti associato d’ora in poi al miglioramento qualitativo del tenore di vita: dal 1990 le Nazioni Unite redigono annualmente l’Human Developement Report, il cui indicatore principale è Indice di Sviluppo Umano, in cui si evidenzia come il benessere non dipenda solo dalla crescita economica ma anche da aspetti sociali. Il concetto di sviluppo sostenibile diventa dominante nel dibattito politico internazionale e istituzionalizzato nel 1992 durante il Summit per la Terra di Rio de Janeiro; nei vertici mondiali sullo sviluppo sostenibile (10 e 20 anni dopo) si è però constatata la persistenza di problemi economici e socio- ambientali, nonostante l’impegno globale, ad esempio con la Dichiarazione del Millennio (2000), che fissava gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, poi ripresi nel 2015 con scadenza 2030. 2. I cambiamenti climatici: un fenomeno trans-scalare Il cambiamento climatico L’impatto dell’inquinamento atmosferico sul clima globale è diverso a seconda delle regioni, e comprende numerosi aspetti non studiati a livello mediatico. Sciogliendo i ghiacci, l’aumento della temperatura diminuisce le superfici bianche capaci di riflettere le radiazioni infrarosse responsabili dell’aumento di temperatura globale, alimentando una spirale che porta all’innalzamento del mare; inoltre, l’immissione di acque dolci potrebbe modificare la circolazione della Corrente del Golfo, influenzando il clima globale di cui è regolatore; si prevede anche l’aumento di precipitazioni in alcune zone e la desertificazione di altre. Anche se ancora questi fenomeni non si possono osservare, si assiste già al manifestarsi di problemi legati all’innalzamento di temperatura, come l’inasprimento della siccità in alcune aree, con conseguenze sull’agricoltura, fatto che incide anche sulle migrazioni. Vista la questione complicata, spesso si parla quindi di cambiamenti climatici al plurale, e vengono identificati dei Climate Hotspots, luoghi particolarmente vulnerabili ai mutamenti climatici. Ma quali sono le cause? Le cause vanno rintracciate nell’aumento di concentrazione dei gas serra nell’atmosfera derivanti dai processi antropici che hanno caratterizzato le economie degli ultimi secoli; questi gas sono presenti in quantità minime nell’atmosfera, ma servono a trattenere il calore del Sole sulla Terra, garantendo così una temperatura superiore, che ha consentito alla vita di svilupparsi. L’aumento di concentrazione è dovuto all’uso di combustibili fossili e a pratiche di deforestazione/degrado ambientale; questi 2 fenomeni sono il risultato dello sfruttamento insostenibile delle risorse naturali, che produce ricadute su chi dipende da queste risorse; il degrado ambientale colpisce soprattutto poveri, donne e giovani. La deforestazione assume un ruolo rilevante con il suo contributo ai cambiamenti climatici, poiché riduce la capacità di assorbire CO2 ed è responsabile della diminuzione della biodiversità; come conseguenza, dal 1880 la temperatura media globale è aumentata di 1° C. Per rischio climatico si intende la possibilità che ci siano conseguenze avverse a beni/oggetti, derivanti da eventi connessi col clima; il rischio è una variabile che dipende dalla condizione sociale dei diversi gruppi/ individui e dal contesto naturale in cui vivono. La ‘vulnerabilità’ è la propensione a subire conseguenze negative, mentre la ‘resilienza’ indica la capacità di un gruppo sociale a rispondere a un evento rischioso mantenendo invariate le proprie funzioni (maggiore è resilienza, minore è vulnerabilità). Questi 2 fattori enfatizzano le differenze globali creando una distribuzione squilibrata di responsabilità/impatti territoriali: i paesi del Sud Globale hanno contribuito in maniera minore ma saranno tra i più colpiti dalle conseguenze dei cambiamenti climatici. Ciò introduce il tema della climate (in)justice. Politiche e governance globale del clima Il riconoscimento dei cambiamenti climatici da parte delle istituzioni sovranazionali ha dato origine alla nuova politica globale di ‘governance climatica’, il cui inizio risale a Rio 1992; nel 1997 viene firmata la Convenzione COP3 (Conference of Parties) a Kyoto con l’obiettivo di ridurre le emissioni di gas serra del 5% entro il 2012. L’accordo si basa sui principi di ‘Responsabilità comuni ma differenziate’ (lotta contro il cambiamento climatico condotta in maniera proporzionale alla responsabilità nel generare inquinamento), ‘Precauzione’ (prudenza di fronte a ciò di cui non si conoscono conseguenze), ‘Cooperazione tra le Parti’; questa collaborazione vede la divisione dei Paesi membri in 3 categorie, ognuna delle quali ha diverse responsabilità. La scelta delle strategie con cui realizzare gli obiettivi mostra l’influenza neoliberista: ad esempio, si può ridurre l’emissione anche aumentando l’assorbimento di CO2 attraverso l’utilizzo dei carbon sinks, oppure si commerciano le quote di carbonio emesse non utilizzate (Carbon trading). In pratica, la sostenibilità finanziaria è diventata l’elemento caratterizzante della governance climatica dopo Kyoto, e le COP successive faticano a trovare accordi riguardanti le riduzioni di emissioni. Altre criticità riguardano le verifiche dell’avanzamento degli impegni, fatte dagli Stati stessi e a cadenza quinquennale. La governance climatica globale non si è focalizzata solo sul mitigare le cause, ma anche sull’avviare forme di adattamento climatico: qualunque forma di adattamento è una questione di governance, in quanto implica azioni in risposta alla crisi ambientale. 3. La crisi ambientale e climatica tra Antropocene e Capitalocene In seguito alla COP21 e alle rivendicazioni per la giustizia ambientale e climatica è cresciuta la sensibilità e consapevolezza a livello pubblico nei confronti della crisi ambientale-climatica globale; si sottolinea come l’umanità sia entrata nell’Antropocene, era geologica determinata dall’impatto umano sulla Terra e caratterizzata dal rischio di eventi estremi. La sua teorizzazione però risale agli anni ’90: Paul Crutzen e Eugene Stoermer avanzano il concetto di Antropocene come era geologica successiva all’Olocene che vede l’Anthropos come motore di trasformazione geologica; nel 2009 nasce l’Anthropocene Working Group per riflettere sulla sua storia geologica e le conseguenze. In merito alla datazione di ingresso in questa fase ci sono prospettive eterogenee che variano dalla riv. industriale all’inizio del ‘900. La critica geografica si focalizza però sul fatto che serva un’analisi più approfondita poiché la responsabilità non deriva genericamente dall’Anthropos, ma vanno analizzate le diversità socio-politiche su scala globale. Noel Castree evidenzia la necessità di riflettere sull’aspetto politico dell’Antropocene e di come abbia neutralizzato le responsabilità della crisi; Ernstson e Swyngedouw, parallelamente, indicano l’adozione dell’Antropocene come una strategia di depoliticizzazione della crisi. Un’analisi critica del concetto è stata avanzata nel campo dell’ecologia politica a partire dal contributo di Jason Moore, che riflette sulla sua etimologia (si riferisce all’umanità intera) e sui rapporti di dominio e subordinazione nella concezione ideologica della natura: si evidenzia così la natura capitalogenica della crisi ambientale e si concettualizza il Capitalocene: il capitalismo viene analizzato come sistema globale di interazioni tra accumulazione di capitale, rapporti di potere e produzione delle nature. 4. Il post-sviluppo Il pensiero post-sviluppo si sviluppa negli anni ’80, ma si consolida 10 anni più tardi; non si tratta solo di porsi in maniera critica rispetto all’approccio mainstream, ma contro lo sviluppo, rifiutandolo: l’approccio è da intendere come un insieme di idee di difficile categorizzazione. I tratti distintivi si possono così riassumere: atteggiamento critico nei confronti dello sviluppo e ciò che ha prodotto; tentativo di superarne la nozione stessa; constatazione che le teorie sullo sviluppo ne hanno aggravato le condizioni. Il problema sta proprio nel concetto, che ha dominato la mentalità europea dall’Illuminismo; secondo questa prospettiva, qualunque alternativa allo sviluppo deve passare per la decolonizzazione dell’immaginario occidentale. Tali osservazioni sono arricchite di un approccio eco-femminista, che mette in luce come il processo di greening messo in atto da diverse economie abbia accettato di venire a patti con le teorie mainstream e neoliberiste. Tuttavia, anche le teorie del post-sviluppo sono state criticate per la mancanza di azioni e idee concrete per risolvere i mali dello sviluppo; comunque, molte delle azioni proposte prevedono la valorizzazione di pratiche legate alle tradizioni locali con un ruolo chiave assegnato ai movimenti dal basso. 5. L’ecologia politica e la giustizia socio-ambientale L’ecologia politica è una prospettiva critica rivolta alle problematiche ambientali che emerge nel quadro delle scienze sociali di ispirazione marxista (anni ’70-’80) e si pone il fine di riconcettualizzare le relazioni socio-ambientali e riflettere sul rapporto tra capitalismo, gestione dell’ambiente e asimmetrie di potere. Si tratta di un terreno di ricerca eterogeneo con una base comune marxista e neo-marxista orientata alla critica della dominazione umana sulla natura; questa ecologia mira a politicizzare l’ecologia evidenziando il concetto di limiti alla crescita e la natura politica dell’inquinamento; si cerca inoltre di evidenziare il rapporto tra determinismo ambientale e colonialismo. L’ecologia politica ambisce quindi alla decolonizzazione del pensiero scientifico, evidenziando la natura trans-scalare e spaziale delle problematiche socio-ambientali, dando importanza alla ricerca sul campo. Infine, ci si concentra sull’emergere dei processi di estrattivismo in rapporto alle risorse e dinamiche di valorizzazione, accumulazione e mercificazione capitalista. Questi processi sono il punto chiave della riflessione di Gorz, che sottolinea le contraddizioni tra natura e processi capitalisti; Blaikie inoltre sottolinea la correlazione tra l’erosione dei suoli e determinate politiche economiche di ‘valorizzazione dell’ambiente’. La natura controversa di queste politiche è arricchita dall’apporto dei Critical Developement Studies proposta da Ferguson ed Escobar, che evidenziano il conflitto tra le politiche di sviluppo orientate