Scarica Riassunto del libro Media politica e migrazioni e più Sintesi del corso in PDF di Sociologia delle Migrazioni solo su Docsity! RIASSUNTO LIBRO “MEDIA, POLITICA E MIGRAZIONI IN EUROPA” - A. POGLIANO INTRODUZIONE Il libro affronta le rappresentazioni pubbliche europee delle migrazioni, i processi sociali che le producono, i fattori che le determinano e il rapporto tra migrazioni e ricerca del consenso politico. La letteratura su questi temi è ampia,ma manca un lavoro che li organizzi, ne discuta mostrando il quadro generale. In primis, bisogna distinguere due modi di indagare il nesso tra giornalismo e le sue rappresentazioni: 1. uno legato alle teorie della democrazia 2. uno legato agli studi culturali In secondo luogo, le ricerche su media e migrazioni in Europa mostrano grande omogeneità in termini di risultati → i temi e i discorsi di migrazione sembrano essere gli stessi e sembrano porre sempre le medesime criticità. Perchè? 1. riproduzione di un discorso razzista che ha origine nel colonialismo europeo (“nuovo” razzismo → che si basa nel differenzialismo culturale dei “bianchi”, acquisito per discendenza). 2. focus sulla vittimizzazione (con la distinzione tra migranti e rifugiati) 3. indagare il nesso tra l’uniformità narrativa e i processi di produzione delle notizie dei media (la professione giornalistica ha pratiche e procedure comuni, trattandosi comunque di una professione) → impone un calco della realtà che può essere indagato in riferimento alle rappresentazioni della migrazione. Quest’ultimo punto (lavoro di riorganizzazione della letteratura) apre la strada a ulteriori interrogativi in ambito sociopolitico (ai processi sociali che sottostanno alla produzione delle rappresentazioni delle migrazioni). Bisogna tenere in considerazione la questione del consenso → l’opinione pubblica non è solo manipolabile ma è anche sempre più spesso utilizzata per condizionare le scelte politiche. La questione del consenso è una questione molto complessa. Diventa quindi cruciale indagare lo stato dell’opinione sulle migrazioni → la letteratura si divide in due filoni: 1. uno orientato verso spiegazioni razionali ed economiche 2. l’altro verso spiegazioni di tipo simbolico (concetti di identità e cultura) Struttura del libro: ● Capitolo 1: tratta i principali approcci e concetti che organizzano il pensiero e l’analisi intorno alle rappresentazioni pubbliche e ai testi dei media (teoria del riflesso e del potere). Si tratta di un capitolo di introduzione ai concetti. Offre gli strumenti analitici per studiare le rappresentazioni. ● Capitolo 2: è dedicato alle ricerche sulle rappresentazioni delle migrazioni. Tratta i temi come criminalità e sicurezza, integrazione e cultura, asilo e vittimizzazione. Vengono discussi i frame del dibattito politico sulle migrazioni (migranti come minaccia, vittime o eroi) e i topoi (argomenti) connessi ai tre frame. L’obiettivo del capitolo è quello di interpretare i discorsi che si producono sui media e nelle politiche 1 e come i media li riproducono e traducono in un linguaggio popolare. Guarda ai discorsi che strutturano le rappresentazioni e a come i media li traducano in racconti ricorrenti. ● Capitolo 3: sposta l’attenzione ai meccanismi. Si analizzano i processi di produzione delle notizie di migrazione (newsmaking) e la produzione delle rappresentazioni. Si toccano due argomenti centrali: la costruzione mediatico-politica delle emergenze e crisi migratorie, e la questione del consenso. Si sofferma sulle pratiche e sui processi, allargando il rapporto tra media, politica e società civile. ● Conclusione: breve riassunto del percorso CAPITOLO 1 - Strumenti per un’analisi critica delle rappresentazioni 1.1 Distorsione della realtà o riproduzione del potere: quale critica ai media? Per fare ricerca sui testi bisogna partire da cosa si intende cercare → se si parte dall’idea che le rappresentazioni debbano riflettere la realtà si andranno a cercare i bias (storture e deformazioni); invece se si concepiscono i testi dei media come parte di un processo ideologico (affermare una o un’altra visione del mondo) si andranno a individuare i meccanismi attraverso i quali i discorsi si articolano. Nel primo caso la critica si rivolge al giornalismo, inteso come istituzione che ha il compito di raccontare la realtà oggettiva. Nel secondo caso, la critica si rivolge solo di riflesso al giornalismo. La prima impostazione (del riflesso) → vede la società come un meccanismo che funziona grazie alla triangolazione tra politica, media e cittadini. I media portano ai cittadini le informazioni sul mondo della politica e alla politica le opinioni più rappresentative della società civile. Tale meccanismo è retto da due principi: obiettività e pluralismo informativo. Si tratta ovviamente di un modello ideale → molte sono le critiche (soprattutto sul tema migratorio) intese a mettere in evidenza dei bias. Il giornalismo infatti ha storicamente stabilito come sua mission sociale l’obiettività (legandosi strettamente alla fotografia), quindi la critica rimane legittima. Uno dei concetti più usati, seguendo questo approccio di critica ai media, è quello dello stereotipo (inteso come deformazione della realtà sociale) → scorciatoie che permettono di avanzare nei processi di produzione testuale con maggiore velocità. Queste critiche hanno anche dei limiti evidenti → i giornalisti tendono a replicare sostenendo che non è facile trovare e dare parola a soggetti in grado di rappresentare gruppi di migranti. Inoltre, i singoli giornalisti possono cambiare poco della situazione, a partire dalla crisi economica del giornalismo che produce la tendenza a ricercare l’attenzione del pubblico con un linguaggio sempre più sensazionalistico. Sarebbe forse più utile promuovere un dialogo tra giornalismo e altri sistemi esperti, e in particolare con la ricerca scientifica. La seconda impostazione → concepisce i media come terreno per affermare delle ideologie e propone quindi una visione della società come spazio di potere e conflitti. I media sono visti come un’istituzione che ha un ruolo determinante nella lotta per il consenso e per il potere. La realtà quindi non è qualcosa di dato, ma una costruzione sociale che emerge dalla lotta per imporre una visione legittima. 