Scarica Riassunto del libro Collezionisti e musei e più Sintesi del corso in PDF di Museologia solo su Docsity! Raffaella Fontanarossa Collezionisti e musei. Una storia culturale Parte prima Capitolo primo: le parole chiave 1. I musei prima dei musei Cos’è un mouseion? Da sempre ha molte letture. Il geografo Strabone chiama mouseion un ambiente porticato dalla biblioteca di Alessandria d’Egitto abitato dalle 9 nove Muse dee della poesia, della musica e delle arti liberali. È un luogo d’incontro sul modello dell’Accademia platonica ateniese: la biblioteca di Alessandria avrebbe ispirato la nascita dei musei in età moderna. Nell’Europa rinascimentale verrà interpretata come grotte e giardini, una sorta di musei senza pareti, terreni ideali per i primi protomusei. Germain Bazin individua ‘il più vecchio museo del mondo’ nei templi nipponici primi depositari di arte religiosa e profana, in particolare nel tesoro di Shoso-in del VII sec sito del tempio buddista di Kyoto. Alcuni critici cinesi considerano il tempio di Confucio a Pechino il primo museo asiatico e del mondo. In realtà primo tempio confuciano trasformato in museo è a nord di Shanghai nel 1994. Anche i nomadi, gli Sciti ad esempio, raccolsero tesori: trionfi di coronamento delle campagne vittoriose. Anche Vitruvio in de architectura descrive dimore di cittadini abbaineit come pinacothecae. 2. Per una definizione di museo Georges-Henri Rivière primo direttore dell’International Council of Museums (ICOM): principale organizzazione internazionale che rappresenta musei e professionisti, nata a Parigini nel 1946. Definizione congresso di Seul del 2004: il museo è un’istituzione permanente senza sono di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo, aperta al pubblico, che acquisisce, conserva, compie ricerche e studi, espone e comunica il patrimonio materiale e immateriale dell’umanità e del suo ambiente per finalità di educazione, di studio e di diletto. La definizione poi integra il concetto di patrimonio (prima riguarda solo ambiente, poi il paesaggio e infine patrimonio intangibile). 15 anni dopo con l’aumento del numero dei musei e insieme alle difficoltà di gestione in quelli già esistenti si torna sul tema del ruolo del museo nella società moderna e globale. Alla conferenza di Kyoto risulta una definizione che divide il tavolo: i musei sono luoghi di democratizzazione, inclusivi e polifonico per il dialogo critico sui passati e sui futuri. Riconoscendo e affrontando i conflitti e le sfide del presente, conservano reperti ed esemplari in custodia per la società, salvaguardano diversi ricordi per le generazioni future e garantiscono pari diritti e pari accesso al patrimonio per tutte le persone. I musei non hanno scopo di lucro. Sono partecipativi e trasparenti e lavorano in collaborazione attiva con e per le diverse comunità per raccogliere, conservare, ricerche, interpretare, esporre e migliorare la comprensione del mondo, puntando a contribuire alla dignità umana e alla giustizia sociale, all’uguaglianza globale e al benessere planetario. Estensori: coloro che riconoscono nuovo ruolo attivo dei musei nella società civile. Fronte opposto preoccupazione tono politico non tiene conto delle tradizionali funzioni del museo. La definizione di museo, lungi dall’essere espressione di mode temporanee deve rispondere all’esigenza di formulare prospettive future= strumento di formazione, tutela e trasmissione dei tre elementi su cui si fonda la società (patrimonio culturale, memoria collettiva e concentro di cultura di ogni comunità). 3. Nell’arca di Noè Fare memoria conservando ed esponendo frammenti e rovine del passato vuol dire restare ancorati alla contemplazione del passato. Henry-Pierre Jeudy ‘il dovere della memoria’ che oggi è unito al senso di colpa, non siamo più liberi di dimenticare. Altri hanno detto che per andare avanti bisogna saper dimenticare. È un mondo che guarda all’indietro. Ci sono però musei che guardano al presente come quelli di arti visive contemporanee o dedicati ad artisti viventi. Ci sono musei che si occupano del futuro come la mostra the future starts here del 2018 al Victoria and Albert Museum. È innegabile però che i musei siano istituzioni rivolte alla conservazione del passato: conservazione, cura ed esposizione delle assenze, che si sono rivelate tra il 20 e 21 sec un importante motore per la produzione del patrimonio della memoria collettiva (World Trade Center, Memoriale della Shoah,..). questo perché: i musei funzionano, in parte intenzionalmente e in parte contro la loro volontà, come monumenti alla fragilità delle culture, alla decadenza di grandi istituzioni e dimore culturali, al tracollo dei rituali, alla scomparsa dei miti, agli effetti distruttivi delle guerre, della trascuratezza e dei dubbi corrosivi. 4. Il patrimonio culturale In Europa la nozione di patrimonio culturale risale all’ambito giuridico del diritto romano e alle teorizzazioni tardo ‘600. Già introdotto a fine ‘800, ma solo sviluppato in Occidente nel nuovo Millennio è il concetto di patrimonio immateriale o patrimonio intangibile. Un concetto che rispetto a quello di patrimonio materiale ha fatto un percorso inverso, dalla cultura orientale fino alla cultura occidentale. Il patrimonio culturale intangibile sono le pratiche, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, le abilità (così come gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati) che le comunità, i gruppi e, in alcuni casi, gli individui riconoscono come parte del loro patrimonio culturale. Gli elenchi dell’UNESCO includono: danze, canti, musiche, celebrazioni, patrimonio alimentare e digitale. Un concetto più ampio e innovativo di eredità-patrimonio culturale è stato introdotto nel 2005 dalla Convenzione di Faro: ‘un insieme di risorse ereditate dal passato che le popolazioni identificano come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione’. Tipicamente italiano è il concetto di ‘paesaggio culturale’ che è paesaggio vivente, fisico e sociale, materiale e immateriale: ambiente di vita di ogni popolazione. Espressione della diversità di patrimonio culturale e naturale; non solo caratteristiche fisiche ma anche percezione e relazione tra fattori naturali e culturali in costante evoluzione. 5. Tipologie museali mostre. Uscita dal settore degli studi di erudizione locale, la storia del collezionismo e dei musei si integra nella storia culturale, ma non trascura altri campi: neuroscienze e psicoanalisi (studiano motori alla base di fenomeni come desiderio e possesso, accumulo e passioni) La storia del collezionismo consente di ricostruire la biografia culturale degli oggetti, l’accumulo e le trasformazioni di significati che investono e modellano le opere nei passaggi di proprietà e luogo. Gli oggetti di una collezione divenendo capitali simbolici, entrano nella storia culturale: come tali vengono caricati di storie e nuovi significati. Le collezioni e i musei non sono neutrali: la trasformazione dell’oggetto prosegue anche quando fa parte di una raccolta perché essa cambia frequentemente e modifica lo stato degli oggetti a seconda del modo in cui vengono presentati ed esposti. Alla fine collezionismi e musei non appartengono a nessun campo particolari, finiscono così per coincidere con la cultura del periodo di un determinato paese. Capitolo secondo: la preistoria del collezionismo 1. I tesori I due nuclei principali del collezionismo di età medievale sono: tesori dei principi e tesori istituzioni ecclesiastiche. Parola tesoro diverse origini come ad esempio la parola della letteratura greca thesauros= cassetta per offerte, deposito beni vita comune dello Stato e delle famiglie. Definizione di Pomian: tesori sono collezioni senza collezionisti. Per molto infatti non risalgono a scelte di un individuo ma sono di sovrani o comunità religiose perché oggetti preziosi per materiale, origine o rarità. Spesso usati come merce di scambio anche attraverso fusione dell’oro o estrazione pietre preziose. Federico II di Svevia sempre seguito dal suo tesoro contenuto in bauli. L’imperatore avviò un’opera di promozione e produzione di codici miniati, manifatture di gioielli, stoffe e tappeti. 1024 con saccheggio di Costantinopoli i crociati portarono in Occidente il tesoro imperiale (corone, cammei, pietre, avori, smalti, icone,..)= alcuni di questi oggetti diventarono parte delle maggiori collezioni museali europee. Simbolo dei bottini di guerra sottratti a Costantinopoli è la quadriga bronzea dell’Ippodromo posta sulla facciata della basilica di San Marco. Così come gli altri oggetti portati a Venezia da Costantinopoli sono oggi il nucleo più interessante dell’odierno Tesoro di San Marco. Tesoro marciano diventato museo solo nel 1832, ma ha svolto già da prima funzioni tipiche dell’istituzione dalla sua creazione nel medioevo; si fa risalire a questo caso il primo esempio di “protomuseo” e “museo pubblico”. Nelle chiese medievali era solito esporre nelle navate: artificialia ossia prodotti creati dall’uomo; naturalia prodotti creati dalla natura (animali, pietre, minerali,..) rari e curiosi, esotici o inconsueti (denti di coccodrillo, lingue di serpenti,..) ai quali attribuire poteri taumaturgici e apotropaici. Le chiese medievali si pongono come all’origine dei musei appunto per questa natura pubblica di esposizione e per la carica simbolica che viene data agli oggetti in cui la comunità si riconosceva. 2. Le prime testimonianze di collezionismo medievale Dopo la caduta dell’impero Romano e l’avvento del cristianesimo, la chiesa diviene potente nella vita spirituale e anche terrena. Abate Suger uomo di Chiesa a cui appartiene una delle prima testimonianze di collezionismo medievale: oggetti d’arte e suppellettili liturgici (ornamenta) che conserva ‘al servizio della santa eucarestia’ in 5 armadi. La Chiesa però in realtà condanna ogni forma di edonistica di possesso; Nei secoli successivi gli stranieri in visita a Parigi faranno tappa nell’abbazia di Suger per il tesoro. Oggi maggior parte del tesoro è nella Bibliothèque Nationale e al Musée du Louvre. Unica lista autentica che dimostra l’esistenza di una collezione d’arte nel ‘300 è un promemoria in latino del 1335 del notaio Oliviero Forzetta in occasione del suo viaggio a Venezia: collezioni veneziane di monete, marmi e bronzi, testi sacri (Seneca, Ovidio,..). È sul finire del ‘300 che si pongono le basi, premature, per studi scientifici dell’antiquaria. 3. Primi collezionisti in grande stile Jean, duca di Berry mantiene un profilo politico modesto e passerà alla storia per la sua passione per il collezionismo: Schlosser lo definisce il primo collezionista in grande stile. 1306 si sposa con la figlia del di conte di Armagnac che gli porta in dote un ulteriore ingente patrimonio, oltre al suo tesoro principesco. Aneddoto= chiedeva in prestito libri per farli ricopiare ma senza restituisci poi per tenerli nella sua biblioteca personale. L’interesse per i codici miniati lo porta a promuovere nuovi linguaggi, in particolare per l’arte fiamminga e boema. Anche Carlo di Valois, uno dei suoi fratelli, re di Francia dal 1364, si distingue per il tesoro principesco e il gusto di collezionista moderno. Anche Carlo IV di Lussemburgo e imperatore del Sacro Romano Impero fu un collezionista infaticabile: fece costruire vicino Praga un castello per custodirvi il tesoro della corona, i suoi archivi e la biblioteca personale. Al centro del castello si trova la cappella della Santa Croce: custoditi gioielli e reliquie in una stanza riccamente ornata con decorazioni di pietre preziose, 137 tavolette con ritratti di persone importanti. 4. Camere delle meraviglie fra Nord e Sud Europa Camere del tesoro iniziano a diffondersi nella seconda metà del XVI sec per tramontare dopo il 1630. Kunstkammer e Wunderkammer sono entrambi in uno dalla metà del XVI sec. È un concetto saldamente ancorato alla concezione tardo rinascimentale di matrice nordica, con rare incursioni nell’Italia rinascimentale: solo due eccezioni il Museo Kircheriano di Roma e la collezione milanese Settala. Le Wunderkammer non sono contenitori ermetici= le contaminazioni portano a infinite varianti: diversi modi di registrazione e documentazione. Troviamo documenti anche tramite incisioni. In alcuni casi sono dei ‘protomusei’, cioè raccolte che sono accessibili a gruppi ristretti di visitatori. Dal XVIII sec verranno smantellati per dare origine a musei di storia naturale, arti applicati, archeologie e etnografia. 5. Gli studioli rinascimentali: Ferrara, Urbino, Gubbio e Mantova Diverse declinazioni di studiolo: camerino, studietto, scrittoio, antiquario,.. è uno spazio all’interno dei palazzi nobiliari adibito a studio e meditazione. Spesso lo studiolo, come quello dei papi avignonesi, è connesso alla biblioteca oppure coincide con la camera del tesoro. La tipologia di studiolo si fa risalire allo scriptorium classico di cui si hanno testimonianze nelle serie di cicli medievali. Tra i primi esempi di studiolo rinascimentale è dei fratelli Lionello e Borso d’Este realizzato nel 1447-63 nel palazzo Delizia di Belfiore a Ferrare, verrà però distrutto da un incendio nel ‘600. Si può avere un’ipotetica ricostruzione grazie ad una lettera spedita da Guarino da Verona (colui che ne cura il progetto iconografico). Studioli di Federico da Montefeltro erano riservati agli ospiti della sua corte. Quello principale al piano nobile di Palazzo Ducale a Urbino (1473-76)= tarsie lignee, 28 ritratti di uomini illustri, sedili e armadi, 30 codici, strumenti musicali e altri oggetti. L’importanza di questo studiolo è sottolineata a livello architettonico. Il Duca commissiona un secondo studiolo per la sua residenza di Gubbio= ciclo dedicato alla glorificazione di Federico e della sua dinastia. Smontato e venduto tra ‘800 e ‘900, lo studiolo è stato comprato nel 1939 dal Metropolitan Museum di NY. A Ferrara fu Isabella d’Este, dopo aver fatto costruire la sua biblioteca con manoscritti classici, Dante e Petrarca e di letteratura del tempo, allestisce un primo studiolo all’interno della torre di San Nicola del castello di San Giorgio. 6. Gli studioli rinascimentali: Caprarola, Sabbioneta e Firenze Nel corso del ‘500 lo studiolo, lo studio e le camerate diventano sinonimi di collezione perché destinati a ospitare parti ragguardevoli delle raccolte. Studiolo del cardinale Alessandro Farnese a Caprarola con soggetto l’esaltazione della vita solitaria. Gli studioli della corte medicea sono noti da quello di Piero de’ Medici a Palazzo Medici con 12 medaglioni con il ciclo dei mesi realizzati da Luca della Robbia (ora al Victoria and Albert museum). Anche Cosimo I de’ Medici avevo uno scrittoio o tesoretto: iniziata la costruzione nel 1545 su progetto di Vasari che realizza un ciclo di affreschi sul soffitto con gli Evangelisti e un ciclo con arti e muse nella volta. Sempre a Palazzo Vecchio come quello di Cosimo I, nel ‘900 è stato riallestito lo studiolo di Francesco I de’ Medici un raro esempio di studiolo antico conservato quasi integralmente. 7. Dalla “galerie” alla galleria Nel vocabolario di Filippo Baldinucci del 1681 la voce ‘studiolo’ è scomparsa: come struttura architettonica che accoglie collezioni c’è ora la ‘galleria’. Nell’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert del 1765 in calce alla voce ‘musèe’ si rinvia al termine ‘cabinet’. Mentre lo studiolo è uno spazio chiuso e riservato alle speculazioni del fondatore, la galleria testimonia la necessità di un rinnovato rapporto con l’esterno. Fra le due tipologie si colloca l’articolata sperimentazione di nuovi spazi espositivi (saloni, giardini, logge,..) che nel ‘500 coinvolge collezioni laiche ed ecclesiastiche. Per la prima volta a metà del ‘500 in Francia, la galere riprende forme classiche mutuate dagli atri, dai vestiboli e grandi vetrate per accogliere la luce. 1691 Vocabolario della Crusca “stanza da passeggiare dove si tengono pitture, statue, e altre cose di pregio” tratteggia la tipologica del lungo corridoio come nel disegno degli Uffizi di Vasari. Ben presto la funzione celebrativa della casata committente finisce per prevalere. Le gallerie di Francesco I a Fointanebeau, o nel ‘600 la Grande Galerie a Versailles sono concepite per esaltare le gesta dei sovrani con un programma iconografico su episodi storici o mitologici. In Italia i termini si sovrappongono e la Bellaria finisce per essere intesa anche come terrazza, pergola, padiglione, loggia,.. Capitolo terzo: il preludio dei musei. Una storia italiana 1. Roma 1471: il primo “museo” modello è quello delle logge dei palazzi romani dei papi: uno spazio di rappresentanza dove passeggiare al coperto con vista sull’Arno. Accessibile solo dalla Galleria, la Tribuna è un ambiente ottagonale coperto da una cupola di lacca vermiglia incrostata di madreperla e conchiglie: fu destinata ad accogliere i tesori delle raccolte medicee con un programma iconografici con rimandi ai 4 elementi, colori medicei (rosso, blu e oro) e con il bianco madreperla colore di Firenze. La Tribuna è un salto concettuale da parte di Francesco I: uno spazio aperto, simbolo del nuovo corso intrapreso nel suo ruolo di granduca. Nel 1584 viene aperta al pubblico anche se solo a una ristretta élite con funzione celebrativa, ma sono i primi passi verso la nascita dell’istituzione museale. Capitolo quarto: genesi dei musei d’oltralpe 1. Le raccolte principesche d’oltralpe Nelle corti italiane verso la fine del ‘400 principi, cardinale e papi incarnano le loro collezioni privati in spazi “pubblici”. A nord delle Alpi invece sul modello dei tesori dei duchi di Borgogna si formano altri importanti nuclei d’arte aperti in via eccezionale a visitatori selezionati. Nel nord Europa in primo piano per il collezionismo c’è la principessa Margherita d’Asburgo. Gli inventari delle sue raccolte a Palazzo di Savoia a Malines mostrano che ci sono principalmente dipinti: ritratti fiamminghi (anche i Coniugi Arnolfini), e anche opere di Hans Memling, Dirk Bouts, Bosh,.. La duchessa dispone anche di una ricca biblioteca e un piccolo cabinet in cui custodisce oggetti, orologi, giochi da tavolo,.. spazio che suscitava meraviglia negli ospiti in visita a corte. Nella prima metà del ‘500 si formano anche per volontà del re di Francia Francesco I le collezioni che daranno poi origine al Louvre, custodite all’inizio nella residenza di Fontainebeau. Dalla seconda metà del ‘600, a differenza dell’Italia dove l’antico continuerà a trionfare su modello delle collezioni dei papi, le collezioni principesche nordiche sono caratterizzate da dipinti, bronzetti, gemme e sculture moderne. La scelta dei soggetti è influenzata dal contesto storico, segnato dalle guerre di religione, dalla Riforma e dall’ondata iconoclasta. Nel sud Europa le collezioni del sovrano Filippo II di Spagna sono l’esempio delle scelte tematiche del paese, le collezioni si trovano a palazzo El Prado e Alcazar a Madrid e San Lorenzo de El Escorial. Predilezione sovrana per la pittura veneziana e fiamminga. 2. I castelli di Ambras e di Praga Ferdinando II riceve il castello di Ambras da suo padre Ferdinando I d’Asburgo, quest’ultima aveva realizzato a Vienna una Kunstkammer. Il figlio nel 1563 avvia a Ambras una serie di lavori per raccogliere le sue raccolte d’arte. Un inventario nel 1596 descrive la raccolta come una grande Kunstkammer con una ventina di armadi in legno di cirmolo, rispetto ad altre raccolte questa privilegia una approccio sistematico. Oltre a biblioteca, armeria e gabinetto delle meraviglie Ferdinando II crea il proprio antiquarium con teste, busti e statue antiche e un imponente medagliere. Introduce delle novità in relazione con ciò che succede nel sud Europa: il nucleo delle collezioni è aperto ai visitatori: ristretta cerchia ma è un passo avanti verso il museo. Nel suo testamento esprime la volontà che la collezione rimanga indivisa in situ. Ma nonostante ciò alcune opere finirono in vari musei. A metà ‘600 la biblioteca confluirà in quella imperiale di Vienna. Il castello divenne un museo solo nel 1880. Rodolfo II d’Asburgo, imperatore del sacro romano impero dal 1576, trasferisce nel 1583 la capitale da Vienna a Praga nel castello di Hradcany allestisce le sue collezioni. Come Jean de Berry chiedeva in prestito libri per poi non riconsegnarli e tenerli nella sua biblioteca. Aveva particolare attenzione per l’arte nordica e Italiana (Parmigianino, Raffaello, Tiziano, Veronese,..). gli inventari dell’inizio del ‘600 descrivono gli oggetti rari e bizzarri che distinguevano dalle altre la Kunstkammer di Praga. Ma, come esempi precedenti, la Kunst- und Wunderkammer di Rodolfo dura poco: dopo la sua morta gli oggetti preziosi confluirono nella camera del tesoro viennese. 