alla valorizzazione dell’ambiente e i processi di rivendicazione socio-ambientale da parte di comunità locali. Il tema della neoliberalizzazione viene preso in considerazione da O’ Connor, che presenta il rapporto capitale-natura come contraddizione del capitalismo. A partire dagli anni ’00, l’ecologia politica ha influenzato il dibattito internazionale sulle relazioni socio- ambientali; oggi la sua prospettiva ruota intorno a 3 punti chiave: impegno teorico per l’avanzamento del pensiero critico, ricerca sociale partecipata e giustizia socio-ambientale e climatica. La riflessione sulla natura politica dell’ambiente si è anche ispirata alla prospettiva del metabolismo socio-ecologico, che evidenzia come la costruzione delle socio-nature non sia politicamente neutrale. Numerosi lavori in geog. si sono interrogati sulla governance ambientale come processo di depoliticizzazione dell’ambiente mettendo in discussione la natura controversa degli strumenti di partecipazione promossi dalle istituzioni. Isole urbane e fine della città: dalla gentrificazione alla gated community Il termine ‘gentrification’ è usato per la prima volta negli anni ’60 da Ruth Glass, e oggi spesso è utilizzato come sinonimo di rigenerazione, ma negli studi a proposito viene intesa come processo di ristrutturazione di porzioni della città già esistenti attraverso cui le classi lavoratrici vengono progressivamente sostituite da residenti di reddito medio/alto. La trasformazione del quartiere risulta nel miglioramento di edifici, infrastrutture e servizi, con conseguente aumento del valore immobiliare. Le cause della gentrificazione derivano dal cambiamento post-industriale degli anni ‘70: la perdita delle industrie ha comportato il declino demografico nei quartieri operai, con calo del valore immobiliare e tentativo di rendere i quartieri adatti a classi più agiate; ciò comporta un displacement, un allontanamento dei residenti che non riescono più a sostenere i costi della vita. All’inizio degli anni 2000, la quarta ondata di gentrificazione è stata caratterizzata dagli investimenti nel settore immobiliare, motivo di interesse per i ‘super ricchi’. Interi quartieri sono quindi stati trasformati per soddisfare le esigenze della service class, protagonista dello scenario post-fordista; sono le isole gentrificate a giocare un ruolo fondamentale nella costruzione di immagine e identità urbana. Il ‘terziario avanzato’ che vi si costituisce è dato dalla presenza di consumi culturali (musei, luoghi di consumo…): in questi ambiti, i membri della ‘creative class’ (Richard Florida) osservano la vita della città, in cui trovano i segni per costituire il loro ‘habitus’ (Pierre Bordieu – serie di idee che si apprendono nella vita quotidiana e accomunano una classe di consumatori). È molto importante l’importanza data agli historic landmark, testimonianze materiali del passato e della memoria locale. Dal punto di vista urbanistico, la gentrificazione ha spostato molte strategie di rinnovo urbano lontano dalle periferie, causando una frammentazione del tessuto urbano per la sua tendenza a concentrarsi in determinate aree. La gentrificazione e il postmodern urbanism contribuiscono quindi a costruire le ‘enclave paesaggistiche’, isole nell’urbanizzazione dedicate a pedoni e attività ricreative/commerciali: il successo di queste ‘isole di tradizione’ sta nell’esistenza di un concetto urbano complesso e sempre più frastagliato. Un esempio di frammentazione più estremo è dato dalle gated community, quartieri residenziali a tema fortemente segregati dal tessuto urbano (nate in USA poi diffuse in tutto il mondo): si tratta di aree circondate da muri con accessi sorvegliati, che rispondono alla necessità di abitare in luoghi protetti dal crimine delle metropoli. In più, ogni gated community adotta un particolare stile architettonico che rievoca scenari bucolici per evidenziare il legame con un passato mitizzato. All’interno del quartiere sono presenti servizi dedicati a spazi di consumo sviluppati in sintonia con le esigenze specifiche degli abitanti: di conseguenza, le comunità sono indicative di un determinato status-symbol; chi sceglie questi luoghi vuole definirsi come classe e mantenere uno spazio di conservazione. 3. La città globale Reti globali Gli ultimi decenni del XX sec. hanno visto un’intensa crescita delle relazioni economiche transnazionali e la diffusione di usi/consumi standardizzati in diversi luoghi della terra, attraverso la globalizzazione: si tratta dell’esito del processo di espansione dell’orizzonte culturale/economico degli Stati nazione europei al di fuori del continente. In realtà, Harvey attribuisce alla crisi economica del 1972-3 la produzione di una compressione spazio-temporale con un effetto dirompente sulle pratiche politico-economiche e la vita culturale/sociale: l’economia si è rapidamente mondializzata, mutando anche le attività industriali. Inoltre, la globalizzazione economica ha beneficiato anche della nascita dei grandi accordi e reti commerciali che hanno favorito la libera circolazione di capitali e merci: è un esempio l’integrazione europea, iniziata nel secondo dopoguerra per favorire gli scambi commerciali, che poi ha assunto valore politico. Al ruolo crescente delle società multinazionali si accompagna un indebolimento degli Stati nazione e della loro capacità di stabilire indirizzi economici/politici ed esercitare la propria sovranità in maniera esclusiva: l’azione transnazionale si svolge infatti all’interno degli Stati, modificandone la geografia. Un’ulteriore conseguenza riguarda i consumi, con un’impennata nell’innovazione e nella sostituzione di beni di consumo (Harvey – maggiore attenzione alle mode, instabilità), questo cambiamento ha contribuito a ridefinire l’appartenenza di classe (concetto di habitus). Oggi, la definizione di habitus si lega a un processo di legittimazione di sé attraverso il ‘capitale culturale’ (Bordieu), fonte di prestigio personale derivata da educazione, stile di vita e gusto, contrapposti a quelli altrui; inoltre, ai beni di consumo materiali si affianca il consumo di prodotti immateriali e spazi di consumo che definiscono l’appartenenza di classe. Un ruolo determinante è svolto dalla riv. tecnologica dagli anni ’80 che ha investito l’informazione, analizzata da Castells, secondo cui questa ha portato alla nascita della ‘società in rete’: si tratta della conseguenza dell’affermarsi di reti globali mediate da tecnologie informatiche e dal conseguente emergere di comunità virtuali. L’informazione non è più solo veicolo per la divulgazione di sapere, ma modifica l’agire sociale e, di conseguenza, i processi economici/politici; l’esistenza di una società globale interconnessa poggia su molteplici relazioni a rete: non solo il World Wide Web, ma una maglia di relazioni caratterizzata da nodi. Città e globalizzazione Alla fine del XX sec. si comincia a usare il termine ‘città globali’ per indicare i luoghi in cui si concentrano attività terziarie e quaternarie che diventano un riferimento a livello mondiale (anche nel passato sono esistiti questi grandi centri urbani ma con funzione diversa). Peter Hall conia il termine ‘world city’ per indicare le principali sedi di potere politico/economico nel mondo; successivamente viene impiegato in associazione ai centri urbani in cui si concentra l’accumulazione di capitale. Tuttavia, il termine città globale è ideato da Saskia Sassen negli anni ’90, che parla di centri urbani particolarmente importanti a livello mondiale che costituiscono i nodi di una rete di servizi di alto livello (soprattutto in ambito finanziario) e che si identificavano con New York, Londra e Tokyo: ciò aveva determinato la necessità di sviluppare società di servizi specializzati che potessero organizzare transazioni e comunicazioni per gestire le operazioni economiche a livello globale. Questi servizi hanno cominciato a localizzarsi in luoghi attraenti tendendo alla concentrazione in determinati contesti urbani, come a colmare i vuoti lasciati dalla deindustrializzazione, che aveva causato il declino delle città. Quindi, le città globali sono la sede dove si concentra il complesso di organizzazioni e funzioni che assicurano il controllo sull’economia mondiale; la presenza di questi aggregati di istituzioni/società private determina l’interconnessione tra città globali. Oggi si possono identificare altri nodi urbani che fanno parte di questa rete: spesso queste città assumono caratteristiche economiche/sociali/infrastrutturali che le distinguono dal territorio circostante, soprattutto nei Paesi del Sud Globale. Sassen evidenzia come all’affermazione delle città globali corrisponda uno speculare processo di denazionalizzazione delle élite imprenditoriali (attori globali); inoltre, la capacità delle città globali di controllare i flussi transnazionali di denaro le fa diventare entità politiche con un certo grado di indipendenza: si prevede che le città svolgeranno un ruolo sempre più rilevante nello scenario globale. In questo processo si inserisce il ruolo delle supply chain, che costituiscono la catena di azioni/ attori per trasformare una materia prima in bene/servizio: si tratta di processi che favoriscono l’incontro tra offerta e domanda e che divengono cruciali nello sviluppo dell’economia globale; le città globali si trovano al vertice nel sistema e controllo delle supply chain. Inoltre, le città globali diventano luoghi in cui i servizi di alto livello si specializzano per ciò che riguarda i consumi: si sviluppano quindi nuovi spazi di consumo, ma anche nuove professionalità/attività (es. rider, influencer), con contrapposizione tra quelle ad alto reddito e quelle sottopagate (classe operaia, che scompare di fronte all’immagine di città contemporanea). Infine, le città globali diventano mete di turismo internazionale trasmettendo un modello di successo da imitare; negli ultimi anni questi processi sono stati accentuati dall’emergere del capitalismo delle piattaforme e dalla loro capacità di controllare una serie di attività produttive attraverso il Web: non solo monopolizzano la produzione, ma esercitano anche un’influenza crescente sui mercati globali. Inoltre, il capitalismo delle piattaforme sta modificando sensibilmente lo spazio urbano dove si sono concentrati i processi di innovazione. In molti luoghi sorgono distretti