2 CAPITOLO 2 - I CONTENUTI DEI MEDIA: DAL RAZZISMO ALLE MIGRAZIONI Esiste una continuità importante tra le ricerche su media e razzismo e le ricerche su media e migrazione. Bisogna quindi analizzare i lavori che illustrano la riproduzione dell’ideologia razzista sui media. Tuttavia, non tutta la ricerca sulle rappresentazioni delle migrazioni discende dagli studi su media e razzismo. Si analizzeranno i principali discorsi mediatici sulle migrazioni in Europa: tra i quali troviamo i discorsi sulla criminalizzazione del migrante, sui racconti di integrazione e sulla vittimizzazione dei richiedenti asilo. Infine, si guarderà ai principali frame delle migrazioni sui media. 2.1 Il razzismo come prodotto europeo e la negazione europea del razzismo Nella letteratura il razzismo ha due principali significati: 1. uno riguarda il pregiudizio e si definisce in termini antropologici e psicosociali con riferimento ad attitudini e comportamenti ostili tra gruppi, che attivano il confine simbolico della razza. Secondo questa visione il razzismo è sempre esistito ed è persino naturale, nella misura in cui il processo di identificazione attraverso il gruppo non può fare a meno della produzione di pregiudizi negativi sugli altri gruppi (una delle tante configurazioni che ha assunto l’etnocentrismo). 2. il secondo è più sociopolitologico e indaga il razzismo come un sistema sociale e istituzionale che rende strutturali le disuguaglianze. Secondo questo approccio il razzismo fa la sua apparizione in epoca moderna → con l’affermazione delle identità nazionali e l’espansione coloniale. La letteratura ha individuato nella storia della modernità occidentale tre modelli di protorazzismo (esempi di specifiche forme e ideologie razziste apparse prima che il termine entrasse nel linguaggio): 1. mito del sangue puro 2. dottrina francese “delle due razze” (Franchi e Galli) 3. la legittimazione dello schiavismo e della dominazione coloniale In questi tre casi, alcune idee marcatamente razziste si accompagnarono a pratiche di esclusione, dominazione, discriminazione o segregazione sociale. Queste forme hanno anticipato il “razzismo scientifico”. Inoltre, l’essenzialismo (modo di pensare tipico di ogni razzismo) consiste nell’attribuire a tutti i membri di un gruppo caratteristiche fisse e immutabili, creando la categoria del soggetto inconvertibile o inassimilabile. Queste due concezioni di razzismo non esauriscono le risposte che si sono sviluppate a partire dalla domanda su cosa sia il razzismo. Quindi, è importante tentare di limitare il campo semantico giungendo a definizioni più stringenti. Di conseguenza, si è arrivati a ricondurre il razzismo a un fenomeno della storia europea che va dal XIX alla prima metà del XX secolo. Questa riduzione del campo semantico coperto dal concetto di razzismo genera una delle più frequenti formulazioni negazioniste → se secondo la scienza non esistono più le razze, allora non può più esistere nemmeno il razzismo. Emerge dunque una battaglia politica intorno all’affermazione e negazione del razzismo → essa si incentra su una questione sociale e culturale: dalla fine della seconda guerra mondiale il razzismo è diventato un tabù. Pur avendo avuto un impatto evidente in passato, la razza non costituisce un confine sociale 5 rilevante tuttora. Il periodo eccezionale e anomalo sarebbe quello dei totalitarismi del ‘900, con particolare riferimento all’Olocausto e alle leggi razziali. Il dopoguerra ha riscritto la storia dell’Europa dando uno strappo radicale con il passato, portando l’Olocausto a funzionare come una sorta di memento. Le due negazioni delineano i rischi che comporta una definizione ristretta di razzismo. Il rischio principale è quello di non attrezzarsi adeguatamente per leggere, interpretare e contrastare fenomeni di razzismo che non siano copie di quel breve periodo storico. Di conseguenza, razza e razzismo, nel discorso pubblico europeo, sono connessi quasi esclusivamente a discorsi antisemiti e neonazisti. Per questo motivo, il razzismo non troverebbe un’adeguata deterrenza. Inoltre, un immaginario abbastanza diffuso e a lungo riprodotto dai media, ha dato vita ad un ulteriore argomento negazionista (una forma di distanziamento geografico) → il razzismo riguarderebbe l’America, non l’Europa. Questa convinzione è costruita sul legame stretto tra forme di razzismo istituzionale e immaginario segregazionista. Inoltre, un ulteriore elemento che produce l’effetto di rendere il razzismo un tema marginale viene dal fatto che razzismo e antirazzismo sono stati a lungo presentati dal giornalismo in riferimento all’attualità e non alla memoria, attraverso la cronaca degli scontri tra attivisti di estrema destra e sinistra. Considerata la tendenza a considerare questi due gruppi come minoranze marginali e conflittuali, si è contribuito a depotenziare il dibattito pubblico sul razzismo. Di quale razzismo siamo disposti a discutere nello spazio pubblico