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Riassunto del libro "Lezioni sul processo amministrativo" di A. Police, Dispense di Giustizia Amministrativa

Riassunto completo di tutto il libro "Lezioni sul processo amministrativo" di A. Police. Il riassunto tiene conto di tutte le modifiche normative degli ultimi anni (agg. al 2021). (nel riassunto sono state inserite anche le note del libro)

Tipologia: Dispense

2022/2023

Caricato il 05/06/2023

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Scarica Riassunto del libro "Lezioni sul processo amministrativo" di A. Police e più Dispense in PDF di Giustizia Amministrativa solo su Docsity! GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA E RITO DEGLI APPALTI PUBBLICI CAP I - I PRINCIPI DELLA GIUSTIZIA AMM. E IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE L’affermazione del sistema di giustizia amministrativa in Italia In Italia, il sistema di tutela giurisdizionale si caratterizza per una doppia giurisdizione (sistema binario), cioè il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e amministrativo avviene in base alla situazione soggettiva, di diritto o interesse legittimo dedotta in giudizio. Tale criterio ha le sue radici nella l. 2248\1865 di abolizione del contenzioso amministrativo. Nel 1861, il problema della tutela dei privati cittadini nei confronti della pubblica amministrazione venne risolto mediante la devoluzione all’autorità giudiziaria ordinaria; tuttavia, anche in base a una interpretazione rigorosa del principio di separazione dei poteri, vennero posti due limiti a tale devoluzione: • Il giudice ordinario non poteva decidere controversie diverse da quelle ad oggetto questioni di diritti civili o politici. • Esclusione del potere del giudice ordinario di annullare provvedimenti amministrativi, essendogli riservata la facoltà della loro disapplicazione, se li avesse ritenuti non conformi alla legge. Questi limiti hanno inciso sui rimedi attivabili dal privato se l’amministrazione avesse agito come autorità: si ricorda che il Consiglio di Stato, all’epoca titolare del potere di dirimere i conflitti di attribuzione tra organi amministrativi e giurisdizionali, aveva elaborato la tesi secondo cui le controversie sui provvedimenti di discrezionalità amministrativo non avrebbero potuto avere ad oggetto diritti soggettivi. La situazione si mantenne inalterata in seguito all’entrata in vigore della l. 3761\1877 per effetto della quale la Corte di Cassazione divenne competente a risolvere i conflitti di “attribuzione” tra amministrazione e autorità giudiziaria e i conflitti di “giurisdizione” fra giudici ordinari e speciali; alla Cassazione venne anche riservata la decisione dei ricorsi contro le sentenze dei giudici speciali per incompetenza ed eccesso di potere che decideva a sezioni unite. La l. 5992\1889 aveva devoluto alla IV sezione del Consiglio di Stato il potere di decidere i ricorsi per: • incompetenza; • eccesso di potere; • violazione di legge; • contro atti e provvedimenti amministrativi aventi ad oggetto interessi di individui o enti giuridici morali; ogni volta che tali ricorsi non fossero di competenza dell’autorità giudiziaria e non si trattasse di materia spettante alla giurisdizione di collegi speciali. La legge Crispi è stata emanata per aumentare gli strumenti di tutela per le situazioni soggettivo incise dall’esercizio della funzione pubblica. L’istituzione della IV sezione del Consiglio di Stato e , in sede locale, delle giunte provinciali amministrative nacque dalla inadeguatezza ai fini garantistici dello strumento della disapplicazione, per sua natura inidoneo a garantire le pretese del privato di fronte al carattere autoritativo e imperativo dell’atto amministrativo. La legge Crispi non aveva risolto ogni questione sul campo: la circostanza per cui il possibile accoglimento del ricorso avrebbe avuto carattere costitutivo, essendo la decisione volta a distruggere o modificare la situazione creata mediante provvedimento impugnato, poneva dubbi interpretativi, ad esempio, nei casi di mancanza di un atto contro cui proporre ricorso. Le maggiori ricostruzioni riconoscevano natura amministrativa e non giurisdizionale alla Quarta Sezione. Con la legge 62\1907 e il regolamento 642\1907 venne chiarita in via definita la natura giurisdizionale della IV sezione. Con il rd 2840\1923 venne riconosciuto il potere del giudice amministrativo di conoscere in via incidentale, cioè senza efficacia di giudicato le situazioni di diritto pregiudiziali alla definizione della controversie e istituì la giurisdizione amministrativa esclusiva. Vennero individuate le materie, prima fra tutte quella del pubblico impiego, dove il sindacato del giudice amministrativo si sarebbe potuto estendere in via principale, anche nei confronti dei diritti soggettivi, riservati tradizionalmente all’autorità giudiziaria ordinaria. Mediante un criterio di riparto simile, fondato sulle materie invece che sulla natura delle posizioni dedotte in giudizio, il legislatore rinunciava alla regola della devoluzione del sindacato sui diritti soggettivi alla giurisdizione del giudice ordinario. La distinzione fra diritti soggettivi e interessi legittimi, se perdeva rilevanza per individuare il giudice munito di potestà giurisdizionale, continuava a sussistere in riferimento ai poteri di cognizione e decisione del giudice amministrativo, che continuava a conoscere gli interessi legittimi in base ai suoi normali poteri, dei diritti soggettivi “in sostituzione” del giudice civile. La riforma del 1923 non solo non ha assicurato pienezza di tutela alle situazioni di interesse legittimo, ma ha affievolito le garanzie tradizionalmente previste per i diritti soggettivi. Successivamente, grazie anche agli interventi della Corte Costituzionale, sono stati attenuati quei vizi di origine del giudizio amministrativo esclusivo, soprattutto in riferimento ai poteri cautelari e ai limiti dell’istruzione probatoria. Rilevante fu l’intervento della giurisprudenza amministrativa e in particolare al “Caso Ricciardi” dove venne introdotta la distinzione fra “atti autoritativi” e “ atti paritetici”: • Atti autoritativi: espressione dell’autorità amministrativa, sono atti provvedimentali che si collegano a situazioni di interesse legittimo e sono soggetti alla tutela meramente impugnatoria sottoposta a termini decadenziali brevi. • Atti paritetici: frutto di un’attività che si colloca sullo stesso piano di quella che un soggetto agente avrebbe potuto realizzare secondo le regole di diritto comune, sono tutelabili in base alle ordinarie regole di prescrizione. (che non priva la PA del potere di intervenire in autotutela sui provvedimenti impugnati mediante revoca, annullamento o loro sostituzione con altri atti privi di vizio). Alle parti è consentito il diritto di difesa che l’articolo 24 ritiene inviolabile in ogni stato e grado del giudizio. All’interno del c.p.a. sono previste una serie di disposizioni da cui emerge il bilanciamento dei valori tra l’obbligo di chiarezza e l’esigenza di addivenire a una decisione in tempi rapidi: • L’art. 60 c.p.a. impone che le parti vengano sentite sul punto, disciplinando la definizione immediata del giudizio. • L’art. 73 c.p.a. esclude che il giudice amministrativo possa risolvere la controversia ponendo a base della decisione una questione rilevata d’ufficio rispetto alla quale non è stato provocato il contraddittorio. In riferimento all’assetto costituzionale della giustizia amministrativa, si ricordano le previsioni ex art 113 Cost, secondo cui contro gli atti della PA è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e interessi legittimi davanti agli organi di giurisdizione ordinaria e amministrativa. Tale tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti: la legge determina quali organi di giurisdizione possono annullare gli atti della pubblica amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla legge. L’art. 113 ha una funzione propulsiva, cioè di indirizzo verso l’abolizione di ogni giustificata limitazione degli strumenti di tutela giurisdizionale attivabili dai privati nei confronti delle amministrazioni. Il criterio di riparto di giurisdizione fondato sulla causa petendi L’art. 103 Cost pone i principi del sistema dualista fondato sul rapporto diritto soggettivo e interesse legittimo, nonostante il suggerimento di accorpare la giurisdizione amministrativa in quella ordinaria e affidare al giudice ordinario anche la tutela di interessi legittimi. Tale opzione non venne accolta e venne adottato il criterio di riparto fondato sulla causa petendi. L’art. 103 Cost riconosce il potere del legislatore di riservare al giudice amministrativo la giurisdizione sui diritti soggettivi “in particolari materie”: si tratta di capire se rientra nella discrezionalità legislativa individuare intere materie da affidare alla giurisdizione del giudice amministrativo o se la particolarità rappresenta un quid pluris; tale tema venne affrontato dalla giurisprudenza costituzionale e in particolare con la sentenza del 2004: qui la Corte Costituzionale ha evidenziato che l’art.103 Cost non ha conferito al legislatore un’assoluta discrezionalità nell’attribuzione al giudice amministrativo di materie della sua giurisdizione esclusiva, ma ha conferito il potere di indicare “particolari materie” dove la tutela nei confronti della Pubblica amministrazione riguarda anche i diritti soggettivi. La Corte ha precisato che tale particolarità comporta che le materie di cui si tratta devono avere la stessa materia di quelle della giurisdizione generale di legittimità, che è caratterizzata dalla circostanza che la pubblica amministrazione agisce come autorità nei confronti della quale è accordata tutela al cittadino davanti al giudice amministrativo. Secondo la Corte, il legislatore può estendere l’area della giurisdizione esclusiva, purchè lo faccia con riguardo a materie che ricadrebbero nella giurisdizione generale di legittimità dato che l’amministrazione agirebbe come autorità (la Corte con l’ordinanza ha ribadito che l’introduzione di nuovi casi di giurisdizione esclusiva può avvenire solo in via legislativa). La Corte ha individuato nell’esercizio del potere pubblico autoritativo l’elemento fondante della giurisdizione amministrativa: tale orientamento ha trovato conferma in recenti sentenze che si sono occupate della questione sulla possibilità di affidare o meno al giudice amministrative le cause sui cd “diritti indegradabili” come diritto alla salute e diritto all’integrità personale. Con la sentenza del 1979 delle Sezioni Unite di Cassazione si è iniziata a teorizzare l’esistenza dei diritti assoluti: il giudizio in questo caso riguardava la lesione del diritto alla salute, non suscettibile di degradazione per effetto di un diritto amministrativo che risulterebbe emanato in assenza di potere e inciderebbe su una situazione soggettiva sindacabile dal giudice ordinario. Le oscillazioni giurisprudenziali non consentono di ritenere superato tale indirizzo, nonostante la Corte Cost abbia rilevato la mancanza di qualsiasi principio o noma che riserva al giudice ordinario la tutela dei diritti costituzionalmente protetti coinvolti nell’esercizio di una funzione amministrativa. Il Consiglio di Stato, chiamato a pronunciarsi su una controversia avente ad oggetto il rifiuto dell’amministrazione alla richiesta del privato di ricevere una prestazione sanitaria, ha osservato che la portata delle situazioni giuridiche soggettive non può essere affermata a priori in base al suo contenuto astratto ma dev’essere valutata in concreto e nella dinamica del rapporto con l’amministrazione rispetto all’esercizio del pubblico potere e ha precisato che l’aspetto della situazione giuridica è sempre uguale e non è degradato dall’esercizio del potere né potenziato dal ruolo di superdiritto. Diverso è il modo con cui l’ordinamento considera e tutela tale situazione a seconda che debba misurarsi con un mero comportamento dell’amministrazione o con un potere attribuito a questa dalla legge per perseguire una determinata finalità di interesse pubblico. Anche quando la Cassazione ha riconosciuto, in materia di raccolta e smaltimento rifiuti, che spetta al giudice ordinario conoscere la domanda con cui il privato censura le modalità di esercizio del relativo ciclo produttivo, assumendone la pericolosità per la salute o altri diritti della persona, con la conseguenza di richiedere misure necessarie per eliminare i danni attuali e le immissioni intollerabili, tale competenza è stata fondata sulla circostanza per cui la condotta contestata integra l’esercizio di un’ordinaria attività di impresa se non risulta coinvolto il pubblico potere: In questo ambito, la giurisdizione del giudice ordinario viene giustificata in base alla mancanza di esercizio del potere amministrativo. Si richiama la sentenza 191\2006 che ha sottolineato che le fattispecie comportamentali suscettibili di sindacato da parte del giudice amministrativo sono riconducibili, anche se indirettamente, all’esercizio del pubblico potere: tale soluzione ha posto diversi dubbi interpretativi poiché non è semplice comprendere in cosa debba consistere “la riconducibilità indiretta”. Vi sono dubbi sulla distinzione tra carenza di potere e cattivo uso del potere, in base alla quale la giurisprudenza ha provato a individuare un insieme di regole per stabilire quando in un’attività amministrativa si configurano situazioni di diritto soggettivo o di interesse legittimo: • Mentre la carenza di potere si collegherebbe alla contestazione dell’esistenza del potere: si avrebbe una situazione di diritto soggettivo sindacabile dall’autorità giudiziaria ordinaria. • Il cattivo uso del potere riguarderebbe il suo illegittimo esercizio : si tratterebbe di interesse legittimo e rientrerebbe nella giurisdizione del giudice amministrativo. La Cassazione ha approfondito la questione giungendo a negare l’esistenza del potere non solo nei casi di carenza della relativa attribuzione ma anche in mancanza dei presupposti per l’esercizio del potere amministrativo ( carenza in concreto): tale tesi è stata contestata dal Consiglio di Stato che ha ritenuto che in questi casi il potere è stato si attribuito ma male esercitato. La nozione di carenza di potere ha assunto un rilievo maggiore a seguito delle modifiche apportate alla legge generale sul procedimento amministrativo che nel prevedere la disciplina della nullità dei provvedimenti amministrativi, prevede il “difetto assoluto di attribuzione”. L’ambito della giurisdizione amministrativa nel c.p.a. La traslatio iudicii L’art. 7 c.p.a prevede che alla giurisdizione amministrativa spettano le controversie dove si fa questione di interessi legittimi e nelle particolari materie indicate dalla legge, di diritti soggettivo riguardanti l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo, riguardanti accordi, atti o comportamenti riconducibili anche indirettamente all’esercizio di tale potere posti da pubbliche amministrazioni. Rimangono inoppugnabili atti e provvedimenti emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico (cd atti politici). Tale norma recepisce le regole di riparto delineate dalla Corte Costituzionale. È una regola di non agevole contestualizzazione in quanto può esporre la parte che invoca la tutela al rischio di promuovere la controversia davanti a un giudice privo di giurisdizione: occorre chiarire cosa succede in questi casi gravi, soprattutto quando il giudice adito erroneamente è quello ordinario, in considerazione dei brevi termini decadenziali entro cui è necessario ricorrere davanti al giudice amministrativo. In passato, in questi casi, la parte andava incontro a una declaratoria di rito del giudice amministrativo, intervenendo quasi sempre la sentenza declaratoria di giurisdizione del giudice ordinario a termine decadenziali scaduti. Nel 2009 il legislatore ha introdotto la cd traslatio iudicii, inserito nell’art. 11 c.p.a.; si distingue: • Traslatio iudicii cd “ orizzontale” : quando la giurisdizione è declinata dal giudice amministrativo a favore di un altro giudice nazionale o viceversa, ferme restando le preclusioni e le decadenze intervenute, sono fatti salvi gli effetti processuali e sostanziali della domanda se il processo è riproposto davanti il giudice indicato nella pronuncia che declina la giurisdizione entro il termine perentorio di 3 mesi dal passaggio in giudicato. quando il giudizio è tempestivamente riproposto davanti al giudice amministrativo, questo può con ordinanza sollevare d’ufficio conflitto di giurisdizione. L’assetto della giurisdizione di legittimità dopo la l. 205/2000 e l’entrata in vigore del c.p.a. La legge di riforma della giustizia amministrativa del 205/2000 non ha solo modificato l’impianto tradizionale della giurisdizione di legittimità dal punto di vista dell’aumento dei mezzi di prova, ma ha esteso la categoria delle azioni esperibili prevedendo una disciplina dell’azione contro l’inerzia (silenzio inadempimento) della pubblica amministrazione e generalizzando l’azione di risarcimento anche in forma specifica per i danni derivanti dall’annullamento degli atti impugnati. Si è avuto il condizionamento del modello di giudizio impugnatorio- cassatorio incentrato sull’azione di annullamento: lo dimostra l’indirizzo elaborato dalla giurisprudenza in tema di “pregiudiziale amministrativa” in cui ha previsto per lungo tempo la subordinazione della tutela risarcitoria accordabile dal giudice amministrativo alla previa proposizione della domanda di annullamento del provvedimento illegittimo fonte del pregiudizio lamentato. Nonostante l’opinione contraria delle Sezioni Unite di Cassazione, secondo cui il rifiuto di erogare tutela risarcitoria autonoma si sarebbe tradotto in una “menomazione della tutela giurisdizionale spettante al cittadino di fronte all’esercizio illegittimo della funzione amministrativa e in una perdita di effettività”, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato per anni aveva affermato che non era possibile prevedere una forma di cognizione incidentale riguardo l’illegittimità dell’atto non impugnato nei termini decadenziali, ai fini del ristoro per equivalente; così al giudice amministrativo rimaneva preclusa la disapplicazione degli atti amministrativi a contenuto non regolamentare. Si era evidenziato che la regola della pregiudiziale si ricollega alla specialità della giurisdizione amministrativa che, a differenza di quella ordinaria, non è preordinata alla risoluzione delle controversie in cui vi sono meri interessi individuali, ma è volta a garantire l’interesse generale alla legalità della funzione amministrativa. In base a ciò, il Consiglio di Stato ha continuato a riconoscere che la tutela degli interessi legittimi del cittadino nei confronti della Pubblica amministrazione è in via primaria una tutela impugnatoria che passa mediante l’annullamento dell’atto amministrativo, rappresentando un rimedio eventuale e sussidiario. Il principale elemento di differenza fra tutela accordabile in sede di giurisdizione esclusiva e tutela attivabile negli ambiti di giurisdizione generale è stata l’impossibilità di configurare un’azione di condanna autonoma da quella di annullamento. Il Codice, nell’affidare alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo le controversie relative ad atti, provvedimenti o omissioni delle Pubbliche amministrazioni, comprese quelle relative al risarcimento danno per lesione di interessi legittimi e altri diritti patrimoniali, conferma il mutamento dell’oggetto del giudizio amministrativo. È possibile osservare che, nonostante la mancata previsione di un’azione di accertamento autonomo e il mancato inserimento nel Codice dell’azione di condanna ad un facere specifico (cd azione di adempimento), non preclude al giudice di pronunciare sentenza di condanna dell’amministrazione all’adozione del provvedimento invocato dal ricorrente titolare di interesse legittimo pretensivo. Tale ricostruzione è coerente all’ampliamento dei poteri istruttori del giudice amministrativo previsto nell’articolo 63 cpa che prevede che egli può chiedere chiarimenti o documenti, ammettere la prova testimoniale in forma scritta, ordinare l’esecuzione di una verificazione o se indispensabile una consulenza tecnica di ufficio o disporre l’assunzione di altri mezzi di prova previsti dal codice civile ad eccezione dell’interrogatorio formale o giuramento. Tale quadro normativo basato sull’accertamento dei fatti di causa sembrerebbe consentire la definizione della giurisdizione generale di legittimità come giurisdizione piena e a contenuto soggettivo, cioè volta a tutelare situazioni incise dal potere amministrativo in conformità al principio di effettività della tutela; tuttavia vi sono previsioni codicistiche che non sono indirizzati in questo senso e sembro tradire una lettura tradizionale della forma a giurisdizionale. La questione pregiudiziale è stata risolta mediante una soluzione di compromesso; anche se l’articolo 7 cpa ammette in termini generali l’azione in via autonoma per il risarcimento danno derivante da ingiusta lesione di interessi legittimi, l’articolo 30 cpa limita tale autonomia: • Da un lato, pone un termine perentorio breve di 120 gg decorrenti dal giorno in cui il fatto si è verificato, cioè dalla conoscenza del provvedimento, se il danno deriva direttamente da questo, entro il quale esercitare l’azione risarcitoria per lesione di interessi legittimi; • Dall’altro lato, l’articolo 30 cpa impone un giudizio di meritevolezza sulla pretesa risarcitoria misurato all’uso, da parte del ricorrente, dell’ordinaria diligenza richiesta al creditoria, con conseguente esclusione del ristoro per equivalente ogni volta che i danni lamentati si sarebbe potuti evitare previo uso dei tradizionali mezzi di tutela fra cui rientra pure l’azione di annullamento del provvedimento amministrativo fonte del danno. Nell’articolo 30 comma 5, che prevede che” qualora sia proposta azione di annullamento, la domanda risarcitoria può essere formulata nel corso del giudizio o fino a 120 giorni dal passaggio in giudicato della relativa sentenza” trae conferma la persistente centralità della tutela costitutiva riconducibile all’azione di annullamento, che ha caratterizzato il sistema della tutela processuale nell’ambito della giurisdizione generale di legittimità. La giurisdizione di merito. La giurisdizione di merito ha costituito la prima “ forma” di giurisdizione amministrativa: si parla di giurisdizione propria in quanto contrapposta alla giurisdizione ritenuta del Sovrano, in base alla quale il ruolo svolto dal Consiglio di Stato era consultivo, di delibazione sui ricorsi straordinari. Nella formulazione dei pareri sui ricorsi straordinari al Capo dello Stato, il giudice amministrativo limitava il suo esame alla mera legittimità; invece, nella giurisdizione propria questa limitazione non sussisteva. Tale diversità di ampiezza di sindacato si mantenne dopo l’emanazione della legge Crispi: il legislatore scelte di mantenere la giurisdizione propria piuttosto che ricomprenderla nella giurisdizione di legittimità e lo fece per offrire una tutela maggiore di quella concessa mediante il ricorso per motivi di mera legittimità in relazione a determinate controversie che presentavano un intreccio indissolubile di interessi pubblici e privati e che per la loro importanza economica, richiedevano un sistema di tutela che si estendesse oltre il profilo della legittimità per incidere sul rapporto sotteso all’atto impugnato. Inoltre, ci si chiede cosa si intendesse con l’espressione “anche di merito”: • Un primo indirizzo ha riferito tale espressione ad un sindacato esteso alla piena cognizione dei fatti oggetto della controversia, precisando che la competenza di merito nel campo giurisdizionale si differenzia da quella di annullamento in quanto questa manca di ogni facoltà relativa al ristabilimento e valutazione del fatto. • In realtà, il profilo del giudizio di opportunità ha sollecitato gli operatori di diritto alla concezione del giudizio di merito come giudizio sul fatto: il primo impulso è di fare ricorso all’uso del significato di merito che si fa nel diritto amministrativo sostanziale. Una conoscenza del fatto tuttavia si risolve in un esame di opportunità del potere dell’amministrazione pubblica