dell’innovazione allo scopo di favorire la crescita economica, occupando i vecchi spazi industriali: la nascita di questi distretti vuole facilitare la crescita di distretti di ricerca/innovazione, cercando di attirare l’interesse dei gruppi industriali/finanziari internazionali e promuovere un rinnovamento della componente sociale della città. Geografie culturali 1. Geografia, heritage e spazi della memoria Heritage Il suo significato è ‘eredità’, ‘lascito’, e recentemente ha assunto il significato di patrimonio storico, artistico e naturale di un luogo; nella conferenza delle Nazioni Unite del 1972 si delineano alcuni elementi specifici: monuments, groups of buildings e sites. Tuttavia, spesso l’heritage non è solo un insieme di elementi: si tratta infatti di una specifica forma di produzione del sapere associata al potere; nell’analizzarlo, si è dato vita a un dibattito accentrato sull’autenticità di un presunto passato comunicato attraverso i linguaggi della ‘heritage industry’. Secondo Robert Hewison, questa ci offre una reinterpretazione del passato in chiave contemporanea, che però non ci fa comprendere la sua complessità. La critica alle interpretazioni offerte dall’heritage industry si basa sulla convinzione che queste distorcano la realtà, delegittimandone il significato sociale/culturale. Ciò che accomuna storia e heritage è l’interesse per il passato, ma quello dell’heritage è molto diverso nonostante faccia riferimento alla visione storica per acquistare credibilità. Una nota definizione di heritage è data da Graham, Ashworth e Tunbridge, che lo definiscono come un modo specifico di considerare il passato come se fosse una risorsa da cui attingere per raggiungere obiettivi contemporanei di qualsiasi tipo. Prima di essere ‘paesaggio storico’, l’heritage è quindi una forma di sapere prodotto nel presente, che in seguito viene ancorato al territorio in modo da renderlo fruibile: quello che racconta è un passato ricostruito con autoindulgenza, che elimina tutto ciò che non corrisponde all’immagine autoglorificante della comunità a cui si riferisce e che non legittima l’operare delle classi dirigenti del presente (quindi si può forse dire che heritage falsifichi la storia, producendo una narrazione su misura per la comunità cui quel passato appartiene). L’heritage è infatti strettamente legato all’esercizio del potere, e alla costruzione di identità collettive (es. nazionali) in cui una narrazione del passato conduce al presente caratterizzato da un ordine socio-politico. Gli elementi del paesaggio con valore di heritage costituiscono quindi la base materiale a cui una comunità si può richiamare per affermare di possedere un passato coerente e giustificarne le celebrazioni attuali (es. feste nazionali, turismo culturale…). L’heritage è quindi una componente essenziale nei processi di costruzione identitaria, riferita sia alle comunità che ai luoghi che abitano. In effetti, si tratta di una fonte inesauribile a cui attingere per inventare/ricreare identità e immagini di comunità in tutto il mondo; secondo l’UNESCO, il patrimonio culturale intangibile è traditional, contemporary e living at the same time. Heritage e immagine dei luoghi Essendo considerato parte della cultura di un luogo, spesso l’heritage riceve finanziamenti pubblici: anche se i monumenti non nascono con scopo di lucro, i fattori economici sono essenziali per la loro vita, poiché la preservazione è dispendiosa. Si può considerare l’heritage come parte di un più ampio sistema economico-finanziario, in cui le motivazioni economiche si mischiano a quelle culturali/politiche. Un luogo entra a far parte delle nostre mappe mentali quando è legato a un’immagine preesistente che ne evoca le peculiarità fisiche, storiche, culturali: ad esempio, l’immagine della città precede sempre la città reale e influenza il modo in cui questa viene consumata; l’heritage di ogni centro urbano viene ripreso, rielaborato e attualizzato per essere enfatizzato come elemento che rende unica la città. La creazione di un’immagine fa parte delle strategie di auto-rappresentazione delle città che mirano a migliorare la propria visibilità: pertanto, l’heritage è sfruttato tramite il marketing del territorio; tuttavia, questo contribuisce a manipolare l’immagine della città, che cerca di adattarsi all’immagine che la precede. Le immagini fanno i luoghi e costruiscono il ‘senso del luogo’: la presentazione di un’immagine è quindi un tentativo di stabilire un preciso senso di quel luogo. La spazializzazione della storia: i luoghi della memoria I ‘luoghi della memoria’ indicano i siti che ancorano la memoria di una comunità al territorio; in particolare, un luogo della memoria può essere inteso sia come reale che come metafora per descrivere un avvenimento storico, o come spazio definito dalle autorità quale contenitore ufficiale delle memorie di una comunità. Per quanto riguarda i luoghi intesi secondo quest’ultima accezione, essi sono scelti accuratamente nello spazio per dare un senso concreto all’associazione tra memoria ufficiale e territorio; si tratta del ‘potere del luogo’: un avvenimento passato acquisisce maggiore autorevolezza (e sacralità) se vi è una traccia materiale che ricorda l’evento. È qui che l’heritage pretende di universalizzare una certa visione della storia di un luogo, resa visibile grazie alla consacrazione di oggetti provenienti dal passato, a cui governi e istituzioni (es. UNESCO) conferiscono un significato storico di valore. Tuttavia, per convertirli a ‘luoghi della memoria’ le comunità devono riconoscerli come parte essenziale della geog. molti immigrati sottopagati in condizioni pericolose. Per visualizzare la geog. di un bene di consumo bisogna ricostruire e schematizzare la filiera, ricostruendo i movimenti dalla produzione alla vendita/consumo e gli attori coinvolti nel processo: al centro dello schema analizzato da Watts dominano i grandi integrator transnazionali, affiancati da catene di fast food ed esportatori. Il punto di partenza sono i polli, risultato di mezzo secolo di ricerca genetica; la filiera si chiude col consumo del pollo in diverse forme. Più è lunga la filiera, più sono gli attori che ne devono trarre profitto, più il prezzo finale tende ad aumentare; inoltre, parte del valore è determinata dal ‘brand’ o ‘marchio di qualità’. In pratica, la ricostruzione di filiera può mettere in luce le ‘qualità sociali della merce’ (Marx), i loro valori/relazioni. Food geographies Si tratta di un campo di ricerca che esplora ad esempio le alternative food networks, che si oppongono a produzione industriale e grande distribuzione organizzata, con intersezione tra il ‘consumption turn’ (la svolta che ha portato la geog. a fare ricerche sul consumo) e il cultural turn. Vi è inoltre un crescente interesse per i registri materiali, emozionali e viscerali del cibo, che evocano delle geog. rispetto a cui il cibo si associa a idee e memorie, grazie anche all’influenza di more-than-human geographies, che si concentrano sulle relazioni tra corpo e nutrimento: attraverso il consumo di cibo si può esplorare l’intrecciarsi di natura/cultura. Questi approcci pongono attenzione sul fatto che mangiare sia una pratica che pone in relazione umani e non-umani in un vasto insieme di relazioni. 3. Spazi globali Oggi l’idea di un mondo diviso in nazioni sembra ovvia, ma è messa in discussione dalla globalizzazione: si tratta del nostro coinvolgimento in eventi dalla portata globale (es. crisi economiche e climatiche), ma che influenzano il nostro quotidiano. Marshall McLuhan definisce il mondo un ‘villaggio globale’, in cui la scala globale e locale si compenetrano fino a far restringere il mondo in un villaggio in cui tutti vivono a stretto contatto. Globale e globalizzazione non sono fenomeni recenti, anzi, il loro sviluppo è associato a diversi periodi storici (es. Sumeri, Impero Romano…). Un aspetto noto del processo è quello di farci sentire ‘più vicini’ (semplificazione della teoria della compressione spazio-temporale – Harvey), mutando la nostra idea di distanza col passare del tempo. Ad ogni, modo, questo villaggio è diviso in 2 parti, la prima coinvolta in produzione/consumo nell’industria transnazionale e l’altra che vi partecipa limitatamente. La globalizzazione dell’economia Spesso si associa a un’economia senza confini, ma in realtà si tratta di un sistema in cui le barriere protezionistiche erette dagli stati nazionali si sono indebolite in modo da permettere a molte aziende il commercio in tutto il mondo. Tuttavia, sulla mappa i confini tra Stati non svaniscono, cambia solo la loro rilevanza in termini di barriera per le multinazionali, aziende che articolano il proprio processo produttivo coinvolgendo tutti i Paesi in cui l’azienda madre investe. Sono soprattutto le grandi banche/compagnie assicurative internazionali a trarre benefici dall’abbassamento dei controlli sul movimento dei capitali, che ha dato vita a una sorta di geog. del mondo ‘senza confini’; tuttavia, alcuni luoghi sono più importanti di altri: i flussi principali si muovono tra America del Nord, Europa, Asia orientale e sono diretti da gruppi finanziari attraverso le ‘città globali’ (vedi cap. 5); la geog. delle banche internazionali comprende solo aree in cui è conveniente investire/commerciare. Da alcuni decenni si tenta di resistere a questa polarizzazione. La globalizzazione della cultura Tramite il diffondersi di modelli di consumo e stili di vita simili, i processi di globalizzazione stanno erodendo l’unicità di luoghi/culture tradizionali: all’origine di questa omologazione del mondo stanno lo strapotere degli USA (impongono il loro stile di vita), l’uso dell’inglese come lingua veicolare, la diffusione di Internet e social media. Questi ultimi entrano nella vita quotidiana di molte persone e trasmettono immagini/messaggi culturali attraverso pubblicità e notizie a flusso continuo; ciò è identificabile con l’azione di un numero limitato di colossi della comunicazione che tentano di influenzare i gusti dei consumatori. A tale proposito, i gusti non sono uguali in tutto il mondo, anzi, sono le leggi di mercato a gettare le basi per la diffusione di una cultura di stampo anglo-americano. L’idea che esista davvero una cultura globale omogenea presuppone che tutti interpretiamo i prodotti allo stesso modo, mentre invece non è