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Riassunto del libro, manuale di antropologia culturale e sociale, Sintesi del corso di Antropologia

Riassunto delle 3 parti del libro, più concetti chiave

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

In vendita dal 03/06/2023

luana-maimone94
luana-maimone94 🇮🇹

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Scarica Riassunto del libro, manuale di antropologia culturale e sociale e più Sintesi del corso in PDF di Antropologia solo su Docsity! Antropologia Capitolo 1 1.1 Antropologia definizione L’antropologia appartiene alle scienze sociali, studia forme e significati di vita propria tra i gruppi umani. Questa scienza sociale cerca di comprendere somiglianze e differenze nei modi di vita dei vari gruppi umani, grazie allo studio diretto prolungato e approfondito (etnografia). È una ricerca sociale empirica (fondata sulla ricerca etnografica), comparativa (interessata a cogliere somiglianze e differenze tra gli stili di vita e forme di pensiero), interpretativa (legata alla necessità di tradurre da un contesto linguistico- culturale e sociale a un altro. 1.2 Antropologia culturale L’antropologia culturale è interessata a comprendere nel presente le diversità e i modi di organizzazione sociale e culturale dei gruppi umani. Gli archeologi si occupano di società scomparse, gli antropologi fisici si occupano dell’evolversi della vita sociale umana da forme primitive a civili. Gli antropologi culturali si occupano invece del comune sentire popolare. 1.3 le trappole del primitivismo gli antropologi culturali sono interessati a studiare i diversi modi sociali e culturali di essere donne e uomini nel presente del pianeta; quindi, studiano altri esseri umani a loro contemporanei con cui provano a convivere per periodi piuttosto lunghi. Il sapere prodotto è un sapere scientifico, denso, qualitativo, interessato a fornire letture approfondite dei diversi modi di agire umani, e a produrre una costante critica epistemologica sociale politica del nostro senso comune capitolo 2 2.1 antropologia culturale e sociologia Sociologia e antropologia studiano entrambi la vita sociale e culturale dei gruppi umani, ma con prospettive e metodologie diverse. Gli antropologi si occupano di società lontane storicamente e spazialmente dalla tradizione culturale euro-americana. La sociologia si è da sempre specializzata sull’analisi delle società occidentali. Questa divisione del lavoro ha perso di senso nel corso del tempo. Durkheim definiva i fatti sociali come “cose e rappresentazioni”. È evidente che ogni fenomeno sociale e culturale esiste inevitabilmente, in quanto fenomeno mentale di singoli specifici esseri umani. 2.2 Antropologia culturale e psicologia Gli psicologi basano le proprie osservazioni su campioni d’analisi e contesti sociali, finendo così per dare per presupposta quell’universalità di alcuni meccanismi psichici basilari che dovrebbero essere invece dimostrata. Nonostante ciò, il dialogo è uno degli snodi della moderna scienza sociale. 2.3 antropologia culturale e linguista Altrettanto stretti sono stati i rapporti tra antropologia culturale e linguistica. La lingua è un fatto sociale semantico e regolato con regole in gran parte inconsapevoli. Il modello teorico della linguistica strutturale è stato un punto di riferimento per molte prospettive antropologiche del 900. Claude Levi-Strauss (antropologo francese) mise a punto lo strutturalismo dopo la Seconda guerra mondiale. la lingua è un fondamentale strumento di organizzazione ed espressione della conoscenza che i diversi gruppi umani hanno nel mondo. Gli antropologi che si recano sul campo devono acquisire la lingua delle popolazioni che intendono studiare, in caso contrario difficilmente potrebbero comprendere e tradurre il fulcro di questa struttura. Le categorie linguistiche e le strutture grammaticali di una lingua organizzano e sezionano un determinato universo culturale. Ipotesi conosciuta come “Sapir Whorf” da tempo criticata nella sua espressione più rigida. Gli antropologi si resero conto che apprendere una lingua diversa dalla propria è operazione ben più complessa che possedere grammatica semantica (significato delle parole). Parlare una lingua implica il controllo e la capacità di mettere in atto complesse regole sociali avendo la possibilità di adoperarla in relazione allo status sociale dei parlanti e al contesto d’uso. si è nel tempo sviluppata una prospettiva come etnolinguistica o più propriamente antropologia del linguaggio. 2.4 antropologia culturale e storiografia La ricerca antropologica presenta molte affinità con quella storiografica. Come lo storico, l’antropologo sociale e culturale parte dall’interpretazione densa di specifici contesti socio-culturali, diversamente dallo storico, l’antropologo studia società viventi attraverso il contatto diretto con persone reali che agiscono, donne e uomini con i quali entra in prolungato contatto attraverso la parte etnografica. Come la storiografia, l’antropologia e/o sociale parte necessariamente da un atteggiamento conoscitivo di tipo interpretativo e individualizzante. Ma diversamente dalla storiografia, l’antropologo ha un esigenza generalizzante, intrinseca contesti culturali diversi, interessata anche alla comprensione delle diversità e delle somiglianze tra i modi di agire sociali degli esseri umani. cultura sembra aver perso la propria centralità analitica divenendo un oggetto, concetto da indagare. 4.3 definire cultura e culturale Il concetto di cultura avrebbe finito per prendere il posto nel senso comune del concetto ottocentesco di “razza” diventando uno strumento di esclusione piuttosto che di comprensione reciproca. Di fronte a questa tendenza gli antropologi si interrogano su chi, per quali interessi e attraverso quali strumenti sociali e culturali costruisce entità come le culture. 4.4 dal concetto di razza al concetto di etnia Il concetto di razza inizia ad essere messo in discussione a fine 800 dalla stessa scuola boasiana. Un punto di critica si trova nel volume “la razza. Analisi di un mito” di Ashley Montague. Smonta quel mito della razza che tanta forza aveva nella Germania nazista e nell’Italia fascista. Nei primi anni 60 del XX secolo andavano riformulando la nozione stessa di razza biologica. 2 individui dai tratti morfologici molto diversi potevano condividere molte più parti del proprio patrimonio genetico rispetto a 2 soggetti ritenuti della stessa razza. Questo significa che le razze erano classificazioni usate a supporto di teorie e pratiche discriminatorie ed etnocentriche. La categoria di razza ha perso di rilevanza anche all’interno della sfera pubblica e senso comune, in special modo in quelle nazioni dove era più marcato lo sviluppo delle scienze sociali. A questa categoria si è affiancata quella di etnia e/o gruppo etnico. L’antropologo sociale norvegese, Frederick Barth spostò l’attenzione alla costruzione di differenze culturali internamente ed esternamente dichiarati. Si è assistito al diffondersi dell’uso del concetto di etnia (etnia rom, guerre etniche nei Balcani) una guerra etnica è una guerra che non si combatte per ragioni economiche, politiche, strategiche, coinvolgendo stati nazionali, ma sulla base di motivazioni profonde e in qualche modo primordiali. Gli studi antropologici hanno reagito moltiplicando le letture etnografiche dei processi politici, culturali e sociali che portano alla costruzione di sentimenti di appartenenza etnica all’interno di determinati gruppi umani. Quindi come per la cultura, il concetto di etnia diviene un fenomeno socio-politico da interpretare piuttosto che uno strumento di lettura della realtà. 4.5 il contributo delle scienze sociali Nelle scienze sociali si può sostenere un certo modo di immaginare il mondo come uno spazio occupato da entità socio culturali tra loro in reciproca interazione. Edmund Leach, segnalava come nel nord della Birmania potesse accomunare popolazioni denotate da forme culturali diverse (birmane e cinesi) Leach mostra come potevano apparire e autorappresentarsi in certi momenti come culturalmente birmane e in altri come culturalmente cinesi pur continuando a praticare le stesse regole di comportamento sociale. Frederick Barth spostava gli interessi degli antropologi a quella dei processi sociali. L’antropologo Eric Wolf adoperando una massa enorme di dati ridisegnava la mappa del mondo attraverso l’analisi comparativa strutturale dei processi storici, economici, politici e culturali che hanno portato noi occidentali a costruirla e a farla diventare parte del vissuto di molti esseri umani a partire dal XVI secolo. Capitolo 5 5.1 etnocentrismo Una prospettiva di analisi antropologica dei fatti sociali e culturali implica sempre la necessità di superare e quindi oggettivare criticamente un’attitudine piuttosto comune tra i vari gruppi umani detta etnocentrismo. Consiste nel ritenere i modi di fare e di pensare propri della cultura cui appartenevano come gli unici validi e plausibili attribuendo ad altri modi di fare e di rappresentare il mondo, lontani e diversi dai nostri. L’etnocentrismo è un’attitudine legata al carattere incorporato e abitudinario dei nostri comportamenti sociali e culturali. Lo sguardo antropologico presuppone la capacità di superare e criticare l’etnocentrismo; infatti, l’esperienza di ricerca sul campo è alla base della conoscenza antropologica e si fonda sulla possibilità e necessità di uno spostamento rispetto all’ovvietà del nostro senso comune, dei nostri modi di vedere, praticare la quotidianità 5.2 relativismo culturale L’antropologia culturale è intrinsecamente relativistica. La nozione di relativismo culturale fu formalizzata da Melville Jean Herskovits in un libro del 1949. Qualsiasi comportamento umano prima ancora di essere giudicato e valutato sul piano etnico e normativo deve essere compreso collocandolo all’interno del contesto culturale nel quale interconnettendosi con altre pratiche e sistemi di valore, acquisisce uno specifico senso. Il relativismo culturale cioè prima di giudicare una pratica o credenza diversa da quelle per te ovvie, cerca di comprenderla attraverso un’attenta opera di messa in contesto. Il relativismo presuppone che ogni cultura, società abbia una specificità, presenti una propria organizzazione e coerenza e sia per questo pienamente sensata per chi vivendola la forma. Quindi le analisi degli antropologi sono inevitabilmente contestuali. Ernesto de martino, importante etnologo italiano preferiva parlare di etnocentrismo critico come base della conoscenza antropologica, l’antropologo può e deve aspirare a operare una continua consapevole critica del proprio senso comune. 5.3 l’olismo antropologico Con l’espressione olismo si intendono almeno 2 qualità del ragionamento disciplinare in antropologia. Presuppone il carattere integrato di ogni fatto sociale. Ad esempio una semplice partita di calcio, evento per noi del tutto ovvio e abitudinario, il cui significato è sempre intuitivo, presuppone una complicatissima trama di significati che coinvolge tutti coloro che partecipano all’evento, che nemmeno per noi è facile dipanare con chiara consapevolezza. Seguendo un insieme di fili intrecciati tra loro in una trama, come la dimensione economica, tempo lavoro, spazio, aggressività, competizione, regola, sanzione, emozioni passioni, che si potrà alla fine dopo qualche anno di permanenza per un’antropologa iniziare a comprendere. Quando Mouse parlava di fatti sociali totali faceva riferimento ad una conoscenza totale della società nella quale quella si inserisce. 