mediante l’adozione di quel provvedimento. La dottrina tradizionale ha individuato due caratteri propri della giurisdizione di merito: il carattere eccezionale e aggiuntivo rispetto a quella generale di legittimità, dovendo il giudizio di legittimità precedere quello di merito. In realtà il giudizio di merito intesto come giudizio di opportunità amministrativo rappresenta un aspetto residuale in riferimento alle materie devolute alla giurisdizione propria del consiglio di Stato, le quali hanno assunto una forma di giurisdizione estesa a una piena cognizione dei fatti oggetto della controversia in rapporto alle norme giuridiche da applicare. In alcune di tali materie è impossibile anche solo in modo astratto ipotizzare una valutazione di opportunità del provvedimento impugnato. La giurisdizione di merito si qualifica per una maggiore estensione dei poteri del giudice amministrativo che può anche “sostituirsi all’amministrazione” come previsto dall’articolo 7.6 cpa. Le ipotesi di giurisdizione di merito La ricostruzione del giudizio di merito come giudizio di opportunità e il peso attribuito ai poteri sostitutivi del giudice amministrativo hanno sollevato dubbi sulla reale natura giurisdizionale delle attribuzioni che questo è chiamato ad esercitare: è nata la tendenza ad ammettere tale giudizio in modo sempre più restrittivo. Le ipotesi di giurisdizione di merito sono previste dall’articolo 134 c.p.a. che ha dato piena attuazione del criterio fissato dalla legge 69\2009, in base al quale si sarebbe dovuta operare una razionalizzazione di tale forme giurisdizionale anche mediante soppressione delle fattispecie non più coerenti con l’ordinamento vigente. Il giudice amministrativo esercita giurisdizione con cognizione estesa al merito nelle controversie aventi ad oggetto: • L’attuazione delle pronunce giurisdizionali esecutive o del giudice nella fase di giudizio di ottemperanza; • Gli atti e le operazioni in materia elettorale attribuiti alla giurisdizione amministrativa; • Sanzioni pecuniarie la cui contestazione è affidata alla giurisdizione del giudice amministrativo, comprese quelle applicate dalle autorità amministrative indipendenti e sanzioni alternative previste dall’articolo 123 cpa. Non si tratta di una norma attributiva di giurisdizione, in quanto deve preesistere una disposizione attributiva al giudice amministrativo di giurisdizione in base alla contestazione della sanzione pecuniaria. amministrativo il potere di disporre, anche mediante reintegrazione in forma specifica, il risarcimento danno ingiusto: La Corte ha affermato che tale potere non è una nuova materia attribuita alla sua giurisdizione ma un ulteriore strumento di tutela rispetto a quello classico demolitorio da usare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della pubblica amministrazione e che l’attribuzione di tale potere non solo appare conforme alla piena dignità di giudice riconosciuta al Consiglio di Stato ma anche, affonda le sue radici nell’art. 24 Cost che garantendo alle situazioni soggettive devolute alla giurisdizione amministrativa piena ed effettiva tutela, comporta che il giudice sia munito di adeguati poteri. Si è anche accompagnato un’estensione dei mezzi di prova nell’ambito del processo amministrativo esclusivo previsto nell’articolo 35.3 dlgs 80\1998 che ha riconosciuto allo stesso giudice il potere di disporre tutti i mezzi di prova previsti dal codice di procedura civile e della consulenza tecnica, con esclusione dell’interrogatorio formale e giuramento. Le materie attualmente devolute alla giurisdizione esclusiva Ai sensi dell’articolo 7 c.p.a., nelle materie di giurisdizione esclusiva indicate dalla legge e nell’articolo 133 c.p.a., il giudice amministrativo conosce, pure ai fini risarcitori, anche le controversie dove si fa questione di diritti soggettivi: si desume che l’elenco delle materie art 133 non è tassativo. Ulteriore ipotesi di giurisdizione esclusiva riguardo i ricorsi per l’efficienza delle amministrazioni e concessionari dei servizi pubblici ( cd class action pubblica). Le materie devolute alla giurisdizione esclusiva ai sensi dell’articolo 133 cpa riguardarono: • Controversie in materia di : a) risarcimento del danno ingiusto cagionato dall’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento amministrativo; b) diritto di accesso a documenti amministrativi e violazione degli obblighi di trasparenza amministrativa. • Controversie in materie di silenzio assenso; • Controversie relativi ad atti e provvedimenti che concedono aiuti di Stato. CAP. III - LA COMPETENZA DEL GIUDICE AMMINISTRATIVO Gli organi della giurisdizione amministrativa e la competenza per grado Le norme sulla competenza determinano la “misura” o “ quota” di giurisdizione attribuita a ciascun organo dell’ordine giurisdizionale amministrativo. Fino all’istituzione dei Tribunali amministrativi Regionali da parte della legge 1034\1971, nel nostro sistema di giustizia amministrativa non si poneva alcun problema di riparto della competenza. Oggi, invece il principio del doppio grado di giurisdizione viene recepito dall’articolo 4 cpa secondo cui “ la giurisdizione amministrativa è esercitata dai tribunali amministrativi regionali e dal Consiglio di Stato”. L’articolo 5 cpa individua nei tribunali amministrativi regionali e nel Tribunale regionale di Giustizia amministrazione per la regione autonoma del Trentino-Alto adige i giudici amministrativi di primo grado e fissa le regole su composizione e presidenza del collegio giudicante. Ai sensi dell’articolo 6 cpa il Consiglio di Stato è organo di ultimo grado della giurisdizione amministrativa, anche se tale criterio per grado presenta alcune eccezioni: • La prima riguarda la Regione Sicilia, dove le funzioni di giudice di secondo grado sono esercitate dal Consiglio di Giustizia amministrativa per la regione Siciliana. Ci si chiede cosa succede quando un soggetto erroneamente propone al Consiglio di Stato l’appello avverso ad una sentenza del TAR Sicilia, nonostante la giurisprudenza abbia riconosciuto in questi casi l’inammissibilità dell’azione, si è discusso sulle conseguenze di tale inammissibilità: • Secondo l’indirizzo prevalente, dalla declaratoria di inammissibilità deriverebbe il passaggio in giudicato della sentenza, consumandosi il potere di impugnazione. • La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha invece spostato l’attenzione nell’articolo 50 cpc in base al quale, in caso di incompetenza, la causa prosegue davanti al giudice competente se riassunta nei termini. • La questione è stata affrontata dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con decisione 12\2014 che ha privilegiato la prima testi e ha evidenziato che nel processo amministrativo, le norme che individuano il giudice di appello, avendo carattere funzionale, non riguardano la competenza territoriale in senso tecnico, ma al luogo dove ha sede il giudice naturale. • Altra eccezione al criterio di competenza per grado si riferisce all’ipotesi di giurisdizione in unico grado del consiglio di Stato nei caso di ottemperanza del giudice di appello che ha riformato la sentenza impugnata. Per quanto riguarda la composizione del collegio giudicante, l’art. 6 prevede : • le sezioni con funzioni giurisdizional: decidono con intervento di 5 magistrati di cui un presidente di sezione e 4 consiglieri; • adunanza plenaria, composta dal presidente del Consiglio di Stato che la presiede e 12 magistrati del Consiglio di Stato assegnati alle sezioni giurisdizionali. In caso di inadempimento, il presidente del Consiglio di Stato è sostituito dal presidente di sezione giurisdizionale più anziano nel ruolo. Per garantire uno smaltimento dei ricorsi depositati fino al 31\12\2012, a partire dal 1 gennaio 2019, la Seconda Sezione consultiva del Consiglio di Stato si è trasformata in Sezione giurisdizionale competente a decidere tutti i ricorsi pendenti davanti alle 4 sezioni giurisdizionali, fatti salvi i ricorsi assegnati a un’udienza o per i quali si è già fissata un’udienza in data 31 dicembre 2018. L’articolo 99 c.p.a. prevede il deferimento all’adunanza plenaria, in base al quale si configurano diverse fattispecie: • Deferimento facoltativo comma 1: la sezione cui è assegnato il ricorso, se individua che il punto di diritto sottoposto al suo esame ha dato luogo o possa dare luogo a contrasti giurisprudenziali, con ordinanza emanata su richiesta delle parti o d’ufficio “ può rimettere il ricorso all’esame dell’adunanza plenaria” che, se ne ravvisi l’opportunità, può restituire gli atti alla sezione. • Deferimento facoltativo comma 2: prima della decisione, il presidente del Consiglio di Stato, su richiesta delle parti o d’ufficio, può deferire all’adunanza pleanaria qualunque ricorso per risolvere questioni di massima di particolare importanza o per derimere contrasti giurisprudenziali. • Deferimento obbligatoria comma 3: se la sezione cui è assegnato il ricorso ritiene di non condividere un principio di diritto enunciato dall’adunanza plenaria rimette a questa, con ordinanza motivata, la decisione con ricorso. Le previsioni indicate confermato il rafforzamento delle funzioni di nomofilachia riservate all’adunanza plenaria del Consiglio di Stato che, una volta chiamata in causa, di regola decide l’intera controversia, salvo ritenga di enunciare il principio di diritto e rimettere il resto del giudice alla sezione rimettente: la ratio di tale regola va individuata nel principio di economia processuale. Se si ritiene che la questione sia di particolare importanza, l’adunanza plenaria può enunciare il principio di diritto nell’interesse della legge quando anche dichiara il ricorso irricevibile, inammissibile o improcedibile, o l’estinzione del giudizio, fermo restando che la pronuncia non produce effetti sul provvedimento impugnato. L’Adunanza plenaria restituisce gli atti alla sezione remittente senza pronunciare il principio di diritto anche in caso di sopravvenuta pronuncia della Corte di Giustizia UE sulle medesime questioni e conseguente opportunità di riservare alla sezione semplice la decisione su questioni di merito, devolute con l’appello che risultano estranee alle questioni deferite. In relazione agli appelli contro le pronunce della Sezione autonoma di Bolzano, per aumentare la tutela dei gruppi linguistici esistenti in Provincia, l’articolo 6.5 cpa compie un rinvio alle disposizioni dello Statuto speciale e delle norme di attuazione: si tratta di una disposizione più particolare rispetto all’articolo 5.3 cpa dove il Tribunale regionale di Giustizia amministrativa per la regione autonoma del Trentino Alto Adige rimane disciplinato dallo statuto speciale. La competenza territoriale inderogabile Principali novità del Codice è il carattere inderogabile della competenza territoriale dei tribunali amministrativi regionali, precedentemente la competenza era sempre derogabile. L’art. 13 cpa definisce la competenza territoriale “inderogabile”: la sua ratio è ravvisabile nell’intenzione del legislatore di impedire alle parti di scegliersi il proprio giudice amministrativo di primo grado (cd forum shopping). La nuova disciplina tuttavia suscita delle incertezze: • Da un lato, sembra enfatizzare eccessivamente il ruolo del giudice e finendo per orientare il processo amministrativo in modo “oggettivo”; • Dall’altro lato, la disciplina può determinare possibili vuoti di tutela nella fase cautelare a danno del ricorrente qualora abbiano adito il TAR incompetente in buona fede. Per individuare il tribunale territorialmente competente, occorre verificare se il provvedimento, l’atto, l’accordo o il comportamento adottato da una pubblica amministrazione, indipendentemente dalla collocazione territoriale, producono effetti immediati e diretti limitatamente a un solo ambito regionale: in questo caso, la competenza territoriale spetta al tribunale dove ha sede in tale Regione, anche quando la sede dell’amministrazione si trova in una Regione diversa. Un esempio era offerto all’articolo 3 comma 2 bis ter e quater d.l. 245\2005 che prevedeva in tutte le situazioni di emergenza la competenza del TAR Lazio sulle ordinanze adottate e sui consequenziali provvedimenti commissariali, anche quando i ricorsi contro tali atti spettavano alla competenza territoriale di altri tribunali amministrativi regionali. Nel sistema attuale di giustizia amministrativa, la competenza funzionale si distingue dall’ordinaria competenza territoriale inderogabile nei soli casi in cui il TAR, individuato ex lege come funzionalmente competente, risulti diverso da quello che lo sarebbe ai sensi dell’articolo 13 cpa. Ciò non è sempre vero: ad esempio, le controversie rimesse alla competenza funzionale del TAR Lazio ex art 135 cpa, relative all’esercizio dei poteri speciali riguardanti le attività di rilevanza strategica nei settori di difesa e sicurezza nazionale e nei settori dell’energia, rientrerebbero nella competenza territoriale di questo stesso tribunale. Risulta quindi difficile cogliere una differenza rilevante, salvo eventuali rapporti fra tribunale con sede nel capoluogo e sezione staccata, tra le due tipologie di competenza. La ragione principale dell’ipotesi di competenza funzionale sta nell’esigenza che determinate controversie riguardanti particolari materie risultano, per la delicatezza delle questioni, affrontate e risolte da una medesima giurisprudenza amministrativa. Le numerose ipotesi di competenza funzionale introdotte dal legislatore quasi esclusivamente a favore del TAR Lazio, sede di Roma, hanno suscitato vari dubbi sulla loro legittimità , soprattutto quando l’intervento legislativo ha determinato l’estromissione dei tribunali amministrativi regionali che sarebbero stati territorialmente competenti in base agli ordinari criteri. Tali dubbi sono stati allontanati dalla Corte Costituzionale 237\2007 che riconosce ampi margini di discrezionalità in capo al legislatore nel determinare nuovi casi di competenza funzionale e tale sentenza non ha indicato alcun limite massimo di tale discrezionalità. Un simile limite deve sussistere perché, diversamente, dovrebbe giungersi alla conclusione per cui un certo TAR potrebbe anche essere del tutto sottratto dalla sua ordinaria competenza territoriale a favore di un altro tribunale. Il principio della discrezionalità e insindacabilità delle scelte del legislatore, con il limite della non manifesta irragionevolezza è stato richiamato dalla sentenza della Corte 174\2014 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 135 nella parte in cui prevede la devoluzione alla competenza inderogabile del TAR LAZIO delle controversie aventi ad oggetto i provvedimenti emessi dall’autorità di polizia relativi al rilascio di autorizzazioni in materia di giochi pubblici con vincita di denaro: viene rimarcato che le deroghe alla ripartizione ordinaria della competenza territoriale devono essere valutate in base a un criterio rigoroso. L’articolo 14 cpa prevede 6 ipotesi di competenza funzionale: • Una è quella che viene rimessa dal comma 2 al TAR Lombardia, sede di Milano, per quelle controversie relative ai poteri esercitati dall’Autorità per l’energia elettrica e il gas. • Le ipotesi più rilevanti sono individuate dall’articolo 14 cpa. • Le ipotesi più rilevanti sono individuate dall’articolo 14 cpa che rimette alla competenza funzionale del TAR Lazio, sede di Roma, sia numerose tipologie di controversie elencate nell’articolo 135 cpa e sia tutte le controversie rispetto alle quali la legge prevede la competenza funzionale di questo stesso TAR. • Ulteriore importante ipotesi è la prima di quelle previste dall’articolo 14.3 cpa che fa riferimento ai giudizi ex art 113 (relativo al giudice di ottemperanza), coincidenti con quelle del precedente assetto normativo: - Il ricorso deve essere proposto davanti allo stesso giudice amministrativo che ha emesso il provvedimento della cui ottemperanza si tratta, quando si vuole conseguire l’attuazione delle sentenze passate in giudicato e quelle esecutive e degli altri provvedimenti esecutivi: la competenza spetta al TAR per attuare le decisioni confermate in grado di appello dal Consiglio di Stato con motivazione avente lo stesso contenuto dispositivo e conformativo dei provvedimenti di primo grado. - Il ricorso dev’essere proposto al tribunale amministrativo regionale nella cui circoscrizione ha sede il giudice che ha emesso la sentenza in cui è chiesta l’ottemperanza, trattandosi di: - Sentenze passate in giudicato e altri provvedimenti equiparate ad esse del giudice ordinario; - Sentenze passate in giudicato e altri provvedimenti equiparati per i quali non è previsto il rimedio dell’ottemperanza; - Lodi arbitrali esecutivi divenuti inoppugnabili. Va evidenziato che in caso di conflitto negativo di competenza tra TAR e Consiglio di Stato, in base a un giudizio di ottemperanza, il Consiglio di Stato può d’ufficio stabilire la competenza del TAR se si tratta di eseguire una sentenza di primo grado non modificata in appello. Sempre l’articolo 14.3 cpa definisce “ inderogabile” la competenza per i giudizi di cui all’articolo 119 del Codice: tale disposizione risulta poco comprensibile in quanto disciplina il rito abbreviato comune a determinate materie, non prevede, salvo i casi in esso inclusi che coincidono con quelli previsti anche all’articolo 135 cpa, alcuna indicazione sulla competenza di determinati tribunali amministrativi regionali. Con una disposizione di chiusura, l’articolo 14.3 cpa stabilisce che la competenza è funzionalmente inderogabile per ogni altro giudizio per cui la legge o il Codice individuano il giudice competente con criteri diversi da quelli dell’articolo 13 cpa. È possibile rilevare che gli articoli 42 e 130 cpa prevedono particolari disposizioni sulla competenza dei tribunali amministrativi regionali in riferimento, rispettivamente, ai rapporto tra ricorso principale e incidentali e ricorsi elettorali: • La cognizione del ricorso incidentale è attribuita al giudice competente per quello principale, salvo la domanda introdotta con ricorso incidentale sia devoluta alla competenza del TAR Lazio sede di Roma o alla competenza funzionale di un tribunale amministrativo regionale: in questi casi, la competenza territoriale si avrà in capo al TAR centrale o al Tribunale amministrativo regionale dotato di competenza funzionale. • Riguardo ai ricorsi elettorali è prevista, riguardo alle controversie riguardanti elezioni di comuni, province, regioni, la competenza del TAR nella cui circoscrizione hanno sede tali enti pubblici; quanto alle controversie riguardanti elezioni ai membri del Parlamento europeo spettanti all’Italia, la competenza funzionale del TAR Lazio sede di Roma. Rilievo di incompetenza L’articolo 15 cpa disciplina il rilievo dell’incompetenza: il riferimento è la rilevabilità d’ufficio del difetto di competenza finchè la causa non è decisa in prima grado. Nei giudici di impugnazione è rilevato se dedotto con specifico motivo contro il capo della pronuncia impugnata che, in modo implicito, ha statuito sulla competenza. Il rilievo del difetto di competenza è assoluto in primo grado e temperato in secondo grado, quando l’incompetenza del TAR non può essere rilevata d’ufficio; ma, a differenza dell’assetto precedente, può costituire motivo di appello della sentenza: l’unico motivo di appello determinerebbe l’annullamento della sentenze con rinvio al giudice di primo grado competente (laddove il difetto di competenza non venisse fatto valere come specifico motivo di appello, sul punto si formerebbe il giudicato interno). Simile scelta del legislatore non risulta coerente con gli articoli 13 e 14 che sanzionano il carattere inderogabile della competenza dei tribunali amministrativi regionali. Per quanto riguarda le ulteriori regole, l’articolo 15 cpa prevede che il giudice deve statuire sulla competenza prima di provvedere sulla domanda cautelare e se non si riconosce competente, non si pronuncia sulla stessa. Tale previsione è stata ritenuta incostituzionale per lesione del diritto di difesa e principio della ragionevole durata del processo; questione che la Corte ha giudicato infondata in quanto sarebbe proprio l’opzione di consentire alla parte di adire un giudice incompetente, cioè individuato in violazione di qualsiasi criterio di riparto della competenza e ottenere una pronuncia cautelare a determinare la lesione dei principi enunciate dalle norme costituzionali. In mancanza di domanda cautelare, il difetto di competenza può essere eccepito entro il termine per la costituzione in giudizio e il presidente fissa la camera di consiglio per la pronuncia immediata sulla questione di competenza. Il rito camerale si conclude con ordinanza: se dichiara la propria incompetenza, il giudice indica il tribunale competente: nel termine perentorio di 30 giorni dalla comunicazione di tale ordinanza, la causa potrà essere riassunta davanti al giudice dichiarato competente e in questo caso il processo proseguirà davanti al nuovo giudice. Se la parte intende contestare la decisione che pronuncia sulla competenza, senza decidere sulla domanda cautelare, essa potrà esperire il regolamento di competenza, salvo si tratti della stessa parte che ha riassunto il giudizio. Il medesimo rimedio è attivabile dal giudice davanti al quale viene riassunta la causa che a sua volta si reputi incompetente. L’ordinanza che pronuncia sulla competenza e decide sulla domanda cautelare, può essere impugnata sia con regolamento di competenza sia con l’ordinario rimedio dell’appello contro le ordinanze cautelari. In pendenza del regolamento di competenza, la domanda cautelare, si propone al giudice indicato come competente nell’ordinanza: tale giudice deve pronunciarsi sulla domanda, ma i suoi La class action pubblica può essere esercitata, in sede di giurisdizione esclusiva, sia da singoli individui che da associazioni o comitati di utenti o consumatori; non prima che questi hanno notificato al soggetto pubblico una apposita diffida. Il ricorso può essere proposto solo dopo 90 giorni da questa notifica ed entro 1 anno dalla scadenza. Al posto della diffida, l’interessato, se vi sono i presupposti, può promuovere la risoluzione non giurisdizionale della controversia : in questo caso, se non si raggiunge la conciliazione, il ricorso può essere proposto entro 1 anno dall’esito di tali procedure. All’accertamento della violazione, omissione o inadempimento lamentato segue l’ordine giudiziale all’amministrazione o al concessionario di porvi rimedio entro un termine, nei limiti delle risorse strumentali, finanziarie ed umane già assegnate in via ordinaria, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. In caso di perdurante inottemperanza, si applicano le disposizioni ex art 112 cpa. In base alla ratio della class action pubblica, il cui oggetto riguarda il rapporto tra cittadini e amministrazioni o concessionari di pubblici servizi, il legislatore ha escluso il potere del giudice di disporre il risarcimento del danno subìto, fermo restando la possibilità di usare i rimedi ordinari. In questa prospettiva è stato possibile individuare le differenze tra una simile azione e la cd azione di classe a tutela dei consumatori ex art 140 bis del Codice del Consumo avente ad oggetto l’accertamento della responsabilità di imprese e la condanna al risarcimento danno e restituzioni a favore degli utenti consumatori lesi da condotte illecite; in particolare tale azione è volta a tutelare: • I diritto contrattuali di una pluralità di consumatori e utenti che hanno nei confronti di una stessa impresa, inclusi i diritti relativi a contratti stipulati ai sensi degli articoli 1341 e 1342; • I diritti omogenei spettanti ai consumatori finali di un determinato prodotto o servizio nei confronti del relativo produttore, anche a prescindere da un diretto rapporto contrattuale; • I diritti omogenei al ristoro del pregiudizio derivante agli stessi consumatori e utenti da pratiche commerciali scorrette o da comportamenti anticoncorrenziali. Non è possibile usare la class action pubblica nei confronti delle autorità amministrative indipendenti, degli organi giurisdizionali, della presidenza del Consiglio die Ministri, delle Assemblee legislative e altri organi costituzionali. Per quanto riguarda l’articolo 32 cpa prevede che è “sempre possibile nello stesso giudizio il cumulo di