così: chi cerca di vendere i propri prodotti non può prevedere la reazione delle persone. Inoltre, non si cerca di trasformare i consumatori in individui identici, ma si sfruttano le differenze locali per vendere meglio i propri prodotti su un certo territorio: ciò a cui si assiste è piuttosto una mescolanza di aspetti di culture/stili di vita diversi continuamente riconfezionati e contestualizzati dalle multinazionali per essere venduti su diversi mercati. È necessario anche riconoscere l’importanza dei flussi migratori, anche all’interno della stessa città, che caratterizzano le nostre società e cambiano il modo in cui cultura e consumo si articolano. Non esiste quindi una cultura globale, ma emergono culture ibride dall’interazione tra globale e locale. In ogni caso, è innegabile l’influenza del Nord America su stili di vita e abitudini di consumo, anche se la globalizzazione della cultura dipende anche da altre zone (es. diffusione di ristoranti cinesi e kebab); essa è infatti influenzata da globalizzazione dei modelli di consumo e prodotti delle multinazionali e dall’uso dell’inglese, ma anche dalle ‘culture della diaspora’ (bagaglio di tradizioni/usanze portate dai migranti). Ci si identifica quindi allo stesso tempo con una molteplicità di comunità culturali a diverse scale. Globalizzazione della politica Le crisi economiche e finanziarie internazionali mettono in dubbio l’efficienza delle autorità statali e dello Stato in quanto contenitore politico-territoriale. Oggi si considera la ‘sicurezza nazionale’ come un problema transnazionale: quando eventi anche lontani hanno un impatto sulle nostre vite, la sicurezza di uno Stato non può più considerarsi nazionale (es. i cambiamenti climatici colpiscono tutte le aree del pianeta, anche se alcuni paesi inquinano di più – (in)giustizia climatica). All’emergere di crisi di diversa origine/natura rispondono dal Secondo dopoguerra le organizzazioni sovranazionali/transnazionali, che hanno contribuito a sovvertire le relazioni di potere basate su entità nazionali, ridefinendo le gerarchie territoriali globali (es. Unione Europea, Nazioni Unite); queste sono affiancate da ONG (es. Greenpeace), che trascendono gli interessi territoriali degli Stati agendo spesso in nome dell’umanità intera, evidenziando le connessioni tra fenomeni locali e globali e criticando l’operato degli Stati. Tuttavia, le questioni sollevate riguardano un numero limitato di Paesi (es. scorie nucleari) e spesso agiscono in modo diverso e in contrasto tra loro: l’aspirazione a intraprendere politiche comuni per risolvere i problemi ‘globali’ riflette una visione parziale del mondo (es. la sede dell’ONU è a New York). Virus globali Le crisi sanitarie dipendono da vari fattori, alcuni dei quali sono favoriti dal funzionamento del mondo odierno (es. allevamenti intensivi); inoltre, l’incremento della mobilità e la crescita di popolazione trasformano i focolai di malattie infettive in minacce globali, ovvero pandemie, dimostrando come i confini politici non offrano protezione. La globalizzazione implica quindi una compressione spazio- temporale che coinvolge la salute e la vita di esseri umani/animali, ma anche le economie che li riguardano. Geografie della mobilità Lo studio della mobilità è diventato fondamentale negli ultimi decenni (mobility turn) e riguarda le declinazioni del fenomeno spaziale. Il nuovo paradigma non concepisce spazi/luoghi come fissi, ma si concentra sulla produzione dinamica degli stessi in quanto esito di pratiche in divenire. 1. Geografie delle mobilità Per mobilità, Tim Cresswell intende un ‘entanglement of movement, representation and practice’: il concetto di mobilità non può dissociare la natura del movimento da una concreta esperienza del mondo; muoversi è innanzitutto una pratica, e come tale un’esperienza del mondo. La definizione di mobilità umana include anche il tema del corpo: le mobilità sono sempre esperienze embodied, quindi il concetto stesso di mobilità implica un’idea di soggetto che non si può dissociare da quella di corpo (non astratta). La conoscenza del soggetto è incentrata sulla vista (cap. 1), ed è quindi nella posizione dell’osservatore al di fuori del mondo concepito come oggetto; a ciò corrisponde la fissità dei modelli di rappresentazione del mondo-come-oggetto. Ripensare la soggettività alla luce delle mobilità significa ripensare il mondo alla luce di modelli in divenire. Cresswell oppone una metafisica (costruzione di paradigmi in quanto modi di pensare/vedere il mondo) della fissità a una del flusso: il pensiero moderno è pervaso di metafisica sedentaria (principio ordinatore che caratterizza la ragione cartografica), a cui si oppone la mobilità come disfunzione nel sistema da controllare (porre radici = valori morali). Tuttavia, tra modernità e postmodernità si colloca il ‘pensiero nomade’ (“Mille piani”, Deleuze): il movimento non è lo spostamento da un punto a un altro, ma il percorso in sé: il nomade abita uno ‘spazio liscio’, senza delimitazioni (≠ ‘spazio striato’, con confini netti e statici). La figura del nomade riguarda anche gli spazi urbani: al concetto di ‘strategia’ (pianificazione di spazi urbani pensata sulle mappe), Cresswell oppone la ‘tattica’, pratica quotidiana degli spazi, capace di risignificarli dal basso – spazi costruiti da chi li ‘pratica’ e li vive quotidianamente: chi vive la città non può guardarla dall’alto. Un’ulteriore conferma dell’associazione tra mobilità, disfunzionalità e patologia ha acquisito un senso letterale durante la pandemia di Covid-19, poiché i vettori di virus sono corpi umani mobili: quale sarà il ruolo della mobilità in un mondo post-Covid? 2. Geografia e crisi delle migrazioni Per ‘crisi’ si intende un momento di cambiamenti nelle capacità di giudizio; associata ai migranti/rifugiati assume il significato di manifestazione della crisi di Stato nazione territoriale e ragione cartografica moderna. Lo Stato moderno è statico per eccellenza, poiché ha natura territoriale (delimitato da confini e rappresentato cartograficamente), così come il principio di cittadinanza (funziona solo quando il soggetto è individuabile come cittadino di uno Stato). Tuttavia, porzioni crescenti dell’umanità non sono più rappresentabili all’interno dello Stato nazione, anche se oggi il rifugiato è una figura centrale della nostra storia politica (Agamben); migranti e rifugiati non sono cittadini degli Stati in cui giungono, e perciò non si riesce a rappresentarli/incorporarli al loro interno. Essi possono essere definiti umanità in eccesso, poiché eccedono il principio di cittadinanza territoriale (fondamento dell’ordinamento statale): sono perciò spesso trattati come scarto e segregati nei campi. Le mobilità di migranti/rifugiati sono formali-e- informali, cioè difficili da mantenere in rappresentazioni stabili che le fissino nel territorio cartografico utilizzato dalle autorità statali. I concetti chiave attraverso cui le geog. critiche hanno studiato le migrazioni sono corpi e confini, che segnano il confine con biopolitica (governo dei corpi): secondo Martina Tazzioli, la mobilità formale/ informale imposta ai migranti dalle autorità governative in Europa costituisce una forma di controllo biopolitico della migrazione. Si tratta di una forma di governance biopolitica della mobilità attraverso la mobilità stessa: già solo l’etichettatura ‘migrante’ come identità è il risultato di processi di governance messi in atto da autorità statali. In ogni caso, i migranti non sono soggetti passivi, ma reagiscono in maniera attiva alle decisioni delle autorità che le riguardano. Le narrazioni statali legate ai confini sono normalmente associate a concetti di sicurezza/identità: ne sono un esempio i muri, che comunque non bloccano il passaggio; lo scopo è infatti quello di proteggere la popolazione di uno Stato dalle infiltrazioni/contaminazioni esterne. La definizione dell’identità attraverso il confine è possibile secondo una logica oppositiva dualistica, ovvero la definizione di un’alterità radicale che si identifica col corpo del migrante (logica cartografica binaria – us vs them). I termini immunità, contagio e contaminazione sono protagonisti di narrazioni securitarie e retoriche sulla difesa dei confini territoriali intesi come valore assoluto; queste certezze di protezione sono venute meno durante la pandemia, poiché ogni corpo poteva essere vettore del virus (il corpo della nazione non è immune). 3. Geografie del viaggio e del turismo Gi studi turistici proliferano negli anni 2000 e si raccolgono attorno a 2 principali filoni: - Management Studies → marketing turistico, logistica/ospitalità, metodi statistici di analisi, linguaggio di economia aziendale; - Contributo di sociologia, antropologia, storia, economia, geografia (relazioni con territorio, comunità, cultura, politica, ambiente, concetto di identità). Il rapporto tra spazio e turismo si articola attraverso 3 ‘coordinate’ geografiche: il turismo nasce come movimento da un luogo per la visita di un altro luogo (‘tra spazi’); il desiderio di ‘fare turismo’ ha origine da una mappa del mondo che ci fa pensare che determinati luoghi corrispondano alle nostre aspettative (immaginazione geografica); il turismo trasforma e produce spazi (rivoluzione dei luoghi). Immaginazione geografica e turismo Il turismo contemporaneo riflette, in forme e linguaggi, modelli e figure che si affermano nell’800 europeo, legati allo sviluppo di geografia e pensiero geografico; è inoltre fondamentale il gap che si colloca tra il desiderio di viaggio e l’effettiva esperienza dello stesso. Se il potere permea tutte le pratiche sociali, allora queste sono composte da 2 tipi di elementi: materiali (visibili e tangibili dell’organizzazione della vita quotidiana) e discorsivi (linguaggio, idee, interpretazioni, simbologia associate al mondo materiale). Sebbene queste pratiche siano spesso distinte, in realtà non possono esistere indipendentemente l’una dall’altra: tutte le pratiche materiali hanno un significato e sono composte dalla dimensione discorsiva, così come il discorso si esprime attraverso la dimensione materiale (scrittura, immagini). Foucault parte dal presupposto che il ‘significato’ del linguaggio non dovrebbe essere un prodotto ovvio e naturale, ma che tutti i linguaggi assumono un significato diverso a seconda del contesto: esso