europeo? Non è affatto detto che il ruolo giocato dal razzismo in una società dia alto o basso in tutti i possibili aspetti in cui la ricerca sociale sul razzismo può spaziare. Spesso capita di assistere a dichiarazioni del tipo: la nostra società/popolo non è razzista. Negli anni Novanta, i media imposero nel giro di poco una negazione pubblica del razzismo sulla base di sondaggi d’opinione limitati nel campione e discutibili nei metodi. Più di recente (in riferimento a proteste, aggressioni e boicottaggi nei confronti di rom, migranti e richiedenti asilo) si assiste ad altre perentorie negazioni del razzismo sulla base di un discorso legato alle cause che portano ai gesti di intolleranza e violenza. Si nega dunque che la causa delle azioni riposi nell’ideologia del razzismo. Se applicassimo questo ragionamento di negazione allo studio del razzismo potremmo ritrovarci persino a negare che il razzismo sia mai esistito. Si tratta di un’idea che ha origine in un modello centrato sulla paura del declassamento sociale → si tratta del generarsi di un risentimento diffuso, alimentato dall’ossessione della decadenza che viene infine rivolto ai membri di una classe inferiore. Secondo questo approccio, il fatto di condividere i luoghi e il tenore di vita dei migranti funzionerebbe come un alimentatore quotidiano dell’ossessione al declassamento. La razza è quindi innanzitutto uno strumento semiotico usato come mezzo di lotta per ottenere consenso e potere attraverso le rappresentazioni. Molti hanno proposto di guardare alla razza non dalla prospettiva delle razze stigmatizzate ma dalla categoria razziale meno visibile: la razza bianca. Attraverso la proposizione del concetto di whiteness → si spinge a leggere il razzismo come difesa dei privilegi associati alla categoria del bianco. Questo 6 concetto spinge a studiare come viene normalizzata l’idea di una società bianca e fondata sui privilegi dei bianchi. 2.1.1. Il razzismo culturale differenzialista Che il razzismo sia diventato tabù in Europa, significa per molti che la razzializzazione operi oggi secondo altre terminologie e sfruttando altri sistemi di giustificazione. Questa idea nasce nel libro The New Racism (Martin Barker) → analizza i dibattiti sull’immigrazione nel Regno Unito negli anni Settanta e segnala due giustificazioni alle politiche di chiusura alla migrazione e di esclusione dei migranti: 1. messa al bando di un’esplicita costruzione di gerarchie a favore di un’incompatibilità tra valori e stili di vita 2. un’enfasi sulla cultura e sulle tradizioni nazionali Le culture ne risulterebbero essenzializzate e il solo fatto di appartenervi per nascita renderebbe le persone portatrici di valori, modelli e stili di vita, costumi e tradizioni condivise. Da qui bisogna riflettere sul concetto di etnia → le appartenenze etniche sono state studiate come produzioni culturali, frutto di selezione e arbitrio, che non rispondono a realtà oggettive. L’uso del termine etnia è stato indagato come un modo di richiamare la razza senza riferirsi a questo termine ormai screditato. L’etnia rimanda infatti a una presunta identità collettiva, che non viene letta attraverso il sangue, ma attraverso la cultura e le forme socioculturali. Il termine viene spesso usato per riferirsi agli altri, mentre per sé si preferisce la nozione di popolo. Il “nuovo razzismo” non mostra più la questione dell’inferiorizzazione dell’altro sulla base dell’appartenenza → le culture sono tutte ugualmente degne, ma sono irrimediabilmente diverse le une dalle altre, e tali devono rimanere. L’appartenenza a una cultura diventa l’elemento principe per costruire discorsi di inclusione o esclusione. Tutto ciò non viene più necessariamente prodotto in nome di una superiorità, ma in nome di un’irriducibile differenza. Questo neorazzismo evoca quindi il principio della non-assimilabilità. Questo discorso, che porta a rafforzare l’attaccamento a simboli, tradizioni e narrazioni di carattere nazionale, etnico o religioso, è stato indagato come un effetto o contraccolpo della globalizzazione e dell’accelerazione capitalistica. Questo movimento politico-identitario, che si esprime in forme reattive e di politica attiva, racconta solo una parte della storia. L’altra parte transita per i processi di inclusione ed esclusione che regolano la ricerca del consenso e la gestione del potere. Nel neorazzismo concettualizzato da Barker c’è già molto dell’armamento concettuale delle attuali destre europee, compreso il discorso che ribalta il tema del razzismo, sostenendo che i progressisti promuovano un approccio politico teso a dare più diritti ai migranti di quanti ne vengano concessi ad altri. Ciò che emerge è che il nazionalismo di questi movimenti e partiti si legittima in nome del diritto alla differenza culturale, intesa come diritto all’identità di una nazione. Ma è soprattutto attraverso lo specchio dell’alterità che il tema dell’identità viene a dispiegarsi. Di conseguenza, l’antirazzismo classico non può funzionare da dispositivo critico efficace dal momento che le sue tesi e argomentazioni tendono a confondersi con quelle del neorazzismo, differenzialista e culturale. 7 la criminalizzazione dei migranti sui media sia un tema che mostra una grandissima trasversalità e offre tutti i segni di una narrazione comune che funziona come una difesa dei privilegi della whiteness. 