domande connesse proposte in via principale o incidentale”: si ricorda che se le azioni sono soggette a riti diversi, si applica quello ordinario, salvo vi sia una controversia sottoposta alle regole del rito abbreviato. La norma sancisce che il giudice amministrativo qualifica l’azione in base ai suoi elementi sostanziali e può sempre disporre la conversione. Sarebbe possibile prevedere la conversione di un’azione avverso il silenzio in un’azione di ottemperanza; mentre difficoltà potrebbero manifestarsi in ipotesi di ricorso contro il silenzio della PA a fronte di un’istanza di accesso documentale, in considerazione del significato del silenzio e della specialità del rito di cui all’articolo 116 cpa che estende la riduzione dei termini processuali nei confronti della proposizione del ricorso introduttivo, incidentale e motivi aggiunti. Azione di annullamento A conferma della centralità del rimedio, non solo nei giudizi di legittimità, ma anche di giurisdizione esclusiva, il codice del processo amministrativo introduce azioni di cognizione prevedendo la disciplina dell’azione di annullamento per violazione di legge, incompetenza ed eccesso di potere da proporre nel termine decadenziale di 60 giorni. Il processo di annullamento è stato inteso e attuato come prosecuzione di un previo procedimento piuttosto che come fase di controllo giurisdizionale della funzione amministrativa : alla IV Sezione del Consiglio di Stato la dottrina ha riconosciuto natura amministrativa e non giurisdizonale di tale Istituzione. Tale ereditarietà storica ha influenzato il sistema di tutela riconosciuto al cittadino nei confronti della PA: ciò è confermato dalle previsioni del Codice che sottolineano il carattere di necessarietà dell’azione di annullamento ai fini della contestazione della legittimità di un provvedimento amministrativo: • Da un lato, salvo quanto previsto dall’art. 30.3 cpa, il giudice non può conoscere la legittimità degli atti che il ricorrente avrebbe dovuto impugnare ai sensi dell’articolo 29; • Dall’altro, se nel corso del giudizio di annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il giudice accerta l’illegittimità dell’atto se sussiste l’interesse ai fini risarcitori. In base a tale carattere, in passato, la giurisprudenza amministrativa aveva applicato in modo rigoroso la regola della “pregiudizialità amministrativa” affermando l’esigenza del previo esercizio dell’azione di annullamento per ottenere il risarcimento del danno ingiusto derivante dal provvedimento illegittimo. È rimasta l’inidoneità della portata costitutiva della sentenza di annullamento, cioè della caducazione del provvedimento illegittimo con effetti ex tunc, salvo casi in cui l’assetto degli interessi sia consolidato o una simile portata non soddisfi realmente l’interesse dedotto in giudizio dal ricorrente a stabilire una regolamentazione diretta degli interessi in causa. Nelle sole materie di giurisdizione di merito, il giudice amministrativo può adottare un nuovo atto oppure modificare o riformare quello impugnato. Ciò ha comportato che per molto tempo la tutela giurisdizionale è rimasta priva di contenuto: esempio classico è quello di un soggetto interessato all’apertura di un esercizio commerciale cui venga negata la relativa autorizzazione: l’annullamento di un simile diniego è inadeguato soddisfare la posizione soggettiva dedotta in giudizio. A livello processuale, ha avuto notevoli conseguenze la teoria dell’effetto ripristinatorio, consistente nella ricomposizione dell’assetto di interessi preesistente all’adozione dell’atto annullato e conformativo del giudicato che comporta la valorizzazione della parte normativa della pronuncia, da cui deriva l’impossibilità per l’amministrazione di reiterare un provvedimento in base ai presupposti di fatto e di diritto di quello in precedenza annullato. Risulta rilevante ricordare che, ai sensi dei precedenti articoli venivano semplicemente “salvati” dagli effetti della sentenza di annullamento gli ulteriori provvedimenti dell’autorità amministrativa, all’infuori dei casi di accoglimento del ricorso per incompetenza, quando sarebbe stato necessario, previa caducazione dell’atto, rimettere l’affare all’autorità competente. Ciò non è più previsto dato che nell’art. 34 cpa dedicato alle sentenze di merito, si limita ad affare che il giudice, nei limiti della domanda, annullo in tutto o in parte il provvedimento impugnato. La previsione del comma 2 ( secondo cui in nessun caso il giudice non può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati) non consente di affermare che l’amministrazione non sia priva di potestà discrezionale, fin quando la parte non ponga una specifica azione di condanna contestualmente a quella di annullamento. Azione di adempimento L’azione di adempimento era menzionata dall’art. 40 nella bozza del Codice secondo cui la parte avrebbe dovuto chiedere la condanna dell’amministrazione all’emanazione del provvedimento richiesto o denegato allegando tutti gli elementi utili all’accertamento della fondatezza della pretesa. Veniva anche stabilito l’esercizio contestuale di tale azione rispetto alla domanda di annullamento o avverso il silenzio, entro i termini previsti per tali rimedi. Il modello di riferimento è quello dell’ordinamento tedesco: mediante l’azione di adempimento, finalizzata all’emanazione di un provvedimento rifiutato o omesso dall’amministrazione, il ricorrente deduce la propria pretesa sostanziale e su di essa si pronuncia il giudice, con la conseguenza che l’eventuale caducazione dell’atto tendente alla realizzazione di un diverso assetto di interessi deriva direttamente da tale accertamento del rapporto tra soggetto pubblico e privato. Il giudice, se ritiene che la questione sia matura per la decisione e non vi sono margini di discrezionalità, sarà legittimato ad emettere un ordine puntuale sull’adozione dell’atto. Diversamente, potrà ordinare all’amministrazione di ottemperare al principio di diritto enunciato in sentenza, senza predeterminare il contenuto dell’atto. Il secondo correttivo al codice ha introdotto nell’art. 34 lettera c un periodo finale in base al quale “l’azione di condanna al rilascio di un provvedimento richiesto è esercitata, nei limiti di cui all’articolo 31.3, contestualmente all’azione di annullamento del provvedimento di diniego o all’azione contro il silenzio” supera ogni dubbio riguardo l’ammissibilità dell’azione di adempimento nell’attuale sistema di giustizia amministrativa. L’art. 31.3 prevede che “il giudice può pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratta di attività vincolata o quando risultano che non rimangono ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che devono essere compiuti dall’amministrazione” per la sua estensione si riferisce non solo ai ricorsi contro il silenzio ma anche ai giudizi introdotti da domande di annullamento. La giurisprudenza amministrativa si era orientata nel senso dell’ammissibilità dell’azione di adempimento: il riferimento si intende effettuato alla sentenza del TAR Lombardia quando il collegio giudicante, annullato il diniego opposto all’istanza presentata da un agente di polizia che chiedeva il trasferimento della sede di servizio e rilevato l’esaurimento dei margini di discrezionalità in base ai risultanti dell’istruttoria procedimentale, ha condannato l’amministrazione resistente a trasferire il ricorrente nella sede richiesta. Sotto tale aspetto, l’articolo 30.5 cpa risulta poco coerente con l’art. 30, volto a contenere i margini di autonomia dello strumento risarcitorio e a valorizzare la valutazione giudiziale dell’elemento colposo ai fini della liquidazione del danno per equivalente monetario. La Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità dell’articolo 30.5 cpa da cui deriverebbe secondo il Gudice a quo (Tar liguria) una compressione irragionevole del diritto di difesa (in considerazione della certezza sull’illegittimità provvedimentale) e dell’articolo 117 Cost in tema di giusto processo, ha dichiarato la quesitone manifestatamente inammissibile per difetto di motivazione sulla sua rilevanza perché, essendo vigente il regime di prescrizione quinquennale di diritto comune, al momento della proposizione dell’azione risarcitoria, è a quel regime che il TAR avrebbe dovuto fare riferimento per la previsione da adottare. Soluzione in tema di pregiudiziale amministrativa La regola della pregiudiziale amministrativa, secondo cui la tutela risarcitoria è subordinata alla previa e tempestiva proposizione della domanda di annullamento del provvedimento illegittimo fonte del pregiudizio lamentato, rappresenta un compromesso fra orientamenti giurisprudenziali. Secondo le Sezioni Unite di Cassazione, volte a riconoscere che dal rifiuto di erogare una tutela risarcitoria autonoma sarebbe conseguita una grave menomazione della tutela giurisdizionale spettante al cittadino di fronte all’esercizio illegittimo della funzione amministrazione e quindi una perdita di effettività, si opponeva la ricostruzione dell’adunanza Plenaria del consiglio di Stato, favorevole alla regola del principio di certezza delle situazioni giuridiche di diritto pubblico, del divieto per il giudice amministrativo di disapplicare atti non regolamentari e della specialità della giurisdizione amministrativa che non è preordinata alla risoluzione di controversie in cui sono in gioco solo interessi individuali delle parti ma è volta a garantire l’interesse generale alla legalità dell’azione amministrativa. L’adunanza Plenaria recentemente ha ribadito che l’esigenza di giustizia è maggiore nel processo amministrativo di legittimità concentrato sul controllo della legalità dell’azione amministrativa esercitata necessariamente in base all’interesse pubblico: il processo in cui è parte una pubblica amministrazione deve consentire l’accertamento di una verità processuale vicina se non coincidente con quella storica perché è interesse della collettività la legittimità dell’azione amministrativa. La giurisprudenza amministrativa si è orientata nel senso di valutare il previo esercizio dell’azione di annullamento rispetto a quella risarcitoria sotto il profilo della fondatezza di questa: si è affermato che un’azione risarcitoria autonoma, anche se ammissibile a livello processuale, sarebbe stata infondata nel merito, poiché la mancata impugnazione dell’atto illegittimo fonte del danno avrebbe consentito allo stesso atto di operare in modo precettivo, prevedendo la regola del caso concreto. In base a ciò , si è rilevata non solo l’incompatibilità della lettura offerta dalle Sezioni Unite con il parametro della ragionevolezza ma è stato anche evidenziato che tale lettura non si spiega in base all’art. 111.8 Cost che ammette ricorso per cassazione contro le decisioni del Consiglio di Stato per i soli motivi relativi alla giurisdizione. Si ricorda la giurisprudenza europea che ha riconosciuto l’autonomia del rimedio risarcitorio, escludendo sia la valutazione favorevole della domanda volta ad ottenere un annullamento tardivo e sia il ristoro dei danni che si sarebbero potuto evitare mediante la tempestiva impugnazione del provvedimento lesivo. I temperamenti codicistici sul riconoscimento dell’autonomia dell’azione di condanna al risarcimento del danno ingiusto rappresentano un tentativo di conciliare le opposte tendenze; in particolare l’art. 30 secondo periodo codice cpa prevede che “ nel determinare il risarcimento, il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti ed esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche mediante l’uso degli strumenti di tutela previsti”. Si tratta di una previsione simile prevista nel codice tedesco che, in base alla responsabilità derivante dall’esercizio di funzioni pubbliche, esclude la risarcibilità del pregiudizio ogni volta che il soggetto leso ha, dolosamente o colposamente, omesso di mitigare il danno non ricorrendo ad altri rimedi attivabili. Fra gli strumenti di tutela previsti dall’ordinamento cui si riferisce l’articolo 30.3 rientra l’azione di annullamento: Tuttavia, se la logica è quella di evitare un possibile aggravio della posizione debitoria dell’amministrazione resistente, in base al canone di diligenza previsto dall’articolo 1227 cc, risulta difficile intendere l’utilità della previa proposizione di un rimedio assoggettato a un termine decadenziale di 60 ( invece di 120) inidoneo a neutralizzare l’efficacia dell’atto. Sarebbe più coerente pretendere un’istanza cautelare o considerare non solo la mancata impugnazione del provvedimento dannoso ma anche l’omessa attivazione di altri rimedi idonei ad evitare il danno, come la via dei ricorsi amministrativi e l’assunzione di atti di iniziativa volti alla stimolazione dell’autotutela amministrativa e considerare quindi la reciproca autonomia processuale fra i diversi sistemi di tutela. L’unico settore dove si il rimedio risarcitorio è staccato rispetto al modello caducatorio è quello dei contratti pubblici. Le regole delineate dagli artt. 121 cpa dimostrano che il cumulo tra domande di annullamento e aggiudicazione è necessario. L’insieme dei mezzi di tutela cui si riferisce l’art. 30 del Codice si traduce nell’onere della parte che invoca il risarcimento per equivalente di proporre la domanda di conseguire il contratto ai sensi dell’art. 124: una domanda che presuppone una dichiarazione di inefficacia del contratto e resa dal giudice cui viene richiesto l’annullamento dell’originaria aggiudicazione illegittima. Le conseguenze derivanti dal mancato esercizio dei due rimedi, caducatorio e risarcitorio, in questa materia, sono così gravi da non consentire di ritenere superata ne ridimensionata la regola della pregiudiziale amministrativa. Fino ad ora il rapporto tra azione di annullamento e azione risarcitoria è stato analizzato sotto il profilo della pregiudizialità amministrativa: merita sottolineare che i due rimedi si distinguono per gli elementi identificativi della domanda: • Nell’azione di annullamento, la causa petendi è l’illegittimità; il petitum è l’annullamento degli atti. Implica una restaurazione dell’ordine violato da parte del giudice e il risarcimento è disposto su suo ordine e mira a restaurare la legalità violata dall’ordinamento. L’adunanza plenaria ha affermato che in base al principio della domanda che regola il processo amministrativo, il giudice, ritenuta al fondatezza del ricorso, non può limitarsi ex officio a condannare l’amministrazione al risarcimento danni invece di procedere al loro annullamento. • Nell’azione risarcitoria, la causa petendi è l’illeceità del fatto e il petitum la condanna al risarcimento in forma generica. Quantificazione del danno risarcibile Per quanto riguarda la quantificazione del danno risarcibile, occorre segnalare che nel processo amministrativo vi è una particolare tecnica prevista dall’art. 34.4: in caso di condanna pecuniaria, il giudice può, in mancanza di opposizione delle parti, stabilire i criteri in base ai quali il debitore deve proporre a favore del creditore il pagamento di una somma entro un termine. Se le parti non giungono ad un accordo o non adempiono agli obblighi derivanti dall’accordo concluso, possono essere chiesti la determinazione della somma dovuta o l’adempimento degli obblighi ineseguiti. L’istituto è subordinato alla mancata opposizione delle parti. il richiamo al ricorso di ottemperanza si riferisce alle forme del procedimento e non anche al suo contenuto e ai suoi presupposti; non si tratta di garantire l’attuazione di una pronuncia, ma di assicurare l’integrazione della stessa nella parte relativa alla corresponsione monetaria. La possibilità per il privato di ricorrere al giudice amministrativo per determinare, nelle forme del giudizio di ottemperanza, la somma dovuta rappresenta uno strumento usabile per il quantum risarcibile, se le parti non giungono ad un accordo o non rispettano l’accordo concluso, rimanendo l’accertamento dell’an debeatur e la definizione dei criteri del risarcimento danni attratti nell’ambito del giudizio di cognizione. È possibile dubitare dell’efficacia di tale tecnica: per arrivare a una possibilità di conciliazione dei soggetti che si sono scontrati in giudizio, il giudice dovrebbe individuare parametri cui collegare le operazioni di calcolo ed è per tale motivo che è difficile comprendere come si possa arrivare a una definitiva liquidazione del danno. Il rischio è che affidare all’amministrazione il compito di proporre una somma di denaro al privato danneggiato già venuto a contatto con il momento dell’autorità e con l’esperienza processuale determini una sua accondiscendenza all’accordo dovuta alla stanchezza di continuare oltre la controversia. L’azione avverso il silenzio L’art. 31 commi da 1 a 3 cpa prevede il rimedio attivabile nei confronti dell’inerzia della pubblica amministrazione. Assumono rilevanza le fattispecie di silenzio inadempimento o rifiuto a provvedere (l’espressione si spiega in base all’originario sistema di giustizia amministrativa basata sulla tutela costitutiva dell’annullamento, quando l’inerzia veniva equiparata ad un provvedimento di diniego impugnabile). Il difetto assoluto di attribuzione sussiste in presenza di una carenza di potere “ in astratto”, con violazione della norma attributiva del potere; mentre il provvedimento è solo annullabile in caso di carenza di potere in “concreto”, cioè quando si violano le norme che ne limitano l’esercizio e lo condizionano. Si assume come parametro di riferimento il settore di attività unitamente considerato, inoltre, la giurisprudenza ha affermato che se l’organo incompetente rispetto al provvedimento emanato ha competenza di adottare altre determinazioni nell’ambito del medesimo settore di intervento, l’incompetenza si qualifica come relativa e non assoluta, anche se l’organo competente appartiene ad un altro plesso dell’amministrazione. Per quanto riguarda i casi di violazione o elusione del giudicato: • la violazione del giudicato ricorre quando il nuovo atto amministrativo riproduce gli stessi vizi già censurati o si pone in contrasto con precise prescrizioni provenienti da una pregressa previsione giudiziale; • l’elusione sussiste quando l’amministrazione, anche se provvede formalmente a dare esecuzione ai precetti derivanti dal giudicato, predispone di aggirarli sul piano sostanziale, pervenendo al medesimo esito ritenuto illegittimo, cioè cerca di realizzare il medesimo risultato con un’azione connotato da un manifesto sviamento di potere, mediante esercizio di una potestà pubblica formalmente diversa, in carenza dei presupposti che la giustificano. Alle ipotesi menzionate, si aggiungono altri casi previsti dalla legge, previsti dall’art. 21 septies della legge 241\1990: si tratta di una locuzione da interpretare in modo restrittivo perché la categoria della nullità nel diritto amministrativo è una forma di invalidità eccezionale e tipica. Ad esempio, la giurisprudenza ha affermato che l’atto amministrativo adottato in violazione del diritto europeo non è nullo, ma è censurabile in base al profilo di violazione di legge ed è annullabile qualora l’azione venga esercitata nell’ordinario termine di decadenza davanti al giudice competente. Si tratta di una impostazione confermata dalla Corte di Giustizia che, chiamata a pronunciarsi sulla possibilità di disapplicare bandi di gara anticomunitari, ha riconosciuto agli Stati autonomia in merito alla disciplina applicabile, precisando che i termini di ricorso contro gli atti amministrativi devono garantire efficacia e rapidità. I casi di illegittimità comunitaria cd “ diretta” vanno distinti dalle ipotesi in cui l’atto è stato esaminato in base a una norma nazionale in contrasto con il diritto europeo, quando spetta al giudice amministrativo disapplicare la norma su cui si fonda l’atto impugnato e dichiarare l’illegittimità di questo. In queste ipotesi, spesso la giurisprudenza ha optato per la nullità dell’atto emanato in base a una norma contrastante con il diritto europeo fonte del potere amministrativo. Poiché le cause di nullità rappresentano un numero chiuso, le ipotesi riconducibili alla nullità virtuale, cui si riferisce l’articolo 1418 cc, devono essere ricondotte alla violazione di legge. Le norme riguardanti l’azione amministrativa, in considerazione del loro carattere pubblicistico, hanno natura imperativa e non sono disponibili da parte dell’amministrazione e la cui eventuale conversione in cause di annullabilità possono essere fatte valere nel breve termine di decadenza a tutela della stabilità dell’assetto degli interessi determinato dal provvedimento. Davanti ad un atto nullo, la parte è titolare di un diritto soggettivo e l’azione andrebbe posta dinnanzi al giudice ordinario. Tra i casi di nullità previsti dall’art. 21 septies legge 241\1990, vi è la giurisdizione esclusiva solo in caso di atti adottati in violazione e\o elusione del giudicato, il Codice sembra aver condiviso la linea secondo cui, di fronte ad un atto nullo, può sussistere una situazione di interesse legittimo. Salvo limitare la portata dell’art. 31.4 cpa alle ipotesi di nullità previste dalla legge, quando un potere in astratto potrebbe esistere. In concreto, può accadere che vengano affiancati due giudizi, uno ordinario e uno di ottemperanza, di fronte a un rinnovato esercizio dell’attività amministrativa successiva alla formazione di un giudicato. In particolare, possono sorgere dubbi sul fatto che un atto sia da ritenere nullo, in quanto adottato in violazione o elusione del giudicato o illegittimo per vizi propri e rilevabili: si è occupato di tale eventualità la pronuncia del Consiglio di Stato del 2013. In base al presupposto che il giudice di ottemperanza dev’essere considerato giudice naturale della conformazione dell’attività amministrativa successiva al giudicato e obbligazioni che da quel giudicato derivano o che in esso trova il presupposto l’Adunanza plenaria, da un lato, ammettono la riunione ex art 70 cpa davanti a tale giudice se i giudizi pendono nel medesimo grado; dall’altro, prefigura la proponibilità ex ante di un unico ricorso davanti al giudice di ottemperanza per consentire l’unitarietà di trattazione di tutte le censure svolte dall’interessato a fronte della riedizione del potere. Se il giudice di ottemperanza ritiene che il nuovo provvedimento violi o eluda il giudicato, ne dichiara la nullità e da tale dichiarazione conseguirà l’improcedibilità della seconda domanda per sopravvenuta carenza di interesse. Diversamente, in caso di rigetto della domanda di nullità, il giudice disporrà la conversione dell’azione per la riassunzione del giudice davanti al giudice competente per la cognizione. CAP. V - L’AZIONE DI ANNULLAMENTO La causa petendi ed i vizi del provvedimento (in generale) La causa petendi dell’azione di annullamento si identifica nella illegittimità del provvedimento reso dall’amministrazione. I vizi per cui tale azione può essere promossa sono: • Violazione di Legge; • Eccesso di potere; • Incompetenza. Solo nel 2005 il legislatore ha dettato una disciplina positiva dell’annullabilità del provvedimento, qualificando tali vizi come sostanziali e superando la loro precedente qualificazione in termini di meri motivi di impugnazione del provvedimento amministrativo : con tale soluzione interpretativa, il legislatore ha fornito un modello unitario. Per quanto riguarda gli effetti, il provvedimento è soggetto alla regola della retroattività, a prescindere dal tipo di vizio accertato, con l’obbligo dell’amministrazione di porre tutte le attività necessarie per ripristinare, ove possibile, lo status quo ante. Il provvedimento produce effetti fino al raggiungimento di una pronuncia giurisdizionale che ne determina la caducazione retroattiva o fin quando sopraggiunge l’annullamento di ufficio disposto dall’amministrazione nell’esercizio del potere di autotutela. Per quanto riguarda l’incompetenza, ricorre quando sono violate le norme che distribuiscono la funzione amministrativa tra i diversi enti, organi o uffici in base a diversi criteri individuati dalla legge. Il fatto che i criteri di distribuzione della funzione sono previsti dalla legge nel rispetto del principio di legalità, consente di evidenziale il rapporto tra tale vizio e quello della violazione di legge, cui si pone un rapporto di genere a specie. Per ricorrere il vizio di