5.4 metodologia etnografia ed elaborazione ermeneutica Un antropologo non dice mai questa ricerca è finita a partire dalla convinzione di aver capito tutto quello che c’era da capire. Le ricerche ad un certo punto si concludono ma per ragioni diverse (finanziarie, logistiche, esistenziali) le esperienze le conoscenze acquisite nel corso di un’esperienza etnografica si sedimenteranno nella mente e nel corpo dello studioso e restano li a guidarne sguardo e sensibilità in altre eventuali occasioni di ricerca o nella sua personale esistenza quotidiana. Il periodo di ricerca sul campo può oscillare dai 12 ai 24 mesi ed il percorso di rielaborazione dei dati ha durate decennali. a partire dai primi decenni del XX secolo l’antropologo metteva in atto un processo di analisi ermeneutica di significati culturalmente modellati e socialmente praticati nelle concrete e regolate interazioni tra i soggetti umani. Capitolo 6 6. etnografia È il principale metodo di ricerca dell’antropologia culturale, con questo termine si intendono più cose: - l’esperienza di vita prolungata e di solito continuativa (almeno 1 anno) che uno studioso compie in una comunità spesso molto diversa dalla propria con lo scopo di comprenderne organizzazione sociale e cultura. - Una metodologia di ricerca. Fino al 1950 l’antropologia sociale britannica era invece interessata a cogliere le leggi del funzionamento di ogni società umana in modo sincronico Cap 4 la prima definizione antropologica di cultura è fornita da Edward b. Tylor, è quell’insieme complesso che include le conoscenze, credenze, arte morale, diritto costume e qualunque altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo in quanto membro di una società la cultura non è più solo un fatto mentale o un insieme di conoscenze ma comprende abitudini, capacità e pratiche. Nel 1974 Keesing cercando di fare il punto sulle teorie della cultura in antropologia, individua 2 grandi aree di riflessione: la cultura come sistema adattivo e la cultura come sistema di idee Fin dalla seconda metà del 900 il concetto di razza viene decostruito e abbandonato. I genetisti statunitensi dimostrano che 2 individui dai tratti morfologici molto diversi potevano condividere molte più parti del proprio patrimonio genetico rispetto a soggetti ritenuti della stessa razza. Questo significava che le razze morfologiche classiche non erano altro che classificazioni arbitrarie e idealistiche, quasi sempre usate a supporto di teorie e pratiche discriminatorie ed etnocentriche. La nozione di razza viene gradualmente sostituita da quella di etnia che lega la diversità tra i gruppi umani e dimensioni culturali. Anche questa nozione viene gradualmente decostruita a partire degli anni 60, ragione per cui l’etnia ed etnicità divengono fenomeni sociopolitici da interpretare piuttosto che strumenti di lettura della realtà. Cap 5 Per svolgere una corretta analisi antropologica sul campo, è necessario superare la diffusa attitudine all’etnocentrismo che ci porta a considerare la cultura alla quale apparteniamo l’unica naturalmente valida e plausibile. Il relativismo culturale presuppone l’idea che ogni cultura/società presenti una propria organizzazione e una coerenza e sia per questo pienamente sensata per chi vivendola la forma In quanto fondate su un’attitudine relativista le analisi degli antropologi sono inevitabilmente contestuali: i fatti sociali e culturali si interpretano e si comprendono connettendoli ad altri fatti sociali e culturali Nessuno che sia già stato socializzato in una determinata cultura può supporre di osservarne, praticarne, comprenderne un’altra come se la sua mente/corpo fosse una completa tabula rasa. Dal punto di vista epistemologico il relativismo culturale è una propensione, un fine ad un presupposto metodologico e non la rappresentazione di una condizione di fatto, a cui il ricercatore-etnografo non potrà mai totalmente accedere. Oltre ad essere contestualizzata e relativistica, una prospettiva d’analisi antropologica è anche olistica cioè interessata a cogliere il carattere totale e integrato di ogni fatto sociale. Un evento per noi del tutto ovvio come una semplice partita di calcio il cui significato sembra intuitivo, presuppone una complicatissima trama di significati che coinvolge tutti i partecipanti all’evento che nemmeno per noi indigeni è facile dipanare con chiara consapevolezza. La nozione di olismo fa riferimento anche all’idea che un contesto socioculturale possieda un livello di coerenza interna che l’antropologia dovrebbe cogliere ad esplicitare anche la ricerca di sistematicità e coerenze all’interno della totalità socioculturali è stata gradualmente sbandolata dalla ricerca antropologica. A partire dai primi decenni del XX secolo con l’imporsi della metodologia etnografica come fondamento della ricerca, la dimensione interpretativa ha giocato un ruolo chiave nella comprensione antropologica direzionandola verso posizioni che privilegiano letture interpretative piuttosto che esplicative delle pratiche sociali e culturali Cap 6 Le spedizioni scientifiche del XIX e XX secolo segnarono un passaggio da una “antropologia da tavolino” ad un’antropologia fondata sulla ricerca di campo e sul contatto personale e diretto degli studiosi con le popolazioni studiate si introducono così le modalità operative dell’etnografo L’antropologo secondo Malinowski deve essere uno scienziato sociale adeguatamente preparato che si reca presso una determinata popolazione, con l’unico precipuo scopo di comprenderne vita sociale, idee, credenze. Definisce questo stile di ricerca “osservazione partecipante “, che consente all’antropologo di acquisire una conoscenza diretta, intima e approfondita della vita sociale e dell’universo culturale di ogni gruppo umano. L’affermarsi del metodo etnografico così come messo a punto e dichiarato da Malinowski è strettamente connesso con l’imporsi di una concezione olistica della cultura e funzionalista della società La concezione olistica e integrata di cultura e società è legata anche alle forme della scrittura etnografica (etnografia come stile di rappresentazione) In seguito alla svolta letteraria gli antropologi iniziarono a riflettere criticamente sui modi, forme narrative e retoriche attraverso le quali a partire dalla fondazione Malinowskiana, nelle monografie erano state rappresentate le esperienze etnografiche alla base delle interpretazioni scientifiche A partire dalla metà degli anni 80 del 900 si inizia a mettere in discussione anche la figura dell’antropologo e la sua autorità ossia la legittimità stessa del suo parlare/scrivere per gli attori sociali che lo hanno ospitato. L’obiettivo è stato quello di sperimentare forme di rappresentazione in grado di esprimere con minori censure il dialogo che l’etnografo e i suoi ospiti costruirono sul terreno, evitando di ridurlo sempre e necessariamente ad un monologo. Parte seconda Cap 1 Le 3 tradizioni di studio individuate (francese, britannica, statunitense) costruiscono senza alcun dubbio gli assi portanti della disciplina nel corso del tardo 800 e del 900 Cap 2 In antropologia l’evoluzionismo si presentò piuttosto come una vera e propria filosofia della storia. La storia della specie umana era immaginata come una sequenza evolutiva unilineare. L’uomo era passato da condizioni di vita primitive e selvagge a sviluppare civiltà di grande complessità come quelle euroasiatiche classiche per giungere al vertice della propria storia evolutiva, rappresentato dalla società inglese statunitense e francese della seconda metà del XIX secolo. La specie umana veniva immaginata come unitaria e fondata sul progresso. Tylor uno degli antropologi evoluzionisti più noti, era conosciuto nel 1832, in quel tempo si passò nel giro di pochi decenni dall’illuminazione pubblica a petrolio a quella elettrica e dal trasporto con cavalli alla diffusione sistematica di una rete ferroviaria. Montesquieu vedeva la storia umana evolversi lungo 3 stadi (selvaggio, barbarie e civiltà) formando sequenze specifiche tra loro diverse, e spesso in competizione in relazione ai contenuti sociali e culturali ci ciascuno stadio. I diversi popoli presenti nel mondo intorno alla seconda metà dell’800 erano delle testimonianze viventi di uno di quegli stadi. Alcuni gruppi umani erano rimasti fermi allo stadio primitivo, testimoniando nel presente quello che noi europei eravamo nella preistoria. Altri si sono evoluti fino a uno stadio di barbarie, comparabili ai greci classici. Solo alcuni quelli europei guerra mondiale e l’imporsi dell’antropologia strutturale di Levistrausse. Nel regno unito Radcliffe -Brown criticava l’evoluzionismo e si impegno fin dal 1920 a definire l’oggetto e metodi dell’antropologia sociale. Riteneva che il compito dell’antropologo sociale non fosse quello di ricostruire la storia ma doveva impostarsi come scienza empiricamente fondata sulla ricerca etnografica ma anche essere comparativa e generalizzante. Per Radcliffe-Brown, la struttura sociale la funzione e il processo sociale, costituivano i principali ambiti di interesse dell’antropologia. L’altro versante della critica britannica all’evoluzionismo è costituito dall’opera di Malinowski. La sua è una rivoluzione teorico-metodologica che si costruisce nella pratica della ricerca etnografica e nella sua definizione concettuale. Con lui l’evoluzionismo viene smontato nella concreta pratica di ricerca e attraverso una concezione sistematica della società. nella sua ricerca si interessa del Kula, un complesso circuito di scambi cerimoniali che coinvolge centinaia di persone che vivono in isole tra loro molto distanti. Quanti partecipavano al circuito scambiavano collane di conchiglie bianche (saulava) contro braccialetti di corallo rosso (mivali). Considerando le isole come un cerchio viaggiavano le collane in senso orario e i braccialetti antiorario. La finalità non era possedere l’oggetto ma poterlo scambiare. Lo scambio non aveva valore, l’importanza era nel legame che riusciva a creare. Questi legami permettevano di superare le rivolte tra gruppi. Malinowski segue un analogo schema interpretativo olistico e sistematico che fa di lui uno dei padri del funzionalismo antropologico. Nei diari di Malinowski si avverte di lui un’immagine più complessa, nelle sue opere sembra una figura eroica, mentre i diari lasciano spazio a una figura più tormentata che intrattiene rapporti non semplici con i nativi e nutre sentimenti ambivalenti nei loro riguardi. Cap 6 Con Il termine “etnografia” si può intendere il lavoro sul campo di raccolta dati e la struttura di un testo su quei dati, e il corpus di dati reperti da più ricercatori in periodi temporali differenti. Radcliffe Brown e Malinowski imposero uno stile etnografico, per il modo di condurre la ricerca sul campo e di reperire dati e per la costruzione del testo etnografico. Rivers aveva insistito con la necessità di un lungo soggiorno sul campo e della conoscenza della lingua locale. Da quel momento in poi la ricerca sul campo nella tradizione anglosassone si configura come un soggiorno lungo e continuativo; infatti, chi svolgerà la ricerca di dottorato dovrà prevedere una permanenza di almeno 1 anno, questa scelta temporale è determinata dalla necessità di raccogliere più dati possibili, 1 anno avrebbe permesso al ricercatore di osservare e prendere parte a tutte le attività connesse all’intero ciclo di stagioni. Ciò era coerente con l’idea olistica. Si previlegiava una lettura interna delle funzioni dei vari istituti culturali. Questo si concretava nella scrittura di monografie che doveva quindi comprendere capitoli sulla parentela, scambi matrimoniali, vita economica, religiosa ecc. un'altra caratteristica forte era l’uso del presente etnografico, le attività e le produzioni venivano sempre descritte al presente come azioni che si ripetessero costanti nel tempo e non soggette a mutamento. Questo stile è stato fortemente criticato negli ultimi decenni del secolo scorso. Cap 7 Nell’antropologia sociale britannica fin da subito si delinearono 2 diversi stili di condizioni della ricerca e incarnati dagli allievi di Radcliffe-Brown e Malinowski. Fra le 2 posizioni nel 1950 c’è Edward E. tra i primi allievi di Malinowski e in seguito in contatto con Radcliffe Brown e Mayer Fortes. Edward E. condusse importanti ricerche fra gli Azande, i Nuer e i Serussi della cirenaica. Le sue monografie basate su un piccolo lavoro etnografico hanno segnato profondamente la storia del pensiero antropologico innovandone diversi aspetti. La sua nota monografia sugli Azande discute di un tema centrale nell’antropologia di quel tempo: la stregoneria. Gli Azande, infatti, secondo l’antropologo attribuivano le azioni degli stregoni a qualsiasi tipo di morte. La stregoneria diventa quello che lui chiama un commentario sociale alle avversità e alla sfortuna. Egli propose una distinzione, quella tra i Whitchcraft (stregoneria) e sorcery (fattucchiera). la prima indica una forza spirituale dentro l’individuo che agisce in maniera spirituale e spesso involontaria. La seconda è dovuta all’azione cosciente dell’individuo e funziona attraverso azioni materiali, quali la costruzione di amuleti malefici. La ricerca sul campo tra Nuel del Sudan consenti all’antropologo inglese di scrivere 3 diverse monografie. Questo lavoro aprì nuove prospettive di studi sulle società senza gerarchia riconosciute rinnovando il campo della nascente antropologia politica e sgomberando il campo da equivoci evoluzionisti. Nel 1950 Evans portò un attacco decisivo all’intero impianto teorico di Radcliffe sostenendo in una famosa lecture che l’antropologia sociale non era ne avrebbe mai voluto aspirare a essere una scienza naturale della società, era piuttosto una delle scienze storiche o dello spirito capace di raggiungere importanti livelli di comprensione della realtà attraverso processi interpretativi e non tramite