2.3.2 Integrazione e coesione sociale Il tema dell’integrazione si presta a indagare la forza e l’attualità del discorso del “nuovo razzismo” → su questo argomento si concentra molta ricerca su giornalismo e migrazioni. Esiste quindi una questione di framing → nei modelli novecenteschi, l’integrazione è il termine impiegato per parlare della tenuta complessiva del tessuto sociale (come sta insieme una società?). Integrazione significava innanzitutto tenere sotto controllo i conflitti, a partire da quelli di classe. Oggi, se si parla di integrazione, il focus si è spostato dal conflitto sociale al conflitto culturale: un conflitto di tipo etnico tra indigeni e immigrati. Tutto ciò accade in un periodo storico in cui sovrapporre nazione e cultura è un’operazione sempre meno credibile. La globalizzazione porta a un incremento dell’invenzione della tradizione. Il concetto di integrazione si sviluppa in un intreccio costante con quello di assimilazione → processo attraverso cui memorie, sentimenti e abitudini della società d’approdo sono acquisiti dagli immigrati. L’integrazione quindi dipende da vincoli e opportunità specifiche (ad esempio il tipo di offerta lavorativa e scolastica, dalle persone e dai gruppi presenti nei contesti che ci si trova ad abitare, dalle politiche locali ecc.). Si è sviluppata l’idea che esistano diverse dimensioni dell’integrazione, relativamente indipendenti le une dalle altre, che possono essere ricondotte a tre dimensioni principali: 1. socioeconomica 2. legale-politica 3. socioculturale Inoltre, si può guardare all’integrazione come a un processo che riguarda innanzitutto singoli individui, oppure che si riferisce a gruppi o nella prospettiva delle reti sociali. Politiche di civic integration → ritorno all’assimilazionismo e un relativo abbandono del tentativo di intendere l’integrazione come il rapporto tra tre diverse dimensioni. Essa si fonda sul principio secondo cui le persone provenienti da paesi non UE debbano soddisfare specifici requisiti, relativi alla conoscenza della lingua del paese ospitante, delle sue istituzioni e dei valori che lo caratterizzano. Dunque, questa è una politica premiale e selettiva, che pone alcuni elementi culturali al primo posto nel processo di integrazione. Questo tipo di politiche sono un tentativo, molto spesso riuscito di ridurre il numero di richieste di visti d’ingresso in un paese. Tali test spesso sono dei pessimi indicatori della socializzazione culturale e, in molti casi, eccedono le richieste formalmente espresse dalla legge, andando oltre la mera volontà di testare una conoscenza formale della lingua e della cultura civica. Le stesse istituzioni dell’UE hanno favorito la diffusione della civic integration attraverso l’emanazione di direttive. Dallo studio del linguaggio di queste direttive sono state dedicate ricerche che muovono dall’approccio della CDA. Questi testi enfatizzano le responsabilità individuali dei migranti, mentre rimangono vaghi sugli impegni che le citate istituzioni statali dovrebbero di fatto assumere (chiara divisione fra 10 noi e loro). In questo caso l’apprendimento culturale è inteso come prerequisito fondamentale all’integrazione socioeconomica. Bisogna ora analizzare come un discorso dell’integrazione fondato su questi presupposti entra nel linguaggio → i media sono quindi fondamentali: sono le storie, le categorie e le immagini che essi mettono in circolo a costituire gli elementi per mezzo dei quali la maggior parte delle persone pensa e discute i fenomeni di integrazione. La caratteristica che appare come la più evidente del discorso giornalistico sull’integrazione è la doppiezza: quando vengono raccontate storie che negano la possibilità di integrazione, il tema culturale, religioso o etnico è sempre invocato; mentre quando si raccontano storie di avvenuta integrazione, il tema culturale scompare. Insomma, le storie di integrazione sono sempre storie di successo evidentemente straordinario. Per schematizzare, le narrazioni giornalistiche dell’integrazione ruotano attorno a: ● la cultura dei migranti letta come intralcio ● la riduzione del migrante integrato a fatto raro ed eccezionale ● la ridefinizione dell’integrazione in termini di classe o status sociale ● la caratterizzazione in termini psicologici del soggetto definito come integrato Queste storie si collocano in piena sintonia con individualità ed eccezionalità, aggiungendo l’elemento della visibilità → l’integrazione, in quanto discorso pubblico, ha sempre avuto a che fare con questa necessità di promuovere la visibilità degli integrati per cambiare l’immagine negativa, fatta di problemi e sospetti che avvolge le migrazioni. Per riassumere, i sei punti intorno ai quali muovono le narrazioni dei medi sull’integrazione sono: 1. la cultura d’origine (data per scontata e interpretata come intralcio) 2. l’eccezionalità dell’integrazione 3. la sovrapposizione di integrazione e successo economico 4. la lettura del migrante integrato come migrante buono 5. la desiderabilità di uno stile di vita occidentale che viene data per scontata nel quadro di una vera integrazione, ma che non ha nulla a che vedere con i valori civici 6. la visibilità dell'impegno come strumento per mostrarsi meritevoli Questi punti costituiscono i vertici di una figura che intrappola le narrazioni e ne delimita le possibilità. (*esempio di un giovane ragazzo marocchino in Italia, prossimo a ottenere la cittadinanza, mediatizzato in virtù di una laurea di primo livello ottenuta in ingegneria a Torino). In generale, i racconti di integrazione sui media si sovrappongono a quelli che molte analisi tendono a identificare come le “storie positive”, contrapposte alle “storie negative”, prevalentemente legate a crimine, terrorismo e devianza. Tali storie di integrazione contribuiscono a legare il dibattito sulla migrazione a uno