incompetenza nella fattispecie concreta è necessario che il soggetto che ha adottato l’atto appartenga al medesimo plesso organizzatorio cui fa parte l’organo competente ex lege; se tale condizione non è soddisfatta, il provvedimento non potrà essere considerano annullabile per incompetenza, ma nullo per difetto assoluto di attribuzione, con tutto ciò che ne consegue sul piano della idoneità dell’atto a produrre effetti. Per quanto riguarda la violazione di legge, essa costituisce il vizio avente portata generale e residuale e sussiste ogni volta che l’atto amministrativo è difforme dal modello normativo di riferimento, sia formale, procedimentale o contenutistico. Durante i lavori parlamentari, emerse la proposta di qualificare tale vizio come “ di contrarietà a norme imperative”: tuttavia, tale inciso oggi adottato nel Codice civile e finalizzato a distinguere le fattispecie cd “imperative” da quelle “ dispositive” è stato ritenuto inidoneo ad essere previsto in una materia, come quella del diritto amministrativo dove tutte le norme dovrebbero essere considerate “ imperative”. A livello applicativo, la violazione di legge si configura in due differenti ipotesi: • Mancata applicazione: ricorre quando l’amministrazione supponga come esistenti norme in realtà non presenti nell’ordinamento o attribuisce a una disposizione significato diverso da quello proprio o non applica una norma vigente. • Ipotesi dove l’autorità amministrativa applica una norme correttamente interpretata ad un caso dalla stessa non prevista. Per quanto riguarda l’eccesso di potere, esso è definito come il “ vizio della funzione amministrativa”: la sussistenza ,in capo al provvedimento amministrativo, del vizio dell’eccesso di potere presuppone un controllo, operato dal giudice amministrativo in base alla razionalità del comportamento amministrativo riservato all’amministrazione, con il divieto di procedere a valutazioni di merito. La positivizzazione di tale vizio di legittimità ha consentito al giudice amministrativo di potenziare il proprio sindacato sul potere, passando da un controllo estrinseco sull’azione amministrativa a un controllo intrinseco “ debole”, cioè esteso alla verifica della correttezza della modalità di esercizio del potere discrezionale, anche tecnico. L’annullamento dei provvedimenti a contenuto negativo, ablativi di una situazione di vantaggio per il ricorrente, non assicura la soddisfazione di questo né la riespansione della sua situazione soggettiva. È possibile che l’amministrazione pubblica, al momento della riedizione del potere, emani un nuovo provvedimento amministrativo che limiti la medesima situazione di vantaggio del ricorrente. Il problema di tale tutela si pone considerando il fatto che la pronuncia giurisdizionale di accertamento costitutivo, in considerazione della posizione di supremazia dell’amministrazione rispetto al privato, può concorrere con l’atto amministrativo per definire il contenuto del rapporto, non potendosi sostenere che la decisione dell’autorità giudiziaria sia idonea ad imporre una disciplina sostitutiva di quella prevista per l’esercizio del potere amministrativo: tale soluzione si è dimostrata rispettosa dell’art 26 TAR ( secondo cui il giudice può annullare l’atto, salvo ulteriori provvedimenti dell’autorità amministrativa) e art 45 Consiglio di Stato ( che sancisce che il giudice, disposto l’annullamento, rimette l’affare all’autorità competente). Tali fattispecie sono trasferite nell’articolo 34.2 cpa secondo cui “ in nessun caso il giudice si può pronunciare in riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati”. Non si può negare che tali interpretazioni siano solo il risultato di una lettura dottrinaria del dato normativo: si è fatto notare che in realtà l’effetto preclusivo sia privo di riferimento normativo e sia frutto di attività interpretativa. Si è assistito ad uno spostamento sensibile del baricentro della tutela giurisdizionale, non più limitata all’azione di annullamento, ma estesa in modo da garantire al privato una protezione realmente piena ed effettiva. La novella del 2010, in cui è stato promulgato il Codice del Processo amministrativo ha previsto nell’art. 30 comma 2 e 3 l’azione di risarcimento danno, la quale, a seguito del superamento della cd “ pregiudiziale amministrativa” può essere esperita anche in via autonome, con le dovute cautele. Secondo l’autorevole giurisprudenza, la pronuncia del giudice sarà caraterizzata da una condanna alla reintegrazione anche, in forma specifica, e ha come presupposto l’accertamento del rapporto sostanziale che intercorre tra privato e amministrazione e come finalità di soddisfare le pretese del ricorrente con contenuti costitutivi solo eventuali. L’annullamento non sarà l’unicum del giudice, ma sarà una mera porzione della sentenza che conterrà le risultanze: • del cd “ giudizio di spettanza del bene della vita”, vantato dal privato; • il vincolo alla futura azione amministrativa; • le modalità di reintegrazione della lesione ingiustamente subita dal ricorrente. Si tratterà di una decisione che, grazie al suo accertamento costitutivo, non si limiterà ad annullare il provvedimento impugnato, ma consentirà la stabilità dell’assetto dei rapporti che intercorrono tra parte ricorrente e pubblica amministrazione, garantendo il carattere di completezza della riparazione rispetto al pregiudizio lamentato. La domanda di annullamento in relazione ai suoi effetti L’annullamento di un provvedimento amministrativo produce effetti a seconda del tipo di vizio per il quale il provvedimento viene annullato. Si può dire, in base ai principi che fondano la giustizia amministrativa, che l’annullamento del provvedimento produce effetti ex tunc. Anche se il provvedimento annullabile, diversamente da quello nullo, è efficace, esso, a seguito della pronuncia giurisdizionale con la quale viene caducato, va considerato tamquam non esset. Sul piano degli effetti della pronuncia dell’annullamento dell’atto impugnato, essi mutano a seconda del tipo di vizio del quale lo stesso è affetto: • In presenza di un vizio procedimentale, ad esempio, il giudice darà atto della necessità di rinnovare il procedimento. • Invece, la sussistenza del vizio del difetto o insufficienza della motivazione richiederà che l’amministrazione motivi adeguatamente il fatto. Nelle ipotesi richiamate, le pronunce del giudice saranno solo parzialmente satisfattive per il ricorrente, posto che l’amministrazione sarà chiamata ad esercitare il proprio potere. Diversamente, laddove il provvedimento venga caducato per ragioni sostanziali( es. mancanza dei presupposti per l’adozione di un atto volto a comprimere la sfera giuridica del privato), la decisione sarà satisfattiva per il ricorrente, determinando, la caducazione del provvedimento sfavorevole la riespansione della sua sfera giuridica. Annullamento e gli effetti costitutivi L’effetto costitutivo tipico della pronuncia di annullamento è quello demolitorio: si tratta di un effetto che è stato ritenuto una caratteristica del potere giurisdizionale esercitato. Il potere del giudice non interferisce con l’attività di amministrazione attiva in quanto non prevede la regolamentazione degli interessi in contesa, che sarà sempre rimessa alla valutazione dell’amministrazione, che sarà chiamata ad emanare un nuovo atto amministrativo, sostitutivo di quello caducato. La caducazione comporta un’interdizione della produzione di effetti giuridici di un atto che era pienamente efficace. L’effetto demolitorio ha un carattere costitutivo ed è uno strumento principale mediante il quale il giudice sanziona il mancato rispetto del principio di legalità da parte dell’amministrazione, in base ai principi dell’articolo 97 Cost. Conseguenza dell’effetto demolitorio è il cd “ effetto ripristinatorio”: si tratta dello strumento di adeguamento della situazione giuridica che deriva dal provvedimento della diversa situazione giuridica. Esso conferisce concretezza materiale all’efficacia retroattiva dell’annullamento giurisdizionale, imponendo il ripristino dello status quo ante. Tale effetto rafforza l’effettività della tutela giurisdizionale accordata al soggetto leso, ricorrente vittorioso, garantendo l’osservanza dell’art.24 Cost. Annullamento ed effetti preclusivi Gli effetti preclusivi del giudicato di annullamento sono connessi ai cd “ effetti conformativi” costituendo due aspetti diversi dello stesso fenomeno: essi trovano fondamento nel principio ne bis in idem e solo il completamento dell’effetto caducatorio, consistendo nel divieto di reiterare l’atto che presenta gli stessi vizi censurati dal giudice amministrativo. questi effetti condizionano in negativo l’esercizio del potere amministrativo. Il giudicato amministrativo si differenzia ad esempio dal giudicato civile in quanto non realizza la previsione positiva sul rapporto tra pubblica amministrazione e privato: tale disciplina rimane nella disponibilità dell’amministrazione e presuppone un nuovo esercizio del potere, in base al principio di separazione dei poteri, quanto in base al principio della “inesauribilità del potere amministrativo”. L’effetto preclusivo inibisce l’amministrazione di adottare un provvedimento affetto dal medesimo vizio di quelle precedentemente annullato, senza incidere sul contenuto sostanziale dello stesso. L’eventuale adozione di un atto sovrapponibile a quello annullato sarà una violazione del giudicato (sarà cioè nullo e potrà essere sindacato davanti il giudice di ottemperanza). Annullamento ed effetti conformativi L’effetto conformativo identifica la regola di diritto cui dovrà conformarsi la pubblica amministrazione laddove, a seguito della caducazione del provvedimento, conservi il potere di provvedere nei confronti del ricorrente. Tale effetto si caratterizza dal: • carattere della complementarietà: solo a seguito dell’accertamento dell’illegittimità del provvedimento impugnato è possibile individuare, nei limiti dei motivi di impugnazione, la regola di condotta alternativa che sarà un modo di esercizio del potere al quale l’amministrazione dovrà conformarsi nell’esecuzione della decisione giurisdizionale. • dal carattere dell’eventualità: occorre dar atto che la produzione di effetti conformativi è meramente eventuale: per l’esistenza di questi effetti è necessario che, all’esito del giudizio, la soddisfazione del ricorrente vittorioso sia subordinata al necessario futuro agire amministrativo. Ciò si verifica quando la richiesta di annullamento del provvedimento sia preordinata alla tutela di interessi legittimi pretensivi. Se la decisione giurisdizionale riconsoce la lesione degli interessi legittimi oppositivi dell’amministrato, questo potrà ritenersi soddisfatto dalla pronuncia di annullamento dell’atto: la produzione dell’effetto caducatorio renderà il provvedimento impugnato tamquam non esset. La produzione dell’effetto ripristinatorio porrà a carico dell’amministrazione l’obbligo di ripristinare lo status quo ante, cioè la situazione esistente al momento dell’emanazione dell’atto lesivo. Si può dire che gli effetti caducatori e ripristinatori guardano al passato; l’effetto conformativo guarda al futuro orientando la residua parte del potere amministrativo. In base a queste argomentazioni, una parte della dottrina ha ritenuto necessario il passaggio dal giudizio sull’atto a quello sul rapporto, con l’intento di assicurare al sistema di giustizia amministrativa quella pienezza ed effettività di tutela che le era da sempre mancato. Tale impostazione parte dall’autorevole opinione secondo cui a nulla servirebbe, per poter parlare di sentenza che realizza la tutela giurisdizionale dell’interesse protetto, il mero accertamento dell’illegittimità del comportamento dell’amministrazione, occorrendo diversamente l’accertamento dell’obbligo di provvedere nel senso predeterminate dalle norme che regolano il rapporto fra essa e i cittadini. Tale argomentazione sarebbe così confermata da quanto previsto nel Codice del Processo Amministrativo, che costituirebbe l’ultimo passaggio di tale percorso: il legislatore, nell’alternativa tra un processo volto all’eliminazione del provvedimento e un processo indirizzato a dettare una disciplina esaustiva e definitiva delle posizioni giuridiche convergenti in quella posizione, proprio questa ipotesi. Il modello di tutela giurisdizionale, imperniato sul rapporto amministrativo, ha annunciato diversi principi : • in primo luogo, tale impostazione consente di giustificare le scelte del legislatore, che ha previsto nel Codice del processo amministrativo, azioni ulteriori rispetto a quella di annullamento (es. azioni di risarcimento, azioni di accertamento condanna in tema di silenzio, azione di accertamento mero e di condanna). • In secondo luogo, tale concezione renderebbe possibile l’ingresso, nella disciplina del processo amministrativo, nuovi strumenti volti a valutare i fatti che caratterizzano il rapporto. Ci si riferisce all’introduzione di nuovi mezzi di valutazione delle prove, in particolare la consulenza tecnica, idonea a valutare il corretto esercizio del potere discrezionale, sia pure nei limiti indicati. • Tale forma di giudizio consente di spiegare le ragioni che hanno indotto a ritenere superata la prassi dell’assorbimento dei vizi meramente formali, tenendo conto che si è dimostrata la prevalenza di quelli sostanziali, che rilevano maggiormente la spettanza del bene della vita del privato. Il giudizio sul rapporto merita di essere declinato come attività volta ad indagare, riguardo la relazione tra i titolari delle situazioni soggettive contrapposte ma riguardanti un medesimo oggetto: è il rapporto giuridico amministrativo che intercorre tra amministrazione e i privati a confluire nel giudizio amministrativo e non già il mero provvedimento amministrativo che si limita a definirlo. L’oggetto del processo amministrativo non si identifica quindi con l’atto reso dall’amministrazione ma con l’esercizio del potere amministrativo che ne rappresenta un antecedente logico-giuridico, come confermato dall’art. 7 cpa che attribuisce alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie nelle quali si fa questione di interessi legittimi e di diritti soggettivi riguardanti l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo. Il termine di proposizione dell’azione L’art. 29 cpa dispone che l’azione di annullamento possa essere esperita entro il termine di decadenza di 60 giorni. La ratio legis relativa alla durata di un tale termine che sembra più breve rispetto a quelli previsti dal Codice civile (ad es. l’azione di annullamento si prescrive nel termine di 5 anni in materia contrattuale), è da ravvisarsi nel principio di certezza del diritto. Ogni provvedimento amministrativo è preordinato alla tutela di uno o più interessi pubblici. E’ necessario che gli stessi acquisiscano stabilità in modo celere, dato che non sarebbe ammissibile una situazione di perdurante incertezza rispetto all’efficacia e alla validità di tali provvedimenti. Un simile termine risponde alle esigenze dei controinteressati che ripropongono un legittimo affidamento sulla validità del provvedimento che riconosce loro un beneficio. La durata di tale termine sarebbe un punto di equilibrio tra il diritto degli interessati di instaurare un giudizio e l’esigenza di definire con la massima sollecitudine l’intera vicenda giudiziale, così da non esporre ad un termine eccessivamente lungo la sorte della fonte di un rapporto giuridico che rileva per un nucleo collettivo di soggetti. Si tratta di un termine la cui durata è in grado di bilanciare il diritto di difesa, tutelato ai sensi del combinato disposto degli articoli 24 e 113 Cost, con il principio di affidamento dei privati, garantito dal diritto dell’Unione europea. Le pronunce rese dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea hanno mostrato coerenza nel ritenere ammissibile che le azioni siano sottoposte a termini decadenziali, a condizione che essi però non rendano eccessivamente arduo l’esercizio del diritto di azione da parte degli interessati. L’interesse del legislatore al fattore tempo è confermata dal disposto dell’articolo 34.3 cpa che impedisce che il giudice possa conoscere l’illegittimità di atti che il ricorrente avrebbe dovuto impugnare tempestivamente. Ragionando diversamente si giungerebbe a ritenere ammissibile un’autentica azione di accertamento volta ad eludere l’applicazione del termine decadenziale. Il decorso del termine per l’impugnazione del provvedimento annullabile, non è interrotto dall’eventuale esercizio del diritto di accesso: in tale ipotesi, il ricorrente dovrà inoltrare il gravame contro gli atti amministrativi definitivi ritenuti lesivi della propria sfera giuridica e, ottenuta l’esposizione della documentazione richiesta, si potrò ricorrere per motivi aggiunti entro il termine o in un momento successivo, in caso di ritardo nella presa visione delle copie di tali documenti. L’impossibilità di comprimere eccessivamente il principio di certezza del diritto, che rappresenta una species del principio del legittimo affidamento, è confermata dalla norma in materia di autotutela amministrativa. Non si può tacere l’impegno del legislatore nel limitare i termini entro cui tale potere può essere citato, prima mediante la previsione a che lo stesso sia esercitato entro un termine ragionevole e sia, limitando tale termine in quello “ comune non superiore a 18 mesi” e prevedendo che lo stesso sia ridotto a soli 12 mesi. Occorre dare atto che il legislatore non ha individuato la data dalla quale tale termine inizia a decorrere, cioè il dies a quo. Si richiama l’articolo 41.2 cpa che dispone che il termine previsto dalla legge decorre dalla notificazione, comunicazione o piena conoscenza o, per gli atti di cui non è stata richiesta la notificazione individuale, dal giorno in cui sia scaduto il termine della pubblicazione se questa è prevista dalla legge o in base alla legge. CAP. VI - L’AZIONE DI CONDANNA E L’AZIONE PER L’EFFICIENZA DELLE PA Azione di condanna al risarcimento del danno: evoluzione La tutela che l’ordinamento originariamente riconosceva al cittadino nell’ambito del giudizio amministrativo era di tipo prevalentemente impugnatorio, basata sull’azione di annullamento, ritenuta satisfattiva per il ripristino della legalità dell’agire amministrativo. Il cambiamento di sensibilità in merito al contenuto dell’interesse legittimo, che si liberava dalla natura di situazione giuridica solo occasionalmente tutelata, ispirava anche l’introduzione dell’azione di condanna nel processo amministrativo, avvenuta con l’art 26 del Tar per cui il tribunale amministrativo regionale nella materia relativa a diritti attribuiti alla sua competenza esclusiva e di merito può condannare l’amministrazione al pagamento delle somme di cui risulti debitrice. In riferimento allo status del debitore dell’amministrazione, vi era l’interpretazione restrittiva della giurisprudenza che ammetteva la condanna della pubblica amministrazione convenuta al risarcimento delle sole pretese immediatamente e direttamente collegate con il rapporto devoluto alla giurisdizione ( cd diritti consequenziali), senza che fosse possibile azionare pretese ulteriori per il risarcimento dei danni patiti in base al cattivo esercizio dell’attività discrezionale. Con la l. 142\1992, con cui è stata recepita la direttiva CEE è stata introdotta la generale azione di risarcimento dei danni derivanti dalla violazione delle norme procedurali in materia di appalti pubblici di lavori e forniture. Il successivo dlgs 80\1998, nell’affidare alla giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo tutte le controversie in materia di pubblici servizi, edilizia e urbanistica, ha previsto che in tali casi il giudice “ dispone, anche mediante la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto”: veniva introdotta un’azione di condanna al risarcimento dei danni in caso di lesione dei diritti soggettivi, gli unici rispetto a cui poteva immaginarsi un danno ingiusto. Tale previsione, limitata ad alcune materie, stimolava una svolta nella giurisprudenza amministrativa che finì per ricondurre alcuni interessi legittimi tra i diritti soggettivi, con accesso alla tutela risarcitoria ex art 2043: questo orientamento, riconosceva il risarcimento danno quando il giudice avesse annullato, all’esito dell’impugnazione dell’interessato, il provvedimento lesivo e, premesso la riespansione dell’interesse legittimo vantato dal privato in diritto soggettivo, con la possibilità di richiedere il risarcimento danni ex art 2043 cc, davanti al giudice civile. Tale impostazione, è stata ribadita e in parte superata dalla Cassazione che ha ricompreso nella nozione di “ danno ingiusto” risarcibile ex art 2043 cc anche la lesione dell’interesse legittimo, inteso come “ interesse giuridicamente rilevante”: tale sentenza da una diversa qualificazione che viene data all’interesse legittimo che, slegato dall’occasionalità di tutela, diventa una pretesa sostanziale nel senso che si collega ad un interesse materiale del titolare ad un bene della vita la cui lesione può dar luogo ad un danno. In questo modo, veniva generalizzata la tutela risarcitoria in esercizio dell’attività amministrativa o mancato esercizio di quella obbligatoria e del danno che il ricorrente comprovi di avere subito in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento”. La responsabilità da comportamento scorretto Il rapporto amministrativo tra pubblica amministrazione e cittadino può essere fonte di responsabilità extracontrattuale dell’amministrazione. È principio acquisito quello per cui la PA, durante un procedimento, deve osservare non solo le regole di diritto pubblico che condizionano la validità degli atti, ma anche le regole privatistiche, ispirate ai principi di buona fede e correttezza, la cui violazione genera responsabilità e non invalidità. Può sussistere una responsabilità da comportamento scorretto nonostante la legittimità del provvedimento amministrativo che conclude il procedimento: si tratta di una responsabilità che non deriva da atti invalidi ma da comportamenti riconducibili anche mediante l’esercizio di tale potere, rispetto a cui il privato lamenta la lesione non della pretesa al conseguimento del bene della vita, ma della libertà di autodeterminazione negoziale, derivata dalla violazione della buona fede oggettiva, intesa come dovere di reciproca correttezza tra le parti. Il privato che agisce per il risarcimento del danno da comportamento scorretto dovrà provare gli elementi costitutivi dell’illecito extracontrattuale, come nelle altre ipotesi di azione di condanna. Può rientrare nella categoria della responsabilità da comportamento scorretto anche l’ulteriore ipotesi di responsabilità da provvedimento illegittimo ma favorevole, cioè quel tipo di responsabilità riconosciuta in capo dall’amministrazione che adotti un provvedimento favorevole per un privato, che sia stato successivamente annullato dal giudice in base a un ricorso di un controinteressato. La questione è stata oggetto di un contrasto interpretativo tra le Sezioni Unite di Cassazione il Consiglio di Stato, soprattutto rispetto all’individuazione del giudice competente a decidere su tali particolari domande risarcitorie. Secondo la giurisprudenza del giudice della regolazione, la potestas iudicandi sulle domande di risarcimento danno da provvedimento favorevole poi annullato spetta sempre al giudice ordinario, anche nelle materie di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, perché si tratta di un comportamento meramente materiale lesivo di diritti soggettivi privi di collegamento con l’esercizio del potere. La differente impostazione seguita dal giudice amministrativo muove dalla constatazione che il comportamento scorretto è legato al potere che spesso ne è il presupposto, per cui il privato a cui è stato annullato un provvedimento favorevole, titolare di un interesse legittimo pretensivo, potrò agire per il risarcimento del danno offrendo in giudizio la prova della spettanza. Tale orientamento, limitato al danno da provvedimento illegittimo ma favorevole, sembra non essere coerente con il citato orientamento dell’Adunanza plenaria in tema di generale responsabilità da comportamento, i cui principi possono essere applicati anche al caso in esame dato che