3. Le corti tedesche protestati e cattoliche Nei paesi cattolici spesso le collezioni non sopravvivono alla dipartita del loro proprietari, nelle regioni protestanti ci sono le condizioni per una continuità; e le raccolte portano all’origine di forme di musei. A Kassel nel 1567 Guglielmo IV d’Asia estrae dal tesoro reale le curiosità naturali per ricollocarle nella sua collezione. In seguito le collezioni, anche successive, vendere tramutate in museo già in epoca tardo barocca. Nel 1560 a Dresda Augusto I di Sassonia aveva avviato una collezione accessibile fin dal primo ‘600: anche a Dresda le collezioni vennero riorganizzate in spazi museali nei primi anni del ‘700, come quelle di Berlino, San Pietroburgo e Copenaghen. Tra 1565 e 1571 il duca Alberto V erige a Monaco una Antiquarium per esporre le sue raccolte, tuttora esistente. Nella letteratura d’opeca è citato come ‘museo’ anche se non è aperto al pubblico e serve l’autorizzazione del duca per visitarlo. Nel 1565 a Monaco viene pubblicato un testo considerato un incunabolo della museologia, autore il medico olandese Samuel Quiccheberg che vuole proporre un modello di raccolta eciclopedica per un ideale gabinetto di curiosità posseduto dal principe. A stimolarlo è il collezioni del suo tempo. 4. Dispersioni del patrimonio artistico e forme embrionali di tutela Il tentativo di importazione del Laocoonte in Francia, condotto da Francesco I e concluso con un fallimento, non è un episodio isolato. Nella Firenze del primo ‘500 l’agente di Francesco I vuole donare alla Francia un’opera della camera Borgherini, Margherita Borgherini Acciauli si rifiuta di venderli e respinge con tono sprezzante la richiesta per la tutela del patrimonio locale. Negli anni ’80 del ‘500 però la camera venne smembrata e acquistata da Francesco I de’ Medici. Nel 1563 a Firenze viene fondata l’accademia delle Arti e del Disegno con Cosimo I, Vincenzo Borghini e Vasari: scopo di riconoscere agli artisti un’adeguata posizione nella scala sociale e garantirne la formazione. Tra gli strumenti di tutela del patrimonio, oltre ai provvedimenti per la salvaguardia delle opere, anche la musealizzazione. nell’Italia preunitaria i pontefici gestiscono varie forme di protezione dei beni culturali, opponendosi alle esportazioni, come nel caso del Laocoonte. Esempio di alienazione delle collezioni d’arte: 1627 Mantova, il duca Vincenzo Gonzaga II lascia via libera al sovrano inglese Carlo I che porta a Londra vari capolavori italiani (Raffaello, Tiziano, Caravaggio,..). Dopo la morte del sovrano inglese il Caravaggio verrà venduto al banchiere Jabach che lo cederò al re di Francia Luigi XIV, oggi al Louvre (Morte della Vergine). Questa situazione e analoghe, non vanno confuse con la presenza di artisti all’estero e delle loro opere dal momento della commissione: Tiepolo invitato a Wurzburg e Madrid dove produce e lascia capolavori; come Leonardo con la Gioconda e la Vergine delle rocce. Parte seconda Capitolo quinto: la nascita del museo moderno 1. I cabinets scientifici fra Olanda e Inghilterra Il fenomeno del collezionismo è nato nel 1500 sotto forma di Kunstkammern e di Wunderkammern, ma era appannaggio esclusivo di principi e sovrani e simboleggiava l’estensione diretta dei loro tesori. Nel 1600 le collezioni sono ormai un fenomeno molto diffuso in Europa ma sono finalmente entrate nelle dimore borghesi, pur se con significative variazioni di contenuto. Inoltre, la figura dell’amateur (appassionato ricercatore dilettante, collezionista curioso di opere d'arte, libri antichi, cimeli e oggetti naturali) inizia ad essere associata a quella del borghese erudito, medici o avvocati. 1500 Giovio aveva fondato il museo come collezione di ritratti e di arte. Nel 1600, a questa concezione di museo, si affianca quello consacrato alle curiosità della natura che riceve stimoli da personaggi come Isaac Newton, Gottfried Wilhelm von Leibniz, René Descartes e Galileo Galilei. Il fenomeno dei cabinets scientifici si sviluppa su larga scala soprattutto oltre le Alpi, a partire dai Paesi Bassi, dove grazie all'attività delle nascenti Compagnie delle Indie si diffonde una vera e propria moda, oltre che il gusto per le produzioni naturali esotiche, tropicali, importati da altri continenti. Alcune di queste raccolte private, acquistate da principi e sovrani, andranno a costruire i nuclei di importanti futuri musei. La politica verso i paesi d'oltremare concorreva a stimolare il gusto dei collezionisti per le produzioni naturali anche in Gran Bretagna. Intanto, come era avvenuto in Italia fin dal 1500, giardini botanici e di piante medicinali si installano accanto alle università. Tra questi uno è destinato sopravvivere, entrando a far parte del primo museo aperto in Inghilterra, parliamo dell’università e del museo di Oxford. Nel 1660 viene istituita la Royal Society, proprio nello stesso anno viene eletto Carlo II. Tra i membri fondatori di questa società scientifica c'è Elias Ashmole, un esperto di diritto, astrologo, medico, alchimista e antiquario. Nel 1677 Ashmole decide di donare le proprie collezioni di manoscritti e medaglie all'università di Oxford, che dal 1683 le allestisce in un apposito edificio. Benché fosse legato all'ateneo, il museo di Oxford è visitato fin dall'inizio anche da un pubblico vasto e il ricavato dei biglietti di ingresso riesce a coprire gli stipendi dei due conservatori che lo amministrano. Come accadrà per altre istituzioni, non tutti apprezzeranno che l'accesso sia garantito senza limitazioni di classe o genere. 2. Le origini del British Museum Il caso di Oxford, per quanto precoce, non rimane isolato. Alle origini del British Museum c'è un cabinet di curiosità naturali, quello di Hans Sloane, medico e successore di Isaac Newton alla Presidenza della Royal Society. In suo è uno dei cabinet di questo genere più ricchi d’Europa, corredato di biblioteca, stampe, disegni, monete e medaglie, presto noto e e ai primi musei fondati dai Papi a partire dalle collezioni archeologiche. A Roma si sperimentano anche le prime tipologie di architetture museali, private e pubbliche, destinate a diventare modelli da esportare in Europa e nel mondo. A Roma le antichità diventano sempre di più oggetto di pura ammirazione estetica, modelli per gli artisti: il vecchio contrasto tra paganesimo e cristianesimo si risolve nel culto del bello ideale, in cui il presente si identifica nell'antico. Il trionfo dell'antichità si deve per la maggior parte alla politica culturale rilanciata da Papa Clemente XI Albani. Tre anni dopo l’elezione alla cattedra di San Pietro, nel 1703, il Papa nomina l'erudito veronese, astrologo e archeologo Francesco Bianchini come presidente delle antichità di Roma. Bianchini, mentre vigila il patrimonio culturale, promuove nuove campagne di scavo e mette in cantiere il progetto di un Museo di Storia della cristianità denominato Museo Ecclesiastico. Nel 1763 Winckelmann viene nominato scriptor della Biblioteca Vaticana e termina la sua maggiore opera: La storia dell'arte nell'antichità. Tuttavia, il suo pensiero ha preso forma in uno dei primi edifici progettati ex novo per ospitare le collezioni di un privato, non di un pontefice, anche se comunque cardinale e nipote di un Papa: Alessandro Albani. Villa Albani fu realizzata dall’architetto Carlo Marchionni tra il 1747 e il 1763, è una residenza privata ma soprattutto un luogo di rappresentanza. Per la disposizione, il cardinale si avvale di Winckelmann in persona, in veste di bibliotecario incaricato anche della catalogazione. Winckelmann contribuisce a incrementare la collezione Albani favorendo il dialogo tra antico e moderno. Nel pieno spirito del suo tempo, il cardinale Albani rappresenta molto bene due facce della stessa medaglia: da un lato ordina la sua villa-museo e la fa allestire dal più importante archeologo dell'epoca; dall'altro, anni prima, aveva disperso parte delle sue statue classiche vendendole all'estero per bisogno di soldi. È per questo che nel 1733 viene redatto l'editto Albani. Per la prima volta, fra i motivi di protezione del patrimonio artistico, non viene indicato solo il pubblico decoro di quest'alma città di Roma, ma anche il gran vantaggio del pubblico e del privato bene, introducendo cioè la nozione di utilitas. Nel 1734 aprono i Musei Capitolini e Papa Clemente XII decide di donare una parte della collezione artistica del cardinale Albani; questa donazione, dopo quella di Sisto IV del 1471, rappresenta il secondo nucleo fondante del museo di scultura antica. 7. Il progetto più ambizioso e copiato di tutti Pur avendo compiuto importanti acquisizioni e aperto al pubblico alcune raccolte con oggetti di scavo, i predecessori di Clemente XIV non avevano fondato un grande museo e, anzi, avevano ribadito anche nei nomi scelti per quelli più recenti, l'opposizione tra sacro e profano. Il superamento di questa dicotomia, già manifesto nel contesto privato di Villa Albani, sta per essere confermato in ambito pubblico. Come i suoi predecessori, Papa Clemente XIV, implementa le misure per impedire l'esportazione di reperti e, nell'ambito delle politiche di acquisizione, annuncia nel 1770 di aver comperato la collezione Mattei per collocarla al pubblico decoro. Nel corso dell'anno seguente intraprende i lavori per il nuovo museo che accoglierà quest'ultima acquisizione insieme alle altre raccolte. Anche il Vaticano si dota dunque di un tempio del bello, che registra immediatamente molte lodi ma anche varie critiche. Non mancano neppure gli scandali innescati dalla parte più conservatrice della Roma papalina. Pio VI, divenuto Papa nel 1775, chiama due architetti famosi e li incarica di integrare i lavori del suo predecessore andando oltre il riordino degli spazi per costruire ex novo un museo, con l'abbattimento di una cappella affrescata dal Mantegna. Ad oggi conosciamo la sequenza dei nuovi allestimenti grazie alle vedute eseguite da Vincenzo Feoli, Giovanni Volpato e Abraham Louis Rodolphe Ducros. In breve tempo la Rotonda ispirata al Pantheon, con le otto nicchie per le statue grandi, il pavimento formato da lacerti musivi di epoca romana, la volta emisferica illuminata da un oculo zenitale e la scalinata di ingresso, diventa uno degli archetipi dei nuovi musei che si fondano in Europa e in America alla fine dell'Ottocento. È il trionfo del museo inteso come tempio, dove la ricchezza dei materiali impiegati, dai marmi ai mosaici antichi incastonati nella pavimentazione, alle colonne di alabastro, ai muri decorati, è tutt'uno con l'esaltazione delle singole opere. 8. Non solo Roma: il contributo degli studi locali Nell’Italia prima della sua unità molti stimoli di musei arrivano dalla storiografia regionale: le periferie valorizzano il patrimonio locale e aggiungono gli studi di antiquariato. Per esempio, nel 1719, apre il Museum Veronense fondato dal marchese Scipione Maffei. Per tutti gli anni 20 e 30 del 1700, Scipione Maffei viaggiò molto. Rientrato a Verona intorno al 1740, Maffei in carica l'architetto neopalladiano Alessandro Pompei di riprogettare il museo. L'idea è sempre quella dell'edificio classico quale miglior contenitore di reperti: le epigrafi, suddivise questa volta per categorie, vengono affisse lungo le pareti del portico dorico, che si sviluppa lungo i tre lati del cortile, per essere liberamente fruite. All'intento classificatorio, con cui il museo Maffeiano anticipa le teorie illuministiche di Diderot e D'Alembert, egli unisce dunque una spiccata volontà didattica. Rispetto alle altre raccolte private già aperte al pubblico, Maffei opera una selezione tra i materiali ed espone le opere originali. Dunque, Maffei esegue una scelta in base alla qualità dei pezzi, li distingue dalle copie e dai falsi, tutte operazioni che nella maggior parte degli altri casi erano demandate alla buona volontà e alla competenza dei visitatori. In questo secondo percorso, il marchese inserisce anche stele votive, statue, vasi, busti e bassorilievi, conferendo al Museo Lapidario Maffeiano una connotazione più artistica. Il caso di Verona non è un episodio isolato: per iniziativa di altri amatori ed eruditi, in diverse città italiane i muri di loggiati e cortili degli edifici pubblici, delle biblioteche, delle accademie locali, delle università espongono lapidi che li trasformano, di fatto, in musei. Accanto a questi primi esperimenti di razionalizzazione, non mancano gli allestimenti nei quali gli echi delle camere delle meraviglie tardo rinascimentali si fondono con il gusto preromantico per le rovine, dando origine a scenografie che oggi definiremmo immersive. 9. I primi musei a Napoli e le scoperte di Pompei ed Ercolano Mentre nel resto della penisola e dell’Europa occidentale i musei sono ormai un'istituzione radicata, Napoli oltrepassa la metà del diciottesimo secolo senza avere un giardino botanico, uno zoo, un osservatorio o una galleria pubblica. A differenza delle altre capitali degli stati italiani, le raccolte private qui non si trasformano in musei, nemmeno quella allestita tra palazzo e bottega di piazza Santa Chiara da Ferrante Imperato attorno al 1560. Questa situazione cambia radicalmente a ridosso delle importanti scoperte archeologiche di Ercolano (1710; scavata dal 1738), Stabia (1749) e di Pompei (1748). La baia di Napoli diventa quindi a un tratto una delle mete principali dei Grand Tour. Oltre ai viaggiatori, presto giungono anche i diplomatici, come William Hamilton (British Museum) e Dominique Vivant Denon (Louvre). Alla mancanza di istituzioni per la conservazione delle opere si associa l'assenza di leggi che regolamentino scavi ed esportazioni. In pochi decenni, Napoli finirà così per rivaleggiare direttamente con Roma anche per le antichità disponibili sul mercato. È stato Carlo di Borbone a emanare, nel 1755, il primo bando per la tutela del patrimonio del Regno. Inoltre, era stato proprio Carlo di Borbone, quando era ancora duca di Parma e di Piacenza, a promuovere l'esplorazione delle città vesuviane sepolte dall'eruzione del 79 d.C. A dare un impulso decisivo alla riorganizzazione delle raccolte d'arte concorrono avvenimenti politici e militari: la guerra di secessione polacca (1733-1738) si conclude infatti con la cessione di Napoli ai Borbone da parte dell’Austria. Carlo trasferisce quindi parte della ricca collezione ereditata dalla madre dalle residenze di Roma e Parma a Napoli e istituisce nel 1757 il primo museo della città: il Museo Farnesiano. Tra Napoli ed Ercolano, a Portici, un anno dopo la creazione del Museo Farnesiano, nel 1758, apre l’Herculanense Museum, così denominato perché i reperti che conservava provengono da alcuni scavi legati alla scoperta del vicino sito archeologico. L'eccezionalità del museo di Portici è puntualmente notata da Goethe, che nel Viaggio in Italia, pubblicato nel 1786, lo definisce senza indugi “l'alfa e l'omega di tutte le raccolte di antichità”. A dire il vero, non tutti i visitatori esprimono pareri tanto lusinghieri. Il processo di riunificazione delle raccolte archeologiche, che è alla base dell'attuale Museo Archeologico Nazionale, inizia nel 1777 ed è portato avanti dal figlio di Carlo III, Ferdinando IV Borbone. Dopo i primi allestimenti nel decennio della dominazione francese, con il ritorno dei Borboni a Napoli, nel 1816, l'istituzione partenopea verrà denominata Real Museo Borbonico. Si tratta di un museo universale con istituti e laboratori. La sua importanza in questo periodo è straordinaria non solo quale ricovero e mostra di opere, ma anche come centro di tutela artistica e archeologica del Regno di Napoli. Proprio a questo scopo, nel 1807, viene istituita una Soprintendenza agli scavi del Regno, con ampia competenza sul territorio meridionale per quanto attiene la sorveglianza dei privati, del mercato dell'arte e delle campagne di scavo. Più a sud, è significativa l'esperienza di Ignazio Paternò Castello, che, stimolato anche dagli scavi partenopei, è tra i primi collezionisti a dar vita a un museo pubblico destinato a rimanere di proprietà privata fino al primo Novecento. Il progetto di Paternò Castello si realizza nel 1757, quando espone le collezioni in un edificio fatto costruire appositamente accanto al suo palazzo, in cui installerà anche un gabinetto di curiosità. Solo nel 1926 una parte di queste raccolte verrà acquisita dal Museo Civico di Catania divenendo così anche di proprietà pubblica. L'abate Lanzi stava compiendo un'analoga rivoluzione agli Uffizi: in luogo di allestimenti basati su un approccio estetico e gerarchico, come quelli che stavano trionfando a Dresda o a Düsseldorf, il nuovo ordinamento, a Firenze come a Vienna, accoglie il nuovo pubblico degli amatori d'arte. Il museo non è più solo spazio di puro piacere sensoriale, le sue funzioni si avvicinano a quelle delle biblioteche: esso diventa anche un luogo di istruzione. 4. La Penisola Iberica tra cabinets scientifici e collezioni d’arte La triade giardini botanici, biblioteche, cabinets scientifici, a cui ben presto si affiancano le raccolte d'arte, è all'origine anche dei musei portoghesi, dove però, ad avere un ruolo chiave non sono principi e sovrani, né borghesi, ma soprattutto i religiosi. Due personalità si distinguono in queste imprese: Il francescano Manuel do Cenaculo de Vilas-Boas apre le sue raccolte scientifiche, etnografiche e di pittura prima alla comunità religiosa, poi a un numero sempre più significativo di visitatori. L'altro mecenate lusitano è un giovane pittore, José Teixeira Barreto che, dopo aver compiuto una serie di viaggi nell’Europa centrale e aver visitato anche l'Italia, si ritira in monastero Tibaes, nel nord del paese. Nel 1816 fonda una Casa di pitture formata soprattutto da ritratti e stampe che è di fatto la prima Pinacoteca del Portogallo. I musei sono alla base dell'educazione: prima a Lisbona poi a Coimbra, egli fonda i primi musei scientifici del Portogallo. Uno dei primi musei pubblici di arte è quello aperto a Porto nel 1833. Il tentativo della Real Academia de Bellas Artes de San Fernando, istituita Madrid tra il 1744 e il 1752, di creare il primo museo del paese, il Museo Fernandino (1815), fallisce. Tuttavia, in città, lungo la passeggiata del Prado, nell'edificio progettato da Juan de Villanueva per custodire un Gabinete de Ciencias Naturales, nel 1816 apre il Real Museo de Pinturas y Esculturas, più tardi denominato Museo Nacional del Prado. 5. Da dimora reale a museo Il Museo del Louvre, a cominciare dalla sua collocazione nel palazzo che per secoli era stato la dimora principale dei re di Francia, è profondamente radicato nella storia del paese. Dopo l'incendio del 1661 e lo spostamento della corte a Versailles nel 1682, gli allestimenti sono affidati all'architetto Louis Le Vau - a cui si deve, fra l'altro, la costruzione del Salon Carrè - e al pittore Charles Le Brun, che stende un inventario. Le opere rivestono essenzialmente la funzione di supporto didattico per gli artisti pensionanti del re, che installano nel salone i loro ateliers, e per gli allievi dell'Academie Royal di Peinture et de Sculpture. Sotto Luigi XIV si progettano anche nuovi allestimenti delle collezioni, con le sculture al pianterreno e i dipinti al primo piano. Intanto c'è già chi - come il critico Etienne La Font de Saint-Yenne - chiede a gran voce di liberare le collezioni dalle “prigioni di Versailles”. 