scambio di condivisioni di singoli fatti di cronaca: fatti criminali, per negare la possibilità d’integrazione, ma anche di lealtà per promuoverla. Infine, bisogna trattare il tema dei migranti musulmani e del fenomeno di razzializzazione cui sono soggetti. La scomparsa del racconto del musulmano come migrante ha coinvolto in modo netto l’apparato iconografico. Le presenze di musulmani definiti tali nei servizi del 11 giornalismo si limitano a due icone: le donne coperte dal velo e il gruppo di uomini in preghiera. A partire dall’11 settembre 2001 le storie di migranti musulmani (e non solo di Islam o terrorismo) si sono ridotte drasticamente nei racconti dei media. Vi sono poi delle storie come atto di eroismo individuale (storie di ragazze che si scontrano in modo violento con uno o più membri della famiglia di fede musulmana). Tramite queste storie si fa largo la possibilità di aprire questa dinamica, generalizzando non soltanto ai musulmani, ma persino a tutta l’immigrazione, ad esempio insistendo sulla metafora della seconda generazione d’immigrazione come ponte tra due culture. Va inoltre fatto notare che produrre racconti in termini di “scontro di civiltà” è sempre un’importante occasione mediatica per tracciare un’idea di società compatta e coesa intorno ad alcuni valori. In conclusione, il musulmano sui media è una categoria narrativa, scomposta in sottogruppi occupati dal fondamentalista e dal moderato, dalla prima e dalla seconda generazione, da donne col velo e senza velo. Si tratta di una categoria che si attiva o disattiva a seconda della necessità di riproduzione dei discorsi oggi prevalenti, e che è in grado di fornire volti, storie e feticci a quegli stessi discorsi. 2.3.3 Asilo e vittimizzazione Da molti anni si è aggiunto un ulteriore tema che ha spostato parte dell’attenzione sul nodo delle categorie politiche e giuridiche. Migranti, rifugiati e free movers, migrazioni per motivi economici e migrazioni forzate, richiedenti asilo e irregolari, costituiscono categorie che permettono la regolazione e il controllo statale della mobilità umana, ma anche la produzione di discorsi morali su cui costruire consenso. Quando una prima forma di protezione internazionale per i rifugiati fu stabilita, i rifugiati erano trattati primariamente come migranti → era loro riconosciuto il diritto alla mobilità legato alla ricerca di lavoro. Fino agli anni Cinquanta, il concetto di rifugiato andava di pari passo con quello di migrante, senza che fosse operata una netta distinzione tra le due categorie. Il fatto di leggere il rifugiato come una categoria speciale del migrante economico ha prodotto dei vantaggi ma ha anche portato a dei disastri, primo fra tutti il rifiuto. A partire dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, la Convenzione di Ginevra ha prodotto una riduzione del diritto d’asilo alla definizione stessa di rifugiato. Veniva così a crearsi una distinzione fra due categorie: i migranti e i rifugiati. La mobilità dei primi era soggetta al potere discrezionale degli Stati, mentre ai secondi era garantita la protezione internazionale. In pratica, le migrazioni per motivi economici erano da quel momento interpretate come volontarie. Però, costruire un immaginario del rifugiato in opposizione a quello del migrante economico porta con sé il rischio di negare le necessità economiche dei rifugiati, preoccupandosi esclusivamente delle prime necessità e dell’assistenza e del supporto di natura umanitaria. Refugee gap → lo scarto tra migranti e rifugiati nella partecipazione al mercato del lavoro, tutto a svantaggio dei secondi. 12 3. topos personalizzato del buon lavoratore 4. lavoro come successo e come eccezione Sebbene l’aver individuato un set di frame aiuti il ricercatore impegnato in analisi comparative che intendono verificare la maggiore presenza di uno o più frame in determinati contesti, questa pratica rischia di ridurre la complessità e di far perdere di vista alcune importanti differenze. 3. DAI TESTI AI PROCESSI SOCIALI: PRODUZIONE DI NOTIZIE, CREAZIONE DELLE EMERGENZE, GESTIONE POLITICA DEL CONSENSO Qui si affrontano due questioni: 1. le cause di carattere organizzativo che portano al riprodursi dei frame di migrazione 2. i processi sociali che causano improvvise fiammate di attenzione mediatica e politica sul alcuni sottotemi del generale tema migratorio Un’altra causa della riproduzione dei discorsi (oltre alle ideologie e agli immaginari pregressi) è rintracciabile nei processi di produzione delle notizie → bisogna quindi guardare al giornalismo come professione e come pratica di lavoro. L’analisi finora non ci dice nulla né su come quotidianamente si riproducono i frame e i discorsi di migrazione, né sul verificarsi di quelle improvvise ondate di notizie che segnano l’immaginario pubblico. Il capitolo ha l’obiettivo di indagare i processi che portano a piccole o grandi trasformazioni sociali, in una reciproca influenza tra media, società civile e politica. Vuole mettere in luce alcuni dei motivi che portano alla tendenza a parlare di migrazioni nei termini di una continua emergenza cui si accompagnano sempre delle crisi. Questa analisi ci porta a sostenere che per contrastare le rappresentazioni dei media che più ci appaiono problematiche è necessario intervenire su altri livelli, e non sul livello dei testi e dei contenuti dei media. Le rappresentazioni dei media sono in buona parte il risultato di azioni che si muovono intorno al giornalismo ed è forse soprattutto in questi spazio che è necessario muoversi. 