l’illegittimità adozione di un provvedimento rileva un comportamento della pubblica amministrazione non in linea con i doveri di reciproca lealtà che si impongono al rapporto tra amministrato e amministrazione. Ricorso, termini e giudizio nel c.p.a. L’azione per il risarcimento del danno si propone contestualmente ad altre azioni ( cumulo oggettivo del processo) o automaticamente ai sensi dell’articolo 30 cpa. L’attuale assetto normativo prevede una specifica decadenza dal diritto di azione. La domanda di condanna va proposta: • Entro il termine di decadenza entro 120 giorni decorrente dal giorno in cui il fatto si è verificato o dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva da questo; • In caso di previo esperimento dell’azione di annullamento, fino a quando il processo non è definito o entro 120 giorni dal passaggio in giudicato della sentenza di annullamento; • In caso di illegittima inerzia, cioè di inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento, i 120 giorni non decorrono fin quando non si conclude il procedimento e decorrono dopo 1 anno dalla scadenza del termine di provvedere. Il risarcimento del danno può essere disposto per equivalente o in forma specifica. Tuttavia, qualora sia chiesto l’equivalente monetario, non potrà essere disposto il risarcimento in forma specifica; mentre in base alla regola prevista dall’art. 2058, se il risarcimento è stato già chiesto in forma specifica, il giudice può disporre che esso avvenga solo per equivalente qualora la reintegrazione in forma specifica appaia eccessivamente onerosa per il debitore (unica deroga ammissibile alla regola della domanda di parte). Sarà onere del ricorrente provare l’illegittimità del provvedimento amministrativo ritenuto lesivo: questione che sarà decisa in via principale e in forza del giudicato se il ricorso è cumulativo, contenente la domanda di annullamento e quella risarcitoria; o in via incidentale se l’azione di risarcimento è stata automaticamente proposta nel termine di 120 giorni. La prova dell’illegittimità dell’atto dimostra la condotta non iure della pubblica amministrazione. Risulta essere più problematica la prova della lesione dell’interesse meritevole di tutela o del danno evento patito ( causalmente legato alla condotta illegittima della pa): In caso di interesse legittimo oppositivo, derivando l’interesse del privato dalla mera intrusione dell’amministrazione nella sua sfera personale o patrimoniale, la prova della illegittimità dell’atto basterà a provare anche il danno evento patito e il suo collegamento causale con la condotta in iure. Se il privato è invece titolare di un interesse legittimo pretensivo, se il potere amministrativo è strumento indefettibile per il conseguimento dell’utilità finale ( anche questa nel senso di bene della vita), occorrerà offrire in giudizio la “prova della spettanza”, cioè la prova che, applicando correttamente le disposizioni normative che assumono rilevanza nel procedimento amministrativo, l’istanza avrebbe dovuto essere accolta. Questa prova, da fornire con le forme del giudizio ipotetico della causalità omissiva, sarà di dimostrazione in caso di discrezionalità vincolata dell’amministrazione o di particolare complessità se il potere della pubblica amministrazione è discrezionale (qui sarà necessario che il provvedimento positivo della PA sarebbe stato una delle opzioni per concludere il procedimento avviato dal privato: in questo senso, sarà risarcito non tanto l’interesse legittimo pretensivo (che non è accertabile dal giudice amministrativo, che esercita una forma di giurisdizione estesa al merito solo in alcune limitate ipotesi) ma la chance di conseguimento dell’interesse legittimo del provvedimento richiesto). Inoltre va offerta la prova dell’elemento soggettivo del danneggiante che deve aver agito per dolo o colpa: al riguardo, per le particolari qualità del soggetto danneggiante si ritiene che la prova della colpa dell’amministrazione possa essere offerta in base a presunzioni semplici, superabili dalla resistente ogni volta riesca a dimostrare la scusabilità dell’errore ( esempio, esistenza di contrasti interpretativi sull’applicazione di una data disposizione). Il danno conseguenza risarcibile L’azione di condanna al risarcimento danno, sia contrattuale che extracontrattuale, richiede una prova rigorosa di un ulteriore elemento, cioè pregiudizio patrimoniale (o non patrimoniale) patito, o della riduzione del proprio patrimonio subita in ragione della lesione dell’interesse meritevole di tutela. Il giudice, nella determinazione del risarcimento danno, deve tenere conto della perdita subita dal danneggiato (danno emergente) anche rispetto al mancato guadagno non percepito a causa dell’illecito (lucro cessante), purchè sia conseguenza immediata e diretta della lesione, cioè vi sia un nesso di causalità giuridica tra lesione dell’interesse e il danno conseguenza patito. Qui si inserisce la previsione dell’articolo 30.3 cpa in base al quale il giudice deve escludere nella determinazione del risarcimento “i danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, mediante l’uso degli strumenti di tutela previsti”. Tale disposizione, indicata nell’art. 1227 cc riguarda la fase di quantificazione del pregiudizio e impone al giudice di ridurre la somma da riconoscere all’attore in caso di mancata impugnazione dell’atto amministrativo ritenuto lesivo o del mancato rispetto della tutela cautelare. Si comprende l’assoluta diversità dell’azione di condanna al risarcimento del danno nel processo amministrativo e l’omologa azione nel processo civile: non è previsto per questa un termine di decadenza né una forma di pregiudizialità mascherata da cui deriva la necessità di esperire previamente o cumulativamente le azioni demolitorie dell’atto, pena riduzione della somma liquidata dal giudice. La compensatio lucri cum damno nella prospettiva del Giudice amministrativo La compensatio lucri cum damno è un istituto di portata generale che vale come criterio di determinazione del risarcimento del danno ai sensi dell’art. 1223 cc e funzionale a far corrispondere alla vittima solo il danno sofferto, sottratto dal vantaggio contemporaneamente e direttamente procurato al danneggiato della condotta del danneggiante. Il fondamento normativo dell’istituto si rinviene nell’art. 1592 in materia di locazioni e nell’art. 1.1 bis della l. 20\1994 in base al quale, al momento della quantificazione del danno erariale contestato al funzionario autore dell’illecito, occorre considerare i reali vantaggi conseguiti dalla pubblica amministrazione: tale fattispecie ha assunto una rinnovata centralità con un arresto dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, a seguito di 4 differenti pronunce delle Sezioni Unite di Cassazione. Questi limiti sono coerenti con la differenza tra azione di adempimento ex art 1453 cc e rimedio amministrativo: • Nell’azione di adempimento ex art. 1453 cc, in base alla parità delle posizioni tra creditore e debitore, la condanna all’adempimento va accordata se è materialmente possibile; • Il giudice amministrativo si deve confrontare con l’esercizio del potere amministrativo, solitamente connotato dai profili di discrezionalità che non permettono di giungere a una pronuncia sulla fondatezza dell’istanza laddove la ponderazione degli interessi in gioco non sia stata ancora effettuata da parte della pubblica amministrazione. • Sono comprensibili i limiti cui deve sottoporsi l’azione di adempimento: il giudice può pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione. Questi limiti riguardano l’intensità del sindacato e sono l’antecedente del principio di separazione dei poteri, che impedisce al giudice di esercitare la discrezionalità al posto dell’amministrazione, come si desume dal generale divieto di pronunciare con riferimento ai poteri amministrativi non ancora esercitati. Va precisato che la condanna all’adempimento potrà essere disposta nei casi in cui la pubblica amministrazione, in astratto titolare del potere discrezionale, abbia esaurito tale discrezionalità in ambito procedimentale, sempre purchè l’istruttoria sia completa. La condanna alla refezione delle spese in giudizio L’azione di condanna al pagamento delle spese di lite è conseguenziale alla domanda principale, demolitoria o risarcitoria ed è legata alla sorte di questa in base al principio di soccombenza: colui che perde nel giudizio è tenuto a sopportare in via definitiva le spese anticipate e a rimborsare le spese sostenute dalla controparte vittoriosa. Il legame tra soccombenza e condanna al rimborso spese alla parte vittoriosa giustifica per alcuni la superfluità dell’uso di una specifica domanda di parte per la refusione delle spese di giudizio: il giudice ha l’obbligo di pronunciare d’ufficio sulle spese perché la condanna alle spese è conseguenza dovuta dall’accoglimento o rigetto della domanda, derivante dal principio della soccombenza, fatta salva la facoltà della parte di rinunciare preventivamente al rimborso. Diversamente, è necessaria sempre una specifica domanda epr la condanna della parte soccombente nei casi di responsabilità aggrava ex art 96 cpc. La previsione legislativa che introduce una class action pubblica Occorre guardare anche al di fuori delle previsioni del Codice del Processo amministrativo per completare il sistema delle azioni esperibili davanti al giudice amministrativo: il riferimento è in particolare il dlgs 198\2009 il cui obiettivo è di attuare la delega di cui alla l. 15\2009 nella parte in cui dispone che venga introdotta una specifica azione in giudizio per la tutela giurisdizionale degli interessati nei confronti delle amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici che si discostano dagli standard qualitativi ed economici fissati o che violano le norme preposte al loro operato. Al comma 1 dell’articolo 1 dlgs 198\2009, il nuovo istituto è definito sul presupposto non espressamente enunciato che l’amministrazione pubblica è di per sé e in ogni sua manifestazione “servizio” reso alla collettività, dai suoi apparati o dalle strutture alle quali è affidata l’erogazione agli utenti di un determinato servizio. Il disservizio è danno erariale che può essere anche modesto ma è soprattutto un pregiudizio per l’utente. Il controllo esterno, provocato dall’azione per l’efficienza, può essere considerato anche nell’ambito di un circuito complessivo che mediante la responsabilizzazione che si volte ad assicurare il perseguimento del risultato. La finalità è di ripristinare il corretto svolgimento della funzione pubblica o la corretta erogazione di un servizio pubblico: lo strumento prevede il coinvolgimento degli stessi fruitori dell’attività amministrativa, nel controllo esterno e giurisdizionale mediante l’attribuzione di un potere di iniziativa, destinato a esplicarsi non sul risultato finale ma sull’osservazione di uno o più misure predispose dall’ordinamento medesimo, per valutare il risultato dell’attività e la corrispondenza dei servizi e dei prodotti resi ad oggettivi standard di efficienza sempre che i fruitori abbiano subito una lesione “ diretta, concreta e attuale” dei propri interessi. L’azione in giudizio dipende dalla violazione di termini o dalla mancata violazione emanazione degli atti amministrativi generali obbligatori e non aventi contenuto normativo da emanare obbligatoriamente entro e non oltre un termine fissato da una legge, violazione degli obblighi contenuti nelle carte dei servizi o dalla violazione di standard qualitativi ed economici stabiliti, per i concessionari dei servizi pubblici, autorità preposte alla regolazione e al controllo del settore e definiti dalle stesse in base alle disposizioni in materia di performance contenute nel dlgs 150\2009, coerentemente con le linee guida definite dalla Commissione per la valutazione, trasparenza e integrità delle pubbliche amministrazioni. Tale indicazione, richiede di essere coordinata con il comma 1 bis che vincola il giudice a tenere conto delle “risorse strumentali, finanziarie e umane a disposizione delle parti intimate” e dei commi 3 e 4 che chiarisce quali siano i soggetti destinatari della tutela, identificandoli non in base all’interesse individuale ma all’appartenenza a un gruppo o alla omogeneità degli interessi in base al quale il gruppo diventa entità giuridicamente rilevante. Sotto il profilo della legittimazione passiva viene precisato che non possono essere assoggettate all’azione le “ autorità amministrative indipendenti, gli organi giurisdizionali, le assemblee legislative e gli altri organi costituzionali e inoltre la Presidenza del Consiglio di Ministri” e “ il ricorso non consente di ottenere il risarcimento del danno cagionato dagli atti e dai comportamenti”; per individuare la natura del potere esercitato dal giudice, si richiama l’articolo 4 che indica i contorni della pronuncia di accoglimento con le connotazioni di un mero accertamento dichiarativo sull’esistenza dell’omissione e dell’inadempimento con riferimento al quale la forma verbale usata per indicare lo iussus iudicis sembrerebbe conferire natura ordinatoria al comando di porre rimedio entro un congruo termine. La definizione dell’istituto ne pone gli aspetti fondamentali o la funzione e attuazione della tutela degli interessi omogeni: • L’azione può essere definita come strumento correttivo del cattivo funzionamento delle amministrazioni e dei servizi pubblici, realizzato in modo indiretto mediate la collaborazione dell’utente consumatore, con l’uso del rimedio giurisdizionale, proposto individualmente o dal gruppo di cointeressati per conseguire una pronuncia di accertamento dichiarativo accompagnata dall’ordine di rimediare entro un congruo termine. • L’azione di cui al dlgs 198\2009 può essere definita come strumento per la tutela di interessi omogenei degli appartenenti a un gruppo di utenti di un terminato servizio pubblico , all’efficienza dell’amministrazione pubblica che consiste nella richiesta di accertamento dichiarativo in base all’esistenza di violazioni, omissioni o inadempimenti riconducibili a uno o più indicatori ove ne sia derivata una lesione attuale, concreta e diretta e inoltre per sentire ordinare di provi rimedio entro un termine congruo (nei limiti delle risorse strumentali ed umane già assegnate in via ordinaria e senza nuovi e maggiori oneri per la finanza pubblica). Presupposti, legittimazione e oggetto del giudizio - l’interesse all’efficienza L’azione per l’efficienza nella pubblica amministrazione è un azione “sui generis”: essa si è presentata come uno strumento anomalo nel sistema della giustizia amministrativa italiana perché, fino all’emanazione del dlgs 198\2009, non era mai avvenuto che la persona fosse considerata nell’ordinamento positivo, come titolare di una posizione rilevante di interesse rispetto alla “gestione” della cosa pubblica. La tutela dell’interesse individuale all’efficiente gestione della cosa pubblica, coglie e positivizza un aspetto particolare di tale posizione o quello nel quale, le aspettative derivanti dalla programmazione, subiscono le conseguenze di una disfunzione, derivante dall’inefficienza, la quale si manifesta mediante alcuni indicatori che il legislatore ha individuato. Così, come l’osservanza delle regole di azione, doveri e obblighi comportamentali connessi a tali indicatori è espressione di una efficienza standard; allo stesso modo la loro inosservanza e violazione e l’inadempimento di alcuni obblighi riconducibili alle obbligazioni contratte dal concessionario sono manifestazioni di inefficienza che mettono in moto la tutela individuale, dando luogo a disfunzione. Questo meccanismo qualifica l’interesse individuale omogeneo all’efficienza, come posizione individuale rilevante e quindi meritevole di tutela in conformità con il criterio fissato dall’articolo 103 Cost. Il legislatore delegato ha realizzato tale tutela dando vita a un istituto complesso, cioè la cd “ azione per l’efficienza” non della, ma nella pubblica amministrazione che può essere definita come “azione giurisdizionale per la tutela di interessi individuali e omogenei di ciascuno degli utenti o consumatori di determinare funzioni e servizi pubblici, destinati a una data collettività, con la finalità di conseguire l’accertamento giurisdizionale delle violazioni denunciate, in base alla ripristinazione dell’efficienza standard dovuta, con riferimento alla funzione o servizio pubblico programmati, considerando le risorse disponibili stanziate e senza aggravamento della spesa pubblica”. Il procedimento di diffida In termini generali, la “diffida” è un atto unilaterale e personale che richiede capacità di agire ma ammette la rappresentanza e non richiede assistenza tecnico-professionale del difensore, trattandosi legittimazione, oppure, un servizio idrico di fornitura di acqua potabile che vede in posizione differente rispetto alla generalità degli abitati di un comune, gli abitanti di un comprensorio residenziale con rete autonoma attingente a un punto di raccolta. Differenti problemi induce la legittimazione attiva prevista nell’articolo 1 comma 4, in capo ad associazioni o comitati a tutela degli interessi dei propri associati, appartenenti alla pluralità di tenti e consumatori. Il principio di sussidiarietà orizzontale riferito nel comma 4 art 118 Cost è uno degli aspetti che emerge a livello costituzionale del principio di solidarietà: si esprime con vigore in ciò che riguarda le garanzie e i diritti inviolabili dell’essere umano nella formula prevista nell’articolo 2 Cost che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo che come formazione sociale ove si svolge la sua personaltà. L’attuazione dell’articolo 118.4 Cost si riconsoce con riguardo alla tutela dell’interesse uti cives a cooperare nella funzione di controllo dell’efficienza nei limiti e alle condizioni previste da tale disposizione: il comma 4 dell’articolo 1 dlgs 198\2009 non ha voluto spostare questo riconoscimento alle associazioni e comitati di utenti o consumatori indicati ma solo offrire a tali utenti e consumatori la possibilità di potersi avvalere di un’apposita organizzazione di fattori e mezzi per la tutela del proprio interesse individuale omogeneo, uti cives. Ciò non significa che l’organismo associativo sia un titolare unitario del medesimo interesse ma solo un “ rappresentante unitario”, centro unico di imputazione per tutti i titolari di interessi individuali che vi sono associati con la possibilità per questi di usare le economia di scala, massimizzando l’opportunità di concorrere al perseguimento dell’efficienza standard o dell’obiettivo comune ai due decreti delegati attuativi della delega dell’articolo 4 L 15\2009. L’adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza 6\2020, in funzione nomofilattica ha enunciato il principio per cui “ gli enti associativi esponenziali, iscritti nell’elenco di associazioni rappresentative di utenti o consumatori o in possesso dei requisiti individuati dalla giurisprudenza, sono legittimati ad esperire azioni a tutela di interessi legittimi collettivi di determinate comunità o categorie e, in particolare, l’azione generale di annullamento in sede di giurisdizione amministrativa di legittimità, indipendentemente da un’espressa previsione di legge in questo senso”. L’indicazione della Plenaria può essere usata come riferimento nella definizione di “ organismi legittimati ad usare azioni a tutela di interessi legittimi collettivi di determinate comunità o categorie”. Nel rapporto processuale ciò che conta è la rappresentanza processuale in giudizio di tutti i partecipanti all’associazione che fanno anche parte del gruppo al quale si indirizza il servizio : ciò permette di allargare una tale possibilità ad organismi non costituiti ad hoc purchè siano riconoscibili in ambito associativo come elementi appartenenti a un determinato gruppo destinatario della funzione e del servizio del quale si tratta e che, fra gli scopi dell’organismo associativo, vi è quello della rappresentanza in giudizio di questi, con riferimento agli interessi individuale titolarità. La rilevanza del rapporto associativo, per la legittimazione processuale attiva nel processo per l’efficienza, non trova copertura costituzionale se non nell’articolo 18 Cost e nel principio generale di solidarietà ex art 2 Cost. Legittimazione passiva all’azione Anche i criteri fondamentali per individuare il soggetto passivo del rapporto processuale, destinato a instaurarsi per effetti dell’esercizio dell’azione hanno sede nell’articolo 1 comma 5. Non riguarda i criteri di individuazione della legittimazione passiva del comma 1 ter, ma la delimitazione degli ambiti ordinamentali ai quali non può trovare applicazione la funzione di controllo esterno dell’efficienza prevista nel dlgs 198\2009: in base al comma 1 ter, il decreto non si applica alle autorità amministrative indipendenti, organi giurisdizionali, assemblee legislative e Presidenza del Consiglio dei Ministri. Il comma 2 è dedicato alla legittimazione passiva dove è fissato l’obbligo di dare “ immediatamente notizia” del ricorso sul sito dell’amministrazione o del concessionario e di farne comunicazione al Ministro della Pubblica amministrazione e innovazione. Dato che a notizia sul sito istituzionale non è nella disponibilità del ricorrente, sembra che il relativo onere non incomba ne su costui ne sulla Segreteria dell’organo giurisdizionale destinato a prendere cognizione della causa, che verrà a conoscenza del ricorso solo con l’iscrizione al ruolo. Si pone il problema di chi possa essere il destinatario della notificazione. Legittimi e immediati contraddittori sono gli enti i cui organi sono competenti a esercitare le funzioni o a gestire servizi cui sono riferite le violazioni e le omissioni, a questi enti il ricorso va notificato: • Gli enti intimati informano immediatamente della proposizione del ricorso il dirigente responsabile di ciascun ufficio coinvolto. • Questo può intervenire nel giudizio; • Il giudice nella prima udienza, se ritiene che le violazioni o le omissioni siano attribuibili ad enti ulteriori o diversi da quelli intimati, ordina l’integrazione del contraddittorio. La regola principale che se ne può desumere è che la legittimazione passiva si determina in base alla competenza a esercitare funzioni o a gestire servizi cui sono riferite le violazioni o omissioni del cui accertamento dichiarativo si tratta, senza escludere che rispetto a un determinato ricorso, i contraddittori necessari siano più di uno qualora omissioni, violazioni e inadempimenti nel ricorso siano attribuibili ad amministrazioni o gestioni differenti. Dalla lettura dell’articolo 3 del decreto si afferma che il destinatario della diffida è unitario e che, mentre questa va notificata all’organo di vertice dell’amministrazione cui spetterà indicare al privato se la violazione, omissione o il mancato adempimento siano imputabili ad altre amministrazioni; viceversa il ricorso può avere più di un legittimo e necessario contraddittore. Il legislatore sembra aver voluto evitare che una tale ipotesi possa determinare una pregiudiziale di rito irrisolvibile e ha previsto che sia lo stesso giudice di sua iniziativa a ordinare l’integrazione del contraddittorio. In riferimento al comma 3, non sembra che possano configurarsi controinteressati ai quali il ricorso debba essere notificato. Gli enti intimati informano immediatamente della proposizione del ricorso il dirigente responsabile di ciascun ufficio coinvolto, che può intervenire in giudizio: la norma aumenta la funzione di deterrenza di tale istituto. La previsione sembra che riguardi solo i dirigenti degli uffici dell’ente pubblico e non anche soggetti titolari di autonoma rilevanza, tenendo presente che la concessione dovrebbe avere solo un centro di imputazione del rapporto con la pubblica amministrazione e anche nei confronti degli utenti consumatori legittimati al ricorso. Petitum, causa petendi e oggetto del giudizio Petitum, causa petendi e oggetto del giudizio prevedono un’azione singolare prevista da dlgs 198\2009: • La causa petendi consiste in una disfunzione relativa a una funzione o a un servizio pubblico programmato per soddisfare determinati interessi pubblici riferiti a una collettività nel cui ambito il soggetto assume qualità di utente e assiste a una relazione