comparazione e generalizzazione induttiva. Max Gluckman e un gruppo di giovani ricercatori iniziarono a mettere l’accento sulla centralità del conflitto e del cambiamento nella comprensione delle società cui rivolgevano l’attenzione. A partire da queste esperienze di ricerca prese il via nel 1949 l’apertura a Manchester del nuovo dipartimento di antropologia. I membri di questa scuola sostenevano apertamente le lotte per l’indipendenza dei vari paesi africani, ed erano chiaramente influenzati dalle tesi di Max. si affermò anche l’ortodossia funzionalistica nei centri dell’America britannica, prima di ciò ci fu la pubblicazione di alcuni tra i più importanti lavori degli antropologi sociali inglesi. Le opere di Malinowski continuarono ad essere pubblicate fino alla sua morte e oltre. Cap. 8 Lo studio di mutamento, principalmente nelle società africane è al centro anche delle ricerche di Geroges Balendur e della scuola dinamista che si sviluppò in Francia negli anni 50. Il concetto di situazione coloniale mette al centro l’asimmetria di potere nelle relazioni che esistevano nelle società coloniali in cui una minoranza straniera imponeva il suo dominio anche culturale a una maggioranza autoctona. Balendur insiste molto sul carattere dinamico delle società, e questo non solo nella società coloniale ma anche in quelle tradizionali, dunque, soggette a mutamenti dovuti a dinamiche endogene e esogene. In questo quadro diventa centrale lo studio dei fenomeni sincretici. È in antropologia religiosa che si sviluppò principalmente questo concetto. Bastide ha studiato i culti cristiani afro-brasiliani Cap 9 Il culturalismo statunitense approfondisce il progetto di lavoro impostato da Boas mettendo a punto in maniera sistematica le diverse linee di ricerca. Tra gli allievi di Boas Ruth Benedict e Margaret Mead e Abram Kardiner affrontarono i problemi legati al rapporto tra cultura, psiche individuale e creatività, all’interno di quella che è stata chiamata la scuola di cultura e personalità. Margaret Mead con il libro di antropologia più letto e venduto negli stati uniti “coming of age in Samoa” affrontava il rapporto tra natura e cultura nella costruzione della personalità degli adolescenti. Partendo da un atteggiamento chiaramente critico nei confronti delle attitudini della classe media americana in merito alla fase adolescenziale per dimostrare come le tensioni e le turbolenze intorno al momento adolescenziale fossero frutto del modello educativo statunitense e non di caratteristiche psichiche e/o biologiche innate. Il testo di Mead ha giocato un ruolo importante nel dare forma alla cultura pubblica negli stati uniti e definì tematiche e problemi della scuola di cultura e personalità. Come quelli di Mead anche le tesi di Benedict parlavano sempre di sé stesse, dei loro rapporti con una società, quella statunitense a loro contemporanea, borghese e conservatrice. Questo fece di entrambe dei personaggi pubblici piuttosto noti impegnati in battaglie politiche e civile. Per questo Boas al momento della sua andata in pensione non nominò Benedict a succedergli nella cattedra di antropologia nella Columbia University, preferì Ralph Linton che era distante dagli atteggiamenti e costumi ritenuti troppo radicali nel gruppo Boasiano. Solo pochi mesi prima di morire Ruth Benedict ora mai famosissima otterrà un posto da full professor. George Devereux fin da alcuni scritti dei primi anni 50 sostituì alle lavoro di trascendere i limiti dello specialismo e, attingere a piani profondi della sensibilità dei propri lettori. Un miscuglio complesso che portò, terminata la guerra nel 1949, Levi-Strauss tornato a Parigi a discutere la propria tesi di dottorato di stato di antropologia. I 2 volumi che derivano dalla tesi di dottorato insieme ad alcuni saggi, costituiscono il cuore dell’analisi che Levi Strauss propose della parentela e del matrimonio, temi classici della ricerca antropologica. Nel primo, lo studioso francese ricostruisce l’organizzazione familiare, la terminologia di parentela e le forme dello scambio matrimoniale in una piccola banda di indiani Nambikwara, mostra come dall’incontro di 2 gruppi diversi si mettano in atto una serie di scambi matrimoniali che vengono trattati, a livello terminologico, come se si stessero realizzando dei matrimoni tra cugini. Nel secondo, dimostra come le forme più elementari di matrimoni siano quelle che avvengano tra coniugi tra loro cugini incrociati. Levi- Strauss mette in atto una prima applicazione dell’approccio strutturale ai fatti sociali e culturali, mostra che in effetti è solo sulla base di un’aspettativa di reciprocità che ha senso precludersi le possibilità riproduttive di una sorella, il fatto di non poterla sposare non garantisce affatto che qualcun altro mi conceda in moglie la sua di sorella. Solo dando ad altri la possibilità di avere una moglie (mia consanguinea) a partire dal principio di reciprocità posso aspettarmi di ricevere da quelli una moglie. L’analisi è stata discussa con entusiasmo e critiche in antropologia. Nel corso del suo centenario percorso di ricerca Levi-Strauss applicò la visione strutturalistica a specifici ambienti della vita sociale e culturale: l’analisi dei miti cui dedicò l’opera in 4 volumi, l’opera più importante dello studioso. In tristi tropici ripercorre le proprie esperienze etnografiche e di viaggio, adoperandole come pretesto per una riflessione sulla condizione umana, sull’occidente e sui suoi rapporti distruttivi con la diversità e la natura. Nel pensiero selvaggio, invece, affronta l’analisi della logica che guida le classificazioni, le narrazioni mitiche e le concrete azioni degli esseri umani “altri”, distanti dalla tradizione scritta e analitica dominante da millenni in occidente. Per Levi-Strauss il pensiero è una qualità propria di pensiero umano presente in ogni cultura. il pensiero selvaggio è un pensiero simbolico e nello stesso tempo concreto. Secondo Levi Strauss, gli uomini che vivono in culture di tradizione orale sono attenti a cogliere empiricamente i più minuti dettagli dell’ambiente naturale che li circonda. Simili dettagli, sono adoperati per produrre nuovi significati, o per connettere tra di loro in maniera creativa ambienti diversi del reale. Il colore rosso di determinati pappagalli è il dato concreto che consente di adoperarli, in determinate situazioni rituali, come metafore e sostituti degli esseri umani; secondo Levi Strauss, nelle nostre società il pensiero selvaggio si conserva nel linguaggio artistico e nella pratica di chi si dedica al bricolage, il vecchio volante di un’auto per la sua forma concreta, può creativamente diventare un lampadario. La complessità e lo spessore dell’opera di Levi Strauss ne hanno fatto un punto di riferimento nella cultura francese del 900. Tra il 1950 e inizi anni 80 la riforma intellettuale di Levi Strauss, insieme alle sue capacità organizzative hanno giocato un ruolo decisivo nella strutturazione dell’antropologia in quel paese e nelle sue possibilità di espansione istituzionale. Va detto che, lo strutturalismo di Levi Strauss ha teso, con il tempo a costituirsi come una sorta di scolastica accademica che nella fase finale, non ha certo giovato al rinnovamento dell’antropologia sociale in Francia. Cap 11 Per la formazione di cittadini italiani al sapere antropologico, nascono nuove esigenze. Si esercita un nuovo approccio nella ricostruzione, stile di ricerca e modi di ragionare dell’antropologia sociale e culturale vigente. L’esistenza di più punti di vista sul mondo resta certamente un punto fermo. 2 teorie apparentemente opposte ma simili, sembrano fronteggiarsi, da un lato nuovi saperi forti e semplificati che offrono certezze a buon mercato, dall’altro lato, la riproduzione di logori schemi ideologici e di scorciatoie polemiche camuffate da critica scientifica. L’antropologia italiana è caratterizzata dall’opera di Antonio Gramsci e di Ernesto de Martino. In Italia autori come Gramsci usarono consapevolmente e in più eccezioni la parola “razza”, e furono nello stesso tempo sensibili alla critica del razzismo, ritenendo questo fenomeno corresponsabile nella produzione delle diseguaglianze sociali. Una procedura metodologica simile a quella che sottende l’articolo 3 della costituzione italiana promulgata il primo gennaio del 1948, la costituzione attivava quell’articolo a 9 anni dalle leggi razziali. Si rendeva necessario ribadire il principio di uguaglianza usando la nozione di razza per riportarla a una precedente neutralità. Le antropologie tendono a evitare l’uso del termine per scongiurare discriminazioni, questa distanza risulta condivisa anche in Italia. L’antropologia sociale e culturale è lo studio delle differenti culture umane e anche una critica all’ovvio, definizione vicina a quella data da Michael Hitzfeld, antropologo statunitense che studia il rapporto tra lo stato, gli esseri umani e il potere culturale: l’antropologia sociale e culturale è lo studio del senso comune. Mentre questo maestro definiva l’antropologia contemporanea una pratica teorica, Gramsci a suo tempo imposto il progetto politico culturale alla ricerca dell’unità tra teoria e pratica. In pensiero vivente nel 2010, Roberto Esposito (filosofo napoletano) ci parla di Gramsci come un autore incastrato nella tradizione del pensiero italiano, un autore vivente nel senso che il suo pensiero è aperto alla vita, un pensiero filosofico. L’antropologia in effetti è un pensiero teorico che raccoglie la propria conoscenza direttamente dall’esperienza reale sul campo, accanto a persone in carne ed ossa. Il suo sapere nasce dai rapporti sociali, ed è descrittivo, esemplificativo e concreto. Lo sguardo dell’antropologia si basa su lo straniamento di quel che ci sembra familiare ma anche la familiarizzazione di ciò che ci appare estraneo. Antonio Gramsci nasce il 22 gennaio del 1891, fu un politico, fondò a Livorno il partito comunista d’Italia e ne fu dirigente. Fu arrestato dalla polizia fascista di mussolini nel 1926. In seguito, fu trasferito in diverse carceri del nord. Fu accolta poi l sua richiesta di libertà condizionale e fu trasferito in diverse cliniche di Roma. Morì in una di esse a 46 anni per emorragia cerebrale nei suoi primi giorni di libertà. La sua opera consiste in 3 blocchi: opere pre-carcerarie, quaderni dal carcere, lettere dal carcere. Gramsci influì molto su numerosissime discipline, anche gli studi antropologici ne furono condizionati. Ernesto de Martino fondatore della nuova antropologia italiana teneva i suoi libri sul comodino. De Martino nacque a Napoli nel 1908, fu un antropologo anche se preferiva definirsi etnologo. I suoi primi interessi erano per la religione e un’adesione al partito fascista in giovane età, fu poi resistente, socialista, quindi comunista, senza mai abbandonare l’attenzione alla dimensione dell’essere umano. Nel 1941 uscì il suo primo volume “naturalismo e storicismo nell’etnografia”. De Martino curò per Garzanti l’antologia magia e civiltà. Mentre apparvero diverse edizioni del suo ultimo lavoro fu colpito prematuramente dalla morte a neanche 57 anni. La sua opera interessò soprattutto studiosi in Francia e USA, a Parigi si sono svolte numerose conferenze a lui dedicate. Giordana Charity scrisse la prima parte di una sua biografia. Attualmente si può seguire l’associazione internazionale Ernesto de Martino. Nell’antropologia italiana fra queste 2 figure si è venuto a stabilire un asse osservato da Clara Gallini e dai suoi allievi come Pietro Angelini, un antropologo marxiana e antifascista che trovò Gramsci e de Martino 2 fondatori del discorso disciplinare. È proprio de Martino che legge Gramsci in alcuni saggi. Gramsci è importante per l’antropologia in quanto ha incluso nelle teorie marxiste classiche la sua nozione di cultura. Ritiene che essa non esiste di per sé ma sia costruita, fabbricata, prodotta da persone reali che vivono in gruppi in contesti specifici che nell’insieme dei loro rapporti si definiscono società. sono concetti come la nozione di egemonia, che indica la direzione morale di interi popoli e nazioni. Gramsci fondò un’antropologia dello stato intesa come un rapporto tra stato e corpo ovvero come lo studio della capacità statuale a costruire consenso facendolo apparire come una produzione spontanea di quella quantità di persone che dallo stato stesso sono governate. Egemonia è una dimensione intellettuale e morale, equivale a una funzione dirigente ed i subalterni oggi possono essere i dirigenti di domani, in grado di esercitare la loro egemonia culturale anche prima di governare. La presenza esprime capacità di affrontare il rapporto con il mondo esterno trascendendolo e oggettivandolo. Se questa capacità si incrina, la presenza vive una crisi