3.1. Le pratiche della professione giornalistica e la riproduzione (involontaria) dei frame 3.1.1. Produrre notizie: dal ruolo delle fonti informative al potere degli script Newsmaking → studi sulla produzione delle news. Si tratta di studi con metodi etnografici al fine di raccogliere dati sulle pratiche di produzione e, in altri casi, si limitano a produrre interviste con i professionisti. (Come funziona il network delle fonti giornalistiche che produce informazioni?). Le ricerche sul newsmaking hanno mostrato come svariate pratiche e strategie codificate, processi di socializzazione professionale, strutture gerarchiche, limiti tecnici, economici e di tempo contribuiscono a determinare i contenuti dei media. Questa prospettiva si colloca nel mezzo di un approccio di political economy e uno che guarda alle scelte di singoli giornalisti o singoli direttori. 15 Bisogna ricordare che il giornalismo divide i fatti notiziabili in sezioni e in temi, e produce una distinzione operativa tra hard news e soft news. Queste distinzione creano una prima costrizione e distorsione che investe il tema migratorio: ● isolando l’immigrazione da altri temi ● usando il tema come catalizzatore ● frantumando il tema migratorio nelle varie categorie che fanno seguito alle specializzazioni giornalistiche. Una netta separazione che il giornalismo tende a produrre è quella tra i profughi di guerra e i richiedenti asilo. Inoltre, la divisione rigida in categorie e ambiti di competenza, attraverso la quale il giornalismo traduce le informazioni in notizie, non si limita però a questo, ossia erigere un muro che separa emigrazione e immigrazione. I giornalisti che si occupano della cronaca dell’immigrazione non hanno spesso le competenze per inserire nel più ampio contesto i fatti che si trovano a riportare, né le loro pratiche di lavoro li spingono a farlo. In questo modo si produce il nesso tra giornalismo di immigrazione e pensiero di Stato, che schiaccia la narrazione della migrazione intorno alle questioni della sicurezza, del degrado e dell’irregolarità. *Esempio dell’occupazione dell’ex villaggio olimpico di Torino. Il giornalismo quindi tende a trattare l’immigrazione come un fatto di politica interna, a privilegiare il genere della cronaca nera e le fonti informative che legano il tema alla questione della sicurezza. Gli attori istituzionali sono da sempre le principali fonti delle notizie e gli sponsor dell’industria giornalistica → questo legame però contribuisce a produrre l’eccesso di notizie di crimine. Oltre alle fonti delle notizie esiste la questione giornalistica di trovare soggetti che mettano in scena il conflitto o che rappresentino delle istanze di interesse, nel quadro del racconto, o che commentino le storie notiziate. È ben noto che i migranti e i richiedenti asilo tendano ad avere ben poco spazio come fonte di commento alle notizie che li riguardano. Sono soprattutto gli imprenditori politici a ottenere questo spazio. Questo aspetto risulta essere uno dei due tasselli che il newsmaking offre per spiegare come la distinzione tra frame della minaccia e della vittima sia in parte frutto di questioni legate alla produzione di notizie. L’altro tassello è legato ai generi delle news. I generi fanno riferimento da una parte alle distinzioni categoriali tipiche del giornalismo e dall’altra a elementi connaturati alla storia del giornalismo e alle battaglie su stili e prospettive. Qui bisogna fare una distinzione tra giornalismo oggettivo e un giornalismo che segue invece il principio dell’advocacy journalism. Tra questi due generi esiste un giornalismo più legato all’inchiesta, che spesso si traduce nella denuncia. Un’importante ricerca (della Commissione Europea) mostra che la storia è raccontata in base a due copioni: uno emozionale e uno minaccioso. Si deve tracciare un parallelismo tra la ripetizione dei due frame (della vittima e della minaccia) e le condizioni di grande difficoltà economica delle testate giornalistiche. In generale, gli script plasmano la realtà e la forzano nelle loro griglie. In conclusione, gli script e il bisogno di lavorare seguendo generi e script rendono perfettamente l’idea di cosa si intenda con l’espressione “distorsione involontaria”. Perché il giornalismo possa procedere senza intoppi la realtà deve piegarsi ai suoi formati. 16 3.1.2 Fotogiornalismo e migrazioni: il marketing degli stereotipi Poiché i frame i strutturano intorno a degli immaginari anche lo studio delle immagini di migrazioni è rilevante dal momento che: ● i processi di produzione, raccolta, selezione e presentazione delle immagini delle notizie contribuiscono in buona misura a definire i frame della migrazione sui media ● le immagini sono uno dei più importanti valori-notizia, elemento imprescindibile della notiziabilità Quindi, lo stereotipo visivo diventa costitutivo dell’impresa giornalistica. Il fotogiornalismo d’immigrazione presenta così una doppia funzione: 1. da una parte è necessario alla spettacolarizzazione delle notizie, fondamentale a fini commerciali (rispetto agli sbarchi, ad esempio). 2. dall’altra struttura gli immaginari, offrendo un bacino definito e costante di connessioni tra categorie di migranti e specifici stili visuali (criterio di chiarezza) Gli immaginari centrati sulle etnie e sulla religione, gli immaginari del ghetto e quelli della miseria diventano pertanto centrali nel definire la visione del migrante. Inoltre, i fotografi stabiliscono la vendibilità delle loro immagini ai giornali in gran parte sulla base dell’aderenza agli stereotipi circolanti, agli immaginari attesi. Un’altra maniera attraverso cui il fotogiornalismo contribuisce a costruire i frame delle migrazioni è quella legata alle pratiche attraverso cui si reiterano forme specifiche di sguardo in sede di produzione delle notizie. Le tre prevalenti sono quelle: ● del controllo/sorveglianza (mostrando lo scontro) ● del reportage (racconta una situazione) ● del documentario (collaborazione tra fotografo e soggetto fotografato) Possiamo distinguere tra lo stile dello “scatto rubato” e quello del “ritratto” e ci possiamo porre due domande. 