6. Una rivoluzione, anche per il Louvre Quarant'anni dopo la veemente richiesta di Saint-Yenne, le collezioni vengono effettivamente liberate da Versailles. La definitiva trasformazione del Louvre in museo avviene infatti proprio in concomitanza con la Rivoluzione francese. La monarchia cade il 10 agosto 1792 e in soli 9 giorni viene emanato il decreto per trasformare il palazzo del re in museo pubblico, chiamato inizialmente Musée Francais. L'inaugurazione avviene simbolicamente un anno dopo, nel primo anniversario della Repubblica, il 10 agosto 1793. Nella Grande Gallerie, sui muri dipinti di verde vengono allestiti circa 600 dipinti provenienti dalle collezioni reali, affiancati da alcuni oggetti d'arte e busti antichi. In queste fasi il museo è visitabile negli ultimi tre giorni della decade, mentre i primi sei sono riservati agli artisti e agli stranieri. Accanto alle opere ci sono i cartellini e i visitatori hanno a disposizione visite guidate, oltre a un catalogo tascabile venduto a buon prezzo. I primi anni sono caratterizzati anche dai ripetuti periodi di chiusura. Istruzione e conoscenza non sono più riservate esclusivamente a una cerchia ristretta di persone. Il nuovo museo è da subito elevato a simbolo delle conquiste rivoluzionarie e destinato a svolgere un ruolo chiave nella formazione della nuova società: non è più il principe o il Papa a detenere le chiavi, ma lo stato. In realtà, benché dotato di apparati didattici, il Louvre è molto diverso da quello di oggi. È più che altro una Casa-Museo con sale ambientate e assomiglia a lussuosi appartamenti di satrapi, a grandi voluttuosi boudoirs di cortigiane, a gabinetti di sedicenti amatori d'arte. Anche il pittore Jacques Louis David rileva criticamente che il museo non ha da essere una vana raccolta di frivoli oggetti di lusso, utili soltanto a soddisfare un'oziosa curiosità. Deve essere invece un'autorevole scuola. Neppure l'accesso consentito a tutti riceve unanimi consensi, e anzi, le rumorose e irriverenti moltitudini di pescivendoli, soldati e contadini con scarpe di legno che si aggirano tra i capolavori del Louvre suscitano il disappunto anche del diplomatico Karl August Varnhagen von Ense. Un anno dopo l'apertura, nel 1794, si insedia nel palazzo dei re di Francia un direttivo che discute dell'opportunità di esporre le opere considerate contrarie agli ideali rivoluzionari. Finisce sotto inchiesta, per esempio, il ciclo Medici dipinto da Rubens che è destinato ai depositi. Tutta l'attenzione si concentra su Parigi e sul Louvre, capostipite dei musei rivoluzionari, legati all'idea dello Stato centralizzatore, creati per decreto e in seguito a soppressioni di edifici religiosi sconsacrati, con oggetti sequestrati o acquistati dai legittimi proprietari. 7. Espropriazioni rivoluzionarie e spoliazioni napoleoniche Nella seconda metà degli anni 90 del 1700, l'abate Henri Gregoire, uno dei capi rivoluzionari, conia la formula del “patrimonio liberato”. La Francia è chiamata a superare l'antica Roma e Parigi diventa una moderna Atene. Viene così elaborata la teoria del diritto morale al saccheggio con cui la Francia avvia una serie di prelievi in tutta Europa. Nel 1796 le truppe napoleoniche puntano verso l'Italia. Dopo l'armistizio con il re di Sardegna partono alla volta di Parigi i tesori della cattedrale di Monza, mentre dalla Pinacoteca Ambrosiana vengono sottratti, fra gli altri, il Codice Atlantico e i cartoni preparatori per la Scuola di Atene. Seguono, accolti da fastose cerimonie, i capolavori provenienti da Parma, Modena, Bologna e dal centro del paese. Un corteo saluterà l'ingresso nella capitale francese dei Cavalli smontati da San Marco a Venezia, in seguito issati, nel 1808, sull'arco di trionfo del Carrousel. Dallo stato pontificio raggiungono Parigi il Laocoonte, l'Apollo del Belvedere, il Nilo, il Torso. Paul Wescher lo definisce il più grande spostamento di opere d'arte della storia. Naturalmente, da questo progetto di museo universale non sono escluse le scienze e così dagli archivi vaticani vengono prelevati gli atti del processo a Galileo, mentre a Bologna il Museo Aldrovandiano è in parte smantellato e trasferito nelle raccolte parigine. Dal 1801 il Louvre è diretto da Dominique Vivant Denon, un diplomatico con un passato da libertino e faccendiere. Di lui si parlerà come dell'occhio di Napoleone, di cui sa interpretare gli ordini con un certo margine di autonomia. Bonaparte, infatti, dispone di prelevare le migliori sculture, ma Vivant Denon è più interessato alla pittura e riesce a formare un'eccezionale collezione: anzi due, perché ai saccheggi compiuti in nome della Francia affianca un'intensa attività finalizzata alla realizzazione della sua personale raccolta da arte. Infine, coordina la redazione del primo inventario generale delle collezioni del museo parigino. 8. Contro le requisizioni Le nuove acquisizioni non mancano di suscitare i dibattiti. Il critico d'arte Quatremere de Quincy scrive un manifesto programmatico contro la spoliazione delle opere d'arte per diritto di conquista. Il testo, inizialmente divulgato in modo quasi clandestino, viene dato alle stampe nel 1796. Le ragioni che lo portano a contestare lo spostamento delle opere d'arte, proprio mentre viene messo in atto ed è celebrato da quasi tutta l'opinione pubblica francese, non sono politiche. La sua è una precoce elaborazione di quella che oggi si definisce Teoria del contesto, in base alla quale solo le opere conservate nei siti originali, calate nel milieu culturale che le ha prodotte, hanno senso compiuto e restituiscono per intero il loro valore. La stampa locale dell'epoca dà grande risalto a queste parole e le reazioni non si fanno attendere. Una cinquantina di artisti firmano una petizione (sottoscritta anche da Vivant Denon) che pur non assumendo una posizione netta, mette in discussione lo scopo didattico di questi prelievi. Alexandre Lenoir nel 1795 aveva allestito il convento dei Petits Augustinis. Sotto il profilo museografico, Lenoir aveva introdotto diverse novità, per esempio un particolare uso della luce, che nelle prime sale, dedicate all'alto medioevo, era volutamente fioca, per diventare via via più vivida a mano a mano che accompagnava il visitatore lungo il percorso museale, sottolineando l'evoluzione degli stili. Questo è il museo dove Jules Michelet afferma di aver ricevuto l'impressione viva della storia che lo condurrà a scrivere la celebre Histoire de France. Quatremere de Quincy chiederà gran voce la chiusura di questo museo. L'idea che l'appropriazione intellettuale degli oggetti d'arte e la conoscenza del passato si fondino sulla loro appropriazione materiale verrà accolta dai principali musei europei. 9. I musei italiani nell’orbita dell’Impero questo contesto gli antenati degli attuali uffici periferici del ministero per i beni culturali, ovvero le soprintendenze. Tuttavia, il Regno d'Italia non si dota immediatamente degli adeguati strumenti legislativi per la tutela del patrimonio, ma attinge a quelli già emanati nei singoli stati preunitari, a partire da quello pontificio del 1820, che aveva rilanciato il concetto di pubblica utilità attraverso l'editto del cardinal Pacca. Altre tre leggi successive per la registrazione e la catalogazione dei beni culturali: A. (1902) Portante disposizioni circa la tutela e la conservazione dei monumenti ed oggetti aventi pregio d'arte o di antichità questa legge parla di cataloghi dei monumenti o degli oggetti d'arte e di antichità e di un elenco dei monumenti immobili e degli oggetti d'arte o di antichità B. (1907) Legge sul consiglio superiore, uffici e personale delle antichità e Belle Arti questa legge affida agli uffici territoriali il compito di tenere al corrente gli inventari e compilare i cataloghi C. (1939) Norme per l'inalienabilità delle antichità e delle Belle Arti, redatta dal ministro Giuseppe Bottai questa legge parla di elenco descrittivo degli oggetti d'arte 3. I primi progetti nazionali L'importanza di un censimento dei beni culturali è sottolineata nel tempo anche in vari documenti internazionali. In Francia, un primo catalogo del patrimonio viene affidato da Napoleone a Prosper Mérimée. Inventari e cataloghi infatti sono innanzitutto strumento di conoscenza legati all'esercizio del potere. Non a caso un nuovo grande impulso alle inventariazioni si registrerà nell'epoca coloniale. Nel secondo dopoguerra il governo francese affiderà a Malraux l'inventario dei beni del paese: questo progetto travalica le consolidate gerarchie tra le arti, classificando anche opere e architetture apparentemente marginali e valorizzandole nella loro realtà contestuale. In Italia, nel 1969, viene fondato l'Istituto centrale per il catalogo e la documentazione (ICCD). Il nuovo ente ministeriale inizia infatti a elaborare i criteri catalografici e a tradurli in apposite schede. Benché le schede del ICCD prevedano l'introduzione del numero di inventario dell'opera e il termine “inventario” compaia ripetutamente nell'Atto di indirizzo del 10 maggio 2001, nessun documento ufficiale ha esplicitato finora le modalità di assegnazione. Possiamo immaginarne la ragione. Queste indicazioni non si trovano nella legislazione dei beni culturali, ma più semplicemente nel Codice civile: l'inventario rappresenta infatti lo strumento giuridico per eccellenza. Una volta assegnato un numero di inventario al bene mobile, esso è automaticamente sottoposto a tutela e il responsabile delle collezioni ne risponderà in sede civile e penale in caso di danneggiamenti, furti o altre alienazioni. 4. Inventario e catalogo: istruzioni per l’uso Il termine “inventario” deriva dal latino tardo inventarium, un elenco o registro per trovare ciò che è in un posto. La sua compilazione, anche quando effettuata da personale non specialistico, per esempio da un notaio, deve fissare una situazione specifica, unica e particolare. Esistono varie tipologie di inventari: topografico, per generi, per proprietà e figurato. Queste regole vanno applicate anche agli inventari dei depositi, intesi come elenchi di oggetti che si trovano ospitati all'interno del museo, ma non sono di proprietà, e agli inventari dei depositi esterni, cioè delle opere consegnate in prestito ad altri enti. L'inventario non va confuso con il catalogo, strumento moderno di matrice illuminista. L'idea del catalogo deriva infatti dal progetto culturale espresso dall’Enciclopedie di Diderot e d’Alembert, il cui primo volume risale al 1751. Il termine catalogo deriva dal greco katalogos, un elenco o lista. A differenza dell'inventario, che è didascalico, il catalogo si configura come un elaborato critico personale. È dunque uno strumento scientifico, corredato da uno o più foto e senza un particolare valore legale. La realizzazione del catalogo dei beni culturali è oggi statale ed è affidata agli organi periferici del Ministero per i Beni e le Attività culturali e per il Turismo, dunque soprintendenze, poli museali, siti archeologici. Un sostanziale incremento alla catalogazione è stato dato, soprattutto tra gli anni 70 e i 90 del secolo scorso, dalle attività delle singole regioni. Purtroppo, stato e regioni non si sono coordinati sul sistema informatico da utilizzare per la catalogazione: le schede si rintracciano quindi tramite l'ICCD, ma anche attraverso i database delle singole soprintendenze e regioni. 5. Gli antenati dei cataloghi Per ammirare alcuni quadri della storia dell'arte, oggi, dobbiamo recarci in alcuni musei molto famosi. Grazie a molte fonti scritte, sappiamo che in origine alcuni dipinti si trovavano in qualche casa di ricchi mercanti, oppure negli studi religiosi, oppure nei salotti borghesi. Altre fonti, questa volta visive, consentono di precisare ulteriori passaggi. Per esempio, oggi conosciamo la disposizione della galleria dell'arciduca Leopoldo Guglielmo a Bruxelles grazie ai quadri di David Teniers il Giovane. I quadri di Teniers sono quasi dei “cataloghi figurati”, dove vengono inseriti addirittura i nomi degli autori su ciascuna cornice. Essi non sono solo testimonianze preziose della consistenza e dell'evoluzione della collezione messa insieme dall'arciduca, ma anche una restituzione fotografica dei criteri di allestimento e documentazione di modalità di fruizione delle opere. Come è stato dimostrato, la funzione principale di questi “quadri di quadri” era quella di farne dono ad amici e parenti: essi erano immagini della collezione originale, che esisteva realmente. Quadri con queste tematiche si contano a decine, soprattutto nella prima metà del 600 e in ambito olandese e fiammingo. Illustrano gallerie, cabinets di amatori, Wunderkammern, studioli, botteghe e atelier d'artista. A essi si affiancano, per il loro valore documentario, vedute di cortili, chiese e palazzi. Meno chiara è la funzione di tipologie simili, che però non rappresentano gallerie reali: i cabinets degli amatori, vere e proprie pareti di quadri con oggetti tipici delle Wunderkammern, libri, strumenti musicali, allegorie e in qualche caso persino scene di iconoclastia. Nell'interpretazione di Victor Stoichita il tema dominante di questi cabinets è la conversazione: si tratterebbe di sistemi complessi di immagini che funzionerebbero come detonatori della tecnica combinatoria, capaci insomma di stimolare collegamenti e correlazioni. Capitolo ottavo: la diffusione dei musei in Europa e nel Nord America 1. Il museo come simbolo della nazione moderna La restaurazione dei Borbone e il ritorno in Francia della monarchia, dal 1824 con Carlo X, segnano la ripresa delle campagne di acquisizione. Ad anticipare questa nuova stagione è, già nel 1820, l'ingresso al Louvre della Venere di Milo. L'archeologo francese Jean Francois Champollion non apprezza i criteri museali adottati a Roma per allestire il Museo Gregoriano Egizio, inaugurato da Papa Gregorio XIV nel 1839, per rispondere alla necessità di accogliere i ritrovamenti archeologici più recenti provenienti dall’Egitto, oltre alle collezioni già possedute dal Vaticano e dal Museo Capitolino. Sul modello della triade francese - museo, nazione e patrimonio - le maggiori città europee lanciano altrettante campagne di acquisizione di opere, investendo cifre da capogiro per la creazione dei loro musei. Sempre più spesso, infatti, l'istituzione di un museo viene considerata un indispensabile strumento di crescita identitaria e di sviluppo delle conoscenze in una nazione moderna. Tra il 1814 e il 1830, Ludovico I di Baviera commissiona a Leo von Klenze la Glyptothek, destinata ad accogliere le collezioni di arte classica provenienti dalle raccolte principesche bavaresi, ma soprattutto i marmi greci e romani acquisiti durante un viaggio in Italia nel corso del quale Ludovico aveva conosciuto Canova. L'edificio della Glyptothek presenta all'esterno una parte centrale porticata con 12 colonne, pronao ionico e due ali di muratura piena. Ha forme squadrate, alleggerite agli angoli da paraste corinzie e, nelle superfici più ampie, da nicchie ornate da timpani con acroteri. Nel complesso la fonte di ispirazione appare più paladina che greca, mentre all'interno i soffitti a volta ricordano le terme romane. Il percorso si snoda lungo 14 sale, disposte intorno a un ampio cortile interno quadrato. La Glyptothek di Leo von Klenze aspira a essere un'opera d'arte totale, più che mirare alla migliore presentazione dei reperti. Tra quelli che criticano le decorazioni policrome c'è un altro consigliere di Ludovico I, Martin Wagner. Per le esposizioni delle sculture classiche, che vuole ordinate cronologicamente, Wagner auspica ambienti semplici, monocromi, mettendo al bando dorature e pitture. La Glyptothek, distrutta dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale, è stata ricostruita con pareti dai colori neutri, pavimenti monocromatici e piedistalli semplici. Non si è dunque optato per un restauro filologico né dell'architettura né dell'ordinamento. Si deve sempre al sodalizio tra Ludovico di Baviera e Leo von Klenze l'invenzione di un colossale tempio consacrato al culto degli eroi tedeschi, costruito nei pressi di Ratisbona tra il 1814 e il 1842. 2. La tipologia del museo-tempio In stile neorinascimentale italiano viene eretto nel 1889-96 lo Statens Museum for Kunst di Copenaghen. Il nucleo originario, formatosi soprattutto dal 1750 sotto Federico IV, si è in seguito arricchito di importanti acquisizioni dal dodicesimo secolo ai giorni nostri. Per far sì che la collezione di dipinti non sfiguri rispetto a quella degli altri regnanti europei, Federico IV inizia infatti una campagna di acquisti su vasta scala, soprattutto di opere italiane, tedesche e dei Paesi Bassi. Particolarmente importante diviene il nucleo fiammingo e olandese. 4. La “Museumsinsel” Museumsinsel è il nome assegnato nel 1870 ad un'area nel centro di Berlino, ubicata nella parte settentrionale dell'isola della Sprea. In questa area verranno realizzati 5 diversi edifici. Il primo ad essere inaugurato è stato l'Altes Museum di Schinkel, con cui la tipologia del museo-tempio aveva avuto la sua consacrazione. L’ultimo ad essere inaugurato è stato il Pergamon Museum nel 1930. Nel 1859 viene inaugurato un ambiente nuovo disegnato da Friedrich August Stuler, allievo di Schinkel, nel quale confluiscono il gabinetto dei disegni e delle stampe, i calchi di statue antiche e due dei nuclei di opere derivanti dallo smembramento della kunstkammer reale: il Museo delle antichità della patria e quello delle opere egizie. Sono queste le basi dell'attuale Neues Museum, mentre le restanti raccolte già appartenenti alla kunstkammer si trasformano nei poli museali di zoologia, mineralogia, eccetera. Nel 1876, su progetto di Johann Heinrich Strak viene completata la Nationalgallery, a capo della quale Wilhelm Bode nominerà, vent'anni dopo, lo storico Hugo von Tschudi, che darà un significativo impulso alle collezioni acquistando le opere degli impressionisti, autori dell'epoca ancora non unanimemente storicizzati e apprezzati. Nel 1897 un'opera di Cezanne è tra le primissime a entrare nelle collezioni del museo. Le fasi cruciali nella definizione dell'isola dei musei si devono quindi, fra l’Ottocento e il primo 900, a Wilhelm Bode, che, dopo gli studi giuridici, prima diventa assistente e poi direttore del dipartimento di scultura i musei berlinesi. La sua ascesa culmina nel 1905 quando viene posto a capo di tutti i musei di Berlino. Con rare eccezioni, fino a tutto l'Ottocento, a dirigere i musei erano stati prevalentemente gli artisti: Bode appartiene invece a una nuova generazione che arriva alla guida dei musei con una preparazione storico artistica. Nell'acquisizione di opere si rivela un'abile stratega, tanto che a partire dal suo mandato i musei berlinesi iniziano realmente a competere con le collezioni storiche francesi e inglesi. Sotto la guida di Bode, tra il 1897 e il 1904, l'architetto Ernst von Ihne edifica nell'isola il Kaiser Friedrich Museum. Bode abbandona in questo caso l'allestimento per tipologie e, adottando il principio delle camere d'epoca, propone una presentazione decorativa che ricrea il contesto storico: i quadri del Rinascimento italiano sono esposti accanto a sculture e mobili della stessa epoca e area geografica. Bode intende proporre al pubblico una nuova esperienza di museo, empatica, che tramite ambientazioni simili agli spazi dei collezionisti privati, evochi il contesto originale delle opere. In epoca nazista, nell'ambito della riprogettazione di Berlino guidata da Albert Speer, per l'isola dei musei verranno disegnati nuovi colossali edifici museali che non verranno mai alla luce. I musei dell'isola escono dal secondo conflitto mondiale quasi completamente distrutti. In particolare, il Neues Museum, che a lungo si è pensato di radere definitivamente al suolo. Dopo la caduta del muro di Berlino e dopo la seguente riunificazione della città, si sono ripresi lentamente i lavori di recupero dell'isola dei musei. La Alte Nationalgallery è stata la prima a riaprire, nel 2001, ristrutturata dagli architetti di HG mertz, che hanno introdotto nel complesso i moderni standard museali. Il Pergamon Museum è oggi uno dei musei più visitati di Berlino. L'edificio costruito nel 1930 da Alfred Messel è stato ristrutturato da Oswald Mathias Ungers; una quarta ala e un nuovo ingresso sono in corso di ultimazione. Anche il Neues Museum è stato riaperto nel 2009. Significa che tutti e 5 le sedi espositive per la prima volta dal 1939 sono ora di nuovo accessibili. La ristrutturazione del Neues Museum è stata eseguita da David Chipperfield, che ha condotto gli interventi nel segno di un'attenta rilettura: il tessuto originale dell'edificio è stato preservato e per la ricostruzione si è partiti dalle strutture e cubature preesistenti. I nuovi elementi sono ben riconoscibili, ma al tempo stesso risultano fusi con i vecchi. Gli architetti hanno cercato una soluzione specifica per ciascuna delle sale, a seconda del tipo e del grado di danno. Abbassando il livello di fondazione è stato creato un nuovo spazio espositivo al piano terra, da cui parte una passeggiata archeologica per percorrere l'asse longitudinale dell'edificio. Il gabinetto del collezionista cui si è dedicato il sesto edificio della Museumsinsel, James Simon, già distrutto dai nazisti, nell'occasione è stato riallestito all'interno del Bode Museum. Si tratta di un'operazione di reenactment, termine che più di altri soffre della sua traduzione letterale nell'italiano “rievocazione storica”. 