dipende inoltre dalle modalità secondo cui ciò che viene detto si colloca rispetto a un insieme pre-esistente di affermazioni, simboli e interpretazioni (‘formazione discorsiva’); il nostro mondo sociale viene quindi significato nel ‘discorso’. L’influenza del pensiero di Foucault sulla geog. è stata enorme, spingendo a ripensare il rapporto tra spazio, potere e sapere (geografico). Ad esempio, per Felix Driver la relazione tra conoscenza e potere si basa sull’esistenza di contesti locali e meccanismi di spazializzazione che fanno da sfondo a questa dinamica; inoltre, Foucault si interessa del funzionamento spaziale del potere perché preferisce indagare il locale piuttosto che il globale e perché considera l’organizzazione dello spazio come strategia fondamentale nella costruzione e nel controllo della vita sociale. Il pensiero di Foucault contribuisce quindi a rivoluzionare i principi su cui si regge la produzione di sapere, anche quello geografico, ponendo sotto una luce diversa il rapporto tra spazio e politica ed evidenziando la dimensione politica di qualsiasi discorso geografico (‘il problema della conoscenza’ – Farinelli). L’esito di questa svolta post-strutturalista si può riassumere in 2 gruppi: le ricerche basate sull’analisi testuale/discorsiva e quelle che esplorano i rapporti tra conoscenza e potere; questi hanno in comune la preoccupazione per il ruolo politico della rappresentazione geografica e un atteggiamento critico nei confronti di sapere ‘innocente’. L’approccio post-strutturalista problematizza il concetto stesso di rappresentazione e la struttura moderna della conoscenza di cui è espressione. Duncan e Ley sottolineano il fatto che molti lavori nelle scienze sociali spingono ad abbandonare le teorie di rappresentazione che pretendono di avere validità universale: si contesta l’atto di fede nei confronti del fatto che la realtà possa corrispondere con le rappresentazioni che abbiamo di essa, poiché la realtà è già ‘vestita’ dal nostro sistema di rappresentazioni. Questa visione fa infatti passare per naturale ciò che invece è culturale e storico: la conversione da culturale a naturale è chiamata ‘mito’ da Barthes. Negli ultimi decenni si è affermata nelle scienze sociali l’idea che la nostra concezione della realtà sia il prodotto di una costruzione sociale, portando a interrogarsi sulle categorie di giudizio che utilizziamo per valutarla e che spesso diamo per scontate. Secondo Barnes e Duncan, scrivere geografia significa assumersi un compito problematico, poiché bisogna mettere in fila i pezzi del mondo, che non presentano etichette già preconfezionate, mettendo in fila i pezzi del linguaggio. Il contesto sociale in cui un testo viene prodotto risulta quindi fondamentale per la sua comprensione. L’analisi decostruzionista dei testi geografici si basa quindi sulla problematizzazione dei concetti di testo (riscrittura di ciò che è stato detto, garantisce fissità ed espressione concreta a molti aspetti della vita sociale – intesi in senso lato come ‘pratiche di significazione’ es. mappe, paesaggi, istituzioni – che si rivolgono ad un’ampia readership e offrono molteplici interpretazioni) e discorso (grande struttura a partire da cui i testi sono costruiti e all’interno di cui sono letti, comprendono ‘cornici’ interpretative e pratiche di significazione rilevanti per un particolare contesto di azione sociale, in pratica è il confine all’interno di cui un determinato insieme di pratiche/idee viene considerato naturale). La teoria post-strutturalista interpreta i discorsi come convenzioni che hanno origine in un determinato contesto storico/culturale, le loro verità cambiano a seconda del contesto. Spazio/identità Foucault studia la costruzione dei discorsi e la loro istituzionalizzazione: è proprio la loro associazione con le istituzioni che legittima la ‘verità’ che essi producono: il potere dei discorsi risiede nella base materiale delle pratiche/istituzioni che li creano; la conoscenza è un effettivo potere perché si richiama spesso al senso comune, rendendo il potere ‘naturale’. Il nesso potere/sapere porta una serie di corollari: la critica della versione dualistica del pensiero moderno mette in luce il fatto che l’identità si definisce in base all’alterità, imponendo a chi è simile una gabbia, il mito dell’identità. Sulla base di ciò si costruisce l’idea di popolo come insieme compatto e condiviso, che posa su 3 fattori: 1. Questi concetti sono ‘spazializzati’: associati a luoghi/territori/regioni, tradizionalmente considerati elementi geografici; viene così resa ‘concreta’ l’immagine di un mondo diviso in blocchi omogenei al loro interno (vedi cap. 2) e si normalizzano i caratteri ‘identitari’ di chi vive dentro di essi. 2. Dal momento che esiste un’identità, si può studiare la realtà oggettivamente, dall’esterno, studiando ciò che è ‘Altro’ da noi senza contaminarlo con la nostra soggettività. 3. Chi fa ricerca nasconde la posizione da cui osserva il mondo e lo codifica, sopprimendo la natura ‘geografica’ di qualsiasi punto di osservazione. In pratica, si presenta il mondo come composto da molteplici identità locali legate a un rapporto ‘essenziale’ e univoco con un determinato spazio; a ciò si contrappone l’alterità, che sta ‘fuori’ dal quadro ed è concepita come un universo da esplorare e codificare oggettivamente, naturalizzando così punti di vista che sono parziali e soggettivi. Ci troviamo di fronte a un problema politico: si parla di politics of identity, affrontata in altre discipline utilizzando metafore geografiche. All’interno del relativo dibattito, la posizione affermata è che la costruzione/descrizione dell’identità è legata alla posizione di chi la costruisce/definisce, e quindi anche ai luoghi concreti e al contesto in cui ciò avviene. Keith e Pile sostengono che il mito dell’esistenza in uno spazio neutrale maschera il fatto che in realtà esso sia prodotto socialmente, cioè si tratta di un contesto in continua evoluzione in cui avvengono battaglie sociali/economiche/politiche. L’identità è quindi sempre costituita dalla sua opposizione, la sua differenza, ed emerge da un insieme di relazioni (è parziale e plurima); è più appropriato parlare quindi di un processo (no risultato di un processo). 2. La geopolitica Il fascino della geopolitica La geopolitica alimenta spesso una visione delle relazioni internazionali che affonda le radici nella spazializzazione della politica otto-novecentesca: questa si regge su modelli che vengono presentati in maniera irriflessa. Il geopolitico è sempre un uomo di potere dotato dell’autorità di produrre una serie di visioni necessarie a leggere/riscrivere il mondo; la costruzione di questa figura si avvale delle forme di spettacolarizzazione della politica: le sue performance hanno luogo tra carte e simboli di potere. Inoltre, nel discorso pubblico la geopolitica è rappresentata come una competizione tra Stati nazionali, i loro interessi e le loro sfere di influenza. Si tratta quindi di un’esplicitazione spettacolare della visione cartografica del mondo, una sorta di partita a scacchi giocata sul mondo-scacchiera composto da tasselli. Le teorie della geopolitica sono il prodotto delle interpretazioni delle relazioni di potere tra Stati che cercano di presentare una visione parziale e prospettica ma naturalizzata. Fare geopolitica vuol dire quindi tentare di imporre come ovvio un determinato ordine nei rapporti internazionali: la rottura di questo equilibrio viene percepita come anomalia e sanzionata, giustificando gli interventi (spesso militari) per ristabilire un ordine continuamente riprodotto dalle immagini (= discorso geopolitico) che lo descrivono. Essa comprende infatti luoghi comuni sui ‘sistemi di potere’ e i pericoli che investono le ‘questioni internazionali’: i discorsi che le comprendono non sono neutrali, ma dipendono da una serie di fattori, come il soggetto che le enuncia e i suoi obiettivi. Riassumendo, la geopolitica non è affatto neutrale. Il fascino delle teorie che la alimentano risiede nella loro capacità di produrre letture semplicistiche di un sistema multiscalare complesso, offrendo un discorso comprensibile al grande pubblico: secondo Agnew, una delle sue potenzialità è di trasformare l’opacità della politica mondiale in un’immagine nitida, assurgendo a discorso profetico (es. dove scoppieranno guerre, quali Stati saranno dominanti…). La nascita della geopolitica Il termine geopolitica viene coniato nel 1899 dal politologo Rudolf Kjellén (“Lo stato come forma di vita”), che intende un interesse generale nei confronti dei rapporti tra geografia e politica: egli vuole applicare le idee dei geografi politici alle considerazioni strategiche e agli interessi dei singoli Stati, fondandosi sull’idea ratzeliana di Lebensraum. Sulla base di questa teoria, lo Stato viene concepito come un organismo vivente che deve combattere per conquistare il proprio spazio vitale, spesso a discapito degli Stati più deboli; tuttavia, Ratzel non esalta la superiorità di una nazione rispetto all’altra: la sua forma è mutevole nel tempo e nello spazio. Egli inoltre afferma che le relazioni internazionali saranno dominate dalla politica dei grandi Stati, e il mondo sarà diviso in ‘panregioni’, ognuna controllata da una grande potenza. La visione geografica di Ratzel si riflette sulla nascita della geopolitica come sapere geografico applicato in grado di elaborare leggi scientifiche e sostenere le politiche di potenza degli Stati. Alla fine del XIX sec., la potenza dominante è l’Impero britannico, la cui egemonia è però minacciata dalle altre potenze imperiali emergenti, ognuna con la sua visione geopolitica come strategia di potere imperialista (legittimazione). La rivalità principale è con la Germania: la competizione trova espressione negli scritti di Mackinder e Haushofer. Mackinder sviluppa la convinzione che il sapere geografico possa giocare un ruolo determinante nel contrastare il declino dell’UK, elaborando la ‘geographical science of politics’, una nuova prospettiva scientifica che analizza il globo come uno spazio chiuso e compiuto. Egli produce inoltre una cartografia del mondo ripartito in megaregioni, ciascuna con un ruolo gerarchico e strategico nel determinare i destini della politica mondiale: si cancella così la diversità geografica dei luoghi che appartengono a queste aree, producendo