e tutto ciò che è negativo prende il sopravvento e non può essere trasceso. Le sociale dell’epoca sua, attraverso procedure auto-riflessive condotte su se stesso e sulle sue sofferenze fisiche, lavorando sul “nuovo nesso psicofisico” e sul “nuovo tipo umano”. Per De Martino fu’ sconvolgente la lettura dei quaderni del carcere. Gramsci diventa un’oggetto di studio accanto ai primi scritti del filosofo tedesco Karl Marx. L’Ethos del trascendimento è ciò che garantisce la propria presenza nel mondo, e stato lo stesso De Martino a dire che la crisi della presenza ci pone il problema dell’instabilità della presenza stessa. Roberto Pastina (studioso de martiniano) esaminò il rapporto tra De Martino e la filosofia. Ci dice che le radici del concetto di presenza in De Martino sono di carattere religioso, teologiche fin dall’esordio nel 1941. Occorre non separare il De Martino storico delle religioni dal De Martino storico-etnografo perché questa fusione restituisce una dimensione etnografica. È l’unico passo in cui De Martino chiarisce come la presenza sia una sorta di” diplomazia vitale” cioè un rapporto dialettico tra sé e il mondo esterno. Cap.12 Dal 1960 l’antropologia subbi’ anni di particolare dinamicità, con tensioni al suo interno ed anche nelle altre scienze sociali producendo riflessioni critiche, dibattiti, specializzazioni di prospettive analitiche. Nel Regno Unito si sviluppò radicalizzandosi la divaricazione tra il funzionalismo classico di Radcliff-Brown e la prospettiva interpretativa di Evans-Pritchard, intorno a quest’ultimo si aggregarono molti studenti che divennero figure di primo piano nell’antropologia degl’60 e 70. Tra queste la più nota è Mary Douglas, studiosa di società centro africane, continuatrice della tradizione durkheimiana. Si deve allievi di Evans la prima applicazione della metodologia etnografica e dei modelli teorici dell’antropologia sociale a contesto Europei e Mediterranei. Su un diverso versante la scuola di Manchester produsse il suo massimo scorzo concettuale, affermandosi come uno dei poli più vitali e innovativi del panorama antropologico britannico e mondiale. Da un lato si sviluppò un filone di studi interessato all’applicazione del social network analysis in antropologia; Dall’altro alcuni studiosi manifestarono più attenzioni per i processi di contrattazione sociale, dando vita al cosiddetto transazionismo antropologico. Non lontani da posizioni transazioniste erano in quegli anni alcuni lavori di Edmond Leach, allievo di Malinowski al quale si deve l’introduzione nell’antropologia britannica dello strutturalismo di Levi-Strauss. Gli anni 60 e 70 per l’antropologia sociale britannica furono caratterizzati da un processo di “de- africanizzazione” sia etnografica che tematico-concettuale. Gli antropologi spostarono la loro analisi nel Mediterraneo, in Asia e soprattutto in Oceania. Questo processo riguardò anche l’antropologia cultura statunitense i cui rappresentanti aprirono la loro ricerca etnografica verso il mondo Asiatico e del Pacifico. Dal 1965 e il 1970 emerge una prospettiva di grande importanza la prima antropologia cognitiva con origini rintracciate nell’attenzione che l’antropologia boasiana aveva dedicato ai rapporti tra lingua e cultura e anche negli studi di cultura e personalità. Nei primi anni 50, il linguista ed antropologo Kennet Pike elaborò la distinzione tra prospettiva “etica” (cioè oggettiva, formale esterna al contesto) e prospettiva “emica” (cioè lo studio dei suoni significativi all’interno di un sistema linguistico, l’analisi del significato dal punto di vista interno a ciascun sistema culturale. Quest’attenzione venne tradotta in una serie d’importante ricerca sulle conoscenze delle popolazioni indigene. L’insieme di queste analisi è stato denominato etnoscienza, interessata a raccogliere, analizzare e comparare i sistemi di conoscenza, le scienze di gruppi umani non alfabetizzati. Nell’antropologia culturale statunitense si svilupparono una serie di studi denominato antropologia cognitiva. Le ricerche assunsero un carattere sempre più astratto e formale, perdendo il contatto sia con le concrete situazioni sociali sia con gli sviluppi delle altre scienze cognitive. Geertz ritiene che l’antropologia sia una scienza ermeneutica coll’ obiettivo d’interpretare significati culturali che gli esseri umani attribuiscono alle proprie interazioni sociali. Geertz sostiene che la cultura è come un testo cioè come un testo è formata da una tessitura più o meno fitta di trame di significato. Chi come l’antropologo interpreta una cultura, interpreta allora un testo. Geertz ritiene che i significati delle azioni umane si diano sempre ed esclusivamente all’interno del gioco sociale, non si generalizza attraverso i casi ma all’interno del processo di descrizione di ogni singolo caso. L’antropologia interpretativa di Geertz imposta il suo baricentro sull’asse del particolarismo, avvicinandola alla critica letteraria e alla letteratura. A partire da questa considerazione geertziana un gruppo di studiosi danno il via alla svolta dialogica e decostruzionista dell’antropologia culturale statunitense. In Francia Pierre Clastres propose l’idea che le società amazoniche e dei cacciatori raccoglitori evitassero l’accumulo di risorse e potere nelle mani di singoli individui e che lavorassero contro la possibilità della formazione di strutture di potere centralizzate. Nell’antropologia britannica le diverse prospettive teoriche esercitarono la propria influenza sullo studio della dimensione politica. Prevalse fino agli anni 60 un atteggiamento volto a individuare le forme che il potere assume nelle diverse società. Negli Stati Uniti prese forma una prospettiva teorica detta political economy ispirando molte ricerche etnografiche. Tra gli ispiratori di questa prospettiva Erich Wolf fuse con attenzione la prospettiva ecologico-materialista con un’esplicita assunzione di concetti marxiani. Le prese di posizione degli antropologi dialogici provocarono un decennio di aspri dibattiti nella scena antropologica mondiale provocando un radicale cambiamento nei modi di scrivere l’etnografia e un mutamento nell’agenda di ricerca. I punti di riferimento teorico della disciplina si aprono all’influenza di pensatori coinvolti in un profondo ripensamento di nozioni come pratica, potere, corpo, azione, soggetto, diventando i temi sui quali la ricerca antropologica contemporanea continua nei giorni nostri a lavorare. Parte terza Cap. 1 Tra le varie controversie che la nozione di Antropocene ha suscitato, vi è il problema della sua incerta datazione. Il paleo climatologo americano Ruddiman propone una datazione di 8000 anni fa, quando la deforestazione intensiva avrebbe provocato un innalzamento della quantità di gas a effetto serra in atmosfera. Altri studiosi posticipano il Golden Spike dopo la Seconda guerra mondiale. Il Nobel per la chimica Crutzen individua il momento di trapasso nel 1789, con la scoperta della macchina a vapore e l’inizio della rivoluzione industriale. Ancora aperto è il dibattito riguardo alla periodizzazione di un’epoca distinta dall’Olocene in cui l’Anthropos avrebbe acquisito un ruolo centrale nel condizionare gli equilibri biosferici sul pianeta. Nel sistema terra vi è il travaglio ecologico, storico -politico, economico, di cui noi umani siamo ritenuti responsabili. Si tratta di un immaginario che rende manifesta una nuova tendenza figurativa associata all’epoca in cui viviamo, Povinelli la chiama la figura del deserto, che per contrapposizione crei spazi che potrebbero essere resi nuovamente ospitali attraverso un dispiegamento di invenzioni tecnologiche. Per questa sorta di smarrimento il dibattito sul concetto di Antropocene tende a radicalizzarsi in 2 opposte direzioni: da un lato chi propone un salto in avanti centrato sulla fiducia nella tecnologia; dall’altro, chi si fa promotore di un balzo all’indietro, pervaso da un’idea primitivista di assoggettamento alla natura. Il problema segnalato riguarda il rischio di ipostatizzare l’umano, esiliandolo in reame anti- politico, in cui una volontà di potenza realizzerebbe la sua forza mortifera e devastatrice lasciandosi alle spalle una scia di paesaggi contaminati, in rovina, denudati di risorse. Per riportare a un livello terreno le riflessioni riguardo a Gaia, la genitrice comune, si tratta di uno stratagemma di cui nel mondo della filosofia politica e del diritto, si è cominciato a parlare dal primo Summit mondiale sulla terra, tenutosi a Rio de Janeiro nel 1992. Di fronte alla narrativa dominante sull’ Antropocene è emersa un’esigenza trasversale: per ricucire i pezzi di un mondo in frantumi e comprendere cosa potrebbe significare essere responsabili nell’epoca in cui viviamo, bisognerebbe partire dal riconoscimento che, se tutti gli umani sono uguali, alcuni sono più uguali degli altri. Spaziando tra le contro argomentazioni mosse all’idea che l’impronta geologica dell’uomo si esplichi in modi unitario sul pianeta, è importante nominarne almeno 3 con cui il dibattito antropologico si sta una corrente nota come fenomenologia, cioè come lo studio di tutto quello che appare. Con Merleau Ponty il corpo diventa il vero soggetto del processo conoscitivo, la base sulla quale si fonda la percezione del mondo. La sfida dell’antropologia raccolta da de Martino sarà quella di sottoporre tali nozioni a contestualizzazioni culturali esemplificative, differenti, provenienti da mondi culturali vicini e lontani. Il saggio che avvia gli studi di antropologia del corpo è Les techniques du corps del socioantropologo francese Mauss. Con la definizione di tecniche del corpo, riuscì a sottrarre il tema del corpo alla biologia e alla medicina. Liberare il corpo dal monopolio biomedico, e considerare la tecnica come gesto del corpo, voleva dire restituire alla dimensione corporea i collegamenti tra la storia e il corpo. Tutte le forze sociali risultano modellatrici del corpo umano e il gesto è sempre un prodotto storico. Le tecniche del corpo indicano anche le capacità apprese. I modi di camminare, sedersi, mangiare, lavarsi, e così tutte le forme di gestualità secondo Mauss sono motivate da valori culturali. I gesti ci appaiono naturali mentre sono naturalizzati. Questa capacità di assorbire conoscenze chiarisce le differenze socioculturali delle tecniche corporee che si inseriscono in un quadro biologico e genetico comune senza distinzioni di razza. La divisione in razze non ha fondamento scientifico, poiché la specie umana è solo una. Il corpo assorbe conoscenze, saperi attinti dall’esperienza sociale, per poi trasformarli in movimenti e azioni che vengono avvertiti come naturali, ma in realtà sono esiti di un apprendimento fisico. Antonio Gramsci non sarebbe da considerare un antropologo, anche se ha profondamente ispirato l’antropologia socioculturale, soprattutto italiana. Egli è stato un grande pensatore politico comunista; ha definito con le sue parole cosa è un’antropologia, cioè una disciplina non corrispondente a un semplice canone di ricerca, dunque una vera e propria pratica teorica. Gramsci ha sostituito le riflessioni marxiane sull’economia con le proprie riflessioni sulla cultura e gli intellettuali. Viene qualificato come antropologo per alcuni orientamenti della sua sofferta riflessione, tra cui: la centralità del corpo e dei poteri, come esperienza fisica dei fatti socioculturali; l’esplorazione della dimensione corporea e della vita intima dello Stato; la volontà di unire ciò che sembra separato; l’esercizio di una critica del senso comune. Antropologie e corpi pensanti Nel’87 le antropologhe Scheper Hughes e Lock scrissero un saggio intitolato Il corpo pensante, in cui veniva affrontata la questione del dualismo cartesiano e la correlata esigenza di ricomporre l’organismo scisso nella dicotomia mente/corpo in una visione unitaria. Intendevano spingere l’antropologia del futuro per rifondarsi su una critica del modello culturale occidentalista. Il loro obiettivo è la ricomposizione della unitarietà mente/corpo, in quel saggio articolarono l’immagine di un corpo molteplice, dato dall’intreccio di 3 corpi: individuale, sociale e politico. La mediazione fra queste 3 dimensioni era data dalle emozioni, risultanti in grado di fornire quel nesso fra la mente e il corpo. Con il volgere del millennio il corpo non è più concepito come un’entità fisica data e diventa una sfida epocale per il sé unico dell’occidente. La ricerca antropologica sul tema del corpo ha superato la visione dualista fondata sulla dicotomia. L’antropologo canadese Lambek ha mostrato come entrambe le teorie, dualiste o unitarie, siano distribuite in differenti contesti socioculturali e che semmai le contraddizioni si verificano tra rappresentazione