5. Uno sguardo oltreoceano La tipologia del museo-tempio viene importata dall’Europa e replicata in America al momento della fondazione dei principali musei del paese, negli anni 70 e 80 del diciannovesimo secolo. All'inizio i promotori non sono gli Stati, come in Europa, ma i singoli collezionisti: privati cittadini, banchieri, industriali, che realizzano imponenti acquisti, coinvolgendo storici dell'arte e mercanti. Diverse collezioni lasciano così l'Europa per costituire i primi nuclei dei nuovi musei americani. Dopo qualche anno, iniziano a mobilitarsi anche gli Stati. All'inizio del ventesimo secolo il Congresso americano voterà addirittura una legge che, eliminando la tassazione, favorirà l'importazione delle opere negli Stati Uniti, prevedendo agevolazioni fiscali alle donazioni per la pubblica utilità. Nel 1783 il pittore Charles Willson Peale fonda a Philadelphia il Philadelphia Museum con 44 ritratti di personalità americane. Nel 1814, uno dei suoi figli, inaugura il Baltimore Museum and Gallery of Fine Arts e lo arricchisce con oggetti naturali di cui è appassionato collezionista, ricalcando le orme dei principi illuministi europei. Impostato sulla funzione didattica, il museo espone in teche uccelli, rettili, insetti e minerali, ma anche abiti, armi e oggetti domestici. Il figlio di Charles Wilson Peale anima ogni sezione del suo museo ricorrendo a lezioni scientifiche, dimostrazioni tecniche e concerti, dando vita a vere e proprie forme di intrattenimento. Questo è uno dei primi musei che utilizza una tipologia prettamente americana: quella dei dime museums, centri di intrattenimento e educazione con spazi commerciali, progettati come empori di curiosità per la classe operaia. Come in Europa, specialmente all'inizio del diciannovesimo secolo, dipinti e oggetti d'arte vengono raccolti da università e accademie a scopo didattico. Per New York, l’idea di una grande galleria d’arte in questa città sarà lanciata a Parigi nel 1866, nel corso dei festeggiamenti per il primo centenario dell'indipendenza americana. John Jay, avvocato e uomo di cultura, al rientro in patria riunisce all'Union League Club di New York molti politici, uomini d'affari e filantropi e propone l’idea di creare un museo. Nel 1870 il museo acquista il suo primo oggetto: un sarcofago romano. Nel 1871 entrano a far parte della collezione 170 dipinti europei. Il Metropolitan Museum di New York viene inaugurato nel 1872; la prima sede è in un palazzo sulla quinta strada, poi si sposterà nell'attuale edificio di Central Park. Tra le più significative donazioni ricevute c'è quella di uno dei più grandi collezionisti di tutti i tempi, il banchiere John Pierpont Morgan. Il Met ha naturalmente continuato a ingrandirsi nel corso dei decenni, aggiungendo tra l'altro la caratteristica facciata in stile neoclassico progettata da Richard Morris Hunt e completata nel 1926. Il primo curatore del dipartimento delle Arti decorative è William Valentiner, che aveva lavorato a Berlino in stretto contatto con Bode e che importa in America i criteri di allestimento da ambientazione, introducendo così un display destinato a godere di grande fortuna, quello delle period rooms. Tipiche della cultura anglosassone, le period rooms sono un allestimento di intere collezioni in un ambiente ricostruito con arredi originali, eventualmente integrati da parte coeve. In particolare, il successo riscosso da questi display nei musei nordamericani si spiega con l’esigenza di ridare un contesto alle opere, cui si somma quella di raccontare stili, epoche e forme d'arte poco note al pubblico locale. 6. La (vera) nascita della museologia La storiografia moderna, specialmente italiana, data l'avvio di una nuova stagione per i musei e la nascita della museologia, agli anni 20 del ventesimo secolo. La formazione dei musei tedeschi e la creazione di quelli americani consentono di anticipare questa data di almeno due decenni. I temi erano stati annunciati dalla trattatistica tardo rinascimentale, barocca e dal volume Museographia di Neickel, tradotto in francese già nel 1829. Tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del 900, alla parola museo si sarebbero affiancati i suffissi -logia, da logos, o -grafia, da graphein. Cristina de Benedictis fornisce due definizioni delle due materie molto recenti: 1. La museologia è la disciplina che studia il museo in quanto specifico strumento di conoscenza, istituito per rendere accessibili le testimonianze visive della civiltà e insieme per svolgere le funzioni essenziali di conservare, documentare scientificamente, insegnare e trasmettere le conoscenze registrate autore di un pamphlet anonimo contro questa e altre mostre, che a suo parere danneggiano gli artisti contemporanei. Eppure esse continuano a riscuotere successo e a sopperire all’assenza, in Inghilterra, di un grande museo. La British Institution chiuderà nel 1867. Esposizioni di antichi maestri si organizzavano a Londra fin dal 1770 nella sede della Royal Academy. Per alcuni anni le mostre non saranno diverse da quelle della British Institution, se non per il fatto che le opere non vengono proposte dai collezionisti, ma attentamente selezionate da un comitato di accademici. La prima rassegna ottiene un buon successo di critica, ma ci si rende subito conto che mantenere un livello cosí alto non è possibile, esponendo ogni anno un tale numero di dipinti antichi. Si decide allora di dedicare ogni mostra non a una collezione, ma a un tema: un artista, un periodo o una scuola. Si tratta di un’innovazione radicale. Nel frattempo, a Parigi sono nati il Pavillon du réalisme di Courbet (1855), il Salon des refusés (1863) e si sono tenute le prime mostre degli impressionisti (1874-86). Del 1884 è il Salon des indépendants, dove i neoimpressionisti capitanati da Paul Signac e Georges Seurat mettono definitivamente in crisi i Salons ufficiali, oramai considerati vetrina del classicismo ed emanazione del tradizionalismo borghese. In Italia, per tutto l’Ottocento non si tengono mostre di livello internazionale. Eppure alcune mostre archeologiche di rilievo vengono organizzate all’estero da studiosi italiani. L’archeologo Giovanni Battista Belzoni, per esempio, allestisce a Londra nel 1821 una mostra per presentare la tomba del faraone Seti I, da lui scoperta. Una quindicina d’anni dopo, nel 1837, sempre a Londra, Vittorio Campanari di Toscanella e i suoi tre figli, tutti archeologi, presentano un’altra spettacolare rassegna, dedicata questa volta all’arte etrusca. 3. L’exploit di Manchester e il ruolo delle Esposizioni. Il predominio di Parigi e Londra nell’organizzazione di mostre sembra non conoscere eccezione fino al 1857, quando a Manchester ne viene organizzata una che, per la quantità di opere esposte, l’impostazione scientifica e didattica e l’imponente afflusso di pubblico eclissa tutte quelle precedenti. Si intitola Art Treasures of the United Kingdom e presenta per la prima volta la Natività mistica di Botticelli e la Madonna di Michelangelo, che da allora sarà denominata Madonna di Manchester. Accanto ai dipinti si espongono sculture, fotografie e altri oggetti d’arte. Il curatore è uno storico dell’arte di origini bavaresi, George Scharf. Tra le ragioni per cui questa mostra è considerata memorabile è che è stato realizzato apposta un edificio in ferro e vetro e sono stati istituiti trasporti speciali e garantiti prezzi economici per facilitare la partecipazione delle scuole e delle classi popolari, realizzando cosí effettivamente le finalità didattiche che ci si era prefissati. Guide redatte con un linguaggio facilmente comprensibile sono a disposizione del pubblico. Art Treasures, definita «la prima mostra blockbuster», chiuderà con un milione e trecentomila visitatori e un impatto internazionale mai visto prima, testimoniato dalla stampa, dalle reazioni degli intellettuali e dai numerosi tentativi di emulazione, in Europa come in America. In quest’esperienza è possibile individuare un’eco delle Esposizioni universali – di cui la prima a Parigi nel 1978 - con lo scopo di mostrare al mondo i progressi tecnici e culturali dei vari paesi. In Inghilterra, memorabile è la grande Esposizione universale tenutasi a Londra, a Hyde Park, nel 1851. L’edificio destinato all’evento si chiama Crystal Palace ed è una gigantesca struttura trasparente in ferro e vetro, progettata da Joseph Paxton. Nascerà poi nel 1852 il Museum of Manufactures, poi ribattezzato nel 1899 Victoria and Albert Museum. Per la prima volta oggetti d’uso e macchinari sono presentati in un contesto museale. Questa non è però l’unica novità. L’illuminazione a gas permette le visite anche di sera; inoltre apre il primo ristorante all’interno di un museo, le cosiddette Refreshment Rooms. Intanto le esposizioni si moltiplicano. Quella a Parigi del 1889 organizzata con grande sfarzo dai francesi per celebrare il centenario della Rivoluzione, è l’occasione per costruire una grandiosa torre in ferro alta trecento metri – accolta tra timori e proteste - intitolata al suo progettista, l’ingegnere Gustave Eiffel. Oggi ormai elemento costituente del panorama della città. A Chicago, per l’Esposizione del 1893, viene costruita la prima ruota panoramica del mondo. Sulla scia di queste esperienze, anche le altre potenze dell’epoca si muovono per organizzare iniziative simili. A Vienna, New York, Filadelfia si tengono mostre che presentano gli sviluppi dell’industria e diventano la maggiore vetrina mondiale delle innovazioni tecnologiche. Nel 1911 in Italia in occasione del cinquantenario dell’unità d’Italia, Torino e Roma ospiteranno rispettivamente una rassegna di carattere scientifico e industriale e una mostra artistica e regionale. Per le collezioni milanesi, già nel 1878 si istituisce un Museo Artistico Municipale, le cui raccolte confluiranno poi in quelle del Castello Sforzesco. Sempre sulla scia delle Esposizioni e dei nuovi poli per le arti industriali, a Torino apre nel 1862 il Regio Museo Industriale Italiano, con l’obiettivo «di promuovere l’istruzione industriale e il progresso delle industrie e del commercio». A Roma apre il Regio Museo Artistico Industriale (1873); a Napoli il Museo Artistico Industriale Filippo Palizzi, istituito da Gaetano Filangeri (1882) è destinato a essere un «museo artistico industriale», con annessa «scuola officina» di arti e mestieri. Intanto anche i paesi dell’Estremo Oriente entrano in contatto con il modello delle Esposizioni. 4. Il Giappone e la scoperta dei musei europei. La storia dei musei del Giappone risale proprio alla «scoperta» dell’Europa da parte delle delegazioni nipponiche invitate alle Esposizioni universali. I traduttori, non disponendo ancora nella propria lingua della parola «museo», per descrivere ciò che hanno visto ricorrono a parafrasi. Si parla di giardini di «erbe medicinali» (giardini botanici), di «faune e flore» (musei di storia naturale). Alla fine, la parola che ha piú fortuna è hakubutsukan, letteralmente «casa delle ‘cose’, contenente oggetti da collezione», che alcune fonti riconducono a una visita della delegazione nipponica al British Museum. Nel contesto dei preparativi per la partecipazione del paese all’Esposizione universale di Vienna del 1873 gli oggetti preziosi esposti, di proprietà della dinastia imperiale, pongono di fatto le basi dell’attuale Museo Nazionale di Tōkyō, sito all’interno del parco di Ueno. In occasione dell’Esposizione industriale nazionale del 1877, sorge infatti proprio in quest’area il primo museo di arti applicate e d’arte tout court del Giappone, dove abbandonato il tradizionale sistema locale di esposizione – quello delle calligrafie esibite come rotoli sospesi – si aderisce molto presto al modello occidentale dei Salons con opere incorniciate e allestite sul muro. Non si importano dall’Europa solo tipologie e dispositivi, ma anche la concezione dell’istituzione museale, che mira a mantenere viva la memoria e a rafforzare l’identità della nazione. 5. Primi musei cinesi. Nonostante la tradizione di collezionismo privato sia molto antica, in Cina non si traduce in istituzioni simili ai musei pubblici occidentali almeno fino alla metà dell’Ottocento. I primi musei cinesi vengono fondati nella maggior parte dei casi da missionari gesuiti e da altri occidentali (francesi, inglesi e nordamericani), che dopo le due guerre dell’oppio (1839 e 1856) e in seguito all’apertura al commercio di alcuni porti cinesi, mirano a esportare le scoperte scientifiche e tecnologiche dei loro paesi. Si tratta di musei destinati a un’élite, inaccessibili alla maggior parte dei cittadini comuni. Un esempio è il Museo di Shanghai aperto nel 1871 grazie all’iniziativa di un gruppo di eruditi britannici. La lingua cinese registra per la prima volta la parola «museo» (bowuguan) nella seconda metà dell’Ottocento, mutuandola dal vicino Giappone, dopo alcuni tentativi di trascrizioni fonetiche dal francese, dall’italiano o dall’inglese e perifrasi che descrivono i contenuti, conespressioni come «padiglioni di pittura» o «cortili con tesori». Tuttavia bowuguan – «casa contenente oggetti da collezione» – non include quel concetto di «memoria» che è alla radice della parola e del concetto europeo di museo. Il primo museo considerato veramente cinese, ancorché privato, è il Museo di Nantong, fondato nel 1905 dall’industriale Zhang Jian per esporre oggetti d’arte, ma soprattutto curiosità naturali, e affiancato da uno zoo e da un giardino botanico. Sull’esempio di questo mecenate, altri privati cittadini danno vita ad analoghe istituzioni che, in pochi decenni, arrivano a essere un’ottantina. Mentre la nozione di patrimonio fondata sulla protezione dei monumenti storici comincerà ad attecchire nel continente asiatico soltanto negli anni Ottanta del XX secolo. Parte terza Capitolo decimo: i nuovi musei in America e il dibattito in Europa 1.Il mercato dell’arte. In Europa, il sistema dell’arte si è da tempo consolidato. In Italia, nel 1891 viene fondata la Triennale di Milano e quattro anni dopo, nel 1895, si tiene la prima edizione della Biennale Internazionale d’Arte di Venezia. I «musei effimeri» proliferano fin dal primo Novecento affiancando l’affermarsi delle avanguardie artistiche: nella galleria Thannhauser di Monaco, nel 1911-12, si tengono le prime esposizioni del gruppo Der Blaue Reiter, mentre i futuristi italiani, dal 1912, intraprendono un tour di mostre nelle principali città europee e, nel 1915, a San Francisco. A presentare le correnti d’avanguardia europee in America è una mostra del 1913, Armory Show, che si tiene prima a New York, poi a Chicago e a Boston. Tra i finanziatori c’è Lillie Plummer Bliss e proprio grazie a lei Mary Josephine Quinn Sullivan riesce a convincere l’artista Arthur Davies a dare il suo determinante contributo. La leggendaria rassegna, nella quale tra l’altro Duchamp espone il Nu descendant un escalier, inizia al collezionismo John Quinn, che nel giro di una decina d’anni diventerà proprietario della piú importante collezione di arte moderna del paese. Alla sua morte, nel 1924, Lillie Bliss organizza l’asta della collezione. Lillie e Mary Sullivan, moglie dell’avvocato e collezionista d’arte e di libri antichi Cornelius Sullivan, sono dunque amiche. In un centro di supporto psicologico per i soldati di rientro dalla prima guerra mondiale, Mary ha conosciuto Abby Greene Aldrich Rockefeller. Un pomeriggio, le tre donne si incontrano per fascista, apre a Firenze una grande Mostra della pittura italiana del Sei e Settecento. Curata dal critico del regime Ugo Ojetti e allestita a Palazzo Pitti, si tratta di un’esposizione destinata a cambiare per sempre la percezione della storia dell’arte europea e, in particolare, dell’arte barocca, fino ad allora trascurata da critica e mercato. Questa mostra dà origine a una serie di esposizioni sul Barocco tenute in seguito a Genova, Napoli, Venezia e in altre città. A questa iniziativa si affiancano altre operazioni di propaganda che si ricordano anche per l’impatto senza precedenti ottenuto dagli allestimenti. È il caso della Mostra della Rivoluzione, aperta a Roma nel 1932 in occasione del decennale del regime. Dunque una mostra storica, che tuttavia introduce elementi molto innovativi, che verranno ripresi anche in contesti museali. Per esempio l’illuminazione puntiforme, le scenografie create con l’ausilio di gigantografie, fotomontaggi e persino la musica di sottofondo. Nel mentre l’«arte degenerata» diviene protagonista di una serie di mostre itineranti fra Germania e Austria, intitolate appunto Entartete Kunst, inaugurate a Monaco nel 1937. Accanto a queste iniziative non mancano progetti espositivi paragonabili a quelli italiani. Cosí, mentre una parte delle sedicimila opere «degenerate» è messa all’incanto dalla Galerie Fischer di Lucerna e le restanti, giudicate di valore nullo, vengono bruciate, Hitler a Monaco posa la prima pietra dell’Haus der Kunst. La struttura, progettata dall’architetto Paul Ludwig Troost, rispecchia fedelmente lo stile nazionalsocialista dell’epoca e la prima esposizione è una mostra di propaganda per ostentare la cosiddetta «arte di regime». L’edificio, ristrutturato due volte, nel 1956 e nel 2003, sconta la sua pesante eredità anche stilistica, che lo riconduce inevitabilmente agli anni del nazismo. Non sono mancati dibattiti pubblici sull’opportunità di demolirlo. Privo di una collezione permanente, l’Haus der Kunst ha adottato il modello nordeuropeo della Kunsthalle, ospitando mostre ed eventi temporanei e diventando un punto di riferimento per la sperimentazione delle arti visive. 