una versione banalizzata del mondo, ma che fa apparire come naturali precise strategie militari. Un ulteriore elemento della sua analisi è dato dal tentativo di identificare le ‘cause geografiche della storia’: Mackinder individua l’esistenza di 3 grandi fasi storiche segnate da trasformazioni politiche, economiche e sociali; all’alba del XX sec. si conclude la fase di esplorazioni (Colombiana) e il mondo sta entrando in una nuova era caratterizzata da uno ‘spazio chiuso’. Questa chiusura è destinata a produrre tensione politica e sociale nel Vecchio Continente, tra le potenze in declino minacciate da quelle della Heartland eurasiatica, che non è mai stata conquistata (teme alleanza tra Germania e Russia). La visione proposta da Mackinder è semplicistica e alcune delle sue idee sono state smentite, ma il vero impatto è costituito dai rapporti di potere resi possibili da tale interpretazione. L’altra tradizione geopolitica è quella che raggiunge l’apice durante il regime nazista: Haushofer si focalizza sul ripensamento dei fondamenti su cui si basa il Trattato di Versailles, con la volontà di far riemergere la potenza tedesca. Per sopravvivere, la Germania deve riottenere il proprio Lebensraum per dare vita a una Grossdeutschland che divenga la patria di tutti i tedeschi d’Europa (necessità di unità). In maniera simile a Mackinder, egli immagina grandi regioni, ciascuna retta da una potenza guida (Pan America, Pan Russia, Pan Asia) capaci di reggersi attraverso l’autarchia. Dalla Guerra Fredda al ‘Nuovo Ordine Mondiale’ Dopo il 1945, il discorso geopolitico cambia forma: si impone infatti l’assetto della Guerra Fredda, col mondo diviso in 2 blocchi in opposizione tra loro come evoluzione spontanea del conflitto mondiale; tuttavia, esistevano altri possibili scenari (Taylor). Infatti, tra USA e URSS (ma anche UK), dopo la guerra sussistono punti sia di divergenza che di conflitto; alla fine ha successo la visione di George Kennan, che contribuisce ad affermare un’idea americana dell’URSS come potenza caratterizzata dal bisogno di espandersi (vedi Mackinder). Kennan pensa in questo caso in termini cartografici e descrive gli Stati come se avessero una specifica natura/identità: la Guerra Fredda si fonda quindi sul mito dello spazio cartografico. In effetti comunque, l’URSS sta cercando di controllare i Paesi dell’Europa orientale: questa attitudine risulta in un’ulteriore opposizione degli USA, rinforzata dal concetto di ‘cortina di ferro’ coniato da Churchill (UK), che vuole impedire un’alleanza anti-imperialista tra USA e URSS contrapposta al decadente Impero Britannico. A ciò si aggiunge la formulazione della ‘dottrina Truman’ (1947), che annuncia l’inizio di una battaglia universale tra libertà e totalitarismo. Allo stesso periodo risale la ‘teoria del dominio’ del Segretario di Stato Acheson (le mele in una cassa vengono infettate dalla mela marcia), che afferma l’idea di comunismo come malattia che attacca il mondo: si pongono così le basi dell’interventismo degli USA che caratterizzerà il Dopoguerra. Alla fine degli anni ’80, la disgregazione del blocco sovietico provoca una crisi nelle narrative geopolitiche: la Guerra Fredda era stata un conflitto tra descrizioni geografiche del mondo tenuto in piedi dagli interessi delle lobby economiche: perciò, la fine del conflitto richiede una nuova immaginazione geopolitica che mette in risalto la mancanza di ordine nel mondo come una minaccia per la sicurezza globale. Figura chiave del periodo è Francis Fukuyama (Consigliere per la politica estera di Reagan/Bush) con il suo “The End of History and the Last Man”, in cui sviluppa una concezione della storia intesa come battaglia sequenziale su idee e principi: nel mondo del 1989 si sta assistendo alla ‘fine della Storia’. Il punto più alto è rappresentato da Europa occidentale e USA, attualizzazione delle ‘verità universali’ promosse dalla Riv. Francese; ciò è confermato dalla caduta del comunismo russo (ultima sfida ideologica al liberismo). Il suo pensiero si allinea con lo spirito imperialista: un’opposizione a liberismo/democrazia può provenire solo da un luogo che appartiene al ‘cuore della civiltà’ (mondo ‘post- storico’, mentre il resto del pianeta è ‘impantanato nella storia’). Un altro protagonista della geopolitica che immagina il mondo come ‘nuovo ordine’ in cui una forma di democrazia ha trionfato definitivamente Tornando alle opposizioni binarie, queste hanno determinato la costruzione di numerose città moderne, assegnando le donne al focolare sicuro e protetto; le geog. femministe hanno ribaltato il concetto, evidenziando come lo spazio privato sia stato spazio di oppressione patriarcale – poiché le donne esercitano un lavoro non retribuito che le rende dipendenti – o di violenze e soprusi. Quanto allo spazio pubblico, si parla ancora di un ‘man-made world’, in cui le donne si trovano ancora di fronte a barriere (negazione del diritto di muoversi liberamente, non si sentono sicure). Inoltre, è stata contestata la divisione dicotomica pubblico/privato delineando spazi fluidi ed eterogenei. Tornando a Foucault, è rilevante il discorso sulla sessualità, un ‘dispositivo politico’ da intendere come rapporto tra potere e discorso sul sesso. I discorsi sono pratiche che hanno il potere di far sembrare naturali alcuni aspetti di realtà: così la sessualità funziona da regolatore sociale attraverso la sua spazializzazione. La disciplina dei costumi sessuali si è infatti tradotta in una delle principali forme di biopolitica: vengono infatti considerate normali alcune pratiche e messe al bando altre, assegnando il diritto a certi corpi di essere presenti in certi spazi. Così la sessualità disciplina i corpi, li include/esclude determinando chi è nel posto giusto materializzando lo spazio invisibile del senso comune. Lo spazio pubblico potrebbe sembrare a-sessuale, poiché in genere la sessualità è strettamente personale, ma ciò si basa sulla naturalizzazione delle norme di comportamento eterosessuali: è come se lo spazio pubblico eterosessuale fosse neutrale. Si tratta in realtà di una codificazione dello spazio pubblico, il prodotto di un regime discorsivo che ha stabilito quali pratiche corporee ammettere nello spazio pubblico. Ad esempio, la prostituzione sconvolge l’apparente ordine delle cose perché le donne devono sempre essere accompagnate da un uomo: si costruisce così l’identità simbolica di prostituta come ‘Altro’, affiancata dalla segregazione spaziale (ai margini della strada). Corpi e nazioni I paesaggi scelti per commemorare/celebrare la memoria nazionale sono fortemente influenzati da una cultura di genere che mette in relazione il corpo della donna con una serie di valori della nazione: nell’immaginario nazionalista è lei a incarnare bellezza, virtù, libertà e giustizia. Ciò si contrappone alla figura del milite ignoto: evoca qualsiasi uomo che abbia sacrificato la propria vita in nome della nazione, che si fa ‘corpo’ in qualsiasi uomo (qualsiasi uomo incorpora la nazione). Le donne non sono uguali alla nazione, ma la simboleggiano; in questo ruolo viene loro negata qualsiasi relazione con l’azione della nazione stessa: la donna è la madre(patria) da proteggere, che non deve essere violata dagli stranieri. Per quanto riguarda la riproduzione biologica, la nazione viene incorporata come femmina: in questo caso, i corpi delle donne e quello simbolico della nazione si fondono; ciò si evince dalle politiche nataliste, in cui l’allevamento dei figli è presentato come il dovere delle madri nei confronti della nazione (es. la guerra si combatte sul corpo delle donne – la violenza è vista come penetrazione della madrepatria altrui). Allo stesso modo, lo Stato si preoccupa di segregare i comportamenti sessuali ‘sbagliati’: ad esempio durante il periodo coloniale i costumi sessuali dei popoli colonizzati venivano descritti come primitivi e animaleschi a confronto con la sessualità civile delle società europee. Anche oggi queste pratiche persistono, con l’accentuazione della differenza sessuale degli uomini scapoli stranieri, descritti come potenziali violentatori. Anche i corpi delle donne straniere sono spesso percepiti come una minaccia al corpo della nazione: esse vengono iconografate da un lato come prostitute (tentatrice orientale che si offre sul ciglio della strada), e dall’altro come ‘allevatrici’ che minacciano di sommergere la nazione con bambini stranieri. In pratica, il corpo della donna è un confine biopolitico cruciale. Soggettività, spazio e differenze Nel 1993 esce “Feminism and Geography: The Limits of Geographical Knowledge”, in cui Gillian Rose analizza il quadro “Mr and Mrs Andrews” (Gainsborough): il quadro ritrae 2 coniugi e intorno a loro un tipico paesaggio inglese di cui sono proprietari. Nel paesaggio ‘pacificato’ non vi è traccia del duro lavoro dei contadini che è fondamento dell’esistenza stessa del paesaggio (vedi Cosgrove cap. 2); inoltre, i coniugi sono rappresentati in maniera diversa: l’uomo è in piedi col fucile in mano e pronto a cacciare, mentre la donna seduta, radicata a terra. Ciò mostra che l’unico vero proprietario della terra è il marito perché può muoversi liberamente, mentre la moglie ha il ruolo di procreare (come l’albero a cui è associata) ed è parte del paesaggio stesso. Lo sguardo del quadro è maschile e maschilista, proprio della modernità occidentale, e la sua visione di donna costituisce un esempio di questo punto di vista egemonico che identifica il femminile come Altro-da-sé. Il pensiero occidentale si è a lungo basato su opposizioni binarie, in cui il polo differente è concepito come inferiore (cultura/natura, ma anche maschile/femminile). In opposizione al soggetto astratto moderno, le teorie femministe hanno posto una soggettività associata alla corporalità (embodied). Per quanto riguarda l’idea di differenza basata su opposizioni binarie, è stata decostruita dall’idea di differenze intese come molteplicità e pluralità (non più gerarchia di punti di vista). Secondo le teorie femministe e di genere, molteplicità e differenze sono costitutive dell’identità/soggettività in quanto l’identità è un divenire, una costruzione progressiva: essa risulta dall’intersezione di diverse variabili (genere, classe sociale, età…); ciò costituisce il fondamento di prospettiva dell’intersezionalità, approccio interpretativo per lo studio dell’identità e di come le categorie possano rappresentare forme di oppressione sociale. Un altro esempio di studi nato a partire dalle teorie femministe è quello delle Emotional Geographies e Geog. of Affect, che si fondano sull’idea che la percezione e la costruzione dei significati debbano essere indagai prendendo in considerazione le emozioni. 