e pratica. Anche nella medicina. È stato l’antropologo e psichiatra canadese Kirmayer a mostrare come la medicina occidentale sia stata rappresentata sulla separazione netta fra mente e corpo e sulla riduzione di ogni aspetto sociale, culturale ed emozionale al dato biomedico oggettivo. L’antropologa femminista Martin ha elaborato una critica delle neuroscienze contemporanee, le quali tendono a spiegare le attività sociali umane attraverso i meccanismi e i processi cerebrali. Questo campo di ricerca nasconde un rischio definito neuro riduzionismo: il tentativo di ridurre alla funzione nervosa del cervello la complessità dei comportamenti umani. Lock tornando a riflettere sui corpi umani, l’ambiente e l’epoca attuale, in cui occupa un posto dominante l’Antropocene, che l’antropologia del corpo e dei processi che lo riguardano debba guardare al presente, ma vada sempre contestualizzata nel tempo e nello spazio. La nozione di biologia locale può servire per dare conto della pluralità culturale dei corpi nel mondo, ma anche per ripensare il campo biologico avvicinandolo all’antropologia del corpo e interrogando quest’ultima sulla necessità di contestualizzare concretamente i processi di incorporazione. Embodiment tradotto in italiano come incorporazione, indica la condizione esistenziale dell’essere umano, l’idea dello stare al mondo incarnandolo con il proprio corpo. Implica anche un tentativo di superamento del Dualismo tra mente/corpo. Con Csordas il corpo non è tanto un oggetto di ricerca, quanto un vero e proprio soggetto, esso costituisce piuttosto la base esistenziale della cultura. Il saggio di Csordas ha costituito un rilancio della questione corporea in antropologia. Considera l’incorporazione come un processo insito nel corpo umano. Tra corpo e incorporazione con Csordas si gioca anche il rapporto fra biologia e società: il corpo l’entità materiale; l’incorporazione, un processo dell’esperienza. Gli studiosi indiani Gaur e Patnaik, in un lavoro etnografico sui Korwa, un gruppo indigeno dell’India, deportato nelle periferie urbane. Hanno osservato gli effetti del reinsediamento territoriale che si è rivelato un insuccesso: i Korwa non si sono affatto adattati al nuovo ambiente, ma hanno vissuto la deportazione come un drastico evento di sottrazione della salute. I loro corpi sono diventati più fragili. Il nesso disuguaglianza/corpo umano necessità di una visione integrata e co-disciplinare per essere compreso. L’antropologia medica è forse la disciplina più votata a cogliere questo collegamento tra disuguaglianze e salute del corpo. Restano moltissimi i problemi affrontati dalle antropologie contemporanee che puntano lo sguardo alla dimensione corporea. Visti dall’angolazione del corpo tutti i temi umani possono essere osservati dalle differenti antropologie specialistiche. Cap. 3 Come sottolinea Seppilli, l’ambito di interesse dell’antropologia medica sembra articolarsi intorno a 3 direttrici di ricerca interconnessi: i processi attraverso cui un gran numero di fattori eterogenei intervengono nel costituirsi delle vicende individuali e collettive condizionando l’insorgere e l’andamento dei disturbi psichici e somatici. Le condizioni oggettive, gli schemi ideologico culturali e i vissuti soggettivi in base ai quali gli individui e i gruppi percepiscono tali disturbi, li classificano, interpretano e danno un senso in termini razionali e simbolico emozionali. L’insieme della strumentazione socialmente prodotta in ciascun contesto per intervenire contro tali disturbi. Si considerano come punto fondante degli interessi degli antropologi verso le teorie psicologiche e psichiatriche le riflessioni di Malinowski sul destino del complesso di Edipo in una società matrilineare come quella trobriandese. In breve, concluse che in questa società, il ruolo del padre nella riproduzione era sconosciuto, il complesso di Edipo era inverso rispetto al modello freudiano: lo zio materno era il detentore del potere familiare in quella società e le pulsioni della libido si rivolgevano alle sorelle. Jones e Roheim, psicoanalista e antropologo che contestò l’ipotesi malinowskiana sostenendo al contrario che anche in situazioni di matrilinearità il complesso di Edipo nei suoi tratti essenziali non si discosti dal modello ipotizzato da Freud. Una storia densa e lunga è quella dei rapporti tra psichiatria e antropologia; si può risalire a Kraepelin uno dei padri fondatori della psichiatria, che aveva costruito un vasto sistema di classificazione delle malattie mentali per come si manifestavano in Occidente. Lungo e complesso è il discorso sulla psichiatria nei contesti coloniali, dove le colonie rappresentavano per le scienze europee una specie di laboratorio vivente dove sviluppare e sperimentare teorie scientifiche. Un gruppo di studiosi attraverso la pratica clinica e le riflessioni teoriche proposero un loro modello autonomo; qui prendono forma le teorie sulla specificità della malattia mentale nell’Africa araba. Nelle colonie inglesi la figura di riferimento è Carothers, un medico del Kenya che fece molte ricerche sulla malattia mentale in Africa. Basandosi su dati poco rigorosi, arrivò alla conclusione di una mente africana come inferiore a quella europea per ragioni fisiologiche, ambientali e sociali. Il tipo di Etnopsichiatria che stava portando avanti era una forma di psichiatria Che oggi chiamiamo differenzialista, ma più chiaramente sarebbe razzista. Con Fanon si passa ad una visione della follia che lega la malattia mentale all’esposizione alle brutalità del regime coloniale. Una figura fondamentale per lo sviluppo della Etnopsichiatria è Differenza, soggettività, anche libertà, scelta, resistenza sono temi e nozioni che risultano centrali per il femminismo e per una teoria dell’azione. L’antropologia ha saputo confrontarsi con queste tematiche a partire dal campo etnografico esplorando la nozione di resistenza, tradotta con agentività. La nozione di agency è stata discussa nell’ambito delle critiche femministe all’ordine liberale. Ong illustra come i servizi sociali statunitensi si basino su un potere pastorale, bianco,di classe media e come le politiche etnicizzano i migranti come arretrati e patriarcali. L’analisi antropologica di soggettività differenti interroga le certezze prescrittive riguardo il giudizio su modi di vivere delle “altre”, superando l’individuazione delle donne musulmane come soggetti soggiogati o ribelli. Cap.5 L’antropologia si è interessata sia a che cosa significhino i generi (uomo, donna, omosessuale, lesbica, trans, e queer) sia a come essi si definiscono nelle relazioni sociali, quali la sessualità e la riproduzione, la parentela per come si definiscono all’interno di dinamiche di potere nei diversi contesti culturali e sociali. Le relazioni di genere rinviano a simboli. Compito dell’antropologo/a è la loro interpretazione considerato che essi stessi assumono significati a partire dalle società che li elaborano e sulle quali, un’interpretazione che proietti le proprie visioni, condizioni o punti di vista, risulti inadeguata ed etnocentrica. Storicamente gli organi genitali hanno presentato l’unico criterio per assegnare la categoria alla nascita. La stessa categoria ha a che vedere con ruoli sociali. Il genere è storicamente relativo e non è determinato o reso inevitabile dai cosiddetti indicatori sessuali. Quando si parla di genere in antropologia, si tratta di dinamiche che trasformano i dati biologici in soggettività relazionali, anche socialmente gerarchiche. A Stoccolma, Robert Stoller psichiatra e psicanalista, introdusse la formula di identità di genere. Essa andava rintracciata nell’opposizione tra la natura (sistema nervoso, ormoni, geni, morfologia) e la cultura (fra cui la psiche e le condizioni economiche sociali). La natura corrispondeva al sesso biologico mentre la seconda al genere, inteso come socializzazione. Secondo il paradigma dell’identità di genere, il sesso dipendeva dalla natura, mentre il gender si basava sull’interazione tra l’ereditarietà biologica e l’influenza ambientale, producendo una vasta gamma di differenze di sesso/genere. Queste differenze potevano, rendere utili delle correzioni attraverso operazioni chirurgiche estetiche, terapie psichiatriche, e ormonali. L’antropologia avrebbe contribuito all’argomentazione relativa secondo cui divenire donna e uomo, significava guardare a questi ruoli sociali per come erano pensati e agiti all’interno dei contesti locali, a partire ma non solo, dalla divisione del lavoro. Lo studio di Margaret Mild, dagli anni 30 permise di svelare che la differenza tra essere umano o donna non ha alcun rapporto con la realtà biologica del sesso, ma che piuttosto l’uno e l’altra devono considerarsi come costrutti sociali. Laddove il gruppo dei chambuli si definiva attraverso forme di cosiddetta inversione rispetto alle convinzioni occidentali. Gli uomini erano quindi sensibili, le donne detenevano il potere. In questo senso Mild veniva a rilevare come non fosse la natura a stabilire che una donna fosse docile, saggia o riservata né tanto meno che un ragazzo fosse dinamico o disordinato quanto piuttosto è forse la cultura a definirne il temperamento. Spostandosi di continente, nel suo lavoro negli anni 40, sui nuer del sud Sudan Edward E. Evans-Pritchard aveva illuistrato come una donna in menopausa o sterile potesse sposare una donna in età fertile in grado di dare prole al marito attraverso l’unione di 2 donne, in cui una reputata come socialmente uomo. Oggi la si chiamerebbe gestazione per gli altri. Nel suo studio sugli azande aveva visto che un uomo in attesa di sposare una donna, poteva prendere come sposo un giovane uomo. Queste analisi venivano ad evidenziare le diverse realtà di ruolo di genere. nell’antropologia culturale, il termine genere fu introdotto nel 1975. Il genere, scrive Rubin, non è solo l’identificazione con un sesso ma è anche l’obbligo a indirizzare il desiderio sessuale verso il sesso opposto. Il sex/gender system è un termine neutro che si riferisce ad un determinato aspetto della vita sociale ed indica che l’oppressione sociale non è inevitabile, ma è il prodotto di specifici rapporti, sulla base dei quali è organizzato. La sessualità non è legata ai genitali anatomici e la biologia non è un problema, piuttosto ad essere problematiche sono le strutture dell’organizzazione sociale che sono definibili in termine di disuguaglianza e di potere. I sistemi di parentela e l’educazione dei/delle bambini/e sono, tra le altre forme osservabili, le condotte di genere riguardano tutti gli aspetti della realtà. Il sistema sesso/ genere è un concetto fondamentale per capire come la sessualità sia categorizzata e come il genere sia, quindi, socialmente vissuto. In sostanza non può esistere un’antropologia e delle etnografie neutre perché il sistema di sesso/ genere riguarda tutta la realtà che noi viviamo. Gli anni 70 furono gli anni di decostruzione di quelle idee sul sesso e sul genere. Le categorie uomo/donna come prodotti sociali vanno studiate in maniera relazionale e dialettica. Per Mathieu tutte le società elaborano che lei chiama una grammatica sessuale della femminile e maschile che viene imposta alla femmina e al maschio. Illustrò come esistano 3 modi in cui si articolano sesso, genere e sessualità: il primo modo è quello dell’identità sessuale per cui il genere traduce il sesso. Il secondo modo vi sarebbe una corrispondenza fra sesso e genere per cui il genere mette in scena il sesso e si chiama identità sessuata. Il terzo è quello dell’identità di sesso basato su una conoscenza di classe per cui il genere costruisce il sesso. Mathieu ritenne fondamentale lo studio dei rapporti sociali di sesso/ genere al fine di comprendere come la differenza di genere si costruisca socialmente per mantenere l’esercizio di questo potere. Parlò di oppressione femminile, spostando lo sguardo là dove cedere non significa acconsentire. Anticipò l’approccio oggi definito intersezionale. Il genere non è un attributo essenziale delle persone, per esempio le donne possono essere distinte dagli stereotipi e dai simboli di “femmine” in quanto “persone” all’interno di uno specifico contento socioculturale. Non sempre è possibile pensare agli uomini come esseri sociali portatori di un qualche prestigio in contrapposizione alle sfortunate femmine, perché anche quando non viene dato un valore positivo alle donne, ciò non significa che esse siano sempre sottoposte a valori opposti. Infine, una relazione sessuata non può essere compresa se la si isola arbitrariamente da una catena di relazioni o connessioni. Che non possono essere date per certe o presupposte. Le relazioni di genere sostengono altri tipi di relazioni consentendo di esplicitare