1. Chi ha diritto al ritratto e chi non lo ha? → i “migranti buoni” e gli “eroi” o “celebrità” 2. Su quali testate dominano gli scatti rubati e su quali altre i ritratti? → si possono ricavare quattro frame visuali dei migranti sui media: i disperati, i nemici, gli assimilati e gli integrati. La questione commerciale gioca dunque un ruolo importantissimo nel definire le forme e la distribuzione dei frame della migrazione e che la fotografia ne è talvolta persino il motore. 3.2. Fenomeni mediali, politicizzazione, opinione pubblica La struttura fin qui descritta (fatta da discorsi e frame e la loro riproduzione) ha ricadute importanti per la formazione dell’opinione pubblica, per la costruzione di alleanze e per le campagne elettorali e la ricerca del consenso. Questa stessa struttura condiziona il clima culturale e politico che grava su chi lavora con i migranti. I media sono fondamentali perché la riproduzione dei discorsi trova nelle narrazioni che essi quotidianamente producono le sue forme popolari, dentro le quali si gioca la partita per il consenso. L’organizzazione produttiva del giornalismo ha una sua autonomia e una sua capacità di imporre le proprie logiche che retroagiscono sulla politica e condizionano la capacità di partiti e leader di ottenere consenso popolare. 17 3.2.2. La politicizzazione delle migrazioni Molta parte dei fenomeni di politicizzazione delle migrazioni è conseguenza di rituali mediali citati in precedenza. Il frame della migrazione che si presta a essere soggetto a questa trattazione è il frame della minaccia. I temi intorno a cui sono prodotte ondate di notizie intorno a gruppi di migranti definiti come minaccia o nemici della società sono quello del crimine di strada, quello delle violenze sessuali, quello dei conflitti urbani, la minaccia fiscale. A questi va aggiunto il tema della “invasione di massa” → collega tutti i topoi connessi al frame della minaccia. Anche il frame della vittima è in grado di produrre un aumento improvviso della salienza → fortemente dipendenti dalle immagini e dalla loro capacità di generare shock. Eccezione fatta per il topos della vittima di razzismo. La politicizzazione delle migrazioni dovuta a fenomeni quali le ondate di notizie, i media hypes e il panico morale, sembrerebbe dunque rafforzare i frame della minaccia e quelli della vittima, mentre non sembra presentare legami con il frame dell’eroe. Quindi, innanzitutto la politicizzazione dell’immigrazione si costruisce in larga parte attraverso i fenomeni mediali (news wave, media hype e moral panic). La conseguenza più evidente di questo passaggio è che la politicizzazione è spesso costruita come emergenza e intorno a una narrazione morale, ossia prodotta dall’individuazione di un nemico della società/nazione. Ciò che è in gioco nelle smentite di una notizia e del suo legame con il tema evocato, non è il fact-checking, ma la legittimità della costruzione del tema e la possibilità di riprodurre il tema come emergenza. In un’ecologia mediatica condizionata dalla comunicazione social la messa in ridicolo dell’errore si trasforma immediatamente in tentativo di delegittimazione non solo dei sostenitori del tema, ma del tema stesso. Il frame della minaccia e i due topoi più diffusi ad esso connessi (culturale e dell’ordine pubblico) sono costantemente sostenuti da discorsi che sono oggi chiaramente egemonici, supportati politicamente da un arco esteso. Bisogna considerare alcune variabili che rendono la politicizzazione più o meno frequente e che tentano di individuare delle differenze sistemiche che si traducono anche in differenze di politicizzazione nei diversi paesi europei. I quattro elementi principali da prendere in considerazione sono: 1. la realtà sociale materiale 2. la struttura delle opportunità politiche 3. le azioni di specifici gruppi e dei movimenti politici e sociali anti e pro migranti 4. la struttura delle opportunità discorsive. Abbiamo quattro modelli di cittadinanza: 1. assimilazionista → ottenimento attraverso l’assimilazione culturale 2. universalista 3. multiculturalista 4. segregazionista 20 Finora non si è parlato delle azioni legislative → eventi molto importanti nel produrre la politicizzazione delle migrazioni. Le politiche tese ad aumentare i diritti dei migranti tendono a produrre una reazione molto estesa, mentre le politiche che chiedono una maggiore assimilazione culturale producono una reazione meno estesa. Bisogna ora soffermarsi sui fallimenti dei fenomeni di panico morale e sulla depoliticizzazione. La depoliticizzazione si riferisce alla volontà dei partiti politici di non politicizzare le migrazioni in virtù di una sconvenienza percepita o reale che sia. Diverso è il caso dei fallimenti dei fenomeni di media hype e di panico morale → bisogna guardare ai processi specifici che riguardano innanzitutto i media. 