6. Innovazioni fra le due guerre. Fra le due guerre mondiali la maggior parte delle istituzioni europee è impegnata con la messa in sicurezza delle opere: una procedura che accelera, fra l’altro, innovazioni di allestimenti e percorsi. Il congresso di storia dell’arte che si tiene a Parigi nel 1921 vede Henri Focillon, all’epoca direttore dei musei di Lione, affermare nel suo intervento: «Per paradossale che possa sembrare, i musei sono fatti per il pubblico» e perciò quelli tradizionali, pensati per gli artisti e per gli storici, dovranno rivedere i propri percorsi e interpretare le «giuste esigenze» dei visitatori. Bisognerà selezionare le opere da esporre, diradarle lungo il percorso e sulle pareti, migliorare l’illuminazione. «Lo spazio intorno a un quadro è il silenzio intorno alla musica», afferma. Il vuoto esaltato da Focillon prelude alla nozione di «zona auratica», di distanza e di silenzio, teorizzata un decennio dopo da Walter Benjamin. Per Focillon il museo è il luogo in cui l’insegnamento della storia dell’arte trova riscontro de visu, davanti alle opere. A ispirargli queste idee sono state le rivisitazioni e le operazioni di sfoltimento che ha visto realizzate in vari musei d’Europa: per esempio quelle operate da Bode al Musée des Beaux-Arts di Strasburgo (1899). Incrementando in maniera sorprendente le collezioni del museo, Bode aveva infatti realizzato un display estremamente pulito, lineare, in luogo del sovraffollamento che dominava la scena museologica del tempo. In questo modo aveva raggiunto l’obiettivo di rendere il percorso comprensibile a un piú largo pubblico. Focillon condivide il proposito della massima chiarezza espositiva. Nel 1934 a Madrid, si tiene quella che viene ricordata come la prima conferenza internazionale sui musei. Molti attacchi, che riprendono le riflessioni di Focillon, vengono rivolti contro i musei d’ambientazione, ora considerati «cimiteri d’arte». Il museo non è soltanto un deposito di oggetti. L’ambientazione deve corrispondere al gusto del tempo. È l’inizio del tramonto degli ambienti in stile nei musei della vecchia Europa come nei nuovi musei americani, soprattutto in quelli di arte contemporanea. Eppure negli altri musei del Nuovo Mondo, da Washington a New York, sta trionfando una particolare forma del museo d’ambientazione, il modello della period room. 7. Il museo vivente Focillon teorizza il musée vivant e Moses parla di «musei viventi» (1934), dove l’arte è patrimonio di tutti, al servizio della nazione, per il pubblico e per il suo insegnamento. Sul fronte dell’architettura, è il Movimento Moderno a farsi interprete delle nuove istanze: Mies van der Rohe, Walter Gropius e Le Corbusier. Quest’ultimo nel 1931-39 sviluppa il concetto di «museo a crescita illimitata», una macchina espositiva modulare, con percorso a spirale, flessibile e funzionale, che abbandona la monumentalità dei musei-tempio rinunciando perfino alla facciata. In Germania, Alexander Dorner teorizza il «museo vivente» con sale destinate a offrire al visitatore l’esperienza di uno specifico periodo della storia dell’arte senza ricorrere agli arredi, come accadeva nei musei d’ambientazione e nelle period rooms, ma attraverso scelte cromatiche in grado di trasmettere l’atmosfera e lo spirito di un particolare stile. In questo senso il museo è attivo, vivente. Alla fine degli anni Venti, all’interno del Landesmuseum di Hannover, Dorner elabora con El Lissitzky il cosiddetto «Gabinetto astratto», un ambiente per mostre che seppur ha vita breve e viene smantellato dai nazisti impegnati nella cancellazione di quella che consideravano «arte degenerata», l’impatto di questo display è tale da favorirne immediatamente la diffusione internazionale. Il «Gabinetto astratto» è un’ulteriore tappa del museo vivente, dove il visitatore diventa attivo, perché stimolato dai dipinti, collocati in una griglia che ripropone il dialogo tra opere, cornici e ambiente anche attraverso supporti mobili, con carrellini che permettono di spostarli lungo le pareti. Il dinamismo delle opere, una radice centrale alle stesse esperienze d’avanguardia, permette al visitatore di creare la propria mostra, un allestimento «su misura». 8. In Italia, fra passato e futuro. Negli anni Venti del XX secolo, in Italia il museo di ambientazione è ancora largamente diffuso. Si tratta infatti di un modello espositivo strettamente funzionale al formarsi delle identità nazionali e civiche: il Museo del Bargello a Firenze o quello di Castelvecchio a Verona. La formula storicistica del museo d’ambientazione, in cui le opere sono presentate insieme con arredi e suppellettili, risolve inoltre il problema di esporre collezioni estremamente eterogenee. Per una nuova generazione di storici dell’arte, infatti, l’opera va letta nei suoi puri valori formali. Dunque va espunto ogni ornamento anche negli allestimenti, ancorché riferito al contesto in cui l’opera è nata. Guglielmo Pacchioni nell’organizzare la Galleria Sabauda sostiene che l’opera d’arte di un grande maestro non va ridotta a una funzione puramente decorativa, come accadeva negli allestimenti storicistici, ma messa in valore, isolata e ben illuminata. Gli effetti dei nuovi orientamenti si fanno sentire anche nei contesti piú tradizionalisti. Già nei primi anni del Novecento, Corrado Ricci aveva allestito le sale della Pinacoteca di Brera diradando le opere ed eliminando il piú possibile gli ordini sovrapposti di tele, tipici delle quadrerie antiche: un aspetto che era stato molto apprezzato da Henri Focillon. Lo Sposalizio della Vergine di Raffaello Sanzio era stato isolato al centro di una sala, fra tendaggi e sedie che ne consentivano una fruizione mirata. Va in questa direzione anche il successivo allestimento di Brera, curato dal direttore Ettore Modigliani anche se, con l’architetto Pietro Portaluppi, nel 1925 lo Sposalizio è presentato all’interno di una boiserie in noce scuro che simula un’abside dotata di altare e che dunque non rinuncia del tutto all’idea di ambientazione. L’opera riceve luce da un ampio lucernario. Nel dopoguerra lo stesso Portaluppi alla riapertura della pinacoteca milanese riproporrà la Pala di Raffaello isolata in uno spazio raccolto, questa volta una saletta rettangolare coperta da volta a botte cassettonata, quasi una cappella. I progetti per nuovi musei, in Italia, come nel resto d’Europa, nascono spesso dal dialogo serrato tra direttori dei musei, che in genere sono archeologi e storici dell’arte, e architetti. L’allestimento dei Musei Civici di Pesaro, nel 1936, è esemplare nella sua semplicità, rappresentando un archetipo dei musei della ricostruzione: diradamento delle opere esposte, campiture neutre e chiare alle pareti ne fanno uno dei primi esempi di «museo moderno», proponendosi di far dialogare opere e pubblico. Capitolo undicesimo: i musei dei maestri 1.Tradizionalisti e modernisti a Milano. Brera, pesantemente danneggiata dalle bombe nel 1943, riesce ad aprire alcune sale già durante il conflitto: il direttore Ettore Modigliani ha scelto di affidare i lavori all’architetto Pietro Portaluppi, esponente di una lunga tradizione che aveva già allestito la pinacoteca prima della guerra. Fernanda Wittgens, a cui Modigliani (presto esiliato dalle leggi razziali) ha passato il testimone, prosegue i lavori di ricostruzione del complesso braidense nel segno del conservatorismo imposto dal suo mentore e da Portaluppi. L’unica apertura all’avanguardia da parte di Wittgens si concretizza, sempre a Milano, in un edificio costruito ex novo, il Padiglione d’Arte Contemporanea (PAC) progettato da Ignazio Gardella e terminato nel 1953. Nel 1956, sempre a Milano, apre al pubblico il Museo del Castello Sforzesco, il cui manifesto è la sistemazione, in una nicchia fittizia, della Pietà Rondanini di Michelangelo. La scultura viene presentata da dietro a chi arriva lungo le sale della fortezza; il visitatore quindi la «discopre con un’emozione improvvisa, ma accolta dall’ambiente quasi sacrario che gli architetti hanno creato per la misura dell’opera, come invito al raccoglimento e al silenzio». L’opera di Michelangelo viene isolata anche quale elemento inizialmente non previsto nel percorso e a esso estraneo, dal momento che s’inserisce in un contesto di collezioni di scultura medievale e rinascimentale lombarda. Tale scelta non manca di polemiche in città e infiamma il dibattito tra tradizionalisti e modernisti. 2. L’avvio della stagione d’oro per la museologia italiana. Tra riallestimenti e restauri, il paese risorge dalle macerie attraverso la cultura, con il sostegno di politici e intellettuali, che considerano i musei pilastri della comunità, al pari degli altri servizi ai cittadini come le scuole e gli ospedali. Le soluzioni piú innovative con la Carta nazionale delle professioni museali (2005), dove ogni profilo viene delineato con precisione. Il direttore «è il custode e l’interprete dell’identità e della missione del «museo». Ha la responsabilità della gestione del museo nel suo complesso. Le sue funzioni si distinguono da quelle del conservatore, che «è responsabile della conservazione, della sicurezza, della gestione e della valorizzazione delle collezioni a lui affidate. È responsabile, in concorso con il direttore, dell’identità e della missione del museo». Ogni altro servizio, se i mezzi lo consentiranno, sarà coperto da figure specifiche, come ad esempio il catalogatore, che «svolge attività d’inventariazione e catalogazione del patrimonio museale, sotto il coordinamento e la responsabilità scientifica del conservatore». Raymond Singleton, tra i padri fondatori della scuola di Leicester e primo direttore del dipartimento di Museum Studies da lui fondato, nei suoi contributi enfatizza il ruolo del curator facendolo coincidere con il direttore di museo. Il curator di Singleton dev’essere innanzitutto uno storico, cioè a seconda delle collezioni di cui si occupa, un archeologo o uno storico dell’arte. In seconda battuta dev’essere uomo di scienze, per poter ad esempio provvedere alla conservazione delle opere. Un curator dev’essere altresí un buon educatore, in grado di proporre un approccio e dotato di una capacità di comunicazione adeguata; uno showman, per attrarre l’attenzione dei visitatori, e infine un manager, per garantire una gestione efficiente. Capitolo dodicesimo: una nuova geografia museale 1. Il dopoguerra in Europa: la fine dei musei? Per certi versi, vista dall’Europa, quella del dopoguerra sembra la stagione della fine dei musei. Le avvisaglie non erano certo mancate, già ai tempi in cui i Fauves dichiaravano di volerli bruciare. In Italia, a farsi interpreti di queste istanze erano stati i Futuristi, con Filippo Tommaso Marinetti che intendeva «liberare l’Italia dai suoi innumerevoli musei che la ricoprono come cimiteri senza fine». Dopo la forte spinta rappresentata dai musei della ricostruzione, negli anni Settanta anche nella maggior parte dei paesi europei la frequentazione dei musei ristagna. I luoghi del dibattito culturale si moltiplicano fino a comprendere teatri e cinema, così come cambiano i consumi culturali, orientati sempre più anche verso la musica, i concerti e la letteratura. In Danimarca, nel piccolo villaggio di Humlebæk, non lontano dal centro di Copenaghen, sul modello di quanto stava avvenendo al MoMA di New York, nel 1958 viene inaugurato il Louisiana Museum of Modern Art, tutt’oggi punto di riferimento nel settore delle arti contemporanee. A Colonia, riapre nel 1958 il Wallraf- Richartz Museum. L’edificio era stato costruito dall’architetto Josef Felten. Terminato nel 1861, era divenuto uno dei principali musei del paese. La nuova architettura ha forme semplici, lungi dalla monumentalità che nei decenni precedenti aveva inteso incarnare una presunta superiorità culturale. Nasce un’architettura spesso non molto diversa dalla restante edilizia pubblica e perciò giudicata monotona e invisibile da una parte della critica. Gli stessi materiali caratterizzano la Neue Nationalgalerie di Berlino, disegnata da Mies van der Rohe e aperta nel 1968 in un’area che in seguito ospiterà il Kulturforum. Lo spazio espositivo si trova nel sottosuolo, mentre il piano terra è riservato al punto vendita e a mostre temporanee. Il vetro delle pareti e l’acciaio della copertura e dei supporti che la sorreggono restituiscono quasi l’impressione che il tetto galleggi nell’aria. La crisi dei musei va di pari passo con la rivendicazione, da parte degli architetti, di una nuova libertà progettuale. A cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, verrà realizzata a Francoforte la Museumsufer, la «riva dei musei» lungo il fiume Meno. Sulla sponda nord si trovano oggi l’Historisches Museum e lo Jüdisches Museum; su quella sud altre dieci istituzioni, tra cui il Deutsches Filmmuseum, il Deutsches Architekturmuseum e il piú noto museo delle arti applicate, il Museum für angewandte Kunst. Quest’ultimo, progettato con rigore neorazionalista dall’americano Richard Meier, è noto per il rapporto che l’architetto introduce fra edificio vecchio e nuovo, mentre il ritmo serrato delle finestre amplifica il dialogo della struttura con il paesaggio circostante. La soluzione armoniosa e trasparente è stata molto lodata, ma presenta alcune criticità. La più vistosa è non aver tenuto sufficientemente conto, in fase di progettazione, delle esigenze espositive. Il tema del dialogo fra contenuto e contenitore viene sviluppato meglio nel Deutsches Architekturmuseum, dove la struttura del tedesco Osvald Ungers si sposa sia con la villa post- neoclassica preesistente sia con le opere esposte: maquette, disegni, fotografie. A Monaco, la Glyptothek e la Alte Pinakothek sono state ripristinate nel dopoguerra: la prima con un intervento discutibile, l’altra mediante un restauro filologico. La Neue Pinakothek, l’edificio voluto da Ludovico I di Baviera, completamente distrutto durante il secondo conflitto mondiale, viene riedificata fra il 1974 e il 1981 su progetto di Alexander von Branca. L’Abteiberg Museum, il museo municipale di Mönchengladbach, nel Land del Nordreno-Vestfalia, da quando le collezioni sono state riallestite in un nuovo edificio, alla fine degli anni Settanta, è diventato un punto di riferimento per le sue mostre d’avanguardia e sperimentali, curate tra il 1967 e il 1985 da Johannes Cladders: Joseph Beuys fa qui la sua prima mostra museale. Disegnato dall’austriaco Hans Hollein, il nuovo Abteiberg Museum è considerato una pietra miliare del design postmoderno, un museo concepito come opera d’arte totale, che esalta il valore auratico delle singole opere. Riecheggiano cosí, vent’anni dopo, le istanze già sperimentate nei musei italiani della ricostruzione, da Palazzo Bianco alla Gipsoteca canoviana. 2. Uno spartiacque Nel 1969 Harald Szeemann realizza una mostra alla Kunsthalle di Berna intitolata Live in your Head: When Attitudes Become Form. Il radicale approccio del curatore alla pratica espositiva, concepita come medium linguistico, è sottolineato dal sottotitolo dell’esposizione: Works – Concepts – Processes – Situations – Informations. La contestazione culminata nel ’68 colpisce dunque anche l’istituzione museale, giudicata specchio della borghesia. Gli intellettuali, capitanati da André Malraux, dichiarano che a orientare i loro interessi è esclusivamente il «non pubblico». Eppure, c’è un museo che esce dalla sacralità, cessa d’intimidire il pubblico e diventa simbolo della rivoluzione culturale in atto. «Quando ripasso lí davanti, a quarant’anni di distanza, mi dico: non sono poi tanto stupito di averlo fatto, mi sorprende che ce lo abbiano lasciato fare». Sono parole di Renzo Piano riferite al Beaubourg, da lui progettato con Richard Rogers e, inizialmente, anche con Gianfranco Franchini. È Georges Pompidou, nel 1970, a bandire il concorso per «un insieme architettonico e urbano capace di segnare la sua epoca» e al tempo stesso di riqualificare un’area allora degradata di Parigi, il plateau Beaubourg. Alla massima flessibilità delle volumetrie corrisponde l’invito a non seguire un percorso predeterminato, ma a costruirlo in base a interessi ed esigenze personali. Il risultato è un edificio aperto, ispirato non alle istituzioni museali del passato, di cui non a caso non porta neppure il nome – si chiama infatti «centro» e non «museo». Pontus Hultén, primo direttore del Beaubourg fino al 1981, contribuisce in maniera determinante a costruire l’identità del centro attraverso una serie di mostre epocali. Già nel decennio successivo all’apertura, che avviene nel 1977, si rendono necessari importanti interventi di manutenzione. L’architetta Gae Aulenti è chiamata a riprogettare, con Italo Rota e Pietro Castiglioni, alcuni spazi interni con soluzioni piú tradizionali e rigide. Il tema del «restauro del moderno», con tutte le sue intrinseche contraddizioni, si ripropone negli anni successivi. Nonostante tutte le complessità del caso, il Centre Pompidou segna un prima e un dopo nella storia dei musei, che fino ad allora aveva seguito un percorso tutto sommato lineare. In un celebre saggio, L’effet Beaubourg, Jean Baudrillard identifica nel Centre Pompidou l’origine del fenomeno dell’antimuseo, che anziché decretare la fine di questa istituzione, avvia un processo di museofilia. 3. I Guggenheim Nel 1959, la lista degli invitati all’inaugurazione del Solomon R. Guggenheim Museum di New York, nella nuova sede costruita da Frank Lloyd Wright, denuncia un’assenza particolarmente vistosa: non riporta infatti il nome di Hilla von Rebay. L’artista tedesca, nel 1927 era emigrata negli Stati Uniti. Immediatamente si era data da fare per esporre le sue tele la moglie di Solomon Guggenheim ne aveva acquistate due. Continuando a fare la spola tra America ed Europa, l’artista compra per conto di Guggenheim dipinti dei citati avanguardisti e soprattutto di Bauer, suscitando molte polemiche presso l’intellighenzia newyorchese, che denuncia l’«europeizzazione» della scena artistica americana. Fra pettegolezzi e maldicenze, l’alleanza culturale ed economica fra la pittrice e il mecenate è destinata a durare a lungo, segnando in profondità la storia dell’arte americana del Novecento. A far data è, nel 1939, la mostra Art of Tomorrow, inaugurata a Manhattan al numero 24 della Cinquantaquattresima Strada Est, divenuta sede del Museum of Non-Objective Painting, che sarà ribattezzato Solomon R. Guggenheim Museum nel 1952. La prima direttrice è proprio Hilla von Rebay. È lei a contattare, nel 1943, Frank Lloyd Wright e, individuato di fatto il nuovo sito, a dare avvio ai lavori per la costruzione di una nuova sede del museo. Nel 1949, però, Guggenheim muore, lasciandola da sola a fronteggiare critiche e polemiche sul suo operato. In pieno cantiere, nel 1952, a causa di problemi di salute è costretta a dimettersi. Essere donna, per giunta immigrata in America e capace di raggiungere rapidamente ruoli di potere, le è fatale. Ecco perché, quando il museo di Wright viene inaugurato sette anni dopo, nel 1959, Hilla von Rebay non figura nella lista degli invitati. Dopo numerosi traslochi, dal 2003 il CAC si è trasferito nel nuovo centro, progettato dall’architetta Zaha Hadid. Nel Massachusetts, la città universitaria di Williamstone è meta dei viaggiatori d’arte già nel 1955, quando in un edificio neoclassico viene aperto lo Sterling and Francine Clark Art Institut. Nel 2008 viene aggiunto lo Stone Hill Center e, nel 2014, nuovi spazi espositivi e centri di ricerca, entrambi firmati da Tadao Andō. L’espansione diretta dall’architetto giapponese, funzionale all’accoglienza di esposizioni temporanee, è interrata e quindi in gran parte invisibile dall’esterno: una scelta in controtendenza rispetto alla maggior parte delle addizioni del nuovo millennio, non solo americane, che generalmente puntano su segni plastici appariscenti. Il complesso porta il nome dei Clark, gli eredi dell’impero delle macchine da cucire Singer, che all’inizio del Novecento, durante numerosi soggiorni in Europa acquistano pittura antica italiana, olandese e fiamminga, poi impressionisti e pittori della scuola di Barbizon. A New York Marcia Tucker, durante la direzione del Whitney Museum, fra il 1969 e il 1976, constata quanto sia difficile per gli artisti emergenti trovare spazi espositivi adeguati. Nel 1977 inaugura cosí una rassegna di mostre e fonda il New Museum of Contemporary Art, che troverà una sede permanente nel 2007. La costruzione, progettata dallo studio giapponese SANAA, prevede una sequenza verticale di sette scatole di dimensioni diverse, destinate a varie funzioni. 