di causalità rispetto a una o più condotte omissive o commissive. • L’oggetto del giudizio si articola: • Accertamento della sussistenza di una di tali evenienze: - Mancata emanazione di atti amministrativi generali obbligatori e non aventi contenuto normativo da emanarsi obbligatoriamente entro e non oltre un termine fissato dalla legge o regolamento; - Violazione obblighi contenuti nelle carte dei servizi; - Violazione di standard qualitativi ed economici stabiliti, per i concessionari di servizi pubblici, delle autorità preposte alla regolazione e al controllo del settore e per le pubbliche amministrazioni, definiti in conformità dalle disposizioni in materia di performance. • Esistenza di un nesso di causalità fra evenienza e disfunzione. • Il petitum non consiste nella domanda di accertamento meramente dichiarativa dell’esistenza di una specifica condotta commissiva o omissiva, essendo incluso l’accertamento dell’obbligo di porvi rimedio, come è evidente dall’assoggettamento della relativa pronuncia giurisdizionale al limite delle risorse strumentali, finanziarie e umane assegnate in via ordinaria e senza maggiori oneri per la finanza pubblica, tant’è che in numerose sentenze l’espressione verbale maggiormente operata è la condanna. La sentenza di accoglimento La sentenza di accoglimento dell’azione prevista dall’articolo 4 dlgs 198\2009 accerta la violazione, omissione o inadempimento ordinando alla pubblica amministrazione e al concessionario di provi rimedio entro un termine nei limiti delle risorse strumentali, finanziarie ed umane assegnate in via ordinaria e senza maggiori oneri per la finanza pubblica. La definizione si colloca all’interno di un articolo che indica modalità di trasmissioni a fini notiziali della sentenza che definisce il giudizio: • Nel articolo 4 comma 2, indipendentemente dall’esito di rito o di merito, accoglimento o rigetto: assolve una funzione meramente notiziale poiché si tratta di una sentenza di accoglimento. • Nei commi 3 e 4 solo della sentenza di accoglimento nel merito, una volta passata in giudicato per finalità che eccedono quella notiziale: la comunicazione della sentenza dopo il passaggio in Amministrazioni pubbliche e sono stati introdotti strumenti tecnici e normativi volti ad evitare aspettative e diritti soggettivi confliggenti con i vincoli finanziari previsti. È stato previsto nell’inserimento della clausola anche nel contenuto di una pronuncia giurisdizionale che, altrimenti, avrebbe rischiato di entrare nei vincoli finanziari dell’amministrazione, anche se non destinata a risolvere i conflitti di natura egoistica, in rapporti con le Amministrazioni pubbliche, a solo a rendere concreto lo straordinario coinvolgimento nel perseguimento della efficienza standard, nell’attuazione di incombenti inerenti a una determinata funzione o servizio pubblico. CAP. VII - L’AZIONE AVVERSO IL SILENZIO E L’AZIONE DI NULLITÀ L’azione avverso il silenzio - il silenzio della P.A. Il silenzio amministrativo è un fatto cui l’ordinamento riconosce determinati effetti differenziati a seconda del contesto nel quale tale fatto viene in rilievo. La riconduzione del silenzio, nell’ambito della teoria generale del diritto, alla categoria del fatto giuridico non influenza la sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo che conosce questione riguardo il mancato esercizio del potere amministrativo riguardanti comportamenti riconducibili anche mediatamente all’esercizio di tale potere, posti in essere da pubbliche amministrazioni. L’inerzia della pubblica amministrazione assume rilenza nell’ambito dei settori della vita economica regolati dalla pubblica amministrazione, cioè in cui è necessaria una preventiva rimozione di un vincolo a una volta già riconosciuta dall’ordinamento (autorizzazione amministrativa) oppure quando l’amministrazione è la fonte originaria o derivata del diritto ( concessione amministrativa). Il silenzio non trova applicazione nell’ambito dei settori cd “ liberalizzati” in cui opera l’istituto della SCIA e dove viene riconosciuto all’amministrazione l’eventuale esercizio del potere inibitorio di un diritto già perfetto, esercitato in base alla segnalazione certificata intesa come atto del privato. Il silenzio quindi riceve una diversa disciplina giuridica a seconda del procedimento che viene in rilievo. Il collegamento di un effetto all’inerzia deriva dalla maggiore importanza che la materia ha assunto negli ultimi decenni, caratterizzati dalla forte valorizzazione del fattore tempo nell’ambito del procedimento amministrativo: tale tendenza si rinviene nella nuova interpretazione che si vuole dare al buon andamento e imparzialità ex art 97 Cost che imporrebbero il rispetto di un “termine ragionevole” per l’adozione di un provvedimento espresso della pubblica amministrazione. Il silenzio riceve una regolazione nell’ambito della legge generale del provvedimento che ne riconosce: • Valore provvedimentale positivo (cd silenzio assenso); • Valore provvedimentale negativo ( cd silenzio diniego) nei casi espressamente previsti dalla legge. In questi due casi da fatto giuridico il silenzio diventa, mediante una fictio iuris espressamente prevista dalla legge, come fatto giuridico. • Valore negativo, oltre che processuale in caso di silenzio rigetto, ovvero di mancata pronuncia sul ricorso gerarchico decorsi 90 giorni dalla sua presentazione. • L’effetto di silenzio devolutivo, per cui sorge una facoltà per l’amministrazione procedente di richiesta delle valutazioni tecniche a un’amministrazione diversa da quella rimasta inerte. Laddove il silenzio non opera come “significativo” diventa silenzio inadempimento : in questo caso vi è un’inerzia della pubblica amministrazione a cui il legislatore non ha riconosciuto o ha esclusivo un meccanismo di trasmutazione in atto. Il ricorso avverso il silenzio è lo strumento di tutela giurisdizionale che l’ordinamento riconosce rispetto al fatto del silenzio, ovvero all’inerzia della pubblica amministrazione che non assume valore provvedimentale, nell’ambito in cui la PA non ha obbligo di provvedere. La tutela giurisdizionale avverso il silenzio: evoluzione normativa e giurisprudenziale Prima dell’intervento della legge 205\2000 vi era una lacuna normativa in materia di tutela giurisdizionale contro il silenzio inadempimento della pubblica amministrazione. La delineazione di un rimedio di matrice pretoria contro l’inerzia era stata l’occasione per meglio comprendere quale fosse il reale oggetto del giudizio amministrativo contro il silenzio: se si trattasse, cioè di un giudizio di mero accertamento dell’illegittimo contegno della PA o, piuttosto, se un tale giudizio fosse idoneo ad accertare direttamente la fondatezza della pretesa sostanziale del ricorrente, non riscontrata dall’amministrazione con conseguente condanna di questa a provvedere in senso favorevole all’interessato. La giurisprudenza ha affermato che solo in caso di atti amministrativi vincolati, il giudice può condannare l’amministrazione a provvedere in senso favorevole al ricorrente, dopo aver accertato l’illegittimità del silenzio riservato e aver riconosciuto l’obbligo di provvedere con una pronuncia di ottemperanza. Per quanto riguarda gli atti discrezionali, l’orientamento prevalente evidenziava che il giudice dovesse limitarsi ad accertare l’illegittimità dell’inerzia dell’amministrazione: la sopravvenienza di un provvedimento espresso, anche se non satisfattivo per il ricorrente, comportava l’improcedibilità per difetto d’interesse del ricorso, essendo venuto meno il silenzio illegittimo dell’amministrazione, il cui accertamento era l’unico oggetto del giudizio . Tale impostazione, rimane attuale anche dopo la riforma del 2000 che, a livello processuale, ha disciplinato con rito speciale e abbreviato il giudizio avverso il silenzio dell’amministrazione, demandando la decisione del ricorso in camera di consiglio con sentenza motivata. L’attuale disciplina: tra condanna generica e adempimento Gli artt. 31 e 117 cpa, disciplinano l’azione avverso il silenzio inadempimento della pubblica amministrazione, prima dal punto di vista dell’amministrazione e rispetto al rito applicabile. L’azione avverso il silenzio si compone di un pregiudiziale accertamento e di una condanna generica dell’amministrazione convenuta: una volta accertata l’illegittimità dell’inerzia della pa, il giudice la condanna a provvedere. Nei casi in cui l’attività amministrativa è vincolata, l’azione avverso il silenzio si caratterizza come ipotesi tipica di azione di adempimento, presente nel c.p.a. La situazione giuridica soggettiva azionata dal privato è quella dell’interesse legittimo: il silenzio inadempimento costudisce una violazione del dovere dell’amministrazione di concludere i procedimenti con provvedimenti espressi: questa specificazione sembra escludere l’uso dell’azione ex art 117 cpa per la tutela dei diritti soggettivi eventualmente vantati dal privato e conosciuti dal giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva. L’inerzia tenuta dall’amministrazione rispetto a una pretesa vantata dal privato riconducibile a un diritto soggettivo non è sussumibile nella fattispecie del silenzio inadempimento, riscontrabile solo in presenza di interessi legittimi. Il rimedio giurisdizionale sarà quello del diritto civile per l’adempimento della prestazione patrimoniale (es. art 2932 per l’azione costitutiva; articolo 1218 per l’azione di condanna al risarcimento danno). Va precisato che non è incompatibilità logica tra rito del silenzio inadempimento e giurisdizione esclusiva, ma l’incompatibilità logica vi è tra silenzio inadempimento e pretese patrimoniali relative a diritti soggettivi di credito attribuiti alla giurisdizione esclusiva. La proposizione del ricorso avverso il silenzio dell’amministrazione in materia di diritti soggettiva dovrà essere riqualificato dal giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva, nella corrispondente domanda di condanna o di esatto adempimento dal codice civile, non potendo trovare applicazione l’orientamento giurisprudenziale che ne dichiara l’inammissibilità per difetto di giurisdizione. La disciplina processuale dell’azione avverso il silenzio si caratterizza per una serie di limitazioni, alcune di matrice processuale; altre di derivazione sostanziale: l’articolo 31.2 cpa introduce un presupposto dell’azione, cioè la sua necessaria proposizione in costanza di inadempimento e una decadenza per cui l’azione può essere proposta non oltre 1 anno dalla scadenza del termine di conclusione del procedimento. Il termine di decadenza risponde anche qui alla necessità acceleratoria del contenzioso e di evitare che la pubblica amministrazione inerte sia soggetta ad libitum al rischio di un’azione giurisdizionale. In particolare si è ritenuto che il termine annuale sia di decadenza e non di prescrizione in quanto: • quando il codice ha inteso fare riferimento all’istituto della prescrizione, ha usato formule lessicali chiare; • laddove si reputasse la natura prescrizionale di tale termine, dovrebbe anche ammettersi l’applicazione della generale disciplina sulla sospensione e interruzione della prescrizione, in contrasto con l’articolo 117 cpa che non ammette altre iniziative dell’interessato al di fuori del ricorso ex art 117 cpa aventi finalità interruttive. Se sopravviene un provvedimento positivo per il ricorrente originario, la relativa domanda ex art 31 cpa andrà dichiarata improcedibile per cessata materia del contendere, fatte salve eventuali questioni risarcitorie. Silenzio e risarcimento del danno Ai sensi dell’articolo 2bis della l. 241\1990, le pubbliche amministrazioni e i soggetti di cui all’art. 1, sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento. Tale previsione fonda il diritto al risarcimento del danno maturato dal privato in base all’inerzia o, in caso di provvedimento sopravvenuto, del ritardo dell’agire amministrativo. Se in caso di inadempimento, si è in presenza di un interesse pretensivo del cittadino generalmente soddisfatto con la condanna a provvedere comminata dall’amministrazione; è incontrovertibile che tale tutela specifica possa non essere integralmente satisfattiva. Ciò è confrontato dall’art 30.4 cpa che disciplina le regole dell’azione di condanna al risarcimento del danno da ritardo, che va proposta nel termine di 120 giorni dalla scadenza del termine per provvedere. Si discute se il danno da ritardo sia risarcibile a prescindere dalla spettanza del provvedimento favorevole o se sia necessario fornire la prova della spettanza dell’atto favorevole: si preferisce la soluzione che richiede la prova e ciò di desume da alcuni elementi: • Il riferimento al danno ingiusto usato sia dall’articolo 30.2 cpa sia dell’articolo 2 bis l 241\1990 e sia dall’articolo 2043 cc permette di ricondurre la responsabilità da ritardo nell’ambito della responsabilità civile della pubblica amministrazione con quanto ne consegue in termini di conseguente applicazione dello statuto extracontrattuale della responsabilità; • L’articolo 30.4 cpa fa riferimento alla risarcibilità dell’eventuale danno che il ricorrente comprovi di aver subito, onerando il ricorrente di una prova ulteriore rispetto a quella da sostenere per dimostrare il mero decorso del tempo; • Il fatto che l’articolo 117 cpa permette la possibilità per il giudice di trattare separatamente l’accertamento dell’illegittimità del silenzio e il risarcimento del danno, se per questa domanda è necessario un’ulteriore approfondimento istruttorio. In materia è intervenuta recentemente l’Adunanza Plenaria per cui la responsabilità della pubblica amministrazione per lesione di interessi legittimi che di illegittimità provvedimentale sia da inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento, ha natura da responsabilità da fatto illecito aquiliano e non di responsabilità da inadempimento contrattuale. È necessario fornire la prova della spettanza, cioè la prova del conseguimento del provvedimento finale positivo, cioè la chance di conseguirlo in caso di attività amministrativa discrezionale. La prova da fornire sarà più agevole in caso di attività amministrativa discrezionale: anche in questo caso, la prova da fornire sarà più semplice in caso di attività vincolata. Sarà inoltre più facile offrire la prova se sopravviene il provvedimento amministrativo positivo al ricorrente, sia espressione di attività discrezionale che vincolata: tale sopravvenienza sarà idonea a rendere improcedibile per carenza di interesse l’azione contro il silenzio, ma non già l’azione di condanna per il risarcimento del danno da ritardo. L’azione contro il silenzio e quella per il risarcimento del danno da ritardo possono essere proposte separatamente: ognuna seguirà il proprio rito, salvo il caso di riunione delle cause ex art 70 cpa per connessione soggettiva delle cause( che comporterà un cumulo oggettivo del processo). In caso di riunione o, proposizione contestuale dell’azione, l’articolo 117.6 cpa prevede una soluzione flessibile, a seconda della maggiore o minore complessità della questione risarcitoria: qualora questa sia di pronta soluzione, le 2 domande possono seguire lo stesso rito. Se la domanda risarcitoria non è di pronta soluzione, “ il giudice può definire con rito camerale l’azione contro il silenzio e trattare con il rito ordinario la domanda risarcitoria”. La trattazione della domanda risarcitoria connessa all’azione avverso il silenzio nelle forme del giudizio ordinario è una facoltà discrezionale del giudice: il Collegio pertanto dovrà informare le parti costituite della conversione del rito per la domanda risarcitoria. Dall’atto illecito da cui deriva il risarcimento del danno da ritardo, va distinta l’ipotesi del danno da mero ritardo, che viene considerato dall’ordinamento un atto lecito, da cui deriva un obbligo di indennizzo a favore del privato. Il danno da mero ritardo dipende dal mero, mancato rispetto del termine di conclusione del procedimento amministrativo, senza che sia necessario fornire una prova positiva ne della spettanza né del danno patrimoniale o non concretamente subito. L’indennizzo viene riconosciuto in misura fissa e forfettaria dall’ordinamento per il solo decorso del tempo, a condizione che l’interessato, alla scadenza del termine per provvedere, ha azionato il potere sostitutivo dell’articolo 2 comma 9 bis della legge 241\1990 per richiedere sia l’adozione del provvedimento che la liquidazione dell’indennizzo. Tale composita disciplina, introdotta in via sperimentale per i procedimento di avvio ed esercizio dell’attività di impresa, doveva essere estesa in via generale da un regolamento emanato ai sensi dell’articolo 17.2 della legge 400\1988. Il regolamento non è mai stato adottato: la responsabilità da mero ritardo, pur riconosciuta in astratto, non è suscettibile di concreta liquidazione perché mancano i criteri legislativi di determinazione dell’indennizzo. Azione di nullità Nell’ambito della stessa disposizione normativa che regola l’azione avverso il silenzio, il legislatore ha disciplinato l’azione di nullità. Si tratta, di un’azione di accertamento di introduzione recente: l’evoluzione storico-normativa che ha condotto all’elaborazione di tale azione processuale può essere divisa in 3 fasi: • Nel periodo antecedente il 2005, mancava una disciplina generale dell’atto nullo, sia sul piano sostanziale che su quello processuale, lasciando alcune previsioni normative volte a disciplinare singole ipotesi di atti nulli. • Con la legge 11 febbraio 2005 n 15, il legislatore è intervenuto modificando la legge generale sul procedimento amministrativo mediante l’introduzione dell’articolo 21 septies che consacra la patologia della nullità del provvedimento amministrativo. Tale disposizione individua ipotesi tassative di nullità del provvedimento amministrativo, cioè quella in cui esso manchi degli elementi essenziali ( nullità strutturale) sia caratterizzato dalla cd “carenza di potere in astratto” ( cioè viziato da difetto assoluto di attribuzione) sia adottato in violazione o elusione del giudicato e inoltre gli altri casi previsti dalla legge ( cd nullità testuale). A differenza del Codice Civile, dove la nullità è il vizio tipico dei negozi giuridici, il legislatore ha rinunciato a prevedere un’ipotesi di nullità virtuale, cioè derivante dalla violazione di norme imperative, sul rilievo secondo cui le norme riguardanti l’azione amministrativa, in considerazione del loro carattere pubblicistico, sono sempre norme imperative e indisponibili per l’amministrazione, così che la loro eventuale violazione rende il provvedimento amministrativo annullabile per violazione di legge. • Il legislatore è rimasto inerte fino al 2010. L’articolo 21 septies della legge 241\1990 non ha introdotto alcuna disciplina generale dell’azione di nullità contro il provvedimento nullo. La riluttanza del legislatore alla previsione di una tale azione trae origine dall’ormai superata concezione secondo cui il privato, di fronte tale rimedio giudiziale, sarebbe privato dell’interesse ad agire. Si sosteneva che non potesse esservi alcun interesse alla rimozione di un provvedimento che fosse improduttivo di effetti ex tunc. Tale considerazione, salvo voler sovrapporre i concetti di atto nullo e inesistente, non risulta condivisibile ed è stata sconfessata dalla giurisprudenza e in buona parte della dottrina. A differenza del provvedimento inesistente, quello nullo è rilevante e, se non viene rimosso, è in grado di essere eseguito o di costituire il presupposto di altre fattispecie giuridiche che lo assorbono e se ne servono per produrre effetti giuridici indiretti. Esso è idoneo a ingenerare un affidamento incolpevole di terzi in base alla sua validità e può diventare un atto presupposto di ulteriori atti ad esso consequenziali. Il provvedimento amministrativo, anche se nullo, conserva una propria “ efficacia interinale” idonea a conferirgli il carattere di imperatività: è anche per tale motivo che il legislatore, già nel testo provvisorio del Codice del processo amministrativo aveva previsto una generale azione di accertamento, stabilendo che chi ha interesse può “ chiedere l’accertamento dell’esistenza o inesistenza del rapporto giuridico contestato con l’adozione delle consequenziali pronunce dichiarative”. Il successivo comma 1 disponeva che può essere chiesto l’accertamento della nullità di un provvedimento amministrativo: l’azione di nullità diventava un’azione di accertamento tipica, affiancata all’ammissibilità dell’azione di accertamento atipica. Si riteneva che la presenza di un soggetto qualificato, come la pubblica amministrazione, rendesse superflua la devoluzione del potere suddetto all’organo giurisdizionale, in considerazione della possibilità che la soluzione del conflitto potesse essere affidata direttamente all’amministrazione, titolare del potere esercitato, in relazione al quale il sindacato del giudice avrebbe realizzato un’illegittima recisione del principio di separazione dei poteri. Tale interpretazione è stata osteggiata dalla giurisprudenza, che, prima dell’entrata in vigore del codice del processo Amministrativo, aveva evidenziato la possibilità di introdurre, nel sistema processuale amministrativo, un’azione di accertamento volta alla tutela degli interessi legittimi nei casi in cui, mancando il provvedimento da impugnare, una simile azione risulti necessaria per la soddisfazione concreta della pretesa sostanziale del ricorrente. L’azione di nullità è stata codificata con il dlgs 104\2010: l’eliminazione di una previsione autonoma dell’azione di accertamento ha indotto il legislatore a collocare l’azione di nullità principio previsto nell’articolo 31 cpa che è presenta alcune incertezze. La parte resistente del giudizio nel quale viene impugnato un provvedimento amministrativo è l’autorità che lo ha emesso la quale non ha alcun interesse ad eccepirne la nullità, soprattutto in considerazione dei poteri di autotutela attribuiti dalla legge, che le permetterebbero di rimuoverlo in un momento anteriore rispetto a quello del giudizio. La giurisprudenza ha precisato che tale scelta del legislatore deriva dall’applicazione dell’articolo 1442.4 che persegue una ratio legis analoga, cioè quella di impedire che, trascorso il termine decadenziale, rimane la possibilità di azionare pretese in contrasto con l’ordinamento giuridico. La dottrina si è interrogata sull’estensione interpretativa da attribuire al riferimento testuale “ parte resistente”; vi sono due orientamenti: • Il primo sostiene che il legislatore abbia inteso ricomprendere in questa categoria anche i controinteressati. • Altra parte della dottrina invece, richiamando l’articolo 27 cpa, distingue l’amministrazione resistente dai controinteressati, sostenendo che la portata interpretativa del testo non è così ampia da includere anche i controinteressati, che sarebbero solo soggetti al termine decadenziale di 180 giorni, sia pure con le precisazioni del dies a quo. L’articolo 31 cpa dispone che la nullità dell’atto può essere sempre rilevata d’ufficio dal giudice. Tale potere ha dato luogo ad alcune questioni : la dottrina si è infatti domandata se e in che termini tale potere sia compatibile con il principio della domanda ex art 99 cpc e con quella della corrispondenza tra chiesto e pronunciato dell’articolo 112 cpc alla cui applicazione si perviene mediante l’articolo 39 cpa che disciplina il rinvio esterno. Alcune opinioni hanno evidenziato come la rilevabilità d’ufficio del giudice amministrativo si inserisce nel solco tracciato dalla Corte di Cassazione in materia di rilevabilità officiosa del giudice ordinario di nullità contrattuale: in particolare, un orientamento risalente affermava che il potere del giudice di rilevare la nullità potesse essere esercitata solo in malam parte, cioè al fine di rigettare la domanda dell’attore che fondasse la propria pretesa sul contratto di cui chiedeva l’esecuzione. Una parte della dottrina ha rilevato che tale principio si sarebbe adattato male ad una giurisdizione di legittimità alla quale di regola si agisce per un vizio del provvedimento che non è sempre agevole ricondurre all’annullabilità piuttosto che alla nullità. Le interpretazioni sembrano superate in base ai recenti orientamenti di Cassazione che hanno affermato la rilevabilità