3.2.3 La questione del consenso La politica richiede il consenso popolare; i media cercano un consenso pubblico in termini di attenzione da parte dei consumatori e i giornalisti si rifanno spesso all’idea del consenso nei termini di “quello che vuole il pubblico”. Se guardiamo al consenso dalla prospettiva dei media, il pubblico è dunque innanzitutto un’emanazione delle pratiche di produzione delle notizie, ma viene espresso nei termini dell’attenzione, della sua durata e delle sue fasi. Il social engagement diventa il nuovo simulacro dell’opinione pubblica. Quindi cittadinanza e consumo social finiscono per sovrapporsi, portando l’idea di consenso democratico all’interno di dinamiche commerciali e di attivismo delle minoranze. Inoltre il consenso è da sempre considerato uno degli ingredienti fondamentali affinché i fenomeni di moral panic si sviluppino. I media pubblicano spesso sondaggi d’opinione condotti su campioni statisticamente non rappresentativi e in momenti in cui lo stato dell’opinione è fortemente indirizzato per via della prossimità di un evento importante, o di un processo di panico morale. Anche i sondaggi sulle opinioni relative alle migrazioni che vediamo apparire sui media sono frutto di preoccupazioni politiche contingenti e costruiscono l’idea che esista un’opinione pubblica unanime per legittimare una politica. Tradurre queste opinioni nei termini dello stato neutrale dell’opinione, e perlopiù di uno stato che precede la politicizzazione o che non dipende da essa, costruisce un effetto di consenso. Un altro tassello per comprendere come il consenso venga rappresentato e usato è la razzializzazione del tema securitario sui media. Un elemento che torna qui utile è l’uso giornalistico della “gente” come strumento di consenso. Oggi che molta informazione passa per i social network può capitare che piccoli casi, se filmati e fatti circolare sui social, siano in grado di aprire una breccia in questa pratica giornalistica, diventando virali proprio in virtù del fatto che minano l’effetto di consenso. I social media non sono però uno strumento che consente soltanto di decostruire pratiche di rappresentazione del consenso, ma offrono soprattutto nuove opportunità per costruirle (fenomeni di online firestorm). L’uso dei sondaggi d’opinione, il credito dato dai giornalisti a comitati e movimenti di estrema destra e il monitoraggio dei trend e dei topic sui social media sono dunque elementi che contribuiscono a creare un simulacro di opinione pubblica che si presta a essere usato come 21 strumento di consenso in grado di rinvigorire fenomeni di egemonizzazione attraverso le ondate di notizie e fenomeni di panico morale. Inoltre una questione che resta dibattuta è se sia soprattutto l’agenda dei pubblici a influenzare l’agenda politica o viceversa. In tema di migrazioni, le scelte politiche sembra precedano le preoccupazioni del pubblico e pare si muovano in maniera autonoma rispetto alle spinte che provengono dal pubblico. La tesi che l’opinione pubblica nasca da un presunto mondo materiale scollegato con il circuito mediatico-politico è poco sostenibile. Nonostante ciò, un filone della letteratura sull’opinione pubblica ha cercato le cause dell’avversione ai migranti dall’opinione pubblica nelle condizioni materiali → principalmente il livello di disoccupazione e il numero di migranti presenti in una paese o in un territorio più ristretto. Una tale ipotesi andrebbe a sostegno di due topoi del frame della minaccia (quello fiscale e quello del lavoro), ossia gli argomenti secondo cui: ● i migranti sottraggono lavoro agli indigeni o fanno calare i salari ● i migranti abusano dei servizi sociosanitari e sottraggono risorse pubbliche ai nativi Le ricerche però non sostengono un rapporto di causazione diretta tra le variabili economiche e demografiche e l’opinione pubblica verso migranti e migrazioni. Il che significa che non sono quasi mai le condizioni materiali e i conflitti reali a produrre l’aumento di atteggiamenti negativi verso i migranti, ma che tale opinione sia correlata al grado di percezione di una minaccia portata dall’immigrazione. Le ricerche mostrano che esiste una correlazione tra la produzione di opinioni negative e la tendenza a sovrastimare le presenze di immigrati → a produrre i tassi più elevati di opinioni negative nei confronti dei migranti e delle migrazioni non è la realtà materia, bensì la percezione della minaccia, alla società e all’economia nazionale. In altri termini, la sovrastima è di solito associata alla percezione della minaccia. Va poi detto che quasi tutte le ricerche sull’opinione pubblica e la migrazione prendono i migranti come un blocco compatto, senza sondare le differenze d’opinione nei confronti delle varie categorie o tipi di migranti. A chi si pensa quando si pensa ai migranti? → solitamente ai richiedenti asilo e ai migranti arrivati per motivi di lavoro; ignorando i migranti per motivi di studio. Un altro dato interessante è che più l’immagine riguarda soggetti poveri e con basse competenze, più le opinioni tendono a essere negative e a esprimere favore a politiche di chiusura. Al contrario, è ugualmente dimostrato che più l’immagine riguarda persone in grado di sostenersi economicamente e con competenze professionali di alto profilo, più le opinioni tendono a essere favorevoli. In definitiva, a seconda di quale categoria di migrante sia centrale nelle descrizioni dei media e nella politicizzazione in un dato paese e in un tempo specifico, la rappresentazione mentale del migrante, usata per esprimere opinioni sulle migrazioni, muti. Inoltre, uno studio recente ha mostrato che le minacce percepite sono associate a specifiche categorie di migranti e non alla migrazione tout court. Si tratta quindi di capire se le associazioni che i media producono tra frame dell’immigrazione e categorie di migranti coinvolti nelle narrazioni trovino un diretto riscontro nell’opinione. 22