6. Musei d’America: gli stati del Sud In Texas, il Dallas Museum of Art, fondato nel 1903, è stato riallestito nel 1984 in un nuovo edificio creato dall’architetto Edward Barnes su un asse – una «strada-museo» dove sostare e osservare il panorama urbano – lungo il quale sono collocate da un lato le collezioni, dall’altro i servizi con bookshop, giardini di sculture, ristorante, ma anche sale giochi e auditorium. L’altro museo texano noto, è il Kimbell Art Museum, intitolato a Kay Kimbell, un ricco uomo d’affari di Fort Worth. Il Kimbell espone collezioni che vanno da ceramiche e gioielli maya ai bronzi orientali, ma soprattutto pittura: da Duccio di Buoninsegna a Caravaggio, Carracci, Rembrandt, Rubens, Tintoretto, El Greco, Tiepolo, François Boucher, Le Brun, Monet, Cézanne, Mondrian e Picasso. Nel 2013, accanto all’architettura di Kahn, Renzo Piano disegna quello che verrà chiamato Renzo Piano Pavilion. Si tratta di un padiglione colonnato in vetro, cemento e legno, semplice e leggero. Nascosta sotto un tetto verde, la sezione occidentale del Renzo Piano Pavilion contiene una galleria di opere d’arte sensibili alla luce, tre studi didattici e una grande biblioteca. Renzo Piano in gioventú aveva frequentato lo studio dell’architetto statunitense a cui si deve l’edificio principale e, sempre in Texas, aveva già progettato a Houston la Menil Collection nel 1987 e, a Dallas, il Nasher Sculpture Center nel 2003. La Menil Collection di Houston si deve al mecenatismo di Dominique e Jean de Menil, che all’inizio degli anni Ottanta la fondano per ospitare le loro collezioni, comprendenti oltre diecimila pezzi, dall’arte del paleolitico all’arte bizantina, dai surrealisti a Warhol. A Houston, i coniugi De Menil affidano il progetto del loro museo a Louis Kahn, concependolo come un deposito, vista l’enorme quantità di opere in loro possesso, dove esporre le collezioni a rotazione. L’idea è quella di coinvolgere l’intero quartiere di Montrose attraverso programmi educativi e culturali. Nel 1971 Dominique inaugura la Rothko Chapel, che allestisce 14 tele del maestro. All’esterno i visitatori possono ammirare una vasca d’acqua con una scultura al centro, Broken Obelisk di Barnett Newman, un’opera che Dominique aveva commissionato per farne dono all’amministrazione locale in ricordo di Martin Luther King, ma che era stata rifiutata. A Parigi Dominique, grazie all’iniziativa dell’allora direttore Pontus Hultén, entra a far parte del comitato per le acquisizioni del Centre Pompidou e in questo contesto nasce la collaborazione con l’architetto destinato a portare a conclusione il lavoro di Kahn, Renzo Piano. Come con Kahn, Dominique ribadisce quanto consideri importante la luce, che dev’essere intensa e naturale. Piano elabora questa richiesta. La rotazione delle opere diviene funzionale alla necessità di esporle solo per brevi periodi a una fonte luminosa intensa com’è la luce del Texas: il deposito di Kahn si trasforma nella Treasure House, posta dall’architetto genovese nel piano piú alto dell’edificio. A Fort Worth, sempre in Texas, un’antica istituzione legata alla locale biblioteca e galleria d’arte, fondata nel 1892 da un collettivo formato da venticinque donne del posto, si è trasferita nel Modern Art Museum costruito da Tadao Andō. L’edificio dell’architetto giapponese è formato da cinque lunghi padiglioni a tetto piatto che danno su uno stagno. Capitolo tredicesimo: la crescita e la gemmazione dei musei 1. Gli anni Ottanta: prove di rinascita in Europa Lungi dall’essere un’istituzione destinata a scomparire, come pure era sembrato nel primissimo dopoguerra un po’ in tutta Europa, a eccezione dell’Italia, il museo risorge dalle ceneri soprattutto mettendo al centro i visitatori e il pubblico. Questa prospettiva guida, per esempio, un importante progetto parigino, il Musée d’Orsay. Dal 1986 le collezioni d’arte, comprendenti pitture, sculture, oggetti d’arte decorativa, fotografie, medaglie, disegni e stampe relative a un periodo compreso fra il 1848 e il 1914, tra cui i principali capolavori delle avanguardie, da Auguste Rodin e Gustave Courbet agli impressionisti e post- impressionisti, sono allestite all’interno della Gare d’Orsay, restaurata dall’italiana Gae Aulenti. Si tratta di un edificio storico, ex stazione ferroviaria, particolarmente evocativo degli spazi delle grandi Esposizioni universali ottocentesche. Il progetto museografico diviene immediatamente bersaglio di critiche, riguardanti soprattutto le pareti, troppo piccole rispetto ai grandi dipinti che ospitano, mentre a prevalere su tutto sarebbe l’intervento architettonico. Per contro, fin dalla sua istituzione, il Musée d’Orsay sviluppa una vocazione pluridisciplinare, il dialogo tra le arti, tant’è che si dota di un auditorium e la musica entra subito a far parte del progetto dedicato alla cultura della seconda metà dell’Ottocento. Punto di riferimento nel dibattito sulle arti visive per il livello sostenuto delle sue mostre, da oltre trent’anni è anche la Fondation Cartier pour l’Art contemporain, fondata nel 1984 dall’allora presidente Alain Dominique Perrin, e installatasi un decennio dopo nel centro di Parigi, nell’edificio disegnato da Jean Nouvel. Un felice innesto di edifici è rappresentato anche, almeno sotto il profilo strettamente architettonico, dalla londinese Tate Gallery, sorta sul finire del XIX secolo e dall’addizione, alla fine degli anni Ottanta, della Clore Gallery disegnata da James Stirling. Il progetto non ha però tenuto conto delle necessità avanzate dai curatori, essenziali per esporre al meglio la collezione di Turner, la ragione per cui la nuova ala era stata progettata. Dipinti e architettura faticavano a dialogare e le rimostranze dei curatori, inascoltate da Stirling, sono state accolte solo dopo la sua morte, quando si è intervenuti sull’edificio con rifacimenti funzionali. In Germania, la Neue Staatsgalerie di Stoccarda è ospitata in un edificio postmoderno, inaugurato nel 1984 e progettato dall’inglese James Stirling in collaborazione con Michael Wilford and associates. L’idea del museo-tempio schinkeliano viene qui rivisitata citando anche altri celebri edifici, come il Guggenheim Museum di New York e il Pantheon di Roma: gli architetti hanno innestato il nuovo polo nell’edificio più antico, ottocentesco, discostandosene attraverso l’uso di materiali (ferro, vetro, tubi) e di colori (viola, verde, rosso) originali. A Düsseldorf, apre nel 1986 una delle collezioni di arte contemporanea piú rilevanti della Germania, la Kunstsammlung Nordrhein-Westfalen, con opere di Paul Klee, Henri Matisse, Pablo Picasso, Vasilij Kandinskij, Joan Miró, Georges Braque, Fernand Léger, Juan Gris, Marc Chagall, Oskar Kokoschka, Alexej Jawlensky, Carlo Carrà, Giorgio de Chirico e Jean Arp. A Basilea viene inaugurato nel 1996 il Museum Tinguely, progettato da Mario Botta, con un ingente archivio e numerose opere non solo dell’artista svizzero cui è dedicato, ma anche delle sue compagne Eva Aeppli e Niki de Saint-Phalle. Una novità impostasi immediatamente quale referenza del campo delle arti visive si deve a un’iniziativa privata: si tratta della Fondazione Beyeler e dell’annesso museo, entrambi di Renzo Piano, pronti nel 1997. Nel 1990 apre a Madrid la nuova sede delle collezioni di arte contemporanea: il Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía s’impone immediatamente sulla scena internazionale. La sede è un edificio storico, l’ex ospedale San Carlos, restaurato da Antonio Fernández Alba e poi da José Luis Íñiguez de Onzoño e Antonio Vázquez de Castro, questi ultimi in collaborazione con l’architetto britannico Ian Ritchie. Dopo soli vent’anni di attività, a fronte dell’ingente accrescimento del suo patrimonio artistico, il Reina Sofía ha ampliato i suoi spazi espositivi in un nuovo edificio, progettato dal francese Jean Nouvel. Oltre che funzionale alle esigenze museali, l’edificio di Nouvel ha creato una nuova piazza pubblica divenendo anche uno spazio per la città. Negli anni Novanta anche il neoclassico Museo del Prado di Juan de Villanueva viene restaurato e, sotto la guida di Francisco Rodríguez de Partearroyo, si rinnovano alcune sale. Per il bicentenario dall’apertura del museo, nel 2019, è stato attivato un imponente piano di acquisizioni, depositi e donazioni. Una non meno rilevante spinta innovativa investe tutta la Spagna portando alla creazione di nuovi musei. Tra gli episodi più significativi della fine degli anni Ottanta va segnalato il La gestione Krens del Guggenheim illustra bene una visione del museo inteso come merce. Si deve all’architetto Giancarlo De Carlo la definizione di «musei dell’iperconsumo», poi codificata dalla saggistica con l’espressione «ipermusei». La riflessione ha in realtà origini lontane e la si può seguire, andando indietro nel tempo, fin dagli anni Sessanta, nel contesto del dibattito sulla nouvelle muséologie. A introdurre il concetto di «museo-tempio spettacolare» è François Mairesse a proposito di alcune amministrazioni che negli anni Settanta decidono di intervenire, aprendo nuovi musei e rinnovandone altri. Cominciano a essere organizzati vari servizi per il pubblico. I musei britannici, cui il primo ministro Margaret Thatcher impone, negli anni Ottanta del XX secolo, l’ingresso nel mercato, sono fra i primi a somigliare più a parchi di divertimento che a luoghi di cultura. Un rischio che si corre anche quando l’introduzione delle nuove tecnologie nei vari settori del museo è pensata a fini esclusivamente ludici. Un caso emblematico in tempi recenti è il Guggenheim-Ermitage, a Las Vegas, situato all’interno di uno dei piú grandi hotel del mondo, The Venetian. La breve durata di questa esperienza, iniziata nel 2001 ed esauritasi nel 2008, documenta da sola il fallimento di simili innesti forzati. Una variante del tentativo di trasformare l’arte in merce è costituita dai cosiddetti concept stores, dove i visitatori-consumatori hanno la possibilità di vivere un’esperienza culturale, o presunta tale, attraverso l’esplorazione di quello che Marc Augé chiamerebbe un «nonluogo», uno spazio che ha la peculiarità di non essere identitario. Resta da chiedersi se la scelta di entrare nel mondo dell’industria culturale e di configurarsi come impresa in cerca di profitto sia legittima per un museo, oppure se questo tipo di istituzione debba per sua natura restare fuori dai circuiti commerciali. Una lunga tradizione, quest’ultima, che fino ad anni recenti ha caratterizzato, per esempio, i musei italiani. Tra queste due radicali opzioni se ne profila una terza, la via del compromesso: perseguire anche fini economici, pur mantenendo ben salda la rotta della missione primaria del museo, quella culturale e educativa. Un museo, come altre istituzioni culturali quali scuole, biblioteche o archivi, sarà sempre un onere per l’ente che lo ha in carico. Anche quando avvierà attività economiche, i suoi profitti saranno sempre limitati e lontani, oltre che dai guadagni, dal pareggio di bilancio. Era di questo parere uno dei piú influenti economisti del secolo scorso, John Maynard Keynes. Fare cultura e fare profitto non sono la stessa cosa. La cultura collettiva, come quella individuale, non è acquistabile, dunque si genera un singolare paradosso, per cui il museo-azienda non può vendere il suo prodotto primario, ovvero la cultura stessa. Si scatena allora la corsa a un’economia basata sui prodotti secondari: biglietti, gadgets, ristorazione... In Europa – e in generale nei paesi latini – il 95% del budget di un museo deriva dal finanziamento pubblico; in Nord America i musei e le biblioteche, oltre che da contributi di associazioni – che peraltro attingono anche a fondi pubblici – sono pur sempre «coperti» per un terzo da soldi statali. Oggi in Europa l’antinomia fra stato e mercato si trova in una fase di competizione estrema: da un lato vi sono musei privati, spesso fondazioni legate a grandi stilisti dotate di risorse smisurate, dall’altro istituzioni pubbliche che combattono per la loro stessa sopravvivenza. La terza via, costituita dal concorso di finanziamenti pubblici e interventi privati, è in teoria la strada maestra, a patto che il timoniere tenga la barra ben dritta. 5. Altre galassie Nel 2008, quando Krens, dopo vent’anni, lascia la direzione del Guggenheim, non solo la situazione finanziaria del museo non è migliorata, ma il suo franchising museale ha portato la prestigiosa istituzione al collasso. L’idea di museo globale perseguita da Krens consiste nell’applicare all’arte i concetti di marchio di fabbrica, di brand e di marketing che si applicano ai beni di consumo prodotti in serie. Nonostante il complessivo insuccesso dell’operazione di Krens, altre importanti istituzioni internazionali provano a emularne, nel bene e nel male, le gesta. È il caso della cosiddetta «galassia Ermitage», dall’omonimo museo madre di San Pietroburgo, stabilitasi nel 2007 nella poco fortunata sede italiana di Ferrara (poi traslocata a Venezia) e a Las Vegas. Sono in costruzione un nuovo Ermitage a Barcellona, nella zona del porto, e uno a Mosca per l’arte contemporanea. La maggior parte dei musei di nuova costruzione sceglie di puntare sull’arte contemporanea, ma anche la storica sede sul Mar Baltico si è aperta al contemporaneo attraverso una serie di mostre, come per esempio quelle dedicate all’Arte Povera, a Zaha Hadid e a Anselm Kiefer. Anche il Beaubourg ha da tempo avviato un capillare progetto di esportazione del proprio nome fuori da Parigi: nel 2010 ha inaugurato il Pompidou Metz, nell’omonima città nel Nord-est del paese, disegnato dagli architetti Shigeru Ban e Jean de Gastines. Nel 2015 ha aperto un’altra sede a Malaga: El Cubo, in spazi rivisitati da Daniel Buren. È in preparazione il KANAL – Centre Pompidou di Bruxelles, in un’ex fabbrica della Citroën. In linea con gli interessi del sistema dell’arte contemporanea, negli ultimi decenni catalizzati dall’Oriente, nel 2019 ha aperto a Shanghai il Centre Pompidou x West Bund Museum Project, un edificio di 25mila metri quadrati firmato da David Chipperfield e costruito lungo il fiume Huangpu. Sulla falsariga di progetti similari, anche l’accordo tra il Beaubourg parigino e il gemello di Shanghai è a scadenza. Il contratto quinquennale, in questo caso rinnovabile, prevede l’utilizzo del nome del museo madre, che si impegna a prestare opere delle sue collezioni per permettere al nuovo museo di presentare percorsi semipermanenti e di allestire due mostre temporanee all’anno. Nell’ambito del suo programma di espansione al di fuori della città d’origine, Parigi, il Centre Pompidou ha annunciato inoltre l’apertura, nel 2023, di una Art Factory a Massy, un sobborgo di Parigi. Una sorta di avamposto del Beaubourg che si propone di portare parte della sua programmazione fuori della capitale. Lo spazio accoglierà anche elementi della collezione del Musée National Picasso di Parigi, che possiede circa cinquemila pezzi del maestro del Cubismo. Il costo previsto per la costruzione è di circa cinquanta milioni di euro. 6. Il Louvre “fuori le mura” Il museo parigino non è da meno nel perseguire politiche di espansione «fuori le mura». Nel 2012 è stata inaugurata una nuova sede a Lens, nella Francia nord-orientale. La città, segnata dalle due guerre mondiali e dalla chiusura dell’industria mineraria, ha puntato sul nuovo museo per favorire lo sviluppo del territorio. Sito a pochi passi dal centro di Lens, il nuovo museo è stato progettato dagli architetti giapponesi del gruppo SANAA (Kazuyo Sejima e Ryue Nishizawa) come una sequenza di cinque edifici trasparenti, in dialogo con il paesaggio circostante. I depositi e i laboratori di restauro sono a vista; nei due corpi principali è presentata, lungo una galleria illuminata da luce zenitale, una scelta di collezioni dall’antichità all’età moderna, in prestito dal Louvre parigino. Non sono mancate le perplessità sull’allestimento: l’ordinamento cronologico non fa infatti distinzione fra civiltà e tipologie e ha richiesto subito l’intervento di mediatori, presenti lungo il percorso. Fra le duecento opere inviate in prestito da Parigi dovevano restare a Lens per cinque anni e poi essere restituite, ma nel 2019, quindi sette anni dopo, erano ancora a Lens con circa la metà delle opere prestate. L’ultimo decennio delle politiche culturali del Louvre è stato poi contraddistinto dall’incandescente dibattito attorno a un’altra sede «fuori porta», il Louvre Abu Dhabi, inaugurato nel novembre del 2017. Concepito come un «museo universale», è stato progettato da Jean Nouvel nell’isola di Saadyat, al cui centro si sta sviluppando un distretto culturale che, oltre alla «filiale» del Louvre, comprende lo Sheikh Zayed National Museum disegnato da Norman Foster, una sede del Guggenheim progettata da Frank Gehry, una sede dell’Università della Sorbona, oltre che spazi commerciali e residenziali. Firmando un accordo intergovernativo, la Francia ha concesso l’uso del nome «Louvre» agli Emirati Arabi per trent’anni, in cambio di quattrocento milioni di euro, e si è impegnata a contribuire sia alla formazione del personale del nuovo museo, sia all’incremento delle collezioni. Le polemiche hanno accompagnato soprattutto le clausole, che prevedono da parte del Louvre parigino l’impegno a prestare alcune opere per la sede negli Emirati in cambio di denaro. La stessa concezione di «museo universale» è oggetto di contestazioni: si accusa infatti il Louvre Abu Dhabi di esportare acriticamente una visione europea di museo: un’operazione piú simile a una nuova colonizzazione che a una proposta multiculturale, capace di coinvolgere realmente le comunità locali. Chi ha il potere di includere o escludere opere e oggetti, riproponendoli nell’ottica orientalista o primitivista cara ai musei europei? Oltre al problema della decentralizzazione, ben esemplificato dal progetto del Louvre, di tanto in tanto c’è ancora qualcuno che rilancia la possibilità di «mettere a frutto» il patrimonio, magari vendendo le opere conservate nei depositi dei musei, visti come «tesori conservati nelle cantine». Che cosa rispondere a questa visione falsata della questione? Come gli archivi e le biblioteche, anche i depositi sono luoghi di studio e di ricerca. Soprattutto, dal momento che anche il patrimonio non è estraneo alle «oscillazioni del gusto», futuri studi potranno identificare come capolavori opere che oggi sono conservate al loro interno. Proprio nei depositi si fanno spesso le scoperte più interessanti. Tra l’altro, in caso di catastrofi, le opere nei depositi hanno molte più probabilità di sopravvivere rispetto a quelle esposte. L’archeologia e la storia dell’arte hanno da tempo valorizzato le connessioni Primo fra tutti Salvatore Settis: “Non sarebbe meglio che il denaro pubblico fosse speso per far funzionare la macchina pubblica?” Solo la pubblica amministrazione – osserva Settis – può avere un concetto allargato di ricchezza e favorire meccanismi di compensazione fra aree ‘forti’ e aree ‘deboli’ del sistema. Una cosa, infatti, è il lodevole mecenatismo, che in Italia non ha una grande tradizione, altra cosa sono i possibili accordi di collaborazione, che vanno giudicati caso per caso, valutando in concreto premesse e risultati; altra cosa ancora, infine, è una visione che valuti questo intervento non in termini di risultati culturali, ma solo di bilancio. Affidando ai privati prima la gestione di alcuni servizi e poi degli stessi beni culturali, si corre il rischio di generare una pericolosa confusione, che apre la porta a una separazione tra tutela dei beni e loro gestione. In prospettiva, significa scaricare sullo stato le perdite e dare ai privati i profitti, e quando i profitti non ci sono, non resta che attendersi un calo di qualità dei prodotti, della protezione del patrimonio, della sua stessa accessibilità. 