le caratteristiche della relazionalità stessa. L’antropologia nel suo divenire ha tematizzato e argomentato il genere come categoria critico-interpretativa nei diversi contesti locali. Le dinamiche genderizzate riguardano il rapporto fra i/le ricercatori/rici e gli/le indagati/e del momento che è sul terreno che si intrattengono e costruiscono relazioni che riguardano sempre i generi, generazioni, di appartenenze ecc. il genere nelle analisi come sistema strutturante nella gerarchicazione dell’organizzazione sociale ha quindi, da un lato, reso manifesto, l’androcentrismo, sul campo e nella disciplina. Dall’altro, ha consentito di rimettere in discussione anche il tema della mascolinità acquisita come neutra e neutrale attraverso il concetto di mascolinità egemonica che caratterizzerebbe la costruzione occidentale dell’uomo bianco, borghese ed eterosessuale. Compito dell’antropologo/a è quello di leggere interpretare le soggettività genderizzate multi-posizionate all’interno dei sistemi locali di sesso/ genere, ovvero, comprendere come ognuno/a possa assumere posizionamenti di differenziazione di genere che, nel corso della propria storia, possono anche essere contraddittori. Un compito arduo, indispensabile per comprendere la nostra e le altre società in un mondo sempre più interconnesso. Cap. 6 Nel mondo contemporaneo, le immagini occupano uno spazio centrale. Che si tratti delle pubblicità sui muri delle città. video amatoriali sui social, televisione. le immagini si sono affermate come linguaggio universale e la loro analisi appare fondamentale per comprendere un mondo in costante trasformazione. L’antropologia si occupa dall’inizio di immagini, in quanto segni o insiemi di segni prodotti attraverso complesse operazioni di percezione, interpretazione e rappresentazione, parte integrante di ciò che l’antropologia definisce come suo siano tanto le tecnologie ad aver cambiato il mondo, ma piuttosto sia stato il mondo ad aver trasformato i media. Cap.7 Gli esseri umani dipendono dai legami con i propri simili per sopravvivere. Nelle parentele contemporanee le categorie ordinarie di consanguineità risultano aver perso il loro carattere normativo aprendosi, al campo degli affetti e delle scelte personali. Le reti di relazione familiare e parentale appaiono sempre più legate alle pratiche, alla cura, alla condivisione di affetti e allo stile di vita. Con il termine relatedness traducibile con relazionalità che con parentalità si cercò di ridefinire la classica integrazione tra piano biologico e sociale (tra natura e cultura) a intendere un allungamento che include sistemi di relazione non necessariamente di affettivo contenuto bio-generico. Dalla ricerca antropologica deriva l’invito a indagare la vitalità della parentela contemporanea, seguendo con attenzione le profonde trasformazioni che l hanno investita. Nelle società euro-americane le transizioni demografiche (allungamento delle speranze di vita), i processi de- istituzionalizzazione della vita familiare (indebolimento del vincolo matrimoniale), insieme ad altri mutamenti nelle relazioni di genere (emergere del desiderio di filiazione nelle componenti omossessuali, bisessuali, trans e di genere non binario), sono l’origine di un evidente diminuzione delle parentele bio-legali, di conseguenza risignificate. Il drastico declino della natalità di particolare rilevanza in Italia ha ridimensionato la rete genealogica di ciascuno. Nell’ambito delle famiglie adottive si misura l’efficacia dell’imparentamento (Kinning) un processo di trasformazione dell’estraneo in parente. L imparentamento è la familiarizzazione formulano la mutualità dell’essere cioè l’esito dello stare insieme, del condividere azioni e routine del quotidiano che spingono a sentirsi parenti e ad agire da parenti. Imparentarsi significa apprendere e incorporare abitudini specifiche, ma anche incorporare altre persone con le quali si condivide la vita di tutti i giorni. Per tali ragioni il corpo finisce per materializzare i legami di parentela. Da qui l’esigenza di approfondire maggiormente sul piano dell’analisi antropologica, la corporeità della parentela e dei sentimenti che essa genera, riconoscendola primariamente come un fatto sociale profondamente incorporato. La procreazione medicalmente assistita (PMA) ha ridefinito socialmente la stessa dimensione biologica grazie ad interventi di vera e propria manipolazione programmata. La PMA si è rilevata fin da subito una modalità ulteriore e altra di generare nuovi esseri umani. Con essa si è riconcettualizzato il senso complessivo della riproduzione umana, con effetti potenti sulla concezione dei corpi, delle sostanze generative, oltre che dei ruoli genitoriali. Nell’era della riproduzione tecnica della parentela, le sostanze generative (ovuli, seme), sottoposte ad un processo di distacco dai corpi e di manipolazione in laboratorio, divengono oggetto di continuo negoziazione e risignificazione sia sul piano soggettivo che su quello giuridico ed epico. L’esperienza della rivoluzione fisica resta ovunque, proprio nei contesti contemporanei l’espressione primaria dell’intreccio tra biologico e sociale. Riportando la parentela al centro dell’indagine antropologica ed esaminando i tanti e differenti modi di essere e stare in relazione hanno riconfigurato l’idea stessa di famiglia, comprensiva di una pluralità di piani relazionali diversi; Da quelli bio- genetici-legali a quelli affettivi maturati nell’esperienza della condivisione e della cura. Sul piano transnazionale si svolgono gli itinerari procreativi attivi di coppie e single infertili costretti all’esilio procreativo non potendo ricorrere alla PMA nel proprio paese. Si realizzano le esperienze della genitorialità adottiva, soprattutto vivono le famiglie separate dalla migrazione di alcuni loro membri. Le cosiddette famiglie transnazionali che incarnano un modo di fare famiglia a distanza. Ciò costringe ad aggiornare la visione comune della famiglia come entità racchiusa dentro le mura domestiche. È emersa la necessità di nuove elaborazioni di senso entro cui sviluppare il valore sociale e simbolico delle nuove relazionalità: dalla pluralizzazione delle figure genitoriali alla valorizzazione delle relazioni generative, fino ai processi di soggettivazione che investono i protagonisti della generazione. Cap. 8 L’origine dell’antropologia linguistica viene individuata nell’operazione di documentazione di Frans Boas nel suo lavoro volto a salvare forme di discorso in via di sparizione, non registro mai racconti d’indigeni. I testi venivano raccolti attraverso dettature. George Hunt il principale collaboratore di Boas, alla dittatura preferiva un ascolto attento di racconti eseguiti sotto richiesta da oratori nativi, che veniva poi trascritti a memoria e tradotti in inglese ad Hunt stesso. Dopo questa prima fase, la possibilità di registrare conversazioni diete un forte impulso alla documentazione etnografica dell’interazione umana. L’avvento dei registratori portatili per la riproduzione di audio e video fu’ determinante nel consolidare una metodologia di ricerca distintiva. L’interesse si rivolge non solo su cosa viene detto, ma su come viene detto, diventano centrali l’intonazione, volume e timbro della voce; Sguardo, i gesti, pause e silenzi tra diversi interlocutori che parlano insieme. In altre parole, essere un antropologo linguista significa condividere l’idea che catturare il punto di vista dei nativi deve comportare centinaia, migliaia di ore di ascolto e trascrizione di audiocassette o videocassette. Nel favoso libro del 1921 Language, Sapir affermò che il linguaggio giuda e incanala il pensiero; noi siamo in tutti i nostri pensieri, per sempre alla mercè della lingua specifica che è diventata il mezzo di espressione della nostra società, perché possiamo vedere, sentire e comunque fare esperienze solo sulla base delle categorie e delle distinzioni codificate nella nostra lingua. La riflessione sul rapporto tra linguaggio e pensiero ha dato origine ad una serie d’indagini ed esperimenti interessati a verificare fino a che punto una lingua possa condizionare la memoria, la percezione e pensiero di chi parla. Si concepisce il linguaggio come pratica culturale e azione sociale. Questo approccio privilegia il discorso rispetto al testo, il dialogo al monologo. Subentra l’interesse per lo studio della comunità linguistica intesa come insieme eterogeneo di parlanti. Il grande merito di questi studi improntati all’analisi micro-contestuali del linguaggio fu quello di raggiungere descrizioni più precise, dinamiche e dimostrare la produzione discorsiva di fondamentali categorie culturali e strutture sociali. A partire dal 2000 la ricerca linguistica-antropologica si è orientata verso l’analisi della relazione tra linguaggio ed economia politica. Gli studi più recenti si interrogano su come le forme linguistiche vengono associati a significati culturali, valori sociali ed elementi materiali. Centrale è stato il concetto di ideologie linguistiche intesa sia come ideologie della lingua che del linguaggio. Lo studio delle ideologie linguistiche ci ha fornito nuovi mezzi per comprendere le connessioni complesse tra mondi microculturali del linguaggio e del discorso e macrosociali. C’è l’idea di mettere sullo stesso piano le rappresentazioni del linguaggio umano in generale prodotto spontaneamente dai parlanti e quello formulato da linguisti o antropologi. Le ideologie linguistiche sono portavoce di conseguenze e determinano spesso le fortune o la sopravvivenza di specifiche varietà. L’obiettivo principale del lavoro etnografico diventa quello di fornire una mappatura delle relazioni storicamente cristallizzate (messa a registro) tra repertori di forme linguistiche e tipi sociali. Viene mostrato che il ruolo centrale del linguaggio nel processo di valorizzazione capitalistica offre una formidabile strumentazione per l’analisi linguistico antropologica. Le elaborazioni sono basate sulla fusione tra capitale e mezzi di comunicazione e su nuove forme di sfruttamento semiotico, in cui consumatori e udenti sono chiamati ad erogare inconsapevolmente lavoro linguistico non retribuito. Cap. 9 La mercificazione è l'estensione del mercato oltre i suoi confini. Il concetto trae spunto dalle nozioni marxiane di feticcio, merce, reificazione. Qualche anno fa, John Harris propose di poter legalizzare il commercio di organi spingendo la British Medical Association A discuterne, A porte chiuse, e provocando un certo dibattito pubblico, tanto che intervenne un medico, Alistair Campbell Per sostenere il In una prospettiva antropologica marxiana Taussig mise insieme alienazione da lavoro salariato degli ex-contadini e credenza del diavolo, per studiare la mercificazione delle credenze operate dal capitalismo in quell’area. Taussig seguì la prospettiva marxista nel delineare la trasformazione di società precapitalistiche in seguito all’avvento del capitalismo e propose una lettura antropologica mostrando che la credenza del demonio è di fatto una resistenza all’avvento di tale sistema, e quindi ne rappresenta il fallimento sostanziale. Cap. 10 L'esperienza storica di un ambito del sacro, o di ciò che è oltre il mondo sensibile viene chiamato religione, come separato e indipendente da uno invece definito profano è tipica del pensiero occidentale. L'insieme delle attività umane sono, a un tempo sacre e profane. non è possibile quindi distinguere e separare le due sfere. Per questo motivo si è deciso di intitolare questa sezione metaumano. Tutti gli altri termini religione, credere, sovrannaturale, Rimandano la precisa esperienza storica e culturale dell'occidente. Il sovrannaturale rinvia ciò che è oltre la natura. ciò che è in Occidente pensato come oltre la natura è invece intimamente legato a essa, influenzandola in vari modi. Spiriti e dei, per quanto invisibili abitano concretamente il mondo della natura e interagiscono in vari modi con gli esseri umani. Gli antropologi evoluzionisti e segnatamente Frazer avevano collocato la religione entro uno schema di sviluppo dell'umanità che procedeva attraverso stadi ascendenti della magia alla scienza, vedendo la religione come punto intermedio tra le due. Nel guardare alle teorie sulle forme di religiosità, si può tracciare una prima partizione tra un approccio spesso detto intellettualista e neo- intellettualista, Incentrato su una psicologia individuale, com'è per Frazer, Che invece mette in primo piano le rappresentazioni collettive si concentra sugli aspetti simbolici delle espressioni religiose. Se c'è una possibilità di vedere una linea di continuità tra magia, religione, e scienza, Riposa sul fatto che tutti e tre tentano di dare una spiegazione al mondo, un ordine. la religione