2. Il mondo come esibizione Said e la critica all’Orientalismo Per Edward Said, l’Orientalismo è un filtro attraverso il quale l’Oriente è entrato nella coscienza e cultura occidentali: le sue idee, riportate nel libro “Orientalism” (1978) hanno un grande impatto sulla geog. postcoloniale. Egli parte dalla convinzione che Oriente e Occidente siano un prodotto umano con una storia e tradizione di pensiero; si tratta di 2 entità che si sostengono e rispecchiano vicendevolmente. La definizione di identità europea (e occidentale) si basa sulla costruzione di un’alterità forte: da qui nasce l’idea di Oriente come costruzione intellettuale. Questa è stata alimentata dalla letteratura di viaggio e dalla documentazione prodotta dai governi, e al suo successo ha contribuito la visione geopolitica eurocentrica; la geog. immaginaria che ha legittimato questa cartografia dualistica ha contribuito anche alla costruzione dell’Occidente come un blocco compatto; la stessa prospettiva ha giustificato una visione dell’europeo come razionale maschio positivista e dell’orientale come inaffidabile ma esotico e sensuale; lo spazio geografico inteso come misura del mondo trova nell’ipotesi orientalista la giustificazione della gestione dei territori descritti, legittimando colonialismo ed imperialismo. Le idee di Said entrano nel dibattito geografico dagli anni ’90. Felix Driver le analizza riferendosi alle relazioni tra potere coloniale e geog. durante l’età dell’Impero: la conoscenza geografica ha rappresentato un asse portante del progetto coloniale, alimentandosi con immagini e fantasie a proposito del mondo colonizzato, che Said mete in discussione. I meccanismi di rappresentazione che hanno permesso all’Occidente di colonizzare l’Altro sono analizzati in “Colonizing Egypt” di Timothy Mitchell, in cui viene criticata la metafisica della rappresentazione: rappresentando il mondo come un’esibizione, si dà fondamento allo sguardo coloniale. Secondo questa logica, nella modernità europea si instaura un sistema di certezze che legittima una certa visione dell’Altro, cioè del mondo nel suo insieme; questo sistema si basa sulla costruzione di identità pure/cristallizzate definibili in rapporto all’alterità. Tale logica appoggia le proiezioni imperialistiche degli Stati, ed è la stessa che sta alla base della ragione cartografica. L’esibizione del mondo o il mondo-come-esibizione Il world-as-exhibition è un dispositivo che ha legittimato nella cultura europea una radicale separazione tra rappresentazione e realtà: questa ha portato ad incorniciare tutte le manifestazioni del sociale in una sorta di ordine esterno (struttura) capace di stabilire uno hierarchy of truth (regime di verità). In virtù di ciò, il pensiero moderno ha creato un sistema di certezze in base al significato attribuito alle sue rappresentazioni, che hanno imposto un ordine del mondo percepito come naturale e basato su una concezione dualistica. L’analisi di Mitchell parte dall’accentuarsi della globalizzazione nella seconda metà dell’800, che trova massima espressione nelle esposizioni universali: la tendenza alla ricostruzione/ricontestualizzazione delle merci riscuote successo e diventa un modo per rafforzare nell’immaginario collettivo una serie di stereotipi su luoghi/eventi descritti attraverso la spettacolarizzazione di un sistema di rimandi evocativo (es. ricostruzione della strada del Cairo a Parigi nel 1889). L’enfasi e la spettacolarizzazione nello spazio dell’esibizione sanciscono l’esistenza di un distacco tra rappresentazione e realtà, per cui ciò che sta dentro è pura rappresentazione e ciò che sta fuori è la realtà; questa realtà è reale proprio perché rappresentabile. Nelle esibizioni di ‘800-‘900, il mondo esterno era rappresentato come su un palcoscenico, e la certezza di una realtà esterna veniva rafforzata da 3 principi: 1) L’apparente realismo dell’esibizione, che crea effetto-certezza, cioè la certezza di una corrispondenza tra modello e realtà: questo effetto è legittimato dalla riproduzione all’interno di un modello dello spazio ‘esterno’ immediato. 2) L’organizzazione di queste riproduzioni attorno a un centro comune (legittima il centro stesso). 3) La posizione centrale dell’osservatore, circondato dall’esibizione e dotato di un punto di osservazione privilegiato collocato al di fuori di essa. Il realismo di queste riproduzioni creava uno strano rapporto tra l’oggetto-rappresentazione e il visitatore: infatti, pur essendo davanti ai suoi occhi, la rappresentazione rimaneva comunque il rimando a una realtà altra ed esterna; il visitatore si trovava quindi separato da essa. L’accettazione della separazione tra interno (rappresentazione) ed esterno (realtà) è favorita dalla segregazione, che ci fa pensare di trovare la realtà una volta usciti da dall’esibizione; queta aspettativa viene a volte delusa, in quanto lo spazio esterno viene spesso interpretato come rappresentazione di altro, come espressione di una società e delle sue relazioni di potere. Si potrebbe quindi pensare che tutto il mondo sia una rappresentazione, e la realtà non sia mai raggiungibile a causa del filtro frapposto dalle nostre categorie concettuali. Un atteggiamento alternativo a ciò è quello che tende a interpretare lo spazio espositivo come una mistificazione, pensato per camuffare le relazioni di potere sottese ai rapporti di produzioni: lo si accusa quindi di mostrare solo immagini distorte del mondo. Secondo Mitchell, scegliere tra queste 2 posizioni asseconderebbe la tendenza a distinguere esterno/interno e il posizionamento del soggetto che guarda il mondo, creando l’apparenza di un ordine. È tramite questa distinzione tra interno (rappresentativo) ed esterno (concettuale, ordinato) che l’individuo moderno ha imparato a sperimentare la realtà, cioè attraverso un sistema ordinato di rappresentazioni che trasmettono l’idea di un mondo simbolico, infinitamente rappresentabile ma mai veramente presentabile. Viaggio ad Oriente Un ipotetico viaggiatore armato di rappresentazioni dell’Altro acquisite attraverso le esibizioni cui ha fatto da spettatore sarebbe presumibilmente a disagio durante il primo contatto con l’Oriente, a causa della mancanza di ordine. Tuttavia, dopo qualche tempo, egli comincerà a ri-orientarsi adottando qualche prospettiva che dia un senso alla sua esplorazione (es. mappa, racconti): questo nuovo ‘orientamento’ gli consente di ordinare lo spettacolo offerto ai suoi sensi grazie alla possibilità di osservare dall’alto (prospettiva sensata). A questo punto, il viaggiatore assocerà ciò che vede alle pre-conoscenze che lo hanno condotto in ‘terra straniera’: in modo contradditorio, si trova a leggere uno spazio reale come se fosse un testo, convinto che questo debba avere un senso. Inoltre, compare la volontà di non comparire agli occhi della realtà per poterla osservare in maniera distaccata: questo distacco è riproducibile solo nascondendo l’osservatore e naturalizzando il carattere prospettico del punto di osservazione, ovvero immaginando la realtà come uno spettacolo (regala innocenza ed obiettività). Tuttavia, il paradosso su cui si fonda la logica della metafisica della rappresentazione è ancora presente: l’esploratore non si accontenta di rimanere distaccato, ma vuole immergersi in quella realtà. L’unico rifugio per superare questa situazione è cercare rifugio nella certezza della rappresentazione offerta dalla logica del world-as- exhibition, in cui si possono conciliare partecipazione e distacco. Ma come è possibile? Se nell’esibizione esiste la rappresentazione di un luogo, questo luogo esiste certamente, anzi, la riproduzione crea un rapporto univoco e stabile tra la cosa riprodotta e la riproduzione: se il mondo è rappresentabile, allora esiste come significato del significante che abbiamo di fronte. La certezza della rappresentazione avvalora così l’esistenza di una realtà che ci appare attraverso le gabbie concettuali concepite dal nostro sistema di rappresentazioni per raccontarla. Di conseguenza, ciò che non è rappresentato/classificato necessita di essere ordinato (la cartografia rappresenta l’ordine del territorio). Rabat Mitchell utilizza l’esempio del protettorato francese sul Marocco (dal 1912) per illustrare come la metafisica della rappresentazione si trasmette sullo sguardo coloniale. In questo periodo, il Maréchal Lyautey (Résidente Général del Marocco) si avvale di urbanisti e pianificatori, ma anche geografi, per trasformare la nuova capitale in una ville nouvelle francese affiancata dalla medina. Egli suggerisce di leggere l’insieme degli edifici come una ventola con al centro l’amministrazione e poi i Ministeri disposti secondo un ordine logico (ogni palazzo sta nel luogo che gli spetta): l’organizzazione della città doveva suo interno; ciò significa aprirsi a nuovi saperi/linguaggi, ma non si deve trascurare la prassi; vi è la necessità di una politica riguardante i luoghi di produzione del sapere (es. inclusione di minoranze). Queste questioni sono particolarmente sentite nell’ambito del settler colonialism, legato all’insediamento permanente di coloni che ha determinato la marginalizzazione delle popolazioni indigene (es. Canada, Australia): a tale proposito, si sono sviluppate le Indigenous Geographies, per cui è fondamentale dichiarare il proprio posizionamento (= geog. di genere), che evidenzia come esistano prospettive pluriversali. Una delle sfaccettature è il femminismo decoloniale, le cui linee fondamentali sono state determinate da Maria Lugones: viene proposta una prospettiva intersezionale con una grande importanza attribuita all’embodiment. Secondo la geografa Ramírez, la dimensione decoloniale del rapporto con la terra assume particolare rilievo nell’ambito del pensiero di genere: il principio Cuerpo-Territorio colloca e fonda la comunità e il territorio come unico soggetto dell’azione politica, alternativa alla separazione tra soggetti e mondo-oggetto tipica del pensiero moderno. Inoltre, le geog. decoloniali