2. L’anno zero dei musei italiani Il 10 maggio 2001 viene pubblicato un decreto ministeriale che per gli addetti ai lavori rappresenta la fine di un’attesa durata oltre mezzo secolo: l’Atto di indirizzo sui criteri tecnico-scientifici e sugli standard di funzionamento e sviluppo dei musei. La commissione incaricata di redigere l’Atto di indirizzo del 2001 si serve inoltre dei lavori dell’American Association of Museums, del Codice etico dell’ICOM e dell’inglese Registration Scheme for Museums and Galleries. Vengono individuate otto parti, definite «ambiti», per la definizione degli standard. I. Status giuridico Archiviando il sistema del cosiddetto museo-ufficio, si sottolinea l’importanza, per ogni museo, di emanciparsi dall’eventuale istituzione di appartenenza. Dotandosi di uno statuto o di un regolamento, il museo deve essere autonomo nell’individuare le proprie caratteristiche e nell’interfacciarsi con le altre istituzioni, anche in occasione di convenzioni, partecipazione a bandi, richieste di contributi e di sponsorizzazioni. La messa in rete tra realtà che condividono, per esempio, uno stesso territorio potrà agevolare la gestione delle risorse fino alla creazione dei cosiddetti «distretti culturali». La gestione museale si ispira alle pratiche del dono, attraverso l’elargizione di oggetti e denaro, oppure tramite l’attività del volontariato e delle associazioni degli «amici dei musei». Nello statuto o nel regolamento si affermerà anzitutto la sua natura di organismo permanente e senza scopo di lucro, ovvero l’appartenenza al settore del no profit. II. Assetto finanziario Si considera necessario dotarsi di una programmazione economica almeno quinquennale e, ogni anno, di un bilancio preventivo e consuntivo che individui le risorse disponibili e quelle da reperire per una corretta gestione museale. Le entrate di un museo sono ripartite fra autofinanziamento e risorse esterne (fondi di dotazioni, trasferimenti, contributi pubblici e privati, sponsorizzazioni, ecc.); le uscite sono generate da funzionamento e manutenzione ordinaria, personale, gestione amministrativa e operativa; gestione delle collezioni, studi e attività scientifica, servizi al pubblico, attività culturali, investimenti e manutenzione straordinaria. III. Strutture del museo Lo scopo è garantire che le «strutture siano adeguate alle funzioni cui sono adibite, in conformità alla politica ed agli obiettivi educativi e con riferimento alle esigenze delle collezioni, del personale e del pubblico». Vengono presi in considerazione spazi e percorsi, esterni e interni, sistemi di allestimento e illuminazione. Che sia ospitato in un edificio costruito ex novo, oppure, come nella maggior parte dei musei italiani, faccia parte di un complesso, di un sito d’interesse archeologico o storico-artistico, come hanno insegnato i musei americani, il museo deve consentire di visitare le collezioni, ma anche di ovviare alla museum fatigue, grazie ad adeguati spazi e strutture: zone di relax, sedute e servizi. Nella maggior parte dei musei, i criteri espositivi sono chiari già all’ingresso, dove si intuisce facilmente se il percorso sarà storico-cronologico, geografico-territoriale, tematico o puramente estetico. Soprattutto nei musei che si occupano di arti visive contemporanee, l’articolazione del percorso può essere volutamente disorientante e apparentemente non calibrata: circostanze che possono rivelarsi di stimolo per i visitatori. Rientrano nel rapporto fra spazio, oggetti e visitatore anche i sistemi di protezione: da un lato i sensori sonori, i dissuasori e i distanziatori per proteggere le opere dal pubblico, dall’altro le teche, vetrine, climabox e dispositivi affini capaci di garantire, oltre che la custodia, anche la conservazione degli oggetti. Vi sono infatti casi in cui gli standard di conservazione delle opere non sono in linea con i parametri climatici e termoigrometrici degli ambienti. Umidità relativa, temperatura e qualità dell’aria vanno comunque sempre monitorate con appositi strumenti. Essenziale è il controllo della luce, non solo per le aree esterne, ma anche all’interno del museo e, soprattutto, lungo il percorso. La luce naturale può essere diretta, indiretta o condotta; quella artificiale può essere generale, puntuale di accento o su vetrina, per citare solo qualche esempio. Specialmente in rapporto alle collezioni, l’illuminazione deve rispondere a criteri di flessibilità. Oggi si ottengono soluzioni ottimali anche con la luce artificiale e sempre più utilizzate sono soprattutto le lampade a LED, ma fino ad anni recenti la critica ha «enfatizzato» la luce naturale, per «la qualità della sua tonalità e morbidezza». Naturalmente le due modalità non si escludono e possono essere complementari, come dimostra la soluzione adottata da Louis I. Kahn nel Kimbell Art Museum. L’Atto di indirizzo precisa che nelle sale il flusso luminoso non deve mai essere superiore a 300 lux, ma, come avverte il documento, bisogna tenere conto di ulteriori limitazioni dovute agli effetti termici, in particolare per stucchi, smalti, vetrate e fossili. Esistono reperti e manufatti altamente sensibili alla luce, per esempio tessili, costumi, arazzi, tappeti, tappezzeria, ma anche pitture realizzate con tecniche miste o «moderne»… mummie, sete, inchiostri, coloranti e pigmenti a maggior rischio di scoloritura quali lacche e cosí via non vanno esposti a fonti superiori a 50 lux. IV. Personale Le «molteplici funzioni del museo [...] possono essere svolte solo a condizione che esso disponga di personale qualificato». Nella scelta del direttore, criteri e procedure devono essere trasparenti, cosí come per qualsiasi provvedimento di nomina, promozione del personale o interruzione del rapporto di impiego. Va riconosciuta la specificità delle professioni necessarie nei diversi ambiti di attività del museo. Sono altrettanto importanti l’accertamento di una formazione adeguata alle funzioni da svolgere, oltre che l’aggiornamento, la riqualificazione e la formazione continua del personale. V. Sicurezza La piena responsabilità del direttore di fronte all’organo di governo e di controllo riguarda le diverse problematiche inerenti alla salvaguardia degli edifici e del loro contenuto, ma anche la sicurezza degli occupanti (frequentatori e addetti), dunque tutto ciò che usualmente è individuato con i termini inglesi di security e di safety VI. Gestione delle collezioni Le raccolte «rappresentano l’elemento costitutivo e la ragion d’essere di ogni museo». Conservazione, gestione, cura, incremento, inalienabilità delle collezioni, insieme con la loro piena accessibilità, fisica e intellettuale, sono al centro di ogni pratica museale. Quando si parla di conservazione, oggi si ragiona per lo più in termini di conservazione preventiva, o curativa. L’obiettivo è stabilizzare le condizioni dell’oggetto, facendo riferimento a standard condivisi e basati sui principi della reversibilità dell’intervento e della sua identificabilità. Nel dibattito, anche etico, fra teoria e prassi del restauro, i musei hanno svolto un ruolo molto importante. Uno dei casi piú citati riguarda, alla metà del secolo scorso, la cosiddetta cleaning controversy. Alcuni teorici del restauro, come l’italiano Cesare Brandi, giudicavano troppo aggressivo il restauro operato dal laboratorio della National Gallery di Londra, perché la pulitura delle opere, oltre ad asportare la sporcizia superficiale, a loro parere le aveva private per sempre di vernici e patine – i segni del «Tempo Pittore» – ritenute essenziali. Uno dei piú discussi interventi di restauro dei tempi moderni è quello della Cappella Sistina, completato da Gianluigi Colalucci all’interno dei Musei Vaticani nei primi anni Novanta del secolo scorso. L’imprevedibile cromia michelangiolesca portata alla luce dal lavoro ha di nuovo diviso la critica. Una questione assai delicata riguarda la conservazione degli allestimenti oramai storici. L’arte contemporanea «tradizionale», per quanto fatta di materiali e tecniche miste facilmente deperibili, che mettono a dura prova i restauratori e i curatori degli archivi di artisti, alimenta il dibattito etico, prima ancora di richiedere l’introduzione di nuove metodologie. Un esempio che ha fatto scuola, anche in Italia, riguarda l’opportunità di conservare la Street Art fino a musealizzarla. Riguardo al patrimonio digitale, la Tate Modern è stata tra le prime istituzioni, in Europa, a creare e dotare di personale specializzato un dipartimento per la conservazione delle opere numeriche: per garantire il funzionamento della videoarte, per esempio, basata su supporti presto obsoleti. L’ente inglese è attivo anche nel promuovere programmi che, attraverso il I musei attivano la percezione attraverso molti «linguaggi extramuseali». Il museo, con il suo impatto tridimensionale, plastico, è di per sé interattivo, esprime la sua multimedialità attraverso le scelte architettoniche, di ambienti e allestimenti, operate da architetti e direttori: da Klenze a Wagner, da Wright a Piano, da Ricci a Magagnato. Anche la selezione, l’ordinamento dei singoli oggetti e il relativo display, ovvero l’interpretazione che ne viene data, sono al centro di quello che Baxandall ha definito «effetto museo», quel processo che indurrà i visitatori a credere «che l’oggetto, in quanto è stato messo in mostra, deve essere considerato degno di essere osservato per l’importanza culturale, per il valore estetico o per l’abilità di chi lo ha fatto». Alla base di ogni progetto museografico c’è il progetto museologico, che parte dallo studio e dalla conoscenza delle singole opere: è da ogni oggetto della collezione, dal suo eventuale restauro e, prima ancora, dal lavoro di inventariazione e catalogazione, che scaturisce il messaggio da attribuire all’opera. Si procede poi a individuare un corretto ordinamento, tale da trasmettere con chiarezza concettuale le ragioni del percorso museale. I supporti didattici sono molti già all’esterno del museo, dove contengono informazioni elementari – come i pannelli con i giorni e gli orari di apertura –, o più complesse, legate ai contenuti culturali proposti. È opportuno che siano ben visibili e impostati in modo da essere percepiti anche in movimento, magari con la coda dell’occhio, dunque con una forte componente visuale e un ampio uso della segnaletica simbolica e iconica. All’interno del museo, le tradizionali brochures con la pianta e le informazioni principali rappresentano ancora un veicolo efficace e apprezzato dal pubblico. La comunicazione testuale è poi realizzata da pannelli, didascalie (o cartellini) e schede. Decisivo per la comprensione del percorso è percepire anche solo una parte dei testi o, scorrendo con lo sguardo, cogliere i diversi colori che sottolineano le varie sezioni. Camminando si crea infatti un gioco di rimandi per cui si scorge un pannello, s’intravede l’opera con il suo contesto spaziale e tutti questi elementi convergono nell’apprendimento. Si parla di didattica «passiva», ma nonostante questo tipo di comunicazione resti per lo più unilaterale, senza risposta da parte del pubblico, l’esperienza del museo s’impone, gioco forza, come tutt’altro che «passiva». «Scrivere un pannello o una didascalia – come hanno affermato Alessandra Molfino e Cristiana Morigi – è uno dei banchi di prova di chi lavora in museo»: niente di piú vero. Nel particolare caso di una comunicazione scritta come quella che riguarda pannelli e didascalie, è fondamentale che la lingua del paese sia affiancata da una traduzione in inglese professionale e non letterale. Eppure, una verifica degli standard eseguita qualche tempo fa ha rilevato come, in oltre il 20% dei musei italiani, le didascalie in inglese non fossero neppure presenti. Altrettanto raccomandata è la traduzione con i codici braille. Tutti condividono alcune regole basilari, per prima quella di non impiegare termini tecnici incomprensibili ai non addetti ai lavori. Sono stati normalizzati anche gli aspetti formali, che tanto contribuiscono alla comprensione dei testi: dalla scelta del carattere tipografico e delle sue dimensioni, all’impaginazione e alla grafica. Perché le didascalie siano leggibili da una distanza di due metri, il corpo tipografico non deve essere inferiore a 18 punti e il testo di colore nero (o comunque scuro) su fondo chiaro. Si devono poter leggere con chiarezza i principali dati relativi alle opere (autore, definizione dell’oggetto, epoca). Oltre alla leggibilità, bisogna fare in modo che le didascalie e i pannelli non interferiscano con le opere e gli spazi, garantendo una corretta visione. In alcuni contesti le indicazioni essenziali sono integrate da una breve scheda storico-artistica, talvolta determinante soprattutto per comprendere significati iconologici e contestuali di opere provenienti da civiltà lontane dalla propria. È la soluzione magistralmente realizzata nelle due sedi californiane del Getty Museum. Promettenti le strategie adottate recentemente dal Victoria and Albert Museum per affrontare le sfide della disabilità (Disability Equality Scheme), della diversità (V&A Diversity Policy), della promozione delle pari opportunità (V&A Gender Equality Scheme) e dell’accesso (Strategy for Access, Inclusion&Diversity). In particolare, l’ultimo progetto si propone non solo di stimolare l’accesso al museo di nuovi pubblici lavorando con specifiche comunità, per esempio quella asiatica, o con gruppi di età ben definiti, come anziani e giovani, ma anche di promuovere la partecipazione ai processi interni del museo e la rappresentazione della diversità culturale attraverso politiche mirate di selezione e formazione del personale. Risale specialmente all’ultimo decennio l’introduzione del concetto di mediazione culturale. In questo caso il fine non è più solo didattico e il museo diviene un luogo in cui tessere fili tra ciò che è esposto, gli oggetti, i loro significati e le loro possibilità di condivisione, durante la visita, con le esperienze già vissute dai visitatori. Il museo diventa così una sorta di detonatore, che attraverso testimonianze e segni dell’umanità favorisce l’emergere di riferimenti comuni per una migliore comprensione della realtà. 5. La rinuncia al testo La rinuncia alla comunicazione, anche se oggi è operata sempre piú di rado dai musei, evitando perfino di ricorrere ai cartellini accanto alle opere, è un’opzione di per sé ricca di significati. Fino a qualche decennio fa, la piú importante collezione privata italiana, la Galleria Doria Pamphilj di via del Corso a Roma, si presentava al pubblico come una quadreria del tutto sprovvista di apparati didattici: gli unici nomi di autori e titoli di dipinti erano quelli, se presenti, incastonati ab antiquo nella cornice del quadro. Una scelta radicale, che se da un lato non permetteva un riscontro aggiornato sulle opere e non forniva alcune informazioni essenziali, dall’altro consentiva di fruire di collezioni e spazi senza «distrazioni». Non è infatti per nulla scontato che l’inserimento di testi lungo il percorso – per non parlare di quando sono sovrabbondanti, inadeguati o invadenti al punto da oscurare perfino le opere – raggiunga il presunto obiettivo di far comprendere a tutti, in nome dell’agognata democratizzazione della cultura, la complessità della materia. La lettura formalistica dell’opera e il suo potere parlante sono stati al centro della museologia italiana del dopoguerra e, sul tema, il dibattito è ancora aperto. In Nord America, soprattutto dalla metà dell’Ottocento, i locali musei di arte, storia, scienze e arti applicate presentavano gli oggetti come cose, libri aperti sul passato. Già sul finire del secolo, sempre negli Stati Uniti, contrastavano questa idea coloro che, come George Brown Goode, erano convinti che «il museo del passato» dovesse «essere messo da parte, ricostruito, trasformato da un cimitero di bric-à-brac in una nursery per idee vive». Il museo del futuro, sottolineava Goode, «deve stare accanto alla biblioteca e al laboratorio, come parte dell’apparato di insegnamento del college e dell’università, e nelle grandi città deve cooperare con la biblioteca pubblica come uno dei principali agenti per l’istruzione del popolo». La scelta degli strumenti di comunicazione è tutt’altro che scontata, ma soprattutto qualsiasi operazione divulgativa va vagliata nell’ambito di un piú ampio progetto culturale, teso a individuare i contenuti da comunicare e, naturalmente, le categorie dei destinatari, del pubblico. Gli interventi degli artisti contemporanei che hanno offerto il loro sguardo all’interno dei musei, come l’armeria all’interno del Museo Poldi Pezzoli reinterpretata da Arnaldo Pomodoro (1996-2000), si sono spesso rivelati di grande efficacia. 6. La tecnologia all’interno dei musei Nell’ambito della didattica cosiddetta «passiva», ci sono numerosi altri strumenti non solo testuali il cui utilizzo, negli ultimi anni, è stato ampiamente incrementato: l’audioguida e le altre applicazioni digitali, dal sito web alle specifiche app dedicate, approfondimenti delle opere attraverso codici QR, tag per l’attivazione della realtà aumentata (AR), ologrammi, monitor con video in loop, pannelli e tavoli interattivi. Già nel dopoguerra Carlo Ludovico Ragghianti aveva condotto alcune pionieristiche sperimentazioni partendo dall’assunto che «il visivo si spiega col visivo». I suoi critofilm sono veri e propri incunaboli della divulgazione basata sulle fonti filmate e, oggi, numeriche. Come la parola scritta, anch’essi possono da un lato contribuire all’apprendimento, ma dall’altro produrre l’effetto opposto. L’ingresso massiccio dei supporti multimediali nei musei risale alla fine degli anni Novanta. Oltre che come parte del percorso museale, e dunque come strumenti educativi, sono usati a fini di conservazione (attraverso la simulazione di ricostruzioni e «restauro virtuale») e di documentazione. In base all’utilizzo delle tecnologie si possono distinguere i musei «tradizionali-virtuali», che non disdegnano l’impiego dei supporti digitali, ma che anteponendo l’aggettivo «tradizionale» mettono subito in chiaro la loro consistenza fisica. Ci sono poi i musei «virtuali», che rappresentano un’estensione dei musei reali, e ci sono infine i musei «realmente virtuali», che non sono fisicamente visitabili, ma esistono solo nelle versioni numeriche. Un’altra categoria è rappresentata da musei che esistono fisicamente, e dunque si possono visitare come i musei tradizionali, ma non espongono oggetti e affidano il racconto ai supporti multimediali. In Italia uno dei primi e meglio riusciti esempi di questa particolare tipologia è il Museo Audiovisivo della Resistenza, aperto nel 2000 a Fosdinovo, nei luoghi della lotta per la liberazione. L’iniziativa si deve a un partigiano, Paolino Ranieri, che credeva fortemente nel museo come luogo di esperienza, in cui la memoria e la conoscenza divengono vive e attive racconto è affidato all'esperienza della visita, ed è la risposta affermativa alla domanda: ‘possono i musei non contenere nulla?’. Alcuni memoriali famosi: Hiroshima Peace Memorial Museum (1955), National Chernobyl Museum (1992), Holocaust Memorial Museum di Washington (1993), World Trade Center (2011). Uno tra i più potenti resta la distesa di blocchi di calcestruzzo in memoria degli ebrei uccisi realizzata a Berlino dall'architetto Peter Eisenmann nel 2005. A Bologna invece il Museo per la Memoria di Ustica ospita un'installazione di Christian Boltanski, artista famoso per porre al centro della sua opera la desacralizzazione di luoghi e reliquie. 