d’ufficio della nullità, a prescindere dall’azione fatta valere in giudizio, sostenendo che ogni ipotesi di limitazione posta alla rilevabilità d’ufficio della nullità deve essere eliminata dall’attuale sistema processuale. Tale conclusione è giustificata dal fatto che la nullità identifica sempre un vizio forte, la cui rilevazione è necessaria laddove si vuole ripristinare la legalità violata. In argomento, il giudice civile, in materia contrattuale ha il potere di rilevare in base ai fatti che emergono ex actis, ogni forma di nullità non soggetta a regime speciale e, una volta provocato il contraddittorio sulla questione, deve rigettare ogni domanda diversa che sottende la forza del contratto stipulato tra le parti, considerando l’accertamento incindenter tantum della nullità, senza conferire forza di giudicato. Diversamente, se la nullità, a seguito di un rilievo officioso del giudice e instaurato il contraddittorio tra le parti, è stata domandata espressamente dall’attore, questo dovrà emettere una sentenza dichiarativa di nullità che avrà forza di giudicato tra le parti. Una parte della dottrina ha evidenziato che, dovendo tale principio civilistico trovare applicazione in sede di processo amministrativo, il regime applicabile dovesse essere quello previsto dall’articolo 73.3 cpa: tale disposizione prevede che, se il giudice ritiene di porre a fondamento della sua decisione una questione rilevata d’ufficio, dovrà indicarla in udienza ed emettere ordinanza con la quale assegnerà alle parti un termine non superiore a 30 giorni per il deposito delle memorie. Secondo tale orientamento, tale previsione consente di garantire l’osservanza del contraddittorio ex articolo 111 Cost e, in considerazione della particolarità del processo amministrativo, convertire in un momento successivo il rito originario. In base a quanto previsto e tenuto conto del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, il giudice amministrativo potrà dichiarare d’ufficio la nullità degli atti amministrativi solo laddove tale dichiarazione risulti funzionale alla pronuncia sulla domanda introdotta in giudizio. Il Consiglio di Stato si è espresso in più occasioni sostenendo l’obbligatorietà per il giudice amministrativo di procedere alla rilevazione d’ufficio del vizio della nullità, considerato che, come ogni altra rilevabilità ope iudicis, tale attività è per l’organo giudicante un potere- dovere, il cui esercizio non è mai facoltativo, considerando il giudice come un garante imparziale dell’esatta applicazione delle regole processuali che la legge gli ha assegnato. Occorre infine dare atto che il tenore dell’articolo 31.4 cpa consente di escludere che il giudice possa rilevare d’ufficio la nullità dell’atto emesso in violazione o elusione del giudicato: tale previsione prescrive che le disposizioni del comma 4 non si applicano alle nullità di cui all’articolo 114.4. la nullità del provvedimento reso dall’amministrazione in violazione o elusione del giudicato potrà essere sindacata dinnanzi al giudice dell’ottemperanza. L’azione di nullità e giurisdizione Per quanto riguarda l’individuazione della giurisdizione davanti al quale l’azione di nullità dev’essere promossa, l’opinione prevalente ritiene che possa essere basato sull’ordinario criterio di riparto, cioè quello della causa petendi ( fondato sul rapporto interesse legittimo-diritto soggettivo). Alla base della giurisdizione c’è la situazione soggettiva fatta valere in giudizio che è volta a negare l’assunto secondo cui esisterebbe una sorta di giudice naturale della nullità: egli conoscerà la nullità dei provvedimenti lesivi di interessi legittimi, mentre il giudice ordinario conoscerà la nullità che colpisce i provvedimenti che arrecano pregiudizio ai diritti soggettivi. Tale affermazione va precisata nel senso che il ricorrente dovrà adire il giudice amministrativo nei casi dove è titolare di una posizione di interesse legittimo pretensivo leso da un provvedimento a contenuto negativo. Diversamente, sussisterà quando la giurisdizione del giudice ordinario, qualora vi siano interessi legittimi oppositivi incisi da atto nullo; fermo restando che in questi casi verrà in rilievo un atto inidoneo a produrre l’effetto degradatorio sul diritto soggettivo. Risulta minoritaria l’opinione secondo cui la previsione della giurisdizione esclusiva per i provvedimenti affetti da nullità per violazione o elusione di giudicato prevederebbe l’ulteriore regola, di matrice deduttiva, secondo la quale la cognizione degli atti nulli spetterebbe al giudice ordinario. CAP. VIII - IL RICORSO DAVANTI IL GIUDICE AMMINISTRATIVO Introduzione Il libro II del Codice prevede una disciplina organica del processo amministrativo di primo grado e di carattere generale in base al rinvio interno previsto dall’articolo 38, secondo cui il processo amministrativo si svolge secondo le disposizioni del Libro II che, se non espressamente derogate, si applicano anche alle impugnazioni e ai riti speciali. La scelta è stata quella di individuare nel ricorso introduttivo, nel ricorso incidentale e nei motivi aggiunti, gli strumenti medianti i quali introdurre le azioni previsti e disciplinate nel Codice: in questi atti possono essere cumulate più domande ai sensi dell’articolo 32 cpa e si parla di “ricorso cumulativo”, subordinato dalla giurisprudenza amministrativa alla connessione fra domande che riguardano interessi sostanziali tra loro compatibili e riconducibili al medesimo rapporto giuridico. Si ha cumulo di azioni quando la domanda giudiziale viene proposta da più soggetti mediante un unico atto introduttivo del giudizio : si usa l’espressione “ ricorso collettivo”: la cui ammissibilità è subordinata all’identità di posizione dei ricorrenti. Diversamente, petitum e causa petendi saranno comuni a tutti loro, non solo per ragioni di mera economia processuale, quanto a condizioni di ammissibilità e ricevibilità rimangono autonome: ne deriva che il ricorso potrà essere dichiarato inammissibile o tardivo per alcuni ricorrenti e esaminato nel merito per altri. Allo stesso modo, ciascun soggetto sarà legittimato a disporre della propria azione, avendo facoltà di proseguirla, rinunciarvi, ecc, indipendentemente dalla volontà degli altri co-ricorrenti. Nel processo amministrativo, la domanda introduttiva del giudizio assume la forma del ricorso mediante il quale la parte lesa dall’esercizio del potere pubblico si rivolge al plesso giurisdizionale competente per ottenere tutela nei confronti del provvedimento, atto, accordo o comportamento riconducibile, anche mediatamente, all’esercizio di tale potere. Con l’espressione “ ricorso giurisdizionale” si intendono due diverse nozioni: • La prima, di tipo formale, indica l’atto introduttivo del processo amministrativo; • La seconda, di tipo sostanziale, si riferisce al diritto al ricorso previsto dagli articoli 24 e 113 Cost che attribuiscono il potere di azione per la tutela di diritti soggettivi e interessi legittimi. Nel processo amministrativo valgono i principi della domanda e impulso di parte, con la conseguenza che il giudice, nel decidere la controversia sottoposta al suo esame, dovrà rispettare le allegazioni delle parti. In ipotesi, se il giudizio amministrativo venisse introdotto mediante atto di citazione, in base al principio di conversione degli atti nulli che hanno raggiunto il loro scopo, non si verificherebbe alcuna nullità o preclusione ove il contenuto di tale atto rispettasse i requisiti minimi di forma e sostanza del ricorso e inoltre la disciplina dei termini decadenziali delinata dalla normativa L’articolo 136 cpa, al comma 1, dispone che i difensori indicano nel ricorso o nel primo atto difensivo un recapito di fax che può essere diverso da quello del domiciliatario: la comunicazione a mezzo fax è eseguita solo ove sia possibile effettuare la comunicazione mediante PEC risultante dai pubblici elenchi, oppure per mancato funzionamento del sistema informatico della giustizia amministrativa. E’ onere dei difensori comunicare alla segreteria e alle parti costituite ogni variazione del recapito di fax o di indirizzo di posta elettronica certificata, mentre nei casi di difesa congiunta, per l’efficacia delle comunicazioni di segreteria, è sufficiente che vada a buon fine una sola delle comunicazioni effettuate a ciascun avvocato componente il collegio difensivo. Indicazione dell’oggetto della domanda Tale indicazione può anche avvenire in via indiretta, cioè, emergere dal contenuto del ricorso, dato che l’impugnazione di un provvedimento non pone l’adozione di formule sacramentali. Diversamente, l’identificazione degli atti impugnati dev’essere operata non con riferimento all’epigrafe, ma in relazione all’effettiva volontà del ricorrente desumibile dal ricorso nel suo insieme, dai motivi prospettati e da ogni altro elemento utile. Si colloca con l’indirizzo secondo cui l’oggetto della domanda va ricercato indagando sull’effettiva natura della controversia in base alle caratteristiche del rapporto particolare fatto valere in giudizio. Esposizione sommaria dei fatti L’articolo 40 comma 1 lett c cpa si riferisce alla narrazione chiara e sintetica ma completa. Un’eventuale carenza sotto il profilo della esposizione dei fatti non comporta la nullità del ricorso. Tuttavia, poiché essa svolge un ruolo decisivo ai fini della delimitazione della questione sottoposta all’attenzione del collegio investito della controversia, la giurisprudenza ha dichiarato inammissibile un ricorso che non aveva gli elementi costitutivi della fattispecie: ciò significa che l’esposizione dei fatti va adeguata al motivo. Ad esempio, la denuncia di un vizio di illegittimità per eccesso di potere richiede una narrativa più articolata di quella necessaria per evidenziare un’ipotesi di violazione di legge. Non si può fare a meno di osservare che l’onere sanzionato dalla norma assume maggiore importanza in base alla codificazione del principio di non contestazione. Ai sensi dell’articolo 64.2 cpa, salvo i casi previsti dalla legge, il giudice amministrativo deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parte e inoltre i fatti non specificatamente contestati dalle parti. Dall’esposizione dei fatti devono emergere il collegamento tra ricorrente e situazione soggettiva dedotta in giudizio, il contesto in cui si è venuta a determinare la pretesa di colui che attiva il giudizio, una narrazione sufficiente della realtà funzionale alla successiva esposizione delle ragioni di diritto. Motivi specifici su cui si fonda la domanda Con l’indicazione dei motivi del ricorso, i fatti sono ricondotti a una fattispecie legale che si ritiene violata. Il ricorrente in questo modo rappresenta al giudice le ragioni di diritto poteste a fondamento della propria legittima spettanza, cioè individua la causa petendi intesa come ragione o titolo posto a fondamento della domanda: si tratta del momento più importante per la definizione del thema decidendum, perché è sui motivi di ricorso che il giudice è chiamato a pronunciarsi. La giurisprudenza amministrativa ha avuto modo di chiarire che i motivi del ricorso non possono in ogni caso essere dedotti senza specificazione dell’errore in cui sarebbe incorsa l’amministrazione né possono essere dedotti in forma ipotetica in modo da prospettare un vizio in base a “mere supposizioni”, salvo che ciò dipende dalla mancata conoscenza del testo del provvedimento impugnato “al buio” (le censure diverrebbero inammissibile se, a seguito del necessario deposito della documentazione amministrativa, l’interessato non provvedesse con motivi aggiunti ad attribuire certezza alle questioni prefigurate in via ipotetica). In questo contesto, si ricorda l’affermazione giurisprudenziale secondo cui le censure non possono avere carattere esplorativo in attesa dell’acquisizione dell’ulteriore documentazione da cui eventualmente dedurre elementi per la specificazione dei vizi, così l’analiticità delle contestazioni è indizio dell’attendibilità della ricostruzione che sorregge la formulazione delle lamentele di diritto. Si ricorda inoltre che, in presenza di motivi generici, non può essere invocato il principio “ iura novit curia” perché la conoscenza che il giudice ha delle norme dell’ordinamento non esonera il ricorrente dallo specificare adeguatamente le sue richieste. La genericità dei motivi, impedendo un’adeguata articolazione delle difese altrui, darebbe luogo a una violazione del diritto al contraddittorio. Tale genericità risulterebbe inconciliabile con la regola della corrispondenza tra chiesto e pronunciato in cui si sostanzia il potere delle parti ( vi sarebbe il vizio di ultrapetizione quando il giudice riconosce alla parte un’utilitas non richiesta, giungendo all’accoglimento del ricorso in base al motivo non prospettato). La prassi dimostra che le dichiarazioni di inammissibilità del ricorso sono limitate ai soli casi di censure non individuabili ai fatti esposti e al contenuto dell’atto, allorquando il giudice non è messo nella condizione di comprendere le richieste avanzate dalla parte (il Consiglio di Stato ha affermato che, per individuare i motivi di ricorso, occorre considerare non solo le censure enunciate, ma anche quelle che possono comunque essere desunte dalla esposizione dei fatti e dal contenuto del ricorso). Allo stesso modo, l’omessa indicazione dei motivi potrebbe causare la nullità del ricorso nei limiti in cui rende incerto l’oggetto della domanda. I principi di chiarezza e coerenza processuale impongono di articolare il ricorso separando il fatto dai motivi: la parte che riguarda i motivi del ricorso, si deve distinguere dalla parte in fatto, perché in caso contrario, potrebbero “emergere motivi di ricorso intrusi“. Si tratta di contestazione puramente casuale all’interno della parte riguardante il “ fatto” inammissibile laddove manchino di coerenza e non consentano al giudice di delimitare la materia del contendere. L’adunanza plenaria del Consiglio di Stato n4\2015, in base al principio della domanda si può ammettere in presenza di un provvedimento illegittimo ( causa petendi) per il quale è stata proposta una domanda demolitoria ( petitum) può non conseguire un effetto distruttivo per valutazione o iniziativa del giudice. Il giudice non “ può modulare” la forma di tutela sostituendola a quella richiesta dalla parte, ma solo determinare la portata dell’annullamento, in base ai motivi sollevati e riscontrati, con formule note alla prassi giurisprudenziale come annullamento parziale “ nella parte in cui prevede o non prevede”. Se la domanda di annullamento, con l’effetto tipico di eliminazione dell’atto impugnato dal mondo giuridico, non dovesse soddisfare l’interesse del ricorrente e anzi dovesse lederlo, la pronuncia sarà di accertamento della sopravvenuta carenza di interesse del ricorrente che aveva proposto la domanda di annullamento. Sulla graduazione dei motivi del ricorso, si è espresso il Consiglio di Stato ad plenaria 5\2015: la gradazione serve a segnalare che l’esame e l’accoglimento di alcuni motivi ha per la parte importanza proprietaria rispetto ai motivi indicati come subordinati o graduati per ultimi di cui si chiede l’esame in caso di rifiuto di quelli prioritari: essa impedisce al giudice di passare all’esame di vizi-motivi subordinati perché tale volizione equivale a una dichiarazione di carenza di interesse alla loro coltivazione dopo che aver accolto una delle preminenti doglianze La graduazione dei motivi o delle domande diventa un limite al dovere del giudice di pronunciare per intero sopra di esse, superando il tradizionale orientamento giurisprudenziale che riconosceva al giudice amministrativo l’individuazione dell’ordine di esame dei motivi dedotti dal ricorrente, in base alla loro consistenza oggettiva. La graduazione dei vizi-motivi richiede una puntuale esternazione da parte di questi, sia per ragioni di certezza dei rapporti sia per evitare che il giudice si sostituisce alle parti nella ricerca di maggiore soddisfacimento dell’interesse concreto perseguito da queste. In mancanza di graduazione operata dalla parte, dato il particolare oggetto del giudizio impugnatorio legato al controllo sull’esercizio della funzione pubblica, il giudice stabilisce l’ordine di trattazione dei motivi in base alla loro consistenza oggettiva. L’adunanza plenaria del Consiglio di Stato 5\2015 ha rilevato come il riconoscimento in capo al giudice amministrativo del potere di decidere l’ordine di esame dei vizi motivi ha favorito la prassi dell’assorbimento dei motivi del ricorso: il giudice sceglie un motivo fondato di ricorso, sulla cui base annulla il provvedimento omettendo di esaminare le altre censure proposte dal ricorrente, le quali sono dichiarate assorbite. La tecnica dell’assorbimento è stata usato in modo da ricondurre in alcuni casi alla pronuncia delle sentenze di annullamento per vizi di mera forma che lasciavano impregiudicate le questioni di ordine sostanziale: • La pretesa del ricorrente, apparentemente soddisfatta dalla sentenza di accoglimento, se l’amministrazione ripeteva l’atto riproducendo i vizi dedotti dal ricorrente con i motivi assorbiti risultava compromessa; • L’amministrazione non aveva certezza riguardo la fondatezza delle censure sostanziali e sulle modalità di un’eventuale esercizio della funzione pubblica. Il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato e il dovere del giudice amministrativo di pronunciarsi su tutta la domanda, unitamente alle esigenze di migliore cura dell’interesse pubblico e legalità, comportano che la tecnica dell’assorbimento dei motivi sia da considerarsi vietata. Indicazione dei mezzi di prova L’indicazione dei mezzi di prova che l’articolo 40 cpa richiede al ricorrente di presentare a sostegno della sua linea difensiva non consente di ritenere né l’esistenza in capo ad esso di un obbligo di In riferimento alla notificazione per mezzo PEC, per il mittente la notificazione si perfeziona al momento in cui è generata l’attestazione di accettazione; così ai fini della decadenza occorre far riferimento a tale momento per verificare un’eventuale tardività. La notificazione dei ricorsi nei confronti dell’amministrazione dello Stato è effettuata in base alle norme per la difesa in giudizio delle stesse: essa andrà effettuata presso l’avvocatura distrettuale dello Stato o, trattandosi di ricorso da proporre davanti al Tar Lazio o di appello al Consiglio di Stato, presso l’avvocatura generale dello stato. La notifica va effettuata all’organo che ha la rappresentanza legale dell’ente e non a quello che ha emesso il provvedimento amministrativo impugnato (ad esempio, poiché si tratta di singola amministrazione statale, il ricorso va notificato all’amministrazione in persona del Ministro pro- tempore e presso la sede legale del comune): tale regola si applica se l’ente non si avvale del patrocinio dell’avvocatura di Stato: in questo caso, il ricorso andrebbe notificato presso la sede dell’avvocatura nel cui distretto ha sede il TAR competente. L’adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 8\2018 ha ritenuto che, in caso di impugnazione di una gara d’appalto svolta in forma aggregata da un soggetto per conto e nell’interesse di altri enti, il ricorso in primo grado va notificato all’amministrazione che ha curato la procedura concorsuale, non richiedendo la notifica alle altre amministrazioni che hanno partecipato al procedimento a titolo diverso. Si è discusso sull’individuazione del dies a quo rilevante ai fini della tempestività del ricorso: Un primo orientamento ha dimostrato di intendere come dies a quo quello di effettiva conoscenza dei contenuti motivazionali del provvedimento, rilevando l’impossibilità di pretendere una doppia impugnazione della parte: • la prima in base alla conoscenza del provvedimento; • la seconda di piena conoscenza della motivazione. Secondo l’indirizzo prevalente, la piena conoscenza si manifesta quando l’interessato ha la percezione dei contenuti essenziali del provvedimento e la conoscenza della sua motivazione potrà essere rilevante per la proposizione dei motivi aggiunti. La giurisprudenza ha avuto modo di evidenziale che il termine per impugnare il provvedimento amministrativo decorre dalla prima conoscenza dell’atto e dei suoi effetti lesivi non assumendo rilevanza, ai fini di differire il dies a quo di decorrenza dalla decorrenza del termine di decadenza, l’erroneo convincimento soggettivo sull’infondatezza della propria pretesa: si deve escludere, fatta eccezione per l’ipotesi di atti plurimi con effetti inscindibili, che il sopravvenuto annullamento giurisdizionale di un atto amministrativo possa giovare ai controinteressati che non hanno tempestivamente proposto il gravame per i quali si è verificata una situazione di inoppugnabilità con esaurimento del relativo rapporto giuridico. I termini per la proposizione del ricorso rimangono sospesi durante il mese di agosto, ad eccezione dei casi di giudizio cautelare e delle ipotesi di giudizio contro gli atti lesivi del diritto del ricorrente a partecipare al procedimento preparatorio per le lezioni comunali, provinciali e regionali e per il rinnovo dei membri del Parlamento europeo spettanti all’Italia. La prova dell’avvenuta conoscenza da parte del ricorrente del provvedimento impugnato incombe su chi eccepisce la tardività del ricorso: al riguardo, nelle ipotesi di errore scusabile il giudice sarebbe legittimato a rimettere in termini la parte, a prescindere da un’apposita domanda di questa. Ai sensi dell’articolo 41.5 cpa il termine per la notifica è aumentato di 30 giorni se le parti o alcune di esse risiedono in altro Stato europeo e di 90 giorni se risiedono in uno Stato fuori d’Europa. L’adunanza Plenaria, in riferimento alla rilevabilità dell’esistenza dei presupposti e delle condizioni per proporre il giudizio di primo grado, si è pronunciata con sentenza 4\2018 escludendo la formazione di un giudicato interno implicito rispetto ai presupposti e alle condizioni del ricorso di primo grado. Al giudice di appello spetta il potere di rilevare la tardiva proposizione del ricorso anche ex officio. Se la notifica del ricorso nei modi ordinari è difficile per il numero delle persone da chiamare in giudizio, il presidente del tribunale può disporre su richiesta di parte che la notificazione venga effettuata per pubblici proclami indicandone le modalità. I vizi del ricorso e della notificazione L’articolo 44 cpa prevede le regole fondamentali in tema di nullità del ricorso e della notificazione. Per la nullità del ricorso, l’articolo 44 individua due ipotesi: • Nullità per mancanza di sottoscrizione del ricorso; • Nullità per incertezza assoluta delle persone o sull’oggetto della domanda. L’articolo 44.2 cpa dispone che, nei casi irregolarità, il collegio può ordinare che il ricorso sia rinnovato entro un termine fissato: dalla norma sembrerebbe desumersi che, ove il vizio si configura in termini di nullità, invece di mera irregolarità dell’atto, non si applicherebbe l’articolo 153 cpc secondo cui la “nullità non può mai essere pronunciata, se l’atto ha raggiunto lo socpo a cui è destinato”. La costituzione degli intimati sana la nullità della notificazione del ricorso, salvo i diritti acquisiti anteriormente alla comparizione. La Corte Costituzionale, con sentenza del 2018 ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo 44 cpa comma 3 nella parte in cui, prevedendo che la costituzione degli intimati sana la nullità della notificazione del ricorso, “fa salvi i diritti acquisiti anteriormente alla comparizione.” Il giudice ha dichiarato fondata la questione di legittimità costituzionale in riferimento all’articolo 76 Cost, con assorbimento delle ulteriori questioni formulate, ritenendo che il legislatore delegato non si è attenuto ai principi e ai criteri direttivi della delega 69\09, fra cui compare la necessaria conformità alla giurisprudenza delle corti superiori e alle norme del cpc espressione dei principi generali. In particolare, la Corte rileva la necessità di un adeguamento rispetto all’articolo 156.3 cpc che, estrinsecazione di un principio generale, prevede la sanatoria ex tunc della nullità degli atti processuali per raggiungere lo scopo. Inoltre, la Corte ha evidenziato il contrasto della norma con la sua precedente giurisprudenza che aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 