è una chiave per spiegare interpretare e influenzare i fatti del mondo e della vita. Per gli intellettualisti la religione è un idioma peculiare che consente di riflettere sui fatti del mondo, Collocandoli in ordine. In questo viene creata una sorta di continuità con le procedure e gli scopi della scienza. Robin Horton definisce la religione come un sistema chiuso, cioè poco incline al mutamento dei suoi paradigmi e chiavi di interpretazione. La scienza invece è un sistema aperto in cui l'atteggiamento critico e la possibilità di falsificare le teorie prodotte, permette di formulare nuove ipotesi e nuovi paradigmi. Levi-strauss si interessa a comprendere il modo in cui lo spirito umano classifica e ordina le umane esperienze, la natura e i fatti sociali. La mitologia, a cui l'antropologo francese ha dedicato buona parte delle sue ricerche, ha lo scopo di cogliere il lavoro del pensiero umano il mito è insomma un pensiero logico che organizza il mondo, Attraverso regole inconsce intese come categorie ordinatrici della realtà. I movimenti religiosi si imponevano all'analisi perché rappresentavano una risposta dinamica e creativa alla situazione coloniale, Essi hanno segnato un momento di rottura radicale con il passato, rottura resa necessaria dalle nuove condizioni sociali e culturali imposte dalla dominazione coloniale. Gli antropologi e non solo loro, hanno spesso riflettuto sulla possessione. Secondo Bourguignon Sono distinguibili tre tipi fondamentali di esperienza che li mandano alla possessione e alla transe. Si tratterebbe di un'esperienza spesso solidaria in cui il soggetto in transe interagisce attivamente con gli spiriti rimanendo però se stesso e acquisendo potere. La transe da possessione sarebbe invece un'esperienza prevalentemente femminile che solitamente si ritrova in società agricole. Il soggetto posseduto cesserebbe temporaneamente di essere se stesso, perdendo la propria identità e diventando un altro. Osservando l'articolazione della possessione, vediamo che l'inclusione di altri esseri lungi dall'essere un momento in cui una nuova identità si oppone a quella normale del posseduto fino a far recedere e scomparire quest'ultimo, Rappresenta invece un momento centrale del costituirsi della identità del posseduto che si fonda infatti proprio sul rapporto con gli dèi, anzi sul fatto che gli dei abitino il suo corpo. Michael Lambek ha insistito sulla differenziazione tra possessione manifesta e possessione latente. La prima si avrebbe quando un Dio prende attivamente possesso del corpo del suo ospite, cioè si manifesta attraverso gesti e parole. La seconda invece non sarebbe altro che la lunga storia del posseduto, il quale intrattiene una relazione con il suo Dio anche nei momenti di vita quotidiana in cui questi non si manifesta. Lambek Parla di possessione manifesta riferendosi al posseduto che si trova di norma in uno stato di transe. Vivere con gli dèi è un Fatto Quotidiano, che comprende momenti di possessione manifesta ed altri di possessione latente. Analizzare la possessione significa riferirsi a un qualcosa di estremamente complesso, dove momenti eclatanti si alternano allo svolgersi di normali fatti di vita. I corpi delle donne sono più vulnerabili rispetto agli uomini, sono ritenute responsabili delle cerimonie e delle pratiche che assicurano la continuità della vita sociale. Gli spiriti zar possono essere definiti come creature sociali incorporee. Affliggono prevalentemente le donne, causando loro problemi di fertilità. I posseduti imparano un anti-linguaggio spiritico, che altera termini e significati quotidiani. Il rito assume la forma di una burlesca imitazione di quello matrimoniale, prendendosi gioco delle moralità in esso presenti. Diventa contemporaneamente un rito di guarigione per le donne perseguitate dagli spiriti zar, utile ad addomesticare i poteri maschili e quelli sovrannaturali. La stregoneria ha spesso rappresentato un luogo privilegiato di riflessione per gli antropologi, le pratiche della stregoneria erano lette soprattutto nel loro aspetto di meccanismo di regolazione sociale teso al mantenimento dell'equilibrio. Il principale interesse degli studiosi si spostò all'analisi delle dinamiche di mutamento, il modo in cui ci si accostava alla comprensione delle pratiche di stregoneria e soprattutto dei culti anti-stregonici mutò radicalmente. se la stregoneria persisteva nei nuovi contesti sociali, era perché essa consentiva di rispondere all'insicurezza da questi generati, e più in generale era il sintomo del disordine e dell’instabilità prodotte dal rapido mutamento degli equilibri sociali di potere. La stregoneria è ormai vista Come parte costruttiva di quella peculiare esperienza storica che è la modernità per come essa si configura, in maniera plurale, in realtà diverse da quelle occidentali. Essa si mostra essere un paradigma mutevole i cui contenuti possono variare e riconfigurarsi. E in tal senso che può, mutando i contesti, rimanere operativa. La stregoneria più che una credenza appare uno strumento di diagnosi sociale. Cap. 11 Le migrazioni sono un punto privilegiato per osservare le profonde disuguaglianze dell’ordine economico e sociale. Le migrazioni sono fatti sociali totali scriveva Abdelmalek, così considerate svolgono quella straordinaria funzione specchio rivelando i lati più bui della società coinvolte nei processi migratori. La mobilità umana permette uno studio dell’articolazione dello stato dai suoi margini e dalle sue relazioni di rifiuto nei confronti di chi esprime la crisi della continuità fra cittadinanza, stato e nazione. Diverse prospettive concordano nel considerare le mobilità umane come processi storici, politici, economici e culturali di trasformazione sociale. Nei luoghi di arrivo l’immigrato veniva ritratto in una zona di scarto della nazione, ridotto a forza lavoro. Portando in scena anche l’emigrato, le esperienze, le aspettative e desideri, sarebbe emerso quel lato opaco della migrazione fatto anche di intimità, sofferenze, subordinazione e rivendicazione. Dal punto di vista etnografico le ricerche condotte nei luoghi di origine, sono tese a misurare gli effetti di ritorno delle migrazioni e ad esplorare i modelli storici di mobilità nei punti di giuntura o rottura con le nuove generazioni di migranti. Esperienza, memoria e orizzonti sociali non si limita quindi a dare conto del passato, ma offrono un quadro più completo della migrazione laddove riconfigurano l’agency del presente e le aspettative sul futuro, anche nei punti in cui queste temporalità esprimono punti di rottura con il passato. La mobilità può anche essere un capitale sociale per l’acquisizione di status nelle strutture locali. Riconoscere alla migrazione una dimensione storica, permette di evitare le trappole del presentismo. Tenere conto dei fili genealogici evita una lettura auto-evidente delle prassi istituzionali, resistenza e questa non è mai in posizione di esteriorità rispetto al potere. Si tratta di mettere in luce la funzione produttiva di rapporti sociali svolta da queste categorie ordinatrice del reale. Tanti non si oppongono apertamente e congiuntamente al potere, implicitamente si asserisce dunque che costoro non comprendono la propria condizione e interesse, e che sono offuscati da una falsa conoscenza. Il compito dell'osservatore critico dovrebbe essere quello di indicare che questa popolazione pratica quotidianamente delle forme di resistenza, difendendo le proprie posizioni, opponendosi a soprusi amministrativi E adoperando un'infinità di tattiche atte a contrastare le strategie dei poteri e mitigare la verità di disagi esperiti. Legittimare un'istanza contro l'altra significa per il ricercatore esercitare una scelta di campo. negli studi resistenziali c'è frequentemente un tratto autobiografico che rende la ricerca fondamentalmente riflessiva. La scuola degli studi culturali ha avuto il merito di mettere a nudo le relazioni che le culture conflittuali e devianti intrattengono con quelle dominanti. Le culture spettacolari giovanili così come quelle politiche o vandaliche sono esempi di conflitti aperti ed esibiti. I giochi di produzione mettono in luce molte delle ambivalenze presenti nei processi resistenziali, se questi giochi potevano essere intesi come modi per attenuare la tensione essi apparivano anche come una spontanea iniziativa operaia dentro gli spazi di libertà. Se nella pratica questi giochi erano dunque da considerarsi come strumenti per ridurre l'alienazione dal lavoro e negoziare premi obiettivi, dall'altro lato essi celavano il rischio di trasformarsi in una spirale di intensificazione del lavoro. La direzione intuì che certe lavorazioni potevano essere svolte in tempi più brevi e con un aumento della produzione stessa. Questo tipo di ambivalenze costituisce forse la cifra più autentica di quello che possiamo chiamare il problema della resistenza. lo scontro può tendere a conseguire non tanto obiettivi di programmazione radicale dei rapporti politici ma a tracciare confini e limiti all’azione delle amministrazioni impegnate a ripristinare l'ordine, a prescindere dalla natura delle rivendicazioni. Il mutamento delle posizioni occupate dalle donne, le spingeva ad adottare delle contro tattiche, volte a resistere all’immagine imposta loro dai processi di modernizzazione e a costruirne una propria. Insoddisfazioni, frustrazioni e aspirazioni per sé e per i propri figli determinavano modi di riordinamento del mondo imprevisti e di segno contrario rispetto a quelli ricercati dai dispositivi di potere e disciplinamento di genere. Rifiutarsi di avere rapporti sessuali con mariti infedeli, imparare in segreto a leggere e scrivere, oppure fare voto di silenzio, per le donne indiane sono comportamenti finalizzati ad attrarre l’attenzione su di sé. Anagol individua 3 tipi di tattiche di resistenza o evasione: La scrittura creativa sull’inversione simbolica; petizioni e memoriali rivolte ad autorità pubbliche, volte a segnare situazioni insostenibili sul piano dei diritti di proprietà; i crimini passionali, derivate da condizioni di profonda infelicità, e che perciò dovevano mirare all’eliminazione dell’oppressione e del maschile. Intimità ed emozioni sono costitutive dell’esperienza resistenziale. Introdurre il tema delle emozioni significa anche fare riferimento alla possibilità di collocare il problema delle resistenze al di fuori della dimensione pubblica e di porre al centro delle analisi lo spazio del privato. le resistenze si fanno più facilmente individuali ma non meno politiche. Possono anche farsi pubbliche confluendo nella modifica delle relazioni sociali della legislazione e dei costumi. Gli studi incentrati sul soggetto resistenziale si confrontano comunemente con nodi come la visibilità del conflitto, la sua natura organizzata o individuale, l’intenzionalità dello scontro e il problema epistemologico della relazione attori-osservatori. L’aspetto più importante è forse quello epistemologico, l’analisi etnografica distingue tra sopravvivenza e resistenza. I conflitti e resistenze possono esistere indipendentemente dalla consapevolezza del loro dispiegarsi, non solo da parte dell’osservatore ma anche da almeno uno dei partecipanti (spesso quello più forte). Il vantaggio sta nella possibilità data alla parte più debole di proiettare l’insoddisfazione nel foro pubblico, trasformandola in un tema da affrontare attraverso la guerra o la mediazione. La resistenza è uno spazio del desiderio, il luogo in cui l’osservatore con la sua modalità di scrittura etnograficamente “sottile” tesa a far vivere i soggetti nei testi, generando così nuove “gabbie” rivolti questa volta contro i neocoloniali della penna o tastiera, producendo una resistenza alle scienze sociali e ai discorsi aperti. Cap. 13 L’antropologia socioculturale moderna si fondò sullo scambio. L’economia e l’azione di scambiare costituiscono un accesso privilegiato alla conoscenza dei gruppi umani e delle possibilità di intendere e praticare la relazione tra le persone. La scelta dell’individuo è sempre orientata dall’obiettivo di massimizzare il profitto, che sia indicato in un ordine di beni puramente materiali, o più sofisticatamente, di ordine simbolico. Secondo gli esponenti marginalisti o formalisti dell’antropologia economica comparativa, la razionalità nella scelta di compiere atti apparentemente irrazionali va valutata sulla base dei fini specifici degli individui, all’interno di uno spazio morale che risente delle influenze degli altri. Emerge poi un gruppo di antropologi e storici dell’economia che si identificò con il termine di sostantivisti, contrapponendosi ai formalisti. L’oggetto della disputa tra i 2 opposti ruoterà intorno alle forme e ai comportamenti legati