mettono in discussione il ruolo di cartografia e mapping, chiedendosi se il potere della mappa non possa essere usato per la costruzione di altri possibili mondi epistemici derivanti dal rapporto degli Indigeni con la terra; decolonizzare la mappa potrebbe essere una pratica per decentrare l’immaginazione cartografica coloniale (es. sostituire i toponimi attribuiti dai coloni ridando voce alle popolazioni indigene). Una delle proposte più radicali delle Indigenous Geographies è quella di conferire authorship alla terra (es. Bawaka Country, che include sia il paesaggio che gli umani che lo compongono). Metodi e metodologie per la ricerca sul campo in geografia 1. Metodologie e ricerca qualitativa La ricerca qualitativa in geog. si pone l’obiettivo di comprendere le interazioni tra gli elementi che compongono la molteplicità dell’esperienza umana: l’attenzione è rivolta a processi sociali e interazioni interpersonali, ma può comprendere anche elementi non umani (es. rapporto tra società e territorio). Questi metodi di ricerca emergono all’inizio del ‘900 con lo sviluppo di etnografia e antropologia; in seguito, i metodi di ricerca qualitativa penetrano sempre più nelle scienze sociali fino ad arrivare al proliferare di pubblicazioni degli anni ’80-’90. Ciò è attribuibile allo sviluppo di prospettive critiche che influenzano la geog. (es. studi femministi, post-coloniali…) e sottolineano il ruolo delle metodologie di ricerca nel determinare il tipo di conoscenza che caratterizza una disciplina. La ricerca qualitativa evidenzia nella geog. contemporanea la soggettività degli individui/gruppi e il dettaglio dei dati; per questo, la ricerca deve continuamente evolversi. Vengono utilizzati metodi di ricerca specifici con finalità di produrre dati per indagare processi e relazioni. Al contrario, la ricerca quantitativa occupa una presenza marginale nella geog. contemporanea: le analisi rispondono a un numero limitato di questioni analizzando grandi quantità di dati che possono produrre generalizzazioni. Per metodologia di ricerca si intendono metodi, basi filosofiche/teoriche, pratiche e processi che sottendono la ricerca. La definizione di una metodologia implica lo sviluppo di un progetto che comprende varie fasi chiamate design cycle: 1) Scelta di un tema/contesto che abbia rilevanza accademica/sociale e definizione di research question (chiara, specifica e con risposta aperta); 2) Processo di literature review, cioè analisi delle risorse accademiche già pubblicate relative all’argomento per posizionare la propria ricerca nel dibattito scientifico; 3) Scelta dei metodi di raccolta dati; 4) Risposta alla research question. Un termine fondamentale è ‘dato’: esso riguarda stimoli, percezioni, numeri, fatti, ciò che osserviamo sul campo e le interviste che conduciamo; questi materiali presi singolarmente non hanno senso, ma una volta selezionati/organizzati diventano analizzabili/comunicabili. La raccolta dei materiali Spesso si analizzano i dati qualitativi attraverso il processo di triangolazione, che si basa sull’uso di metodi e fonti d’informazione diversi per confermare i risultati; alcuni tra i metodi più utilizzati sono testuali (es. archivi), orali (es. interviste), di osservazione, non rappresentazionali (si basano su altri modi di espressione). Anche la scelta del gruppo è fondamentale: bisogna prendere in considerazione le caratteristiche sociali che potrebbero influenzare il pov dei partecipanti; le persone influenzano la ricerca in modo attivo, e devono quindi essere selezionate/classificate con cura. La scelta di chi partecipa avviene attraverso processi di campionamento, che può essere: - Casuale; - Finalizzato (sulla base di criteri di inclusione/esclusione); - Stratificato (divisione in sottogruppi da cui si sceglie); - Snowball sampling (un gruppo chiave di riferimento introduce altri gruppi); - Di convenienza (individui facilmente accessibili). Non c’è un numero massimo/minimo di partecipanti da coinvolgere, ma si tende a fermarsi quando i dati raccolti non apportano nuove informazioni (punto di saturazione). Nella ricerca qualitativa ci sono 2 approcci per la raccolta/analisi dei dati: Deduttivo → dall’universale al particolare – testa la validità di premesse teoriche in casi empirici; Induttivo → dal particolare si ricavano principi generali. L’analisi dei dati Dopo la raccolta i materiali vanno organizzati e analizzati attraverso un processo di sintesi/interpretazione in cui si dà senso a quanto raccolto. Il primo passo è la trascrizione, manuale o grazie a software; in seguito, si riordinano le idee attraverso il coding, tramite cui si assegnano valori ai dati in base a somiglianze/linee tematiche. Una volta organizzati i codici, si deve decidere come analizzare i dati: Analisi tematica – identifica i temi che emergono dai materiali raccolti; Analisi del discorso – le strutture che governano l’uso del linguaggio vengono analizzate all’interno del loro contesto sociale; Grounded analysis – testa una determinata teoria attraverso casi empirici. Le pratiche di interpretazione dei dati non sono mai neutrali. I nuovi approcci critici alle scienze sociali reclamano l’uso del soggetto in prima persona per portare in superficie la natura dialogica dei processi di ricerca (procedura di positionality, che riguarda la collocazione sociale, culturale e politica di chi fa ricerca). L’etica nella ricerca qualitativa La raccolta di dati qualitativi richiede spesso un’interazione tra chi fa ricerca e le persone coinvolte; questo processo è influenzato da norme/regole sociali, aspettative, relazioni di potere, limiti imposti dal contesto. L’etica riguarda la condotta di chi fa ricerca e le sue responsabilità nei confronti dei soggetti coinvolti; a livello generale comprende relazioni di potere (es. contatti con minoranze sono asimmetrici), privacy (è essenziale garantire anonimato e non-identificabilità omettendo certi dati non essenziali), consenso informato (informazioni sul progetto di ricerca, attesta la disponibilità a partecipare), possibili danni fisici/psicologici (es. provocazione di stress). 2. I metodi della ricerca qualitativa Il lavoro etnografico L’etnografia permette di analizzare le geog. del quotidiano esplorando luoghi, ambienti, gruppi, attività sociali e relativi processi/problematiche; attraverso di essa, chi fa ricerca ha la possibilità di entrare e divenire parte integrante del processo di ricerca: per questo, i risultati sono spesso influenzati dalla posizione di chi fa ricerca e ne incorporano la soggettività. Ciononostante, permette di comprendere la complessità delle relazioni spaziali e socio-ambientali e come queste siano prodotte da quotidianità e pratiche di individui; adottare questi metodi significa cercare di porsi in una posizione privilegiata all’interno del contesto esplorato. Prima del lavoro sul campo è necessario informarsi e avanzare un preliminare quadro conoscitivo tenendo conto di eventuali problemi. Spesso il campo (field), dove si raccolgono le informazioni, è contrapposto all’idea di casa (home), cioè il luogo in cui si torna e i materiali vengono rielaborati; il campo è quindi prodotto di varie pratiche e discorsi. Il concetto di campo (Driver) è fondamentale perché illustra come le etnografie non rispecchino la verità oggettiva del terreno di ricerca, poiché il campo è anche il prodotto delle pratiche di ricerca; il racconto etnografico è quindi sempre parziale. Prima di affrontare la ricerca bisogna decidere se adottare un approccio aperto (dichiarando la propria identità) o in incognito. Interviste e osservazione partecipante Le interviste sono il metodo orale più utilizzato poiché permettono di interagire con individui in grado di fornirci informazioni utili alla ricerca viste dalla prospettiva dell’intervistato. Secondo Kevin Dunn, questo metodo è strategico per 4 ragioni: colmare una mancanza che altri metodi non forniscono (es. statistica), esaminare comportamenti/pratiche complessi, raccogliere opinioni diverse o simili in base alla classe sociale, lasciare modo a chi è coinvolto di esprimere opinioni. Le interviste si dividono in 3 tipologie: 1) Strutturate (lista predeterminata di domande poste a tutti nello stesso ordine, poca interazione); 2) Non strutturate (gli intervistati guidano la conversazione secondo alcuni spunti loro forniti); 3) Semi-strutturate (le domande sono poste in ordine diverso a seconda della persona, eventuale aggiunta di nuove domande non previste). L’intervista richiede una certa preparazione: si deve predisporre di una traccia scritta, che gode però di flessibilità. Per stabilire un rapporto con gli intervistati è necessario ottenere la loro fiducia enfatizzando carattere confidenziale e anonimato, e informando sul background di chi conduce la ricerca; questo rapporto deve essere mantenuto anche in seguito, anche per favorire lo snowball effect (coinvolgimento di altri soggetti potenzialmente utili grazie all’intervistato). Registrare e prendere appunti sono i metodi principali di documentare un’intervista. L’intervista permette l’accesso al quotidiano delle persone, ma è spesso influenzata da opinioni/posizioni dei soggetti intervistati; pertanto, la geog. contemporanea adotta la participant observation, caratterizzata dall’influenza di chi studia sul campo, che contribuisce a crearlo. Questa comprende varie tecniche: si definisce ‘controllata’ se chi studia prende una decisione esplicita su cosa osservare (primaria – chi ricerca agisce in prima persona vs secondaria – altre persone interpretano quanto raccolto), e ‘incontrollata’ se si lascia influenzare dal contesto. 3. Sul campo… Etnografia, potere e gatekeeper in Uzbekistan e Vietnam (Zinzani) Questi paesi condividono un quadro socio-politico e istituzionale influenzato dai processi di transizione post-socialista e una forte centralizzazione politica del potere; in entrambi i casi è fondamentale il ruolo dello Stato come knowledge gatekeeper (detiene controllo di accesso a conoscenze, dati, informazioni). Etica, etnografia e metodologie non rappresentazionali nel dark tourism in Giappone dopo il disastro del 2011 (Martini) La ricerca ha evidenziato i rapporti tra i residenti del nordest e i visitatori internazionali giunti per fare un’esperienza di turismo nei luoghi di morte e disastri ambientali (terremoto di magnitudo 9).