11 rd 1611\1933 nei limiti in cui escludeva la sanatoria con effetti ex tunc, della nullità della notificazione degli atti introduttivi nonostante la costituzione in giudizio dell’amministrazione statale mediante avvocatura dello Stato. Se invece è nulla la notificazione e il destinatario non si costituisce in giudizio, il giudice, se ritiene che l’esito negativo della notificazione dipenda da causa non imputabile al notificante, fissa al ricorrente un termine perentorio per rinnovarla e la rinnovazione impedisce ogni decadenza. Dalle ipotesi di nullità della notificazione bisogna distinguere quelle di notificazione inesistente, nei casi in cui manchi del tutto o è stata effettuata a soggetto o in un luogo che non ha alcun riferimento con il destinatario necessario della notificazione medesima. Se inesistente, la notificazione non è di regola suscettibile di sanatoria. Deposito del ricorso e costituzione in giudizio del ricorrente Il ricorso e gli altri atti processuali soggetti a preventiva notificazione sono depositati nella segreteria del TAR competente nel termine perentorio di 30 giorni, decorrente dal momento in cui l’ultima notificazione dell’atto si è perfezionato anche per il destinatario. Il deposito avviene con modalità telematiche. Per effetto del deposito del ricorso, previamente notificato, si realizza la costituzione in giudizio del ricorrente, mentre la tardività del deposito sarebbe causa di irricevibilità della domanda. L’insieme delle norme ha superato il dubbio della disciplina precedente che ometteva di individuare in modo chiaro il dies a quo ai fini del deposito del ricorso: l’articolo 21 comma 2 Tar parlava di deposito entro 30 giorni dall’ultima notifica, lasciando aperto il problema se, ai fini del deposito, si dovesse tenere conto della data in cui il ricorso fosse stato portato all’ufficiale giudiziario per l’ultima notifica o della data in cui l’ultima notifica si fosse perfezionata per il destinazione con le ricezione del plico. Il problema si poneva soprattutto per le notifiche mediante posta, potendo intercorrere un lasso di tempo importante fra la data di consegna all’ufficiale giudiziario o all’ufficio postale del plico e data della sua ricezione da parte del destinatario (questa fu la scelta adottata dal Codice che consente al ricorrente di procedere al deposito dell’atto introduttivo del giudizio fin dal momento della sua notificazione, fermo restando l’assolvimento del suo successivo onere di depositare la documentazione comprovante l’avvenuta notificazione del ricorso al destinatario. Si rimarca che, a partire dal 1 luglio 2016, è obbligatoria la sottoscrizione degli atti con firma digitale: gli atti di parte sono nativamente digitali e il loro deposito avviene in base a modalità informatiche che sostituiscono il deposito cartaceo. Tale considerazione risulta confermata dall’articolo 136 cpa in base al quale i difensori, le parti nei casi in cui stiano in giudizio personalmente e gli ausiliari del giudice depositano tutti gli atti e i documenti con modalità telematiche. La costituzione in giudizio delle parti diverse dal ricorrente • Intervento adesivo dipendente: in base al quale un terzo soggetto non sostiene una propria situazione giuridica autonoma in giudizio ma si limita a sostenere le ragioni di una delle parti, affinchè gli effetti riflessi del giudicato si producano anche nei suoi confronti La scienza giuridica ha tradizionalmente escluso, all’infuori delle controversie sui diritti soggettivi, l’intervento principale (data l’impossibilità di immaginare la posizione di un terzo i cui interessi si pongono in contrasto sia con quelli del ricorrente principale che con quelli della pubblica amministrazione o del controinteressato) quanto quello litisconsortile (per il timore che l’intervento potesse offrire al controinteressato l'occasione per eludere la perentorietà del termine entro cui proporre ricorso). La giurisprudenza ha ammesso l’intervento del soggetto cointeressato nei soli casi in cui egli fosse nei termini per agire in via principale e a condizione che l’atto di intervento venisse convertito in un autonomo ricorso. L’unica forma di intervento ammessa nel processo amministrativo è quella dell’intervento adesivo dipendente, che prende il nome di intervento ad adiuvandum (quando l’interveniente aderisce alla posizione della parte ricorrente) e di intervento ad opponendum (quando l’interveniente aderisce alla posizione della parte intimata opponendosi alle argomentazioni del ricorrente): • Per L’intervento ad adiuvandum si ricorda l’arresto dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 10\2007 la quale, nell’affermare che il creditore che ha iscritto ipoteca su un immobile oggetto di requisizione in un so da parte dell’amministrazione è legittimato sia a intervenire nel giudizio instaurato dal proprietario del bene per sostenere le sue ragioni contro la requisizione e sia a proporre un ricorso autonomo avverso il medesimo provvedimento, sembra escludere l’alternativa fra intervento in corso di causa e ricorso. • Per l’intervento ad opponendum, si richiama il Consiglio di Stato adunanza plenaria 2\1996 che ha riconosciuto legittimazione attiva in capo al soggetto che interviene in giudizio avverso la sentenza di primo grado a condizione che esso risulti titolare di un’autonoma posizione giuridica e non anche di un semplice interesse di fatto, suscettibile di fondare l’intervento ad opponendum proprio svolto a sostegno dell’Amministrazione resistente in primo grado. Il consiglio di Stato adunanza plenaria 1\2015 ha precisato che l’intervento nel giudizio di appello avverso la sentenza di primo grado che ha accolto il ricorso deve qualificarsi come intervento ad adiuvandum degli originari ricorrenti, per il quale la giurisprudenza richiede la titolarità di una posizione giuridica dipendente da quella dedotta da questi: in questi casi, non basta la semplice titolarità di un mero interesse di fatto, ma occorre essere titolari di una posizione giuridica dipendente rispetto a quella dedotta dagli originari ricorrenti in primo grado. Si osserva che quando l’articolo 28 cpa afferma che possono intervenire in giudizio le parti nei cui confronti la sentenza dev’essere pronunciata senza pregiudizio del loro diritto di difesa, si riferisce all’intervento del controinteressato pretermesso (parte necessaria del processo) il quale è venuto a conoscenza della pendenza del giudizio amministrativo solo in una fase successiva alla relativa instaurazione e all’eventuale integrazione del contraddittorio disposta dal giudice. La regola per cui il ricorso dev’essere notificato ad almeno uno dei controinteressati non ammette interpretazioni estensive, così, se l’atto impugnato sia imputabile a una pluralità di amministrazioni, queste hanno tutte la legittimazione passiva, con la conseguenza che il ricorso andrà loro notificato senza esclusione, a pena di inammissibilità della domanda. L’articolo 28 dispone che “ chiunque non è parte del giudizio e non è decaduto dall’esercizio delle relative azioni, ma vi ha interesse, può intervenire accettando lo stato e il grado in cui il giudizio si trova”: la prima categoria che potrebbe giovarsi di tale intervento volontario è rappresentata dai controinteressati ai quali il ricorso non è stato notificato in origine perché non facilmente individuabili. Inoltre, potrebbe trattarsi dell’intervento di un controinteressato in base a un atto successivo e connesso rispetto a quello inizialmente impugnato ( cd controinteressato successivo): in questi casi l’intervento rispetto all’esigenza di estendere l’ambito degli interessi coinvolti nel processo ed evitare successive opposizioni di terzo. Possono anche intervenire in giudizio i portatori di interessi “ mediati o indiretti”, cioè i soggetti titolari di un rapporto giuridico connesso a quello dedotto in giudizio e i portatori di interessi di fatto purché giuridicamente qualificati, cioè i soggetti legati da un rapporto reale o obbligatorio con una delle parti necessarie. Si considera inoltre il controinteressato, titolare di una situazione tutelabile sia con ricorso autonomo sia con atto di intervento nell’ambito di un rapporto processuale instaurato su iniziativa di un altro soggetto (il controinteressato deve rispettare il termine di decadenza cui è sottoposto il suo diritto di azione). L’articolo 50 cpa prevede che l’intervento è proposto con atto diretto al giudice adito dove si indicano le generalità dell’interveniente; tale atto deve contenere le ragioni su cui si fonda, con produzione dei documenti giustificativi e dev’essere sottoscritto. Va notificato alle altre parti e depositato nel termine di 30 giorni decorrente dal giorno in cui l’ultima notificazione del’atto medesimo si è perfezionata anche per il destinatario. L’articolo 50 cp stabilisce che il deposito dell’atto di intervento è ammesso fino a 30 giorni prima dell’udienza. Intervento per ordine del giudice Il giudice amministrativo, anche su istanza di parte, se reputa opportuno che il processo si svolga nei confronti di un terzo, ne ordina l’intervento: si tratta di un intervento per ordine del giudice che rappresenta la principale innovazione in materia di intervento nel processo amministrativo: tale intervento non solo garantisce un pieno e completo sviluppo del principio del contraddittorio all’interno del processo, ma assicura anche una maggiore stabilità della sentenza. Quando la Corte Costituzionale ha ritenuto ammissibile l’opposizione di terzo anche nel processo amministrativo, ha iniziato a d affermarsi un orientamento vigile sulle esigenze di tutela dei terzi titolari di una situazione che può essere compromessa da una pronuncia giurisdizionale, venendo pian piano ad emergere il convincimento di dover ammettere l’intervento iussi iudicis anche in tale sede processuale. Mentre l’articolo 27.2 cpa riguarda l’integrazione obbligatoria del contraddittorio, su ordine del giudice per mancanza di una delle parti necessarie; l’articolo 28.3 cpa è riconducibile alle previsioni degli articoli 106 e 107 cpc che prevede una disciplina di un potere giudiziale esercitabile in base a valutazioni di opportunità sull’estensione del processo a un terzo soggetto che non è parte necessaria. Le modalità di manifestazione del fenomeno consistono nell’ordine del giudice alla parte di chiamare il terzo in giudizio previa indicazione alla parte degli atti da notificare e del termine entro eseguire la notificazione a pena di improcedibilità del ricorso. Il terzo si costituisce in giudizio in base a quanto previsto dall’articolo 46 cpa. I motivi aggiunti La giurisprudenza amministrativa si è da tempo orientata nel senso di temperare la disciplina dei termini decadenziali entro cui agire in giudizio mediante la disciplina dei termini decadenziali entro cui agire in giudizio mediante il riconoscimento in capo al ricorrente della facoltà di dedurre vizi di legittimità a carico di un provvedimento già impugnato ma conosciuti in pendenza della lite: si tratta dei cd “motivi aggiunti propri” che appaiono collegati al ricorso introduttivo, completando il contenuto censorio e determinando una emendatio libelliche si limita ad arricchire la causa petendi. Tale caratteristica li distingue dai “motivi aggiunti impropri” che comportano una vera e propria mutatio libelli che incidono sul petitum: la legge 205\2000 ha introdotto la legge 1034\1971 in base ai quali tutti i provvedimenti adottati in pendenza di un ricorso fra le stesse parti, ove connessi all’oggetto della domanda iniziale, avrebbero potuti essere impugnati mediante proposizione dei motivi aggiunti per realizzare esigenze di economia processuale e permettere al giudice di decidere la questione in base a una conoscenza più completa dei fatti. L’articolo 43 cpa ha ricondotto le due categorie di motivi aggiunti al trattamento processuale che è quello riguardante l’atto introduttivo del giudizio e ha operato la distinzione fra nuove ragioni a sostegno delle domande già proposte e domande nuove purché connesse a quelle già proposte. Il presupposto necessario ai fini della valida proposizione dei motivi aggiunti continua ad essere rappresentato dall’ignoranza del vizio dell’atto al momento dell’instaurazione del giudizio , sempre che tale ignoranza non sia imputabile al ricorrente e deriva da comportamenti delle controparti o dall’emergere di fatti e circostanze nuove, non conosciute ne conoscibili in un momento anteriore. Da ciò deriva l’irricevibilità del ricorso per motivi aggiunti se la tardiva conoscenza dei nuovi elementi oggettivi è colposa, cioè dovuta alla negligenza della parte che non ha tempestivamente posto tutte le iniziative finalizzate ad acquisire cognizione dei documenti amministrativi rilevanti per il giudizio. Se si optasse per l’ammissibilità dei motivi riguardanti censure che il ricorrente avrebbe dovuto dedurre per il tramite dell’atto introduttivo del giudizio, l’istituto si risolverebbe in una forma elusiva dei termini decadenziali entro cui esperire l’azione. “ Le nuove ragioni a sostegno delle domande già proposte” presentano un nesso di dipendenza con il ricorso introduttivo tale da condividere la sorte anche se si manifestasse un ostacolo di mero rito. “ le domande nuove connesse a quelle già proposte” possiedono i requisiti di forma e di sostanza per essere considerate in modo autonomo e, in base al principio di conservazione degli atti giuridici, sopravviverebbero all’eventuale accertamento di una condizione ostativa alla pronuncia sul merito del ricorso originario. Se la nuova domanda viene introdotta con ricorso separato davanti allo stesso giudice, questo dovrebbe procedere alla riunione dei ricorsi ai sensi dell’articolo 70 del codice: diversamente, se Per quanto riguarda la legittimazione delle parti intimate di attivarsi mediante ricorso incidentale, i dubbi riguardano la posizione della pubblica amministrazione che ha emanato l’atto impugnato in via principale: il riferimento dell’articolo 42 cpa alle parti resistenti è generico e idoneo a riconoscere la legittimazione attiva in capo all’amministrazione che dispone del potere di intervenire in autotutela. Simile riconoscimento rischierebbe di tradursi in una sorta di “abuso di potere” volto a sanare un’inerzia di intervento conforme a parametri legislativi predeterminati. Un’opzione sarebbe quella di riconoscere la legittimazione attiva all’amministrazione che, pur non avendo emanato l’atto impugnato in via principale, è stata coinvolta nel procedimento e mira alla sua conservazione. Altra questione aperta, prima dell’emanazione del codice del processo amministrativo era quella relativa all’individuazione degli atti impugnabili mediante ricorso incidentale: la giurisprudenza aveva inizialmente limitato la possibilità di usare il ricorso incidentale contro il provvedimento impugnato principaliter, salvo riconoscere che mediante tale strumento avrebbero potuto essere impugnati provvedimenti ulteriori e a questo connessi. Per quanto riguarda le regole di procedura del ricorso incidentale, si ricorda: • Il termine di 60 giorni decorre, per le parti resistenti e i controinteressati, dalla ricevuta notificazione del ricorso principale e, per i soggetti intervenuti, dall’effettiva conoscenza della proposizione del ricorso principale. • Il ricorso incidentale, notificato ai sensi dell’articolo 41 cpa, alle controparti personalmente o, se costituite ai sensi dell’articolo 170 cpc. • Il termine del deposito è di 30 giorni, divenuti la regola per tutti gli atti soggetti a preventiva notificazione. • L’equiparazione fra ricorso principale e ricorso incidentale consente in entrambi i casi la proposizione di motivi aggiunti. • Di fronte a un ricorso incidentale, le altre parti possono presentare memorie e produrre documenti nei termini e secondo le modalità dell’articolo 46 cpa. • La competenza del ricorso incidentale spetta al TAR dinnanzi al quale pende il giudizio principale, salvo la domanda introdotta con ricorso incidentale dev’essere devoluta alla competenza del TAR Lazio sede di Roma o alla competenza funzionale di un Tar. • La procura rilasciata per agire e contraddire davanti al giudice si intende conferita anche per proporre ricorso incidentale, salvo che in essa sia diversamente proposto. Rapporto tra ricorso principale e incidentale Il rapporto tra ricorso principale e ricorso incidentale è caratterizzato da oscillazioni giurisprudenziali che hanno coinvolto giurisdizioni superiori. • Consiglio di Stato adunanza plenaria 10 novembre 2008 n 11: l’orientamento che si è affermato ha inteso il rapporto tra ricorso principale e ricorso incidentale in termini di stretta accessorietà del secondo rispetto al primo. La regola dell’esame preventivo del ricorso principale ha incontrato una deroga nei casi di ricorso incidentale finalizzato a paralizzare l’azione principale per ragioni di ordine processuale, quando è stata riconosciuta l’esigenza di dare priorità logica alle questioni relative alla legittimazione o all’interesse a ricorrere in quanto questioni pregiudiziali di rito. Tale ricostruzione aveva assunto aspetti diversi nei casi di pubbliche gare (o concorsi) dove avevano partecipato solo due concorrenti: in diverse pronunce era stato riconosciuto che, qualora la domanda del ricorrente principale avesse mirato ad ottenere la dichiarazione di illegittimità del provvedimento di aggiudicazione, la questione non sarebbe stata tanto quella di stabilire quelle dei due ricorsi andasse esaminato per prima, quanto piuttosto di dare assoluta prevalenza all’interessa alla ripetizione della gara. L’adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha in un primo momento affermato che il giudice, per determinare l’ordine di trattazione del ricorso principale e incidentale, dovrebbe ispirarsi alle esigenze di economia processuale e di logicità e esaminare con priorità il ricorso decisiva per derimere la lite, non esistendo una regola fissa per l’esame delle due impugnazioni : in base a tale ricostruzione, l’esame del ricorso principale avrebbe dovuto essere prioritario qualora avesse comportato l’improcedibilità di quello incidentale; l’esame del ricorso incidentale avrebbe invece dovuto precedere quello del ricorso principale qualora la relativa infondatezza avesse comportato l’esame del ricorso principale. Tuttavia, secondo l’Adunanza, l’applicazione di tale principio si sarebbe dovuta arrestare nelle ipotesi caratterizzate dalla circostanza che i due ricorsi , principale e incidentale, ciascuno dei quali volto a far accertare che la controparte è stata illegittimamente ammessa alla gara, fossero stati usati dalle due uniche imprese ammesse a concorrere. In queste ipotesi, si sarebbe dovuta ripetere la gara per il fatto che un’impresa è titolare di un interesse a ricorrere non solo quando aspira ad ottenere l’aggiudicazione della gara cui ha partecipato, ma anche quando mira all’annullamento di tutti gli atti della gara, affinché questa sia ripetuta previa indizione di un ulteriore bando. Dato che entrambe le imprese sono portatrici dell’interesse all’indizione di un’ulteriore gara, il rispetto dei principi della parità delle parti e di imparzialità determina che le scelte del giudice non possano avere rilievo decisivo all’esito della lite, anche quando riguardano l’ordine di trattazione dei ricorsi. Non si può stabilire che la fondatezza del ricorso incidentale, esaminato prima, precluda l'esame di quello principale o che la fondatezza del ricorso principale, esaminato prima, precluda l’esame di quello principale. La dottrina ha evidenziato svariati profili di criticità di fronte a un simile arresto: in riferimento all’economia processuale, l’ordine di trattazione delle questioni troverebbe la sua disciplina nell’articolo 276 cpc, così che il ricorso incidentale riguardante l’inammissibilità di quello principale dovrebbe essere sempre esaminato in modo prioritario. Criticità sono stata individuate in riferimento al principio della parità delle parti, dato che l’interesse a ricorrere va distinto dalla legittimazione a ricorrere, essendo ad essa logicamente successivo. È risultato problematica la configurabilità di un obbligo in capo alla pubblica amministrazione di ripetere la gara, non potendosi escludere, in caso di annullamento delle due uniche offerte, l’applicazione della disciplina sulle gare andate deserte né che l’amministrazione aggiudicatrice conservi un potere decisorio sul se e come debba avvenire la rinnovazione della gara. Si quindi voluto ridimensionare l’importanza dell’interesse strumentale alla rinnovazione della gara, posto dall’Adunanza plenaria alla base della propria ricostruzione interpretativa: lo stesso Consiglio di Stato aveva avanzato dubbi sull’orientamento dell’Adunanza plenaria con la sentenza 11\2008 quando era stato affermato che il cd “interesse strumentale alla rinnovazione della gara è un interesse al rispetto della legalità”. • Consiglio di Stato adunanza plenaria 7 aprile 2011 n 4: l’adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha rivisitato la propria posizione in occasione della sentenza 4\2011 affermato il principio di diritto in base al quale il ricorso incidentale, volto a contestare la legittimazione del ricorso principale mediante la censura della sua ammissione alla procedura di gara, va sempre esaminato in modo prioritario, quando anche il ricorrente principale deve allegare l’interesse strumentale alla rinnovazione dell’intera procedura: tale priorità logica, secondo l’Adunanza plenaria, sussiste a prescindere dal numero di partecipanti alla gara, dal tipo di censura prospettato con ricorso principale e dalle richieste formulate dall’amministrazione resistente, fermo restando che l’esame prioritario del ricorso principale è ammesso, per ragioni di economia processuale, laddove è evidentemente infondato, inammissibile, irricevibile o improcedibile. Prima di tale arresto, l’Adunanza plenaria era intervenuta sul tema dei rapporti tra ricorso principale e ricorso incidentale con la pronuncia 1\2010 riconoscendo che, laddove il ricorso incidentale avesse avuto riguardo all’offerta tecnica e il ricorso principale su questioni riguardante l’ammissibilità del ricorrente incidentale alla gara, sarebbe stato da esaminare in via proprietaria il ricorso principale, poiché la sua fondatezza sarebbe stata causa di esclusione dell’altra parte dalla gara prima ancora della fase dell’esame delle offerte tecniche. L’Adunanza plenaria, in tale arresto, ha osservato che dev’essere tenuta rigorosamente ferma la distinzione tra la titolarità di una posizione sostanziale differenziata che abilita un determinato soggetto all’esercizio dell’azione (legittimazione al ricorso) e l’utilità dell’accoglimento della domanda di annullamento (interesse al ricorso): la legittimazione al ricorso presuppone il riconoscimento dell’esistenza di una situazione giuridica attiva, protetta dall’ordinamento, riferita a un bene della vita oggetto della funzione svolta dall’amministrazione o da un soggetto equiparato e la mera possibilità a conseguire una utilità pratica, indiretta ed eventuale non integra gli estremi di tale legittimazione. • Consiglio di Stato adunanza plenaria 9\2014 e successiva evoluzione giurisprudenziale: nella pronuncia 9\2014 sono stati recepiti i principi espressi dalla Corte giust. Fastweb che ha escluso la possibilità per il giudice di dichiarare l’inammissibilità del ricorso principale in base a quanto affermato in via incidentale senza occuparsi dei ricorsi, nei casi in cui ci si trova all’interno del medesimo procedimento amministrativo di natura selettiva e siano protagoniste due imprese e il vizio delle offerte è analogo per entrambe (cd simmetria invalidante). La Corte di Cassazione aveva ritenuto non del tutto soddisfacente le conclusioni dell’adunanza plenaria 4\2011 sul rapporto tra ricorso principale e ricorso incidentale può condurre al mantenimento di un provvedimento di aggiudicazione illegittima e a una tutela non soddisfacente del ricorrente principale. La successiva evoluzione giurisprudenziale, preso atto dell’arresto della Corte giust Puligienica (secondo cui l’obbligo del giudice di esaminare entrambi i ricorsi prescinde dal numero di imprese rimaste in gara e dalla natura del vizio), afferma che, davanti alla proposizione di un