allo scambio. I sostantivisti sostenevano la necessità di abbandonare il paradigma universalistico della scelta razionale, per guardare alle concrete modalità che storicamente si erano affermate nei diversi contesti geografici e culturali. Il compito dell’antropologia e della storia economica diventava quello di mettere in luce quali elementi politici, sociali e ideologici avevano favorito in un dato percorso storico, l’emergere e il prevalere di uno specifico sistema di scambio. Nella scuola sostantivista ne derivava l’idea che le forme economiche fossero saldamente incastonate nella società dove potevano essere osservate. I tre ambiti di ricerca cruciali dello scambio sui quali l’antropologia ha costruito solidi archivi etnografici sono: dono, denaro, debito. Ciò che colpì l’interesse di Malinowski fu l’impegno di tempo e risorse che interi gruppi investivano nella circolazione di beni apparentemente inutili. Assume evidenza la straordinaria scoperta di intere società che pensano l’istituto dello scambio non in termini mercantili ma secondo principi basati sulla reciprocità e che Mauss definirà “economie del dono”. Il dono prevede per lo meno 3 obblighi, e 3 movimenti: dare, ricevere e ricambiare. Vi sono almeno 3 ulteriori e importanti caratteristiche o regole sociali, in termini Durkheimiani, che Mauss è abile a riconoscere nella società ed economie del dono: la prima consiste nel fatto che l’equivalenza tra il bene dato e il bene che si riceverà non è un principio regolatore dello scambio. La seconda è la dilazione temporale che si frappone tra il momento A del dare e del ricevere e il momento B, del ricambiare; essa garantisce l’esistenza stessa della relazione. La numerosità dei partner coinvolti nello scambio di doni, ovvero la possibilità come ebbe a dire Levi Strauss in merito agli scambi matrimoniale, che si tratti di una reciprocità ristretta o limitata esclusivamente ai due partner dello scambio, oppure allargata a una catena più ampia di molteplici e successivi partner. L’etnografia del dono ci offre una riflessione sulla distinzione tra classi di oggetti che circolano. Mauss proietta un terzo dono, quello del dono asimmetrico e del sacrifico. Un dono che non può essere ricambiato perché eccessivo, e dal quale non si vuole ricevere il contraccambio, al fine di mantenere la propria posizione di superiorità nella relazione. Questo richiama a un ordine dello scambio che non trova spiegazione nella volontà di nutrire una relazione sociale, quanto piuttosto nella conflittualità legata alla competizione per il potere e nella dinamicità del consenso politico. Lo sviluppo del dono asimmetrico si sviluppa inoltre nella direzione delle pratiche religiose attraverso una relazione gerarchica e squilibrata tra esseri umani e divinità. Bataille leggerà il dono asimmetrico e ostentato come una forma dell’umano desiderio dello spreco, uno scambio improduttivo è rivolto precisamente a negare la possibilità del ricambiare. Godbout ha sviluppato delle analisi socio-antropologiche importanti sul valore di legame e sul linguaggio del dono. Emerge che la relazione affettiva si mantiene fino a che si riproduce un’asimmetria reciproca e non c’è compensazione perfetta ed equilibrata. Fare i conti indica l’abbandono del valore di legame che è invece tipico delle donazioni. Dalla prospettiva della scienza economica il denaro è usualmente definito a partire dalle sue caratteristiche: Malinowski intervenne più volte nei dibattiti legati al cambiamento sociale in Africa e a suo nome venne pubblicato un volume di sintesi delle sue posizioni a riguardo. In questi lavori gli antropologi sociali britannici si rendevano conto dei profondi diversificati cambiamenti causati dal sistema coloniale sulle popolazioni locali. Il problema centrale di queste riflessioni era quello dei rapporti tra cultura coloniale e culture indigene e quindi dei reciproci effetti di cambiamento. In questo scenario si segnala per il posizionamento politico e l’attenzione prestata alla realtà del Sudafrica, la figura di Schapera. Allievo di Radcliffe-Brown e Malinowski, insegna a Londra e forma numerosi studiosi tra i quali i Comaroff che giocano un ruolo decisivo nel processo di avvicinamento tra storia e antropologia nel '900. Gli studi hanno messo in evidenza due limiti teorici delle analisi svolte in quegli anni. Da un lato la situazione coloniale veniva presentata come un contesto i cui limiti andavano corretti. Dall’altro, la storicità delle società indigene appariva conseguenza della presenza europea. Per il problema della concettualizzazione stessa della dinamicità interna alle società studiate, le risposte più precoci vennero da vari settori dell’antropologia sociale. Gluckman fu critico del sistema coloniale, sottolineò la centralità del conflitto all’interno di ogni sistema sociale, la necessità da parte delle società, di controllarlo e l’importanza per l’antropologia di mettere a punto strumenti concettuali per comprendere tali dinamiche. Professore di antropologia sociale a Manchester fu il punto di riferimento della scuola, i cui studiosi furono tutti interessati all’analisi delle situazioni di conflitto e a quella delle forme di mediazione delle società africane. Negli stessi anni in Gran Bretagna il dibattito sulla storicità dei fatti sociali divenne centrale anche sul piano teorico ed epistemologico. Evans Pritchard tenne una conferenza dove sostenne il carattere non naturalistico scientifico dell’antropologia sociale e il suo essere una disciplina vicina alla storia. Il suo interesse per la storia e la storicità era legato ad alcune esperienze di ricerca da lui svolte nel dopoguerra nelle quali aveva fatto uso di fonti coloniali e a una sensibilità epistemologica diversa da quella di suoi colleghi. Su tematiche come la stregoneria e la magia, contribuirono ad ampliare il dialogo tra antropologia e storiografia aprirono la possibilità per gli antropologi di svolgere ricerche etnografiche in contesti la cui storicità era difficile da ignorare. La scelta di collocare l’antropologia sociale dalla parte delle discipline interpretative, la riavvicinava all’antropologia culturale statunitense ponendo in qualche modo fine ad un decennio di polemiche. A partire da una prospettiva di storicismo integrale, de Martino evidenziava quello contingente e arbitrario delle oggettivazioni naturaliste prodotte dalla scienza sociale europea, incapace di cogliere la dialettica tra costrizione e libertà dell’agire individuale che è a fondamento della storia umana. La maggior parte di coloro che diedero vita l'antropologia marxista francese erano legati alla precedente generazione di studiosi Dinamisti e dunque l'attenzione alla processualità storica e alle dinamiche del cambiamento era al centro delle loro analisi. Come abbiamo visto, nell'antropologia sociale britannica le tesi sostenute da Evans-Pitchard avevano aperto la possibilità di un riavvicinamento tra antropologia e storia in contesti etnografici diversi da quelli classici. L'antropologia culturale statunitense si avviava ad assumere una posizione egemonica nella scena antropologica mondiale. Tutte le società umane sono iscritte nella storia e dunque ogni indagine etnografica sui singoli specifici gruppi non può non tener conto della storia di contatti, confronti e scontri nei quali quei gruppi sono stati coinvolti. Viene posta una sorta di ontologia materialista che attribuisce un ruolo determinante al lavoro umano tra le forme istituzionali in cui questi si organizza. Wolf intendeva mostrare come tutte le realtà umane “altre” osservate indagate, da un certo momento in poi, dallo sguardo antropologico, si siano costruite E abbiano assunto le configurazioni socioculturali che conosciamo all'interno del rapporto/scontro con l'occidente. Questa dialettica ha seguito e segue precise logiche strutturali che è compito di un'antropologia storica di impianto realista, ma anche critica far emergere interpretare, attraverso la messa in relazione di specifici modi di produzione. Wolf provava a fornire una mappatura delle reti che hanno avvolto è connesso il sistema-mondo, un’enciclopedia ricostruzione storica del processo globale di costruzione. All'impianto teorico di Wolf vennero rivolte critiche spesso dure, all'interno di un dibattito riguardante i rapporti tra etnografia, teoria antropologica e immaginazione storiografica. la storia presentata da Wolf venne ritenuta meccanica, priva di riferimenti e telegraficamente densi dal carattere spesso violento e mortale, Poco interessato ad accogliere la capacità di accomodamento e resistenza dei diversi gruppi umani. a partire dai primi anni 80 si andava spostando l'attenzione sulle forme della rappresentazione etnografica e storiografica. Sul finire degli anni 80 critiche alle letterature realiste dei rapporti tra storia globale e storie locali tra strutture economiche e dimensioni culturali vennero avanzate anche da versanti più classici del campo antropologico. Negli stessi anni si sono moltiplicati lavori etnografici che hanno indagato le storie d'altri. Jean e John Comaroff, nelle monografie etnografiche si dedicavano all'analisi dei modi in cui le donne uomini di un gruppo sudafricano hanno plasmato i propri rapporti con il mondo coloniale e post-coloniale, e alla ricostruzione storico antropologica dei rapporti politici e culturali tra neri e bianchi nel contesto coloniale sudafricano, i due studiosi mostrano piena consapevolezza dei problemi e dei dibattiti teorici di quegli anni, legati ai rapporti tra etnografia, storia e potere. I coniugi Comaroff facevano entrare nel proprio armamento teorico nozioni come quelle di habitus virgola e di egemonia/ideologia. Che avevano il proprio fondamento quella necessità di riflettere sui rapporti tra costrizione egemonica e libertà. Rapporti che, come abbiamo visto, erano stati quanti anni prima al centro delle preoccupazioni di un giovane radicale etnologo storicista napoletano e che avrebbero continuato ad alimentare le ricerche antropologiche fino ai primi due decenni del nuovo millennio. Cap 15 Suoni rumori, stimoli uditivi possono essere utilizzati come canali di accessi o per comprendere il funzionamento di una cultura un'indagine etnografica riguardante il suono dovrebbe consistere nel porre attenzione a quali sono gli stimoli sonori dotati di significato per orecchie culturalmente orientate in una specifica dimensione socio- culturale. Un passaggio metodologicamente importante riguarda la definizione culturale di suono e di rumore e l'individuazione dei rispettivi confini. La nozione di suono sostiene Francesco Giannattasio è soprattutto il frutto di una valutazione soggettiva che può variare in funzione delle culture, dei gruppi sociali e dei periodi storici. la musica è definita da Jhon Blacking come suono umanamente organizzato. Con il rumore è nato il disordine e il suo contrario: il mondo. Con la musica è nato il potere e il suo contrario: la sovversione. Quando invade il tempo degli uomini, quando e suono, il rumore diventa fonte di progetto di potenza, di sogno: di musica. L'esplorazione della realtà, la sua comprensione, manipolazione, trasformazione avviene per mezzo di codici sensoriali culturalmente elaborati: la relazione con i sensi e tra i sensi, l'esperienza corporea con il mondo attraverso i sensi, può variare in base ai periodi storici ai riferimenti culturali, ai contesti ecologici. L’udito e l'ascolto richiamano un articolato impianto multidisciplinare con cui far dialogare un lavoro etnografico. Il senso dell'udito è marcato da alcune peculiari caratteristiche distintive e per certi versi esclusive, è un veicolo percettivo sempre aperto, non ha palpebre e quando andiamo a dormire è l'ultimo organo che si addormenta e il primo che si sveglia. È impossibile separare la percezione uditiva dal flusso temporale, perché non è possibile fermare il suono e continuare a sentirlo. L’udito pone l'uomo al centro della realtà il suono è anche riproducibile, ma la sua riproducibilità è comunque legata allo scorrere del tempo. Poter risentire un canto, un racconto, un colloquio, avvenuti in un determinato momento è un'esperienza relativamente recente, ma il rapporto con la memoria locale degli eventi e dei luoghi risulta modificato. Le prime sensazioni di essere al mondo ci giungerebbero mediante un bagno di suoni. Roland Barthes due diversi atti percettivi uditivi: udire, è un fenomeno fisiologico; Ascoltare, è un atto psicologico. Pone anche in evidenza tre possibili funzioni dell'ascolto connessi a diversi livelli di coscienza, il primo è rivolto agli indizi ed è comune agli animali all'uomo; il secondo riguarda i segni e la loro decodificazione ed è proprio dell'essere umano; il terzo, che egli definisce