3. Musei nel nuovo millennio: l’Europa centrale e meridionale Presentare opere in dialogo tra loro, accostando epoche e linguaggi diversi, è il criterio adottato dal museo Kolumba completato nel 2007 a Colonia. È assente qualsiasi supporto didattico scritto, le informazioni vengono consegnate all'inizio della visita raggruppate in un opuscolo. Vediamo superate alcune tipologie museali: il Kolumba e al tempo stesso museo di arte antica, moderna e contemporanea. A Dessau, in Sassonia, viene inaugurato nel 2019 il Bauhaus Museum, comprendente circa 49.000 lavori funge da nuova sede culturale per la città, nello spirito originale del Bauhaus. In Svizzera nel 2005 inaugura un nuovo polo progettato da Renzo Piano a Scöngrün, appena fuori da Berna, dedicato a Paul Klee. Il Zentrum Paul Klee è articolato in tre padiglioni a guscio che presentano le tappe principali dell'artista, con spazi per mostre temporanee, didattica, spettacoli teatrali e concerti: dunque un centro culturale. Per via della fragilità di alcune opere dell’artista che si rovinerebbero con la luce naturale, le collezioni sono destinate a un'area interrata. Il dialogo tra la costruzione e l'ambiente circostante è al centro dell'idea progettuale, condotta seguendo l'andamento del terreno collinoso. In Spagna all’inizio degli anni 2000 vengono inaugurati molti musei: il Museo Arqueológico ad Almeria (2004), il Muséo de Cantambria e il Botín Centre a Santander (2017), mentre il Museum Nacional d’Art de Catalunya di Barcellona rilegge i suoi percorsi in vista del centenario nel 2029. A Madeira inaugura nel 2004 l’Art Centre di Calheta, e nel 2009 in Grecia apre al pubblico il nuovo Acropoli Museum di Atene, tre blocchi caratterizzati da un sistema di gallerie modulate sulle trasparenze, che consente lungo il percorso un continuo dialogo con il sito archeologico circostante. 4. Musei del nuovo millennio: il Nord Europa Nell'Europa settentrionale, le novità sono legate soprattutto all'arte contemporanea. In Finlandia nel 1998 inaugura il Museum of Contemporary Art di Helsinki denominato anche Kiasma dal punto del cervello dove si incrociano le fibre dei due nervi ottici a cui alludono i due corpi dell'edificio, progettato da Steven Holl. Oslo (Norvegia) riprogetta il suo sistema museale a partire dal lungomare, all’Astrup Fearnley Museum, museo privato progettato da Renzo Piano, si aggiungono il nuovo Nasjonalmuseet e il futuro Munch Museum. A Jevnaker dal 2019 è aperto un nuovo spazio espositivo nel parco di sculture di Kistefos, il più grande dell'Europa settentrionale, con opere di artisti come a Anish Kapoor, Olafur Eliasson, e Yayoi Kusama. Nel 2005 a Herning (Danimarca) inaugura l’Herniing Center of the Arts con un importante collezione di arte concettuale e sperimentale danese e internazionale dagli anni ’30 a oggi. Nel 2006 a Copenhagen viene ampliato l’Ordrupgaard Museum su progetto di Zaha Hadid. Nel 2017 nasce sulle ceneri di un bunker tedesco della Seconda guerra mondiale lungo la costa occidentale danese il Tirpitz Museum. Si tratta di un museo quasi invisibile che al cemento del bunker preesistente ha contrapposto una struttura trasparente e leggera, in grado di ospitare contemporaneamente più mostre. Il committente del Museum Voorlinden a Wassenaar (Olanda), aperto dal 2016, ha scelto di affidare la progettazione degli interni ad Andrea Milani, non volendo rivolgersi alle cosiddette archistar per non correre il rischio di adombrare le opere con la magniloquenza dello spazio. 5. La ‘febbre del museo’ in Cina L'arte contemporanea è protagonista del nuovo millennio anche in Cina. Nel 1949, al momento della sua nascita, la Repubblica popolare cinese aveva ereditato solo 25 musei bandendo quelli privati, si trattava quindi solo di istituzioni di stampo storico e commemorativo. Se durante l'era di Mao Zedong i musei cinesi hanno svolto una funzione di propaganda sottolineando la storia ufficiale del partito, nella fase successiva a dominare sono state forti contraddizioni. Collettivismo e lotta di classe contrastavano con l'ideologia neoliberista che glorifica il mercato e l’imprenditorialità. Nel 2003 lo stato sponsorizza il programma del “turismo rosso” inteso come una forma di educazione patriottica, ma sin dagli anni ’80 del ‘900 i musei sono cardini dell'agenda politica del governo cinese che li incentiva in tutti i modi. Se nel 1978 vi erano 365 musei in Cina, tra il 2011 e il 2015 sono arrivati a 3400. Dalla fine degli anni ’90 il governo ha autorizzato anche musei privati, come quello voluto dall'artista e attivista sociale Huang Zhou a Pechino. Gli artisti prima esclusi dai circuiti ufficiali cominciano a trovare spazi di espressione e si apre una nuova era, simbolicamente coronata dalla prima Biennale d'arte di Shanghai nel 2000. Il Museo di Arte Contemporanea di Shanghai ha sede in un edificio industriale dell'esposizione di Shanghai del 2010 riconvertito in sede museale. Il procedimento è comune in Europa ma assolutamente inusuale in Oriente, dove spesso si assiste alla distruzione di interi villaggi a vantaggio di nuove costruzioni. In Cina, piuttosto che spendersi nel tutelare la naturale vulnerabilità di un'opera calligrafica, la si conserva per poterla copiare minuziosamente: un giorno la copia potrà rimpiazzare il suo modello. In Giappone i santuari di Ise a sud di Tokyo, uno dei più famosi complessi monumentali del paese, vengono smantellati e ricostruiti una volta ogni vent’anni. Rifare per conservare è un paradosso per noi; vediamo una concezione di patrimonio opposta a quella occidentale, strettamente legata alla salvaguardia dei beni. Ecco perchè il caso del museo di Shangai è eccezionale, non ci si ferma alla riqualificazione di un ex fabbrica, ma se ne ingloba nel percorso la storia: i camini, i generatori e gli altri macchinari dell'ex filiera industriale fanno da raccordo tra passato e presente, lungo spazi disposti su percorsi non preimpostati, non lineari, che favoriscono il libero movimento. Altri musei cinesi inaugurati in anni recenti: Museo di Arte Moderna Minsheng a Pechino (2015), Museo d’Arte di Sinfang a Nanchino (2010), l’istituzione culturale Design Society a Shenzen (2017) che riunisce un museo, un teatro, una galleria privata, caffè, ristorante e aree dedicate allo shopping, il Centro internazionale di culture e arti Changsha Meixihu (2016) progettato da Zara Hadid prima della sua scomparsa. Molti di questi nuovi progetti hanno un'intestazione aziendale che rende difficile distinguere tra la missione culturale e gli aspetti commerciali. Il Museo d’Arte delle Sculture di Pietro di Luyeyuan (2002) espone invece una collezione privata di sculture buddhiste. Il Museo Storico di Ningbo (2008) è composto da migliaia di mattoni e tegole provenienti dai vicini borghi distruttati, resi al suolo appositamente per costruire questo museo. 6. I musei d’arte contemporanea in Giappone: casi di studio I primi musei pubblici di arte contemporanea in Giappone sono stati aperti - sul modello del MoMA - a Kamakura e a Tokyo nel dopoguerra. L’attuale panorama si allinea in generale ai modelli occidentali, come il Museo di Arte Moderna di Gunma a Takasaki (1974) o il Museo di Arte Contemporanea di Nagi (1991-94), dove si coglie chiaramente l’eredità di Mies van Der Rohe e Le Corbusier. La museografia giapponese presenta alcune caratteristiche peculiari: innanzitutto la tendenza a costruire gli spazi sfruttando luci e ombre, replicando all'interno di musei l'impiego della luce indiretta tipica delle locali case di legno. Poi la trasparenza degli edifici e il legame tra spazi interni e natura esterna, infine il dinamismo della successione degli spazi. Alcuni esempi: Museo di Arte Contemporanea del XXI secolo di Kanazawa (2004), il Museo d’Arte della prefettura di Nagasaki (2005), il Centro d’Arte di Towada (2005). Un caso particolare è il Museo d’Arte di Teshima che sorge su un’isola del mare interno di Seto: il museo ricorda architettonicamente una goccia d’acqua e al suo interno non mostra nulla, è completamente vuoto. Si entra a piedi nudi, bisogna stare rigorosamente in silenzio, non si possono scattare foto e i cellulari vanno lasciati fuori. Il Teshima rappresenta un caso limite di una poetica che valorizza gli spazi leggeri, non gremiti; per i visitatori giapponesi, infatti, i musei occidentali risultano talvolta troppo affollati di opere. 7. Il sistema dell’arte Nel nuovo millennio il mercato dell'arte è caratterizzato da una tendenza a superare la tradizionale separazione fra arte antica e contemporanea. Sempre più spesso artisti contemporanei decidono di rappresentarsi da soli sul mercato: il caso più famoso è quello di Damian Hirst, dopo essere stato a lungo sostenuto dal collezionista Charles Saatchi, nel 2008 ha messo direttamente sul mercato un lotto di 300 opere mandandole dall'asta da Sotheby's a Londra. L’iniziativa si è trasformata in un grande successo, parte di quegli ingenti guadagni sono stati reinvestiti dallo stesso artista nel colossale progetto di Treasure from the Wreck of the Unbelievable presentato nel 2007 a Palazzo Grassi di Venezia. Sono molto diversi rispetto al passato anche i tradizionali appuntamenti periodici con le grandi fiere internazionali. In Italia, la Biennale internazionale dell'antiquariato di Palazzo Corsini resta l'unico evento di rilievo per gli espositori di arte antica, ma da diversi anni sono presenti anche i mercanti d'arte contemporanea. Riservate esclusivamente all’arte contemporanea sono Artissima a Torino, Arte Fiera a Bologna, ArtVerona e Miart a Milano, accompagnati a ogni edizione da apposite iniziative che coinvolgono le relative città e istituzioni. Se prima bisognava essere autorizzati dal ministero per esportare opere di un autore morto da più di cinquant'anni, dal 2017 la soglia temporale è passata in Italia agli attuali settant'anni, rendendo più facile immettere sul mercato internazionale le opere degli 3. “Maisons” per i musei e musei della moda Sono spesso frutto di iniziative private anche gli spazi espositivi dedicati alla moda. Paradossale, nel panorama italiano, l'assenza di istituzioni pubbliche che raccontino il made in Italy più rappresentativo della storia culturale dell’Italia. Non che siano mancati tentativi al riguardo: a Milano a Palazzo Morando è esposta una parte delle collezioni di moda e del costume del Castello Sforzesco, a Venezia vediamo Palazzo Mocenigo, a Firenze Palazzo Pitti, e a Roma l’iniziativa realizzata da Fendi a cui è stato concesso l’uso del Palazzo della Civiltà italiana all’Eur. Tuttavia, un museo pubblico del costume e della moda stenta a decollare. In compenso si assiste alla nascita dei musei nati direttamente dalle case di moda: l’Armani/Silos a Milano (2015), il Museo Ferragamo (1995), il Museo Capucci (2008) e il Museo Gucci (2011) a Firenze. Si deve sempre a un italiano il primo e più importante museo virtuale dedicato al tema, il Valentino Garavani Museum, fruibile esclusivamente in rete. I più grandi progetti per ora, si collocano all’estero: la Marciano Art Foundation a Los Angeles e la Fondation d’Entreprise Galeries Lafayette a Parigi, importanti collezioni di moda e costume sono poi presenti nei grandi musei come il Louvre, l’Ermitage e il MET. Sempre più frequenti sono anche le grandi mostre come Christian Dior: Designer of Dreams al V&A Museum di Londra nel 2019, o Barbie. The Icon inaugurata al MUDEC nel 2015 ed esportata nei principali musei del mondo. 4. Fare una mostra Una mostra, quando ben impostata, può rappresentare una reale occasione di studio e crescita culturale. Come organizzare una buona mostra? È molto importante che l'idea della mostra e la scelta del tema scaturiscano da un'urgenza, le mostre di ricerca si propongono di offrire nuovi contributi critici su un autore, un movimento o un tema, oppure riguardano le presentazioni di restauri che ricostruiscono opere smembrate. È opportuno che il progetto di una mostra nasca in relazione alla sede che lo ospiterà; se questo approccio è scontato per gran parte delle esposizioni di arte contemporanea, che si basano su progetti site specific e sul dialogo con i luoghi, una sede sicura e con spazi adeguati condiziona anche ogni eventuale richiesta di prestito. La scelta del tema influisce anche sull'individuazione del curatore e del relativo comitato scientifico che ne supporterà il lavoro, è poi subito consigliabile inserire nel team anche l'architetto che si occuperà dell'allestimento e il grafico. Il commissario-curatore della mostra con il contributo del comitato scientifico, redige poi il progetto scientifico: in una sinossi iniziale spiega le ragioni della mostra, le novità presentate e il suo assunto, le sezioni tematiche, e l'elenco delle opere da esporre con le relative schede. Il progetto allestitivo è frutto del dialogo e dei sopralluoghi effettuati dalla direzione della mostra e dai tecnici. A questo punto si stende il preventivo di spesa, le cui voci più consistenti nel caso in cui si richiedano opere in prestito sono quelle relative all'assicurazione e movimentazione. Altre voci riguardano il progetto espositivo e l'allestimento, quindi lo studio di architettura e i suoi collaboratori, il grafico, le segreterie, il commissario, il comitato e gli eventuali studiosi per la redazione dei saggi nel caso in cui sia previsto un catalogo. Bisognerà prevedere le spese relative alla comunicazione, alla sorveglianza e agli altri servizi predisposti. Per la realizzazione del catalogo invece, oltre alle fotografie e all’acquisto di eventuali diritti di copyright bisogna tenere in conto la progettazione grafica e gli oneri editoriali. [* paragrafo piuttosto lungo su come ottenere tecnicamente un prestito e sulle schede da compilare, che non riporterò perchè a mio parere inutile ma se volete lo leggete dal libro *]. A coordinare molte operazioni è la figura professionalmente definita del registrar, che documenta fotograficamente e per iscritto tutte le fasi del trasporto, dell’allestimento e dell’imballaggio delle opere. 5. E quando le mostre sarebbe meglio non farle Dall’inizio degli anni 2000 c’è stato un notevole proliferare di mostre con conseguenze non sempre positive. Nel 2008 l’ICOM ha redatto un documento intitolato Mostre-spettacolo e musei: i pericoli di una monocoltura e il rischio di cancellare le diversità culturali, dove si attesta come gli assessorati alla cultura degli enti locali abbiano puntato sulle mostre come strumento per innovare le politiche nel campo dell'arte e nella cultura. Queste mostre, “spesso prive di qualsiasi relazione con la città e con il territorio sono entrate in un’impropria competizione con le istituzioni museali locali depotenziandole, modificandone l’attività, e talvolta paralizzandole temporaneamente”. Ecco le cosiddette mostre blockbuster, che hanno visto crescere sempre di più il numero dei visitatori. Viene subito sfatata un’illusione, quella per cui il pubblico ‘toccato per la prima volta dall’arte' in occasione di queste mostre-evento vada successivamente a incrementare il pubblico dei musei. Spesso quando i musei non dispongono di spazi da dedicare agli eventi temporanei, compiono la discutibile scelta di mettere temporaneamente in deposito le opere del percorso permanente. Non solo durante la visita all'esposizione non si potranno vedere le opere che caratterizzano quel determinato polo, ma al termine della rassegna non sempre ci saranno i mezzi per ripristinare l'allestimento delle collezioni. L’ICOM elenca quattro punti critici: 1) problemi etici e deontologici connessi alla pratica di ‘noleggiare’ le proprie opere a terzi. 2) i costi esorbitanti delle mostre blockbuster, che tendono a prosciugare i già risicati finanziamenti a scapito dell'istituzioni permanenti come i musei. 3) la competizione che si determina tra le mostra-evento di natura prevalentemente commerciale e le attività delle istituzioni culturali permanenti, con il rischio di determinare una desertificazione culturale e una monocultura dell'evento. L'ondata di queste rassegne ha indotto una parte del pubblico non esperto a credere che la storia dell'arte si riduca sostanzialmente a due fari: Caravaggio per l'arte antica e gli impressionisti per quella contemporanea. 4) enti locali e fondazioni ex bancarie provvedono a investimenti di denaro pubblico molto rilevanti per attività effimere. Ma il più grande rischio per i musei secondo l’ICOM è quello di “perdere agli occhi del pubblico il loro status simbolo simbolico di contenitore di valori non mercantili, non scambiabili, necessari alla conoscenza della storia umana”. Capitolo diciassettesimo: museologia coloniale e post-coloniale 1. Nuovi panorami in Africa e dall’Africa Il continente africano ospita oggi meno di mille musei, metà dei quali nell'area subsahariana e cerca circa trecento in Sudafrica. Nel nuovo millennio però anche per i musei africani si colgono i segni dell'avvio di una nuova fase; non mancano le contraddizioni, ma da un lato i grandi musei occidentali si aprono al dialogo sulla restituzione almeno temporanea delle opere trafugate durante i periodi coloniali. In Sudafrica, la Biennale di Johannesburg, benché abbia avuto solo due edizioni nel 1995 e 1997, ha segnato un'apertura verso questo settore. La presenza di artisti e curatori africani nei padiglioni della Biennale di Venezia è l'altro principale veicolo di scambio, eppure, i maggiori collezionisti di arte contemporanea africana sono occidentali. Il rischio è che le loro opere rimangano sconosciute al pubblico locale nonché assenti dal patrimonio culturale del continente. Rappresenta una novità l’apertura a Città del Capo nel 2017 dello Zeitz MOCAA, il primo grande museo di arte contemporanea del XXI secolo del continente, con una cospicua collezione di dipinti, fotografie e installazioni video a firma dei massimi artisti africani e della diaspora. Ancora una volta però, la realizzazione del museo si deve a un europeo, l’imprenditore tedesco Jochen Zeitz. A Dakar in Senegal è stato inaugurato nel 2018 il Musée des Civilisations Noires; anch’esso come il MOCAA è concepito come un museo panafricano finanziato dallo stato e da contributi esterni. In Togo nel 2019 ha riaperto il Palais de Lomé, un polo per le arti performative. 2. I musei coloniali sotto l’influenza occidentale Nei paesi che hanno conosciuto la colonizzazione, le collezioni autoctone venivano spesso affiancate da collezioni europee, a lungo ritenute le uniche degne di essere elevate a opere d’arte. Un confronto esasperato atto a ribadire la superiorità e il dominio culturale di queste ultime, relegando i manufatti della cultura indigena a un rango di produzione tipica di un mondo sottosviluppato. Un esempio è il Musée Léon Dierix a La Réunion, un’isola dell’oceano Indiano, o il progetto di alcuni intellettuali francesi emigrati in Africa a inizio Novecento che esportarono ed esposero opere d’arte Francesi in un museo locale affinché gli indigeni conoscessero e amassero la Francia, non accennando minimamente alla storia di schiavitù della popolazione locale. Ebbe inizio negli anni Quaranta del XIX secolo la fascinazione occidentale per l’antico Egitto, quindi la nascita dell’egittologia e l’istituzione di collezioni egizie molto importanti nei più grandi musei europei come il Louvre o il British, nonché la nascita del Museo Egizio di Torino. Seguendo sempre lo stesso modello, fino agli anni Cinquanta del Novecento i principali musei del paese rimasero di dominio europeo (es. Museo Egizio del Cairo), e la reazione locale culminò con l’indipendenza politica dell’Egitto nel 1922. Pressanti sono oggi le richieste di restituzione rivolte ai musei di tutto il mondo. Altri siti archeologici mediorientali rimasero a lungo sotto il controllo delle missioni europee: il National Museum di Damasco e quello di Aleppo in Siria, il National Museum di Beirut e il National Museum di Teheran, tutti sotto direzione francese. In Turchia all'indomani della proclamazione della Repubblica nel 1923, esistevano pochissimi musei. A essere definita per la prima volta museo, più precisamente museo imperiale, fu nel 1869 Hagia Sofia: la direzione venne tuttavia affidata a europei e solo nel 1881 fu affidata a un pittore archeologo